Il riconoscimento dei danni punitivi è contrario all'ordine pubblico?
27 Settembre 2016
Massima
La Prima Sezione ha rimesso al Primo Presidente, per l'eventuale assegnazione alle Sezioni Unite, la questione, ritenuta di massima di particolare importanza, della riconoscibilità, o meno (per contrasto con l'ordine pubblico), delle sentenze straniere comminatorie di danni punitivi. Il caso
A seguito di un incidente occorso durante una competizione motociclistica, un centauro statunitense riportava gravi danni fisici. Ritenendo che la causa del danno fosse da attribuirsi alla difettosa fabbricazione del casco indossato, citava in giudizio innanzi ad un giudice nordamericano la società italiana produttrice e la società americana rivenditrice. Nel corso del giudizio, la rivenditrice raggiungeva un accordo transattivo con la vittima, accettando di versare a quest'ultima un'ingente somma di denaro, calcolata tenendo in considerazione il probabile danno derivabile dalla potenziale soccombenza. Successivamente, la società rivenditrice agiva, a sua volta, in giudizio dinanzi al giudice americano per sentir condannare la società produttrice a manlevarla della somma pagata al danneggiato a titolo transattivo. Il procedimento si concludeva con l'accoglimento della domanda, atteso che il giudice della Florida condannava la convenuta a rimborsare integralmente l'attrice dell'importo versato. Non ottenendo il pagamento da parte della soccombente, la rivenditrice chiedeva alla Corte d'appello di Venezia il riconoscimento (recte, la declaratoria di esecutività) della sentenza americana (in realtà, si trattava di tre sentenze passate in giudicato), in conformità all'art. 64, l. n. 218/1995 di riforma del diritto internazionale privato, onde poter poi agire in via esecutiva contro l'azienda italiana. L'appellata fondava la propria tesi di contrarietà delle sentenze all'ordine pubblico su tre argomenti:
In particolare, per quanto in questa sede rileva, la produttrice evidenziava che il danno punitivo è incompatibile con l'ordine pubblico, stante la funzione sanzionatoria e non meramente risarcitoria dell'istituto, e che la sentenza americana si era limitata a condannarla a manlevare la controparte dalla somma versata al danneggiato in sede di transazione, senza, però, a suo dire, motivare adeguatamente in ordine ai criteri seguiti per la determinazione del danno. La questione
La Corte d'appello di Venezia non ha condiviso gli assunti dell'appellata, ponendo in evidenza che alla produttrice era stata data la possibilità di costituirsi nell'interesse della rivenditrice (e, quindi, di assumere la sua difesa) e di difendersi nel giudizio contro il danneggiato (anche contestando la propria responsabilità), ma che la stessa non lo aveva fatto e mai aveva sollevato obiezioni alla proposta transattiva della vittima, che pur le era stata comunicata. Inoltre, con valenza assorbente, la corte territoriale ha rilevato che non risultava l'intervenuto risarcimento di danni punitivi. Il ricorso per cassazione, basato su tre motivi, denuncia, soprattutto, la violazione dell'art. 64, lett. b) e g), l. 31 maggio 1995, n. 218, concentrando l'attenzione sulla totale omissione dei criteri seguiti per la determinazione del danno e, comunque, il quantum abnorme rispetto ai parametri italiani, circostanze, queste, che, secondo il suo assunto, avrebbero denotato la natura punitiva del risarcimento posto a suo carico. La questione in punto di diritto sottesa alla sollecitata decisione è quella della possibilità di riconoscere la natura sanzionatoria (o punitiva) al rimedio risarcitorio, in un contesto sociale, normativo e giurisprudenziale in cui finora è stato allo stesso attribuita una funzione solo compensativa (o reintegratoria o riparatoria). Il quesito cui dare una risposta può sintetizzarsi nei seguenti termini: i danni punitivi possano ritenersi ancora contrari al nostro ordinamento, stante l'evoluzione del concetto di “funzione del rimedio risarcitorio” e della stessa nozione di “ordine pubblico”, anche alla luce degli sviluppi nelle fonti internazionali? Le soluzioni giuridiche
La Prima Sezione, competente ratione materia, ha preliminarmente evidenziato, quasi a voler anticipare la decisione, che nelle sentenze straniere era percepibile una mancanza di motivazione e che, ai fini dell'accoglimento del ricorso, sarebbe stato sufficiente il dubbio circa l'esistenza di una condanna ai punitive damages(cfr., in tal senso, Cass. nn. 1183/2007 e 1781/2012). Con dovizia di particolari ha, poi, descritto l'evoluzione del principio di ordine pubblico nel nostro contesto, originariamente inteso in senso nazionale (Cass. nn. 818/1962 e 3881/1969) e via via concepito sempre di più in senso internazionale (Cass. nn. 2788/1995, 17349/2002, 27592/2006, 1302/2013, 19405/2013), non tralasciando di menzionare una posizione, sia pure isolata, intermedia (Cass. n. 228/1982). Quindi, come era inevitabile, ha offerto un'ampia ed articolata panoramica di diritto comparato, onde porre in evidenza i tre differenti indirizzi rinvenibili:
In qualche modo, ed operate le dovute differenze, il giudizio affidato in sede di exequatur è assimilabile a quello di costituzionalità, pur essendo preventivo e virtuale. In quest'ottica, l'istituto di origini nordamericane dei danni aventi carattere punitivo non si rivela, di per sé, in contrasto con l'ordine pubblico internazionale. La cartina di tornasole per cogliere tale contrasto diventa, allora, l'abnormità eventuale della liquidazione riconosciuta. Nel panorama giurisprudenziale italiano, due pronunce meritano di essere segnalate.
