Limiti all'esercizio del diritto di cronaca giudiziaria
27 Aprile 2015
Massima
In materia di diffamazione a mezzo stampa, la verifica dell'osservanza dei limiti del diritto di cronaca giudiziaria costituisce oggetto di un accertamento di fatto insindacabile in sede di legittimità, se congruamente motivato. Il caso
La controversia esaminata e decisa dalla sentenza in commento non è che un frammento di una complessa vicenda giudiziaria che ha coinvolto un noto imprenditore e uomo politico del Paese, accusato, secondo il consueto linguaggio giornalistico, della costituzione di fondi neri. Le indagini vanno a toccare anche un importante dirigente di una società che fa capo all'imprenditore, il quale dirigente, secondo quanto riferito da uno dei principali quotidiani italiani, avrebbe avuto un ruolo nell'amministrazione di due trust creati allo scopo di trasferire ingenti somme ai due figli di primo letto dell'imprenditore medesimo. Da ciò nasce una causa di risarcimento del danno da diffamazione a mezzo stampa che il dirigente intenta al giornale, al suo direttore e al giornalista estensore di due articoli. Per il giudice di primo grado uno dei due articoli è effettivamente diffamatorio in mancanza di «alcuna prova in possesso del C. [il giornalista: n.d.r.] per affermare l'illiceità del trust, che F.C. [il dirigente, ossia l'attore nel giudizio di risarcimento: n.d.r.] avrebbe controllato». È dunque pronunciata condanna al risarcimento del danno. Essa però è ribaltata in appello, poiché il giudice dell'impugnazione osserva in breve quanto segue:
La sentenza d'appello è impugnata per cassazione con un solo motivo con cui il dirigente, rimasto infine soccombente nella fase di merito, denuncia il difetto di motivazione della pronuncia impugnata, per avere in buona sostanza i giudici di appello tralasciato di considerare che in uno degli articoli giornalistici «incriminati», era riferito che il suo ruolo nella gestione di una sorta di «tesoreria occulta» sarebbe emerso «incontestabilmente dall'inchiesta», quantunque nei suoi confronti si procedesse esclusivamente per «false comunicazioni sociali». La questione
Sorge dunque la questione dell'individuazione dei limiti entro i quali il giornalista possa riferire di un'indagine penale in corso, considerata la possibile attitudine della propalazione della notizia a ledere la reputazione di chi - presunto innocente ai sensi dell'art. 27 Cost. - si trova però, magari ingiustamente, coinvolto nell'indagine. E, d'altro canto, si tratta altresì di stabilire, in generale, quale sindacato la Corte di cassazione possa effettuare sulla motivazione con cui il giudice d'appello abbia ritenuto ovvero escluso il carattere diffamatorio della notizia pubblicata. Le soluzioni giuridiche
Nel caso in esame la Corte di cassazione stabilisce che la sentenza della corte d'appello è sufficientemente e congruamente motivata e che, dunque, si sottrae al sindacato del giudice di legittimità. Osservazioni
In generale, è agevole ricordare sul tema il «decalogo» giurisprudenziale che, a far data dalla celebre Cass. civ., sez. I, sent. 18 ottobre 1984, n. 5259, richiede per l'esercizio legittimo del diritto di cronaca la simultanea esistenza di tre condizioni: a) l'utilità sociale dell'informazione (c.d. pertinenza); b) la forma corretta e civile dell'esposizione (c.d. continenza formale); c) la verità dei fatti narrati (c.d. continenza sostanziale). Per quanto attiene in specifico alla cronaca giudiziaria, non vi è dubbio che sia di regola ravvisabile un «interesse pubblico alla conoscenza di fatti di grande rilievo sociale, quali sono quelli relativi alla perpetrazione di reati e all'attività di polizia giudiziaria» (Cass. pen., sez. V, sent., 18 dicembre 1980, n. 2320), ma, come si accennava poc'anzi, la pubblicazione di notizie concernente un'indagine giudiziaria in corso, come tale non ancora approdata ad esiti di ragionevole certezza, può altrettanto indubbiamente ledere il diritto alla reputazione di coloro i quali siano coinvolti, direttamente o indirettamente, nelle indagini. Anche