Liquidazione in via equitativa del danno: presupposti e limiti
26 Novembre 2015
Massima
L'esercizio del potere discrezionale di liquidare il danno in via equitativa, conferito al giudice dagli artt. 1226 e 2056 c.c. ed espressione del più generale potere di cui all'art. 115 c.p.c., dà luogo, non già a un giudizio di equità, bensì a un giudizio di diritto caratterizzato dalla c.d. equità giudiziale integrativa, che, pertanto, presuppone che sia provata l'esistenza di danni risarcibili e che risulti obiettivamente impossibile o particolarmente difficile, per la parte interessata, provare il danno nel suo preciso ammontare; non è possibile, invece, in tal modo, surrogare il mancato accertamento della prova della responsabilità del debitore o la mancata individuazione della prova del danno nella sua esistenza Il caso
La Società a conveniva in giudizio la Società b deducendo di avere concluso con la stessa un contratto, relativo all'acquisto di due espositori, cui mai era stata data esecuzione da parte della convenuta. La convenuta b si costituiva chiedendo il rigetto della domanda e sostenendo di non aver mai concluso detto contratto, non essendone stata accettata l'offerta dall'attrice. Faceva invece presente di aver concluso con la stessa un precedente contratto al quale aveva dato regolare esecuzione e rispetto al quale la Società a si era limitata a domandare la sospensione; chiedeva quindi dichiararsi la risoluzione di tale contratto per inadempimento della controparte. Il Tribunale rigettava la domanda attorea e dichiarava la risoluzione del primo contratto per grave inadempimento, stabilendo che l'acconto versato da a in favore di b relativo al secondo inesistente contratto fosse posto a carico dell'attrice a titolo di risarcimento del danno, così liquidato in via equitativa. La Corte distrettuale, in riforma dell'impugnata sentenza, condannava la Società b a restituire all'appellante a la somma di cui supra, poiché, pur avendo essa dato prova dell'esistenza del primo contratto, non aveva tuttavia provato l'ammontare dei danni subìti, né questi si sarebbero potuti liquidare in via equitativa, poiché la prova non ne era né impossibile né eccessivamente onerosa; non ricorrevano dunque i presupposti di cui all'art. 1226 c.c. Avverso questa sentenza proponeva ricorso principale la Società b.
In motivazione Il cuore della parte motiva della sentenza in esame si ravvisa ove la Suprema Corte, vagliando i primi due motivi del ricorso principale - relativi, il primo, al vizio di motivazione circa l'asserita mancata prova del danno subìto dalla Società b e, il secondo, alla violazione dell'art. 1226 c.c. - afferma che «invero non è stata colta la vera ratio decidendi del giudice distrettuale, il quale non ha negato l'avvenuta prova del danno (an debeatur), ma ha solo affermato che, nella fattispecie, mancavano i presupposti per la sua liquidazione (quantum debeatur) in via equitativa […]. L'esercizio del potere discrezionale di liquidare il danno in via equitativa, conferito al giudice dagli artt. 1226 e 2056 c.c., presuppone che sia provata l'esistenza di danni risarcibili e che risulti obiettivamente impossibile o particolarmente difficile, per la parte interessata, provare il danno nel suo preciso ammontare. Ora secondo la Corte territoriale nella fattispecie la prova di alcune circostanze (importo dei materiali e dei manufatti ecc.) non era impossibile e nemmeno eccessivamente difficoltosa […] ai fini di una precisa liquidazione del danno, per cui non sussistevano gli estremi per una liquidazione equitativa del danno così come previsto dagli artt. 1226 e 2056 c.c.». La questione
Il punto è il seguente: accertato l'inadempimento contrattuale, in quali casi ed entro quali limiti potrà essere richiesta dalla parte, e accordata dal giudice, la liquidazione in via equitativa del danno? Le soluzioni giuridiche
In passato la giurisprudenza di merito, ogniqualvolta si trovava nell'impossibilità di concretamente determinare l'esatto ammontare del danno la cui esistenza era stata provata in giudizio, ricorreva al criterio equitativo richiamando il combinato disposto degli artt. 1226 e 2056 c.c. Nel corso degli anni, invece, grazie all'opera ermeneutica della Cassazione, la tendenza è stata ricondotta nei più angusti confini imposti da una maggiore aderenza al principio di legalità. In un primo momento, infatti, s'impose in capo all'attore danneggiato, valorizzando il principio dispositivo di cui all'art. 115 c.p.c., l'onere di produrre in giudizio elementi probatori e dati di fatto che, per qualità e quantità, esonerassero il giudice dal «fornire una dimostrazione minuziosa e particolareggiata della corrispondenza tra ciascuno degli elementi esaminati e l'ammontare del danno liquidato», giudicando sufficiente che il suo accertamento in via equitativa scaturisse da un esame