Corte costituzionale n. 235/2014: cestinatela!

29 Ottobre 2014

Alla fine la risposta è pervenuta, ma è reazionaria e faziosa: un autentico inchino - anomalo per la Consulta - agli argomenti più cari alle compagnie assicuratrici e - fatto ancor più singolare per una Corte che solitamente redige dotte ed approfondite motivazioni - una sintetica ed incondizionata adesione ai contributi della dottrina filo-assicurativa
Premessa: una sentenza reazionaria, carente e nociva (goodbye real law!)

Alla fine la risposta è pervenuta, ma è reazionaria e faziosa: un autentico inchino - anomalo per la Consulta - agli argomenti più cari alle compagnie assicuratrici e - fatto ancor più singolare per una Corte che solitamente redige dotte ed approfondite motivazioni - una sintetica ed incondizionata adesione ai contributi della dottrina filo-assicurativa.

La risposta pende tutta da una parte: dalla parte dell'ANIA e delle assicurazioni, nonché dei governi lobbizzati che, da destra a sinistra, hanno continuato ad assecondare i desiderata della compagine assicurativa, ridimensionando i diritti dei danneggiati con il falso pretesto di diminuire i premi (obiettivo, comunque, mai raggiunto).

Basti pensare che il diritto al risarcimento integrale del danno, costituzionalmente tutelato dinanzi alla lesione di beni fondamentali, viene oggi degradato dalla Corte a mero «interesse» economico del danneggiato equiparabile in tutto e per tutto all'interesse dell'assicurato (cioè del responsabile civile!) a pagare premi di polizza calmierati e, in definitiva, all'interesse delle assicurazioni (ora anche delle banche) a risarcire di meno. Anzi, gli interessi economici degli assicurati e, soprattutto, delle assicurazioni (al centro della decisione si pone non già la tutela degli assicurati, ma la protezione del «valore dell'iniziativa economica privata» delle seconde) s'impongono sulla tutela rimediale dei diritti dei danneggiati, sovvertendosi così, a totale beneficio delle tasche della compagine assicurativa (lungi dall'essere in crisi nel ramo r.c.a.), i principi cardine del sistema risarcitorio.

La sentenza è pure deludente per le motivazioni addotte; non solo è del tutto sbilanciata, ma è pure priva di validi argomenti giuridici.

Come si dimostrerà oltre, infatti, le motivazioni offerte dalla Consulta:

  • evidenziano come il giudizio di costituzionalità sia stato condotto in spregio dei suoi più basilari canoni;
  • si risolvono in asserzioni prive di qualsivoglia spiegazione/prova per contraddire le tesi opposte (mai considerate): per es., non si spiega per quale ragione il danno biologico sarebbe tale da includere il danno morale; si elogia l'art. 139 Cod. Ass. in quanto lascerebbe «comunque» spazio alla personalizzazione del danno biologico (inclusivo di ogni possibile pregiudizio), senza rispondersi all'obiezione per cui il “cap” del 20% (previsto per i soli sinistri stradali) non garantirebbe il risarcimento integrale in tutta una serie di rilevanti casi sì particolari, ma neppure infrequenti; si giustifica la legittimità di tale norma sulla base dell'obiettivo di conseguire una diminuzione dei premi delle polizze, senza addursi alcuna dimostrazione di una correlazione fra i livelli di questi e la personalizzazione dei pregiudizi;
  • sono affette da citazioni giurisprudenziali “a senso unico”: per es., la storica sentenza della Corte cost., 14 luglio 1986, n. 184 scompare di scena insieme ad altri precedenti della stessa Consulta e della Cassazione; le pronunce richiamate sono interpretate “a piacimento”; ad usum Delphini è menzionata la sentenza della Corte di Giustizia UE in Petillo;
    • tradiscono consolidate statuizioni della stessa Consulta;
    • per quanto concerne la ricomprensione del danno morale entro il limite del quinto previsto per la personalizzazione del danno biologico si risolvono in un'interpretazione contra legem;
    • ignorano importanti indicazioni della medicina legale, che ci insegna che nella fascia dall'1% al 9% rientrano i.p. degne di liquidazioni personalizzate senza costrizioni, così come ci dimostra che pregiudizi biologici e morali sono danni-conseguenza distinti.

Inoltre, le superficiali motivazioni della sentenza, ove trasformano senza remore i diritti costituzionalmente fondati in meri interessi economici, rilevano una totale supremazia del ragionamento economico a scapito di quello giuridico, esitando, pertanto, esse in una netta relativizzazione (se non distruzione) di quel coerentissimo sistema giuridico (violazione di un diritto garantito dall'ordinamento à diritto ad una riparazione integrale, cioè non discriminatoria e personalizzata) che il diritto (in primis Consulta stessa e Cassazione) aveva faticosamente affermato a partire dagli anni settanta.