a) Cass. civ., sez. III, 19 gennaio 2007, n. 1183 Con la prima (in Dir. Famiglia (Il) 2010, 2, 547, in Giur. it. 2007, 12, 2724, con nota di Tomarchio, ed in Giust. Civ. 2007, 10, 2124), partendo dal presupposto per cui nell'ordinamento italiano alla responsabilità civile è estranea l'idea della punizione, fondandosi il risarcimento del danno sull'esistenza di una lesione e sulla prova delle conseguenze negative sofferte dal danneggiato, ha affermato che restano irrilevanti, ai fini del risarcimento, la condotta del danneggiante, lo stato di bisogno del danneggiato e la capacità patrimoniale dell'obbligato (per la precisazione, altresì, che se il reato è colposo, per risarcire il danno non patrimoniale sono irrilevanti lo stato di bisogno del danneggiato - art. 24, comma 1, l. n. 990 del 1969 -, stante la funzione consolatoria del denaro, e ancor più la capacità patrimoniale dell'obbligato, criterio correlato ad una finalità punitiva, mentre sono scarsamente rilevanti le condizioni familiari e sociali, incidenti, invece, in caso di lesione dei diritti all'onore o alla reputazione, all'identità personale o all'immagine, Cass. 14 ottobre 1997 n. 10024). In quest'ottica, la Corte ha ritenuto (nel cd. leading case) che la clausola penale non ha natura e finalità punitive, assolvendo alla funzione di rafforzare il vincolo contrattuale e di liquidare preventivamente la prestazione risarcitoria, tanto è vero che, se l'ammontare della clausola penale venga a configurare, secondo l'apprezzamento discrezionale del giudice, un abuso od uno sconfinamento dell'autonomia privata oltre determinati limiti di equilibrio contrattuale, può essere equamente ridotto. Nell'affermare che l'apprezzamento del giudice italiano, in sede di delibazione di una sentenza straniera, sull'eccessività dell'importo liquidato per danni dal giudice estero, con finalità punitive, consiste e si risolve in un giudizio di fatto riservato al giudice della delibazione, ed insindacabile, se congruamente e logicamente motivato, in sede di legittimità, la cassazione ha avuto l'occasione di affermare due importanti principi:
In applicazione di questi principi, ha ritenuto che non potesse essere delibata, perché contraria al nostro ordine pubblico, la sentenza nordamericana che, nel risarcire il danneggiato, aveva liquidato una somma ingiustificatamente sproporzionata (per eccesso) rispetto al danno in concreto subìto. La fattispecie concreta esaminata era del tutto analoga a quella che ha offerto l'occasione per rimettere la questione alle sezioni Unite, in quanto era stata impugnata per cassazione la pronuncia di rigetto dell'istanza di delibazione di una sentenza statunitense che, dopo aver accertato il difetto di progettazione e costruzione della fibbia di chiusura del casco, aveva condannato il produttore di un casco protettivo utilizzato dalla vittima di un incidente stradale, liquidando i danni secondo criteri che il giudice della delibazione aveva ritenuto propri dell'istituto dei danni punitivi ("punitive damages") e, come tali, incompatibili con il nostro ordine pubblico. In quel contesto, pertanto, sono stati reputati non risarcibili i cc.dd. danni punitivi, atteso che la loro funzione sanzionatoria contrasta con i principi fondamentali dell'ordinamento interno, che assegna alla responsabilità civile una funzione ripristinatoria della sfera patrimoniale del soggetto leso.