della «situazione processuale globalmente considerata» (v. Cass. n. 8827/2002). In un secondo momento, valorizzando questa volta l'obbligo di motivazione dei provvedimenti giurisdizionali, è stato puntualizzato che «il principio dell'insindacabilità della liquidazione equitativa del danno in sede di giudizio di legittimità non trova applicazione quando nella sentenza di merito non sia stato dato conto del criterio utilizzato, la relativa valutazione risulti incongrua rispetto al caso concreto e la determinazione del danno sia palesemente sproporzionata per difetto o per eccesso» (v. Cass. n. 23304/2007). La sentenza in commento ha il pregio di inserirsi in questo filone giurisprudenziale: la Cassazione, nel fare propria la valutazione della Corte distrettuale, afferma, infatti, che «l'esercizio del potere discrezionale di liquidare il danno in via equitativa dà luogo, non già ad un giudizio di equità, bensì ad un giudizio di diritto caratterizzato dalla cosiddetta equità giudiziale correttiva od integrativa». Incombe pertanto sul danneggiato l'onere di produrre tutti gli elementi probatori utili per una corretta stima del danno che, nonostante risulti impossibile o particolarmente difficile da misurare nel suo preciso ammontare, dovrà, anche nell'ipotesi di liquidazione in via equitativa, emergere, almeno nei criteri utilizzati per il suo calcolo, dalle prove proposte dalle parti ovvero dai fatti non specificamente contestati. Osservazioni
La sentenza in commento affronta un tema ben noto al diritto contrattuale, ma suscettibile di produrre ripercussioni anche in altre branche dell'ordinamento. Di qui, la sua importanza. La disciplina della liquidazione equitativa del danno, infatti, muove dal più generale rapporto che lega, nell'àmbito delle fonti del diritto, la legge in senso lato e l'equità. Questa, come noto, è sinteticamente definita come la “legge del caso concreto” ed è sovente considerata antitetica al principio della certezza del diritto. L'ordinamento, infatti, sacrifica spesso la giustizia del caso concreto all'esigenza della certezza della norma giuridica, in quanto, da un lato, ritiene pericoloso affidarsi esclusivamente alla valutazione soggettiva del giudice, dall'altro, preferisce che i singoli consociati possano prevedere esattamente quali saranno le conseguenze dei loro comportamenti. Ciò vale tanto in prospettiva di teoria generale, quanto nella concreta ottica del diritto contrattuale. Ben si comprende, quindi, il motivo che ha indotto il Giudice di legittimità a specificare sia i casi in cui si possa legittimamente liquidare il danno in via equitativa, sia i limiti e i criteri da rispettare in queste ipotesi eccezionali. È vero, infatti, che l'impossibilità della prova dell'esatto ammontare del danno va intesa in senso relativo, con riferimento cioè agli ordinari mezzi processuali utilizzati diligentemente, donde il ritenere impossibile anche la prova estremamente difficile da produrre. Tuttavia, dalla natura eccezionale dell'istituto, desumibile dalla natura eccezionale dell'equità intesa in una prospettiva di teoria generale, non possono non discendere importanti conseguenze. Nel nostro ordinamento, infatti, l'equità non è fonte del diritto (com'era per l'antica aequitas) e il giudice non può disapplicare ex officio la legge in nome dell'equità. Ulteriormente può rilevarsi che, anche nell'ipotesi eccezionale in cui sia ammesso il ricorso all'equità, il giudice, nell'individuare la soluzione più giusta secondo le circostanze del caso, non potrà far prevalere le proprie concezioni personali (la c.d. “equità cerebrina”), dovendo piuttosto attenersi ai principi propri della specifica materia, nonché ai principi costituzionali e comunitari. Ebbene, pur dovendosi distinguere dall'equità come criterio decisorio l'equità c.d. integrativa - espressione che si riferisce ai casi in cui la legge prevede che il giudice provvede ad integrare o a determinare per l'appunto “secondo equità” gli elementi della fattispecie -, il comune riferimento al parametro equitativo, di natura eccezionale, non può non produrre conseguenze. In altri termini, quanto vale per l'equità come criterio decisorio dovrà valere anche per l'equità integrativa, soprattutto in ragione della centralità che il principio della certezza del diritto ha nell'ordinamento nazionale, europeo e internazionale. È dunque possibile ipotizzare che, in futuro, da un lato, sarà sempre più rigoroso l'onere della prova in capo all'attore, il quale, anche ove la stima dell'esatto ammontare del danno risulti impossibile o estremamente difficile, sarà tenuto a produrre tutti gli elementi probatori e i dati di fatto dai quali poterlo desumere seppur in via equitativa, dall'altro, sempre più puntuale dovrà essere anche l'esplicitazione da parte del giudice del criterio utilizzato per la sua determinazione. |