Più nello specifico, si sostituisce il bilanciamento giuridico tra diritti (N.B.: diritti!) con il bilanciamento economico tra interessi, cioè con uno scenario di nuovi pesi e contrappesi non più centrati sui diritti degli individui (ridimensionati a meri interessi), ma del tutto arbitrari in quanto rimessi alle opinioni/valutazioni economiche di questo o quel giudice circa gli “interessi” in gioco (opinioni vieppiù culturalmente condizionate dai “poteri forti”).

Il ragionamento economico condotto, peraltro, risulta estremamente banale e privo di dimostrazione: «l'interesse risarcitorio … del danneggiato deve comunque misurarsi con quello, generale e sociale, degli assicurati ad avere un livello accettabile e sostenibile dei premi assicurativi», affermazione che non è accompagnata da alcuna prova circa la interazione tra livello dei risarcimenti ed entità dei premi, posto che tale interazione possa in effetti comprimere la tutela rimediale di diritti fondamentali.

Deve pure considerarsi come nel nome dell'interesse degli assicurati in realtà si miri a garantire gli interessi delle assicurazioni, ammantate di fini solidaristici, quando tutti sappiamo che queste operano nel ramo r.c.a. per profitto e non per ragioni caritatevoli, il tutto in un periodo in cui le assicurazioni sono (da più di un decennio) in attivo (non già per il livello dei premi, ma per altri fattori, tra cui la diminuzione dei sinistri ed i regali provenienti dai governi).

Questo imporsi (immotivato) degli interessi economici su quelli giuridici è il profilo che più colpisce: allarmante è la vittoria sin troppo facile delle logiche economiche (quelle dei “poteri forti”) sulle logiche “tradizionali” del diritto, spazzate via per asserite ragioni e contingenze economiche (a questo giro la “bufala” del livello dei premi delle polizze), tutte da indagarsi nella loro reale portata e quanto alle cause.

Stefano Rodotà ha rilevato una verità che i magistrati non dovrebbero mai scordare: «Non sono i diritti ad essere insaziabili, lo è la pretesa dell'economia di stabilire quali siano i diritti compatibili con essa» (S. Rodotà, Perché i diritti non sono un lusso in tempo di crisi, 20 ottobre 2014, www.repubblica.it.).

Purtroppo, la Consulta si è dimenticata di questa prospettiva.

Essa, inoltre, non ha considerato una lezione fondamentale, resa chiarissima dalle resistenze degli interpreti (giudici di merito in primis, ma anche Cassazione stessa)agli interventi reazionari del legislatore lobbizzato così come alle SS.UU. del “San Martino 2008”, oltre che confermata dal diritto comparato: chi troppo regala alla “tort reform” (cioè alle politiche restrittive della tutela risarcitoria) finisce per dare luogo ad ulteriori annose contese, a discapito della certezza del diritto in ogni suo ambito, dei cittadini e del sistema giustizia.

Questa miope visione della pronuncia - inquietante per il suo provenire dalla Consulta (dalla quale ci si attenderebbe una strenua difesa dei diritti fondamentali) - è, quindi, pure nociva, ciò sia per l'evoluzione futura del diritto in generale (reso incerto ed indebolito dall'affermata supremazia delle logiche economiche) che per i contenziosi in materia di danni alla persona.

Cercherò di comprovare, anche in replica al primo (invece positivo) commento apparso su Ri.Da.Re. (D. Spera, Riverberi sulla tabella milanese della pronuncia costituzionale sull'art. 139 Cod. Ass.), per quali ragioni la sentenza è reazionaria, carente e nociva, in definitiva da giubilarsi al più presto.

Art. 3 Cost.: una fondamentale questione di legittimità totalmente sottovalutata e svilita dalla Consulta

La Corte ha dichiarato «manifestamente non fondata … la censura di violazione dell'art. 3 Cost.», adducendo le seguenti scarne motivazioni:

1) «la tutela risarcitoria dei danneggiati da sinistro stradale è […] più incisiva e sicura, rispetto a quella dei danneggiati in conseguenza di eventi diversi»: «solo i primi, e non anche gli altri, possono avvalersi della copertura assicurativa, ex lege obbligatoria, del danneggiante – o, in alternativa, direttamente di quella del proprio assicuratore – che si risolve in garanzia dell'an stesso del risarcimento»;

2) «l'assunto per cui gli introdotti limiti tabellari non consentirebbero di tener conto della diversa incidenza che pur identiche lesioni possano avere nei confronti dei singoli soggetti, trascura di dare adeguato rilievo alla disposizione di cui al comma 3 del denunciato art. 139Cod. Ass., in virtù della quale è consentito al giudice di aumentare fino ad un quinto l'importo liquidabile … con “equo e motivato apprezzamento”, appunto, “delle condizioni soggettive del danneggiato”».