b) Cass. civ., sez. I, 8 febbraio 2012, n. 1781 Con la seconda pronuncia (in Giust. civ. Mass. 2012, 2, 139, ed in Foro it. 2012, 5, 1449, con nota di De Hippolytis. Conf. Cass. civ. 15 aprile 2015, n. 7613, sez. I, e, sia pure in parte, Cass., 12 giugno 2008, n. 15814) la Corte ha ribadito che, nel vigente ordinamento, il diritto al risarcimento del danno conseguente alla lesione di un diritto soggettivo non é riconosciuto con caratteristiche e finalità punitive — restando estranea al sistema l'idea della punizione e della sanzione del responsabile civile ed indifferente la valutazione a tal fine della sua condotta —, ma in relazione all'effettivo pregiudizio subìto dal titolare del diritto leso, non essendo previsto l'arricchimento, se non sussista una causa giustificatrice dello spostamento patrimoniale da un soggetto all'altro. È, quindi, pervenuta alla conclusione della incompatibilità con l'ordinamento italiano l'istituto dei danni punitivi. Nell'affermare il suddetto principio, la Corte ha cassato per insufficienza e incongruità di motivazione la sentenza impugnata, la quale aveva accolto l'istanza di delibazione di una pronuncia statunitense sulla base di tre argomenti, non condivisi dai giudici di legittimità:
Osservazioni
Per quanto l'ordinanza interlocutoria qui commentata mostri delle aperture, forse inconsapevoli, nella sua prima parte, è chiaro che, in attesa di una pronuncia chiarificatrice e nomofilattica delle Sezioni Unite, non è possibile allo stato formulare critiche o apprezzamenti. Tuttavia, va rimarcato che il terreno elettivo di emersione della questione dei danni punitivi è stato rappresentato, negli ultimi anni, dal danno tanatologico. Come è noto, nel nostro ordinamento giuridico il diritto alla vita riceve ampia tutela attraverso la previsione di sanzioni penali, le quali costituiscono, in una ideale gerarchia rimediale, la massima forma di reazione dell'ordinamento alla commissione di un illecito (tra le numerose pronunce, cfr. Cass., sez. III, 16 maggio 2003, n. 7632, in Giur. it. 2004, 495, con nota di Bona). A fronte dell'affermazione secondo cui la vita sarebbe già sufficientemente tutelata in sede penale (v., tra gli altri, Comandè, in Resp. civ. e prev., 1993, 358), si osserva (C.M. Bianca, Il danno da perdita della vita, in Vita not., 2012, 1500 ss.) che la stessa non può essere condivisa, in quanto la tutela penale esige la tutela risarcitoria (art. 185 c.p.), che si vuole invece negare alla vita; senza tralasciare che l'uccisione può non integrare un reato punibile. Secondo l'opposta teoria, anche il ristoro del danno da perdita della vita assumerebbe una funzione compensativa — e non una funzione meramente punitiva, propria invero della sanzione penale - per «l'obiettiva circostanza che il credito alla vittima spettante per la perdita della propria vita a causa dell'altrui illecito accresce senz'altro il suo patrimonio ereditario». Sono, tuttavia, molti gli studiosi che considerano insoddisfacente tale argomento al fine di replicare all'obiezione secondo cui ammettere la ristorabilità del danno tanatologico finirebbe per assegnare alla responsabilità civile (anche) una funzione sanzionatoria/deterrente (v., tra gli altri, Gorgoni, Nascituro e responsabilità sanitaria, in Resp. civ. prev. 2009, 399, che rileva come «l'accrescimento del patrimonio è un fatto che, di per sé solo, non esprime la funzione della attribuzione monetaria», la quale, a suo avviso, nella specie, sarebbe senz'altro punitiva. Scarso spessore giuridico ha il rilievo, avente mera valenza sociale, secondo cui la morte è un danno per la persona ed un costo per la società, al quale dovrebbe corrispondere un risarcimento capace di trasmettere ai consociati il disvalore dell'uccisione e la deterrenza della reazione dell'ordinamento. Sembra inserirsi in questo contesto il passaggio logico contenuto nella “sentenza Scarano”, a mente del quale occorrerebbe considerare la perdita del bene vita quale danno non già del singolo individuo che la subisce, bensì dell'intera collettività. In relazione a questo profilo, peraltro, Cass. civ., Sez. Un., 22 luglio 2015, n. 15350 (v. F. Rosada, Perdita della vita e diritto al conseguente risarcimento del danno: questione chiusa, in Ri.Da.Re., e in Foro it. 2015, 9, 2682, con note di Palmieri, Pardolesi, Caso e Simone), è stata chiara: «… la vita è bene meritevole di tutela nell'interesse della intera collettività, ma tale rilievo giustifica e anzi impone, come è ovvio, che sia prevista la sanzione penale, la cui funzione peculiare è appunto quella di soddisfare esigenze punitive e di prevenzione generale della collettività nel suo complesso, … ma non impone necessariamente anche il riconoscimento della tutela risarcitoria di un interesse che forse sarebbe più appropriato definire generale o pubblico, piuttosto che collettivo, …». Ma allora ci si domanda: se al cospetto di quello che può essere considerato come il primo tra i diritti inviolabili della persona (il diritto alla vita) non viene riconosciuto alcun ristoro, onde non incorrere nel rischio di un intervento punitivo, è possibile ricorrere al rimedio risarcitorio con valenza sanzionatoria allorquando ad essere lesi siano diritti di minore valenza, almeno nelle ipotesi in cui l'illecito non integri gli estremi di un reato?
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