in materia di cronaca giudiziaria vale il «decalogo» già ricordato: e cioè la notizia deve essere anzitutto vera - beninteso, la notizia dell'esistenza dell'indagine, non dell'ipotesi accusatoria, che come tale è ancora da verificare -, oltreché rappresentata nel rispetto della continenza formale e sostanziale; ma ciò non basta: in tale materia bisogna altresì agire in modo tale da non pregiudicare il principio costituzionale di presunzione di innocenza al quale si è poc'anzi fatto cenno. Per questo il giornalista deve dare una rappresentazione obiettiva e fedele della vicenda processuale, astenendosi da premature coloriture colpevoliste ed anzi ponendo in evidenza il carattere di incertezza che è connaturato alla fase di una indagine ancora in itinere (v. p. es. Cass. pen., sez. I, sent.,31 agosto 2001, n. 34544; Cass. pen., sez. V, sent., 21 ottobre 2008, n. 44522; Cass. pen., sez. V, sent., 20 ottobre 2009, n. 48097; Cass. pen., sez. V, sent., 27 ottobre 2010, n. 3674). Né scrimina la circostanza che il giornalista non sia in grado di realizzare il controllo del fatto riferitogli in modo irrituale, a causa della inaccessibilità delle fonti di verifica, coincidenti con gli organi e gli atti dell'indagine giudiziaria, giacché tale inaccessibilità, lungi dal comportare l'esonero dall'obbligo di controllo, implica la non pubblicabilità della notizia (Cass. pen., sez. V, sent., 17 dicembre 2010,n. 13708). D'altro canto, se il giornalista riferisce quanto risultante da un provvedimento giudiziario, non discostandosi dal contenuto di esso, si mantiene senz'altro entro i limiti del legittimo esercizio del diritto di cronaca giudiziaria, senza essere tenuto ad ulteriori controlli e verifiche. In tal senso è stato detto che la veridicità delle notizie concernenti indagini del pubblico ministero va verificata «effettuando la comparazione con gli atti giudiziari disponibili al momento della pubblicazione della notizia» (Cass. civ., sez. III, sent., 20 maggio 2009 n. 11699; analogamente Cass. civ., sez. III, 9 marzo 2010, n. 5657; v. pure Cass. pen., sez. V, sent.,21 ottobre 2008, n. 44522). In definitiva, il giornalista ha l'obbligo di controllare l'attendibilità della fonte informativa, a meno che non provenga dall'autorità investigativa o giudiziaria, e di accertare la verità del fatto pubblicato, restando altrimenti responsabile dei danni derivati dal reato di diffamazione a mezzo stampa, salvo che non provi l'esimente di cui all'art. 59, ultimo comma, c.p., e cioè la sua buona fede. A tal fine la cosiddetta verità putativa del fatto non sussiste per la mera verosimiglianza dei fatti narrati, essendo necessaria la dimostrazione dell'involontarietà dell'errore, dell'avvenuto controllo - con ogni cura professionale, da rapportare alla gravità della notizia e all'urgenza di informare il pubblico - della fonte e della attendibilità di essa, onde vincere dubbi e incertezze in ordine alla verità dei fatti narrati (Cass. civ., sez. III, sent., 4 febbraio 2005, n. 2271; Cass. civ., sez. III, sent., 18 ottobre 2005, n. 20138; Cass. civ., sez. III, sent., 18 ottobre 2005, n. 20139). Da ultimo, in ordine al sindacato della Corte di cassazione sulla motivazione, la sentenza in commento espone un principio che (nell'ambito di applicazione del vecchio n. 5 dell'art. 360 c.p.c.: il vigente testo della disposizione consente di sindacare esclusivamente l'omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti) pare essere scontato: altra cosa è stabilire se, in concreto, al di là di quanto ritenuto dai giudici di legittimità, la sentenza della Corte d'appello meneghina (nella parte in cui, a quanto par di capire, aveva ritenuto osservati i limiti dell'esercizio del diritto di cronaca giudiziaria quantunque il giornalista avesse riferito, se è vero quanto sostenuto dal ricorrente per cassazione, che dagli atti emergeva «incontestabilmente» un suo ruolo nella gestione di una tesoreria occulta, pur essendo egli accusato soltanto di false comunicazioni sociali) potesse effettivamente dirsi congruamente motivata. |