Il primo argomento lascia basiti:

  • il fatto che i danneggiati da sinistri stradali possano confidare in una copertura assicurativa non toglie che siano assoggettati ad una disciplina risarcitoria che li penalizza quanto alla tutela di diritti fondamentali rispetto alle vittime di altri eventi dannosi produttivi delle medesime menomazioni dell'integrità psicofisica: la discriminazione è oggettiva, rimane tale e quale;
  • sulle assicurazioni è traslata, nei limiti dei massimali, l'obbligazione risarcitoria originaria a carico del responsabile civile (obbligazione che, oltre persistere, ha per oggetto il risarcimento integrale del danno), sicché la prospettiva, con cui occorre confrontarsi ex art. 3 Cost., rimane quella dell'obbligazione del danneggiante e, quindi, della riparazione integrale;
  • la vittima di un sinistro stradale non ha alcuna garanzia aggiuntiva rispetto al danneggiato di qualsiasi altro incidente quanto alla possibilità di accedere al risarcimento: dovrà pur sempre essere accertata una r.c. del conducente (peraltro, l'art. 2054, commi 1 e 2 c.c., reca regimi di r.c. ancorati alla colpa, diversamente da altri ambiti) così come i danni dovranno essere comprovati (anzi, per effetto della l. n. 27/2012, la persona lesa da un incidente stradale si trova a dover subire restrizioni vessatorie circa i mezzi di prova cui può accedere per la dimostrazione dei danni); questo danneggiato può sì confidare nel fatto che alla fine del percorso vi sia un'assicurazione che concretizzerà le sue aspettative risarcitorie, ma tale prospettiva sussiste pure in tutta un'altra serie di casi (infortunio sul lavoro occorso presso un'azienda solida; controversia contro una p.a., causa per responsabilità medica ove sussiste un obbligo assicurativo per le strutture sanitarie);
  • la Consulta ci spaccia le assicurazioni per la r.c.a. alla stregua di soggetti mossi da scopi solidaristici e, soprattutto, solerti e prontissimi a risarcire, ma così non è; queste frappongono ostacoli di ogni sorta e, diversamente da altri, godono nelle procedure liquidative di posizioni di favor non trascurabili (uno spatium deliberandi prorogato con mezzi e mezzucci; l'accesso alla documentazione relativa ai danni così come il diritto a disporre accertamenti medico-legali, situazioni spesso sfruttate per formulare offerte unilaterali protese a mettere in crisi i danneggiati).

Peraltro, le discriminazioni, che derivano dall'art. 139 Cod. Ass., riguardano anche i soggetti chiamati al risarcimento: infatti, i responsabili dei sinistri (ed ora, a seguito del discutibile “decreto Balduzzi”, anche gli «esercenti la professione sanitaria») godono di significativi sconti rispetto a tutte le altre categorie di persone chiamate a risarcire i medesimi danni.

Il secondo argomento è a sua volta fallace, desta vivo stupore: la Consulta, per escludere la discriminazione tra vittime, la riconosce!

Infatti, la Consulta rileva come la personalizzazione del danno non patrimoniale sia limitata nei casi di sinistri stradali al massimo del quinto dei parametri tabellari; orbene, tale riconoscimento espresso del limite alla personalizzazione comprova in modo inequivocabile la disparità di trattamento operante per le vittime di sinistri stradali.

Inoltre, tutta la questione della costituzionalità dell'art. 139 Cod. Ass. ai sensi dell'art. 3 Cost. si risolve per la Consulta in via negativa attraverso questi due soli “brillanti” argomenti, inidonei ad offrire risposte giuridiche inoppugnabili. Tale declaratoria di manifesta infondatezza, quindi, è palesemente ingiustificata.

Ad ogni modo, si tornerà oltre sull'art. 3 Cost. ( cfr. L'incostituzionale bilanciamento operato dalla Consulta tra diritti fondamentali ed interessi economici), poiché i principi imposti a qualsiasi giudizio di costituzionalità da questa importantissima norma, trattata alla stregua di un mero orpello, evidenziano la totale infondatezza anche delle considerazioni svolte dalla Consulta in relazione agli altri parametri costituzionali (artt. 2 e 32 Cost.), che non costituiscono delle monadi rispetto al principio di eguaglianza.

Biologico “mangia” morale (ma dove sta la motivazione?): una pronuncia contra legem

La Consulta ha ritenuto infondata la questione della «liquidabilità del danno morale» «per erroneità della sua premessa interpretativa»: «È pur vero, infatti, che l'art. 139Cod. Ass.… fa testualmente riferimento al “danno biologico” e non fa menzione anche del “danno morale”. Ma, con la sentenza Cass. n. 26972/2008, le sezioni unite della Corte di cassazione hanno ben chiarito … come il cosiddetto “danno morale” − e cioè la sofferenza personale suscettibile di costituire ulteriore posta risarcibile (comunque unitariamente) del danno non patrimoniale, nell'ipotesi in cui l'illecito configuri reato − «rientra nell'area del danno biologico, del quale ogni sofferenza, fisica o psichica, per sua natura intrinseca costituisce componente». La norma denunciata non è, quindi, chiusa, come paventano i rimettenti, alla risarcibilità anche del danno morale: ricorrendo in concreto i presupposti del quale, il giudice può avvalersi della possibilità di incremento dell'ammontare del danno biologico, secondo la previsione, e nei limiti, di cui alla disposizione del citato comma 3».

La Consulta ha innanzitutto frainteso le effettive ragioni che avevano condotto i giudici rimettenti a stimolare una sua presa di posizione sulla questione: questi miravano a ché la Corte affermasse la risarcibilità dei pregiudizi morali fuori dal danno biologico e, quindi, fuori dal limite del quinto imposto dall'art. 139 Cod. Ass.

Sta di fatto come la Corte, sposando le indicazioni filo-assicurative, abbia affermato quanto segue:

1) il danno morale è da ricomprendersi nel danno biologico;

2) la personalizzazione del danno biologico (già assoggettata al limite del quinto) include anche la liquidazione dei pregiudizi morali.

Tale risposta della Corte lascia stupefatti per le seguenti ragioni:

  • per questa via aggrava la disparità di trattamento tra le vittime di sinistri stradali ed i danneggiati da altri eventi dannosi;
  • omette di riportare di avere in precedenza sempre ribadito la distinzione tra le due poste risarcitorie in questione;
  • ignora come tra il 2009 ed il 2014 la stessa Cassazione abbia fatto una netta marcia indietro rispetto all'indirizzo, recato dalle SS.UU. 2008, secondo cui “il biologico cannibalizza il morale”;
  • trascura del tutto la ratio legis dell'art. 139 Cod. Ass., tale da evidenziare l'impossibilità di ricomprendere il danno morale entro il danno biologico e la personalizzazione (limitata) di quest'ultimo (l'interpretazione della Consulta è contra legem);
    • non menziona gli interventi del legislatore successivi all'11 novembre 2008 (d.P.R. 3 marzo 2009 n. 37 e d.P.R. 30 ottobre 2009 n. 181) che, tenendo salda la distinzione tra danno biologico e danno morale, hanno espressamente inteso il danno biologico, di cui agli artt. 138 e 139Cod. Ass., quale sotto-categoria che non assorbe il danno morale (questa è un'interpretazione praticamente “autentica” della definizione di “danno biologico”: infatti, fu proprio il legislatore delegato a redigere tali disposizioni del Cod. Ass.);
  • incorre nel grave errore di confondere tra pregiudizi biologici e pregiudizi morali, anche a livello medico-legale ritenuti distinti fra loro sul piano naturalistico e del loro accertamento.

In merito al primo punto (effetti discriminatori) si rileva quanto segue:

  • fuori dall'ambito di operatività dell'art. 139 Cod. Ass. - quale che sia la soluzione al dibattito circa i rapporti correnti tra questi pregiudizi - questi danni non incontrano limiti alla loro personalizzazione; semmai sono venuti ad affermarsi dei criteri indicativi di massima (per es., le tabelle milanesi), ma questi non impediscono ai giudici di operare gli aggiustamenti del caso dinanzi a circostanze particolari (l'acrobata che subisce una distorsione del rachide; il pianista - non necessariamente professionale - che accusa l'amputazione di una falange; la modella con una cicatrice);
  • il danneggiato da sinistro stradale è discriminato anche rispetto al trattamento riservato dal legislatore a livello indennitario (neppure risarcitorio!) a tutta una serie di altre vittime; il riferimento è qui al già menzionato d.P.R. 3 marzo 2009 n. 37 («Regolamento per la disciplina dei termini e delle modalità di riconoscimento di … infermità da cause di servizio per il personale impiegato nelle missioni militari all'estero, nei conflitti e nelle basi militari nazionali …»), ed al successivo d.P.R. 30 ottobre 2009 n. 181 («Regolamento recante i criteri medico-legali per l'accertamento e la determinazione dell'invalidità e del danno biologico e morale a carico delle vittime del terrorismo e delle stragi di tale matrice …»).

La Consulta ha pure dimenticato di avere ribadito essa stessa la distinzione fra biologico e morale:

  • C. Cost., 11 luglio 2003, n. 233: il d.m. è stato definito «turbamento dello stato d'animo della vittima», contrapposto al d.b. «“in senso stretto”, inteso come lesione dell'interesse, costituzionalmente garantito, all'integrità psichica e fisica della persona, conseguente ad un accertamento medico»;
  • C. Cost., 22 luglio 1996, n. 293: «la premessa del giudice a quo, secondo cui il danno morale costituisce pur sempre una lesione della salute psico-fisica [dunque, danno al bene salute di cui all'art. 32 Cost.], è contraddetta da una indicazione costante della giurisprudenza di questa Corte nel senso della differenza di natura delle due specie di danno»;
  • Corte cost., 14 luglio 1986, n. 184: «la giurisprudenza successiva all'emanazione del vigente codice civile identifica quasi sempre il danno morale (o non patrimoniale) con l'ingiusto perturbamento dello stato d'animo del soggetto offeso», ontologicamente distinto dal danno biologico.

Appare singolare che la Consulta si sia scordata di tali precedenti, sue autentiche pietre miliari.

Stupisce, altresì, che la Consulta si sia persa per strada il revirement della Cassazione rispetto alle SS.UU. 2008.

Infatti, dopo l'11 novembre 2008 la Suprema corte, scongiurando così la “biologizzazione” o “somatizzazione” integrale del danno alla persona, ha disatteso il principio della “reductio ad unum:

1) riconfermando la distinzione tra danno biologico e danno morale anche con riferimento alle microlesioni da sinistri stradali (i «danni morali consequenziali… restano estranei alla definizione complessa del danno biologico»);

2) riasserendo la legittimità della liquidazione del danno morale in una quota percentuale del danno biologico;

3) sottolineando come gli artt. 138 e 139 Cod. Ass.nonconsentano «una lettura diversa da quella che predicava la separazione tra i criteri di liquidazione del danno biologico in esse codificati e quelli funzionali al riconoscimento del danno morale» (cfr. Cass. civ., Sez. III, 20 maggio 2009, n. 11701; Cass. civ., Sez. III, 15 luglio 2009, n. 16448; Cass. civ., Sez. III, 17 settembre 2010, n. 19816; Cass. civ., Sez. III, 7 gennaio 2011, n. 260; Cass. civ., Sez. III, 21 aprile 2011, n. 9139; Cass. civ., Sez. III, 9 marzo 2011, n. 5540; Cass. civ., Sez. III, 10 maggio 2011, n. 10207; Cass. civ., Sez. III, 12 settembre 2011, n. 18641; Cass. civ., Sez. lav., 2 aprile 2012, n. 5230; Cass. civ., Sez. III, 20 novembre 2012, n. 20292; Cass. civ., Sez. III, 3 ottobre 2013, n. 22585; Cass. civ., Sez. III, 11 ottobre 2013, n. 23147; Cass. civ., Sez. III, 23 gennaio 2014, n. 1361).

Perché la Consulta non ha considerato il diverso maggioritario orientamento della Cassazione, ripreso diffusamente dalla giurisprudenza di merito? Quanto vale il richiamo della Consulta alle sole sentenze SS.UU. 2008? Quanto vale un precedente che ignora ogni diversa prospettiva?

Ad ogni modo, volendo anche prescindere da tali omissioni, è grave che la Consulta non abbia considerato, ex art. 12 preleggi, la ratio legis dell'art. 139 Cod. Ass.

Infatti,tale ratio conferma che il legislatore non ha mai inteso il danno biologico quale sotto-categoria del danno non patrimoniale tale da includere i pregiudizi non pecuniari sostanzianti il danno morale (patimenti d'animo, senso dell'offesa subita, indignazione, non accettazione del proprio stato, lesione della dignità e della personalità morale, ecc.).

In particolare, questa è la ratio legis dell'art. 5 della l. n. 57/2001, norma dalla quale sono discesi nel 2005 gli artt. 138 e 139 Cod. Ass.:

  • il d.l. n. 70/2000, disciplinando la liquidazione delle micropermanenti, distinse nettamente fra danno biologico e danno morale, collocandoli in due diverse disposizioni (all'art. 13, comma 1, d.l. n. 70/2000 fissò quale limite massimo per il risarcimento del danno morale, considerato a parte rispetto al danno biologico, la misura del 25% di quanto corrisposto a quest'ultimo titolo);
  • il d.l. non venne convertito, ma il dibattito proseguì in Parlamento con il progetto di legge n. 7115, che all'art. 5, sempre mantenendo netta la distinzione tra danno biologico e danno morale, conteneva una disposizione ad hoc per quest'ultima categoria («a titolo di danno non patrimoniale, nei casi in cui questo è risarcibile ai sensi dell'articolo 2059 del codice civile, è liquidato un importo non superiore al 25 per cento dell'importo liquidato a titolo di danno biologico»);
  • tuttavia, nelle ultime fasi dell'iter di questo progetto (seduta 10 gennaio 2001) tale disposizione sul danno morale venne stralciata per effetto dell'approvazione di un emendamento che aveva quale scopo quello di «sopprimere ogni limitazione alla determinazione del danno morale che forse è l'unico aspetto rimesso al prudente apprezzamento del magistrato»;
  • il danno biologico, così, approdò al diritto positivo (art. 5, l. n. 57/2001) quale sotto-categoria normativamente distinta, per espressa volontà del Parlamento, dal danno morale;
  • infine, questo modello fu ripreso dagli artt. 138 e 139 Cod. Ass., senza che la legge delega avesse autorizzato modifiche dell'assetto precedente (ossia l'inclusione dei pregiudizi morali nel danno biologico), sicché in alcun modo queste norme potrebbero interpretarsi nel senso di un (implicito) assorbimento del danno morale.

Insomma, la ratio legis della definizione legislativa del danno biologico è avversa alla soluzione indicata dalla Consulta.

Questa conclusione è confermata anche dall'interpretazione storico-sistematica: la definizione normativa del danno biologico fu coniata in un periodo in cui le corti tutte (compresa la Consulta) ed il legislatore distinguevano nettamente tra danno biologico e danno morale.

E', allora, palese come la Consulta, richiamando le SS.UU. 2008, abbia recepito passivamente, senza porsi gli interrogativi imposti dall'art. 12 preleggi, una reductio ad unum impedita legislativamente.

Deve poi ricordarsi come tutto ciò abbia ricevuto ulteriori conferme da parte del legislatore anche dopo il “San Martino 2008”: i d.P.R. 3 marzo 2009 n. 37 e d.P.R. 30 ottobre 2009 n. 181distinguono fra danno biologico e danno morale, espressamente interpretando il danno biologico, di cui agli artt. 138 e 139 Cod. Ass., alla stregua di una sotto-categoria tale da non assorbire il danno morale.

Infine, la Consulta del 2014 ha, altresì, ignorato come le SS.UU. 2008 non avessero colto la profonda differenza - sia naturalistica che giuridica - corrente (anche a livello probatorio) fra le “sofferenze psicofisica” e le “sofferenze morali”, cioè tra la “sfera psicofisica” e la “sfera morale”.

In particolare, la Consulta, al pari delle SS.UU. 2008, ha omesso di considerare quanto segue.

Come posto in luce da autorevole medicina legale(F. Buzzi, Compete al medico legale contribuire all'apprezzamento e alla quantificazione della «sofferenza morale»?, in Riv. it. med. leg., 2010, 1, 3 e ss.), le «sofferenze fisiche e psichiche» - ossia tutti quei “dolori” strettamente connessi all'alterazione dell'integrità psicofisica ed a loro volta, come le menomazioni psicofisiche, rilevabili, pur con tutte le difficoltà del caso, a livello medico legale/psichiatrico (dolori nocicettivi, dolori neuropatici, dolori funzionali; disturbi mentali) - non hanno mai sostanziato il cuore della categoria (concettualmente autonoma) del danno morale e non hanno mai esaurito da sole il novero dei pregiudizi “morali”.

«Con la dizione “sofferenze fisiche e psichiche” si dovrebbero designare più propriamente le manifestazioni delle malattie del corpo e della mente, da sempre incluse nella nozione di danno biologico. Il “dolore intimo”, il “turbamento dell'animo”, la “sofferenza morale” meglio descrivono la componente emozionale del danno non patrimoniale: emozioni che generano sì sofferenza, anche profonda, ma che non rientrano nell'ambito della patologia», cioè del danno biologico (R. Domenici, La quantificazione del dolore, in Medicina legale e sofferenza fisica e morale dopo le Sezioni Unite civili del novembre 2008, a cura di F. Buzzi e M. Valdini, Milano, 2010, 203-205).

Già in tempi non sospetti la medicina legale era solita affermare che «la dimensione del danno morale non è riconducibile nell'ambito del danno alla salute» (M. Bargagna, Rilievi critici e spunti ricostruttivi, in AA.VV., La valutazione del danno alla persona, a cura diM. Bargagna e F.D. Busnelli, Padova, 1986, 459), avendo insistito sulla distinzione corrente tra «dolore somatico» (suscettibile di contributi medico legali) e «sofferenza emotiva» (o «sofferenza morale») (F. Buzzi, Critica pragmatica agli intenti di quantificare il danno da dolore, in AA.VV., Il dolore nella valutazione del medico legale, a cura di M. Valdini, Milano, 2007, 113).

È poi innegabile come il sistema risarcitorio si sia sviluppato intorno alla distinzione corrente tra, da un lato, il “dolore” (patologico) del corpo e/o della psiche e, dall'altro lato, il “dolore” come vissuto intellettivo ed emotivo del soggetto (ossia il “dolore dell'animo”), area quest'ultima cui si è avvenuta ad affiancare la prospettiva della lesione della dignità/personalità morale (prospettive queste ultime medicolegalmente non apprezzabili e nosologicamente non inquadrabili).

Infatti, il danno morale ha costituito la via per valorizzare la violazione, contestuale a quella del corpo e/o della psiche, di beni ulteriori rispetto all'integrità psicofisica (medicolegalmente concepita), quali, ad es., la personalità, la dignità, l'immagine, l'onore, la reputazione, la serenità, il benessere interiore.

Nello specifico, il danno morale da menomazione della salute è stato concepito quale sotto-categoria del danno non patrimoniale tale da permettere, diversamente dal danno biologico, la liquidazione di pregiudizi-conseguenza quali i seguenti:

  • senso dell'offesa subita e sconvolgimento conseguente alla percezione della propria integrità violata (sentimenti eventualmente aggravati dalla efferatezza della condotta lesiva);
  • stress, fastidi, disagi, dispiaceri, amarezze, imbarazzi, frustrazioni ed altre emozioni negative (afflizione per essere costretti a letto od a riposo forzato, per dover indossare un gesso o per essere sottoposti a terapie, per dover riorganizzare la propria vita famigliare o lavorativa; turbamento per la non accettazione del proprio stato modificato dal sinistro; sentimento di lesa dignità per dover dipendere da altri riguardo l'igiene personale o per vestirsi; emozioni negative per dover affrontare un iter legale per la propria tutela; amarezza per non riuscire a stare accanto ai propri cari, famigliari ed amici; ecc.);
  • spaventi, angosce, timori e prove negative della vita (preoccupazione per l'avere corso o dover affrontare un pericolo per la propria salute o vita; paura per un ricovero, per un'anestesia, per un'operazione, o per il dolore fisico; ecc.);
  • preoccupazioni e timori per il futuro (es: per le sorti della propria famiglia, per la propria posizione sociale, per il rischio della perdita del lavoro o di non riuscire a concorrere sul mercato del lavoro);
  • più in generale perturbamenti dell'animo ossia ogni pregiudizio “immateriale” - circoscritto nel tempo o destinato a permanere - derivante dalla alterazione in peius dell'integrità morale (ossia, come detto dalla Cassazione nel 2003, della modifica negativa della «sfera dell'intimo sentire»), non suscettibile di «accertamento scientifico».

In breve, sia naturalisticamente che giuridicamente il danno biologico sta alla menomazione, in termini di disfunzionalità e sofferenze medicolegalmente apprezzabili, del “corpo” (o, sul versante psichico, sta alla alterazione patologica dei processi mentali) esattamente come il danno morale sta alla violazione del nous aureliano, della libertà interiore dell'individuo e della sua serenità.

È, pertanto, palese quanto segue:

  • non è vero che, risarcendosi in via autonoma il danno morale si sia liquidata e si pervenga a riconoscere una posta risarcitoria priva di contenuti e, quindi, inconsistente;
  • neppure è vero che con per questa via si sia duplicato e si duplichi il danno biologico o si finisca con il risarcire più volte gli stessi pregiudizi; i giudici hanno sempre avuto ben presente, nel risarcire autonomamente il danno morale, di riconoscere in capo al danneggiato una somma per pregiudizi naturalisticamente e concettualmente distinti da quelli conteggiati nella quantificazione del danno biologico, cioè pregiudizi centrati non già sul corpo o sulla psiche, bensì sul «turbamento dello stato d'animo della vittima» e sulla lesione della dignità del leso (C. Cost., 11 luglio 2003, n. 233).

Il fatto poi che prima dell'11 novembre 2008 fosse ben accetto nella prassi che il quantum del danno morale nella maggior parte dei casi venisse determinato in una misura proporzionale all'entità del danno biologico (generalmente da ½ ad ¼ di quest'ultimo) aveva e mantiene una sua fondata logica giustificatrice: infatti, in via equitativa e fatta eccezione per alcuni particolari casi (ad esempio, l'ipotesi dello stato di coma o dello stato vegetativo), si può presumere - sia per ragioni di uniformità di trattamento, sia per esigenze di prevedibilità e sia per una condivisibile semplificazione- che perturbamento dell'animo e violazione della dignità morale siano tanto maggiori quanto più grave risulti la lesione dell'integrità psicofisica, fermi restando i necessari adeguamenti a ciascun caso concreto (esigenza costantemente affermata dalla Cassazione), con possibilità di adottare criteri diversi.

Del resto, l'unico problema che più volte la stessa Cassazione aveva lamentato sino all'11 novembre 2008 circa tale modello dicotomico non era affatto quello per cui esso avrebbe dato luogo a “duplicazioni risarcitorie”, ma semmai (in senso diametralmente opposto) quello della “svalutazione” del danno morale. Infatti, si stigmatizzava come il danno morale, autonomamente configurato e liquidato, non venisse adeguatamente personalizzato dai giudici del merito, non già che il suo riconoscimento ammontasse ad un'inutile duplicazione (per es.: Cass. civ., Sez. III, 9 novembre 2006, n. 23918).

Conclusivamente è chiaro come le SS.UU. 2008 avessero errato nel cancellare la dicotomia in questione facendo leva su una concezione del danno morale riformulata in senso contrario alla stessa giurisprudenza di legittimità ed a quella della Consulta ante-2014 (oltre che alle indicazioni provenienti dalla medicina legale).

Dunque, non solo è più che fondato continuare a distinguere tra disfunzionalità e sofferenza, ma occorre altresì insistere nel considerare le “sofferenze psicofisiche” distinte dalle “sofferenze dell'animo”.

Che poi quest'ultima distinzione si traduca nella liquidazione di una categoria unitaria (il danno non patrimoniale, entro cui si individuino le diverse componenti biologiche, morali ed esistenziali o relazionali) oppure in plurime voci di danno (comunque, da coordinarsi fra loro in una visione unitaria) dovrebbe risultare indifferente, purché sia realizzato l'obiettivo del risarcimento integrale.

E', invece, da scongiurarsi che la “sotto-categoria” del danno biologico, come viceversa perorato dalle SS.UU. 2008 ed ora dalla Consulta 2014, assurga a macro-categoria idonea a contemplare tutti i pregiudizi non pecuniari (compresi quelli “morali”): una siffatta portata del danno biologico non appartiene alla sua tradizione, non si concilia con la sua matrice medico-legale, nonè realizzabile (in primis in seno all'art. 139 Cod. Ass.) attraverso i suoi criteri di liquidazione ed è contraddetta dalla stessa legge; tale portata contraddistingue la categoria generale del danno non patrimoniale.

Tutto ciò illustrato, era più che legittimo attendersi dalla Consulta la considerazione di queste fondate prospettive e serie obiezioni avverse alla reductio ad unum, eppure risapute ed evidenziate dalla dottrina e dalla giurisprudenza (anzi, tanto note da far pensare che non sia difettata in seno alla Corte la consapevolezza delle stesse, viceversa essendo intervenuta la decisione di ignorarle).

L'incostituzionale bilanciamento operato dalla Consulta tra diritti fondamentali ed interessi economici

La Consulta ha addotto le seguenti sintetiche motivazioni:

  • «Questa Corte (nella occasione, in particolare, della denunciata previsione di limiti alla responsabilità del vettore aereo in tema di trasporto di persone) ha già chiarito come non si configuri ipotesi di illegittimità costituzionale per lesione del diritto inviolabile alla integrità della persona ove la disciplina in contestazione sia volta a comporre le esigenze del danneggiato con altro valore di rilievo costituzionale, come, in quel caso, il valore dell'iniziativa economica privata connesso all'attività del vettore (C. Cost. n. 132/1985)»;
  • «la Corte di cassazione, con la già ricordata sentenza Cass. n. 26972/2008, ha puntualizzato come il bilanciamento tra i diritti inviolabili della persona ed il dovere di solidarietà (di cui, rispettivamente, al primo e secondo comma dell'art. 2 Cost.) comporti che non sia risarcibile il danno per lesione di quei diritti che non superi il «livello di tollerabilità» che «ogni persona inserita nel complesso contesto sociale […] deve accettare in virtù del dovere di tolleranza che la convivenza impone»»;
  • «Il controllo di costituzionalità del meccanismo tabellare di risarcimento del danno biologico introdotto dal censurato art. 139 Cod. Ass. – per il profilo del prospettato vulnus al diritto all'integralità del risarcimento del danno alla persona – va, quindi, condotto non già assumendo quel diritto come valore assoluto e intangibile, bensì verificando la ragionevolezza del suo bilanciamento con altri valori, che sia eventualmente alla base della disciplina censurata».
  • «in un sistema, come quello vigente, di responsabilità civile per la circolazione dei veicoli obbligatoriamente assicurata – in cui le compagnie assicuratrici, concorrendo ex lege al Fondo di garanzia per le vittime della strada, perseguono anche fini solidaristici, e nel quale l'interesse risarcitorio particolare del danneggiato deve comunque misurarsi con quello, generale e sociale, degli assicurati ad avere un livello accettabile e sostenibile dei premi assicurativi – la disciplina in esame, che si propone il contemperamento di tali contrapposti interessi, supera certamente il vaglio di ragionevolezza».

Questa parte della sentenza, che, senza le verifiche del caso, recepisce alla lettera le tesi filo-assicurative a sostegno della irrilevanza costituzionale del diritto alla riparazione integrale del danno, non può che lasciare basiti; con estrema leggerezza la Corte:

  • ha distorto la portata di suoi stessi precedenti ed obliterato sue storiche sentenze intervenute sul tema specifico della r.c.a.;
  • ha degradato la tutela rimediale di diritti fondamentali, riducendoli alla stregua di interessi economici in tutto e per tutto assimilabili a quelli dei soggetti danneggianti e dei loro assicuratori;
  • anzi, ha attribuito supremazia agli interessi della compagine assicurativa e (fittiziamente) degli assicurati a totale discapito di persone che hanno subito lesioni del bene salute (diritto inviolabile) senza addurre alcuna prova a sostegno delle sue