Contrordine! La perdita della capacità lavorativa generica si cumula a danno biologico e patrimoniale
27 Ottobre 2015
Massima
In tema di danni alla persona, l'invalidità di gravità tale da non consentire, per la sua entità (nella specie del 25%), la possibilità di attendere (anche) a lavori altri e diversi da quello specificamente prestato al momento del sinistro confacenti alle attitudini e alle condizioni personali ed ambientali del danneggiato integra non già lesione di un'attitudine o di un modo di essere del medesimo, rientrante nell'aspetto (o voce) del danno non patrimoniale costituito dal danno biologico, bensì un danno patrimoniale attuale in proiezione futura da perdita di chance (il cui accertamento spetta al giudice di merito e va dal medesimo stimato con valutazione necessariamente equitativa ex art. 1226 c.c.), derivante dalla riduzione della capacità lavorativa generica. Trattasi di danno patrimoniale che, se e in quanto dal giudice di merito riconosciuto sussistente, va considerato ulteriore rispetto al danno patrimoniale da incapacità lavorativa specifica, concernente il diverso aspetto dell'impossibilità per il danneggiato di (continuare ad) attendere all'attività lavorativa prestata al momento del sinistro (nella specie, di venditore ambulante dipendente), dovendo (anche) da questo essere pertanto tenuto distinto, con autonoma valutazione ai fini della relativa quantificazione. Il caso
Incidente stradale. Un uomo subisce lesioni fisiche che gli arrecano un significativo pregiudizio biologico e si riflettono altresì sullo svolgimento dell'attività lavorativa (venditore ambulante) che egli in concreto esercita. Cionondimeno, il tribunale gli liquida non solo il danno non patrimoniale (biologico-morale) e quello patrimoniale da compromissione della capacità lavorativa specifica, ma anche, in aggiunta, il danno da perdita della capacità lavorativa generica: e ciò sulla base di una c.t.u. medico legale che ha stimato nel 25% la lesione biologica. In appello la decisione è riformata, sull'assunto, conforme ad un indirizzo giurisprudenziale fino ad epoca recentissima consolidato, che il danno da perdita della capacità lavorativa generica, attenendo ad un modo di essere della persona e non alla sua capacità reddituale, costituisca componente del danno biologico. La Cassazione, in ben 29 pagine, buona parte delle quali destinate però all'analisi di temi non strettamente pertinenti al caso, ribalta nuovamente il verdetto, cassa con rinvio, ed afferma il principio formulato in massima. La questione
Il punto è allora questo: il danno da perdita della capacità lavorativa generica è un aspetto del danno biologico: sì o no? Le soluzioni giuridiche
Il danno da perdita o riduzione della c.d. capacità lavorativa generica è definito dalla Cassazione come «la sopravvenuta inidoneità del soggetto danneggiato allo svolgimento delle attività lavorative che, in base alle condizioni fisiche, alla preparazione professionale e culturale, sarebbe stato in grado di svolgere» (Cass. civ., sez. III, sent., 9 marzo 2001, n. 3519). Pareva in proposito fermissimo l'insegnamento secondo cui tale voce di danno si colloca dal versante del danno non patrimoniale, sub specie di danno biologico, concernendo una qualità della vita della persona (mi limito a citare di recente Cass. civ., sez. III, sent., 25 agosto 2014, n. 18161, ma le sentenze che ribadiscono il principio sono decine). Tale orientamento era condiviso anche dalla giurisprudenza di merito. E certo non poteva darsi soverchio risalto ad una isolata decisione con cui un tribunale aveva sostenuto che «la riconduzione della compromissione della generica attitudine a svolgere un lavoro al danno non patrimoniale di tipo biologico appare in contrasto con l'affermata — e inveterata — autonomia del danno biologico da riflessi reddituali»: non avvedendosi, dunque, che la perdita della capacità lavorativa generica, che non incide sull'attività del soggetto, non comporta, per l'appunto, una perdita reddituale. La soluzione in controtendenza ha tuttavia fatto breccia in Cass. civ., sez. III sent., 16 gennaio 2013, n. 908, che senza evidenziare consapevolezza del contrario e fino ad allora unanime orientamento, ha affermato che, qualora la compromissione riguardi la capacità di lavoro generica, ove il danneggiato fornisca la prova di un pregiudizio concernente la sua idoneità a produrre reddito, il danno deve ritenersi risarcibile sotto il profilo del lucro cessante. Dopodiché, probabilmente sulla scia di Cass. civ., sez. III, sent., 7 novembre 2014, n. 23791, che si è avuto modo di commentare su questa Rivista, la pronuncia in commento ha provato a nobilitare il nuovo indirizzo facendo ricorso alla nozione di chance: chi subisce una lesione biologica significativa perderebbe, secondo la pronuncia in esame, una chance di svolgere non già il proprio lavoro, ma altri lavori compatibili con le proprie attitudini. L'affermazione poggia sulla nozione di chance quale bene giuridico a sé stante (la sentenza che ha inaugurato l'indirizzo è la nota Cass. civ., sez. III, sent., 4 marzo 2004, n. 4400) la cui perdita produrrebbe «un danno certo ed attuale in proiezione futura (nella specie, ad esempio la perdita di un'occasione favorevole di prestare altro e diverso lavoro confacente alle attitudini e condizioni personali ed ambientali del danneggiato idoneo alla produzione di fonte di reddito)». E - aggiunge la pronuncia in commento - il risarcimento del danno da perdita della capacità lavorativa generica, da liquidarsi quale danno patrimoniale che si aggiunge al danno biologico, «non realizza pertanto … alcuna duplicazione nemmeno in presenza del riconoscimento e della liquidazione del danno da incapacità lavorativa specifica, il quale attiene invero al risarcimento del diverso pregiudizio che al danneggiato consegua in relazione al differente aspetto dell'impossibilità di attendere alla specifica attività lavorativa in essere al momento del sinistro». Osservazioni
Poniamo, per pura ipotesi didattica ed augurandogli una salute di ferro, che i componenti del collegio che ha pronunciato il principio riportato sopra subiscano un danno biologico del 25% il quale faccia perdere loro la chance di fare gli avvocati, supponendo che tale professione sia agli stessi confacente (gli ex magistrati sono infatti automaticamente abilitati all'esercizio della professione forense). In tal caso, delle due l'una:
Un discorso diverso ha senso fare solo per quei danneggiati che non siano percettori di reddito: studenti, casalinghe (o casalinghi), disoccupati. Ed infatti in quel caso la giurisprudenza è solidamente ancorata a ragionamenti — parzialmente difformi a seconda delle diverse figure — che ricollocano il pregiudizio alla capacità lavorativa dal crinale del danno patrimoniale. Se non si trattasse della Suprema Corte di cassazione, somma istanza di giustizia, ma del pretore di Vattelapesca, verrebbe voglia di richiamare la nota traduzione maccheronica del motto, già di per sé poco rassicurante, tot capita tot sententiae: tutto capita nelle sentenze! Il vero è che ai giudici pare non di rado cosa buona e giusta dare al danneggiato sempre di più. Ma il senso della responsabilità civile, ed in particolare delle norme che presiedono alla gestione del quantum respondeatur, è ben altro. È per questo che non abbiamo più le condanne in duplum (o più) del diritto romano, ma il principio del risarcimento integrale: il che vuol dire che al danneggiato non va riconosciuto meno, ma neppure più, del danno subito. E faccio grazia al lettore di ogni ulteriore considerazione di analisi economica del diritto, in ordine alle conseguenze pregiudizievoli per l'intera società, che discendono dall'incontrollato lievitare delle poste risarcitorie, per di più in difformità, spesso marcatissima, dagli altri Paesi europei. Quanto all'impiego della costruzione della perdita di chance: di essa si è, a mio modo di vedere giustamente, parlato come di una voce «Del non risarcibile aquiliano» (Castronovo, in Europa e dir. priv., 2008, 315). A ciò aggiungo: ha ancora senso oggi parlare di danno da perdita di chance dopo che la Suprema Corte ha fatto propria, quanto al funzionamento del nesso di causalità, la regola del «più probabile che non»? È possibile fondare un obbligazione risarcitoria dell'intero se la condotta del danneggiante obbedisce alla menzionata regola, ed un'obbligazione risarcitoria calcolata in percentuale, se il nesso di causalità non supera la soglia del «più probabile che non»? A me pare che già il buon senso dica di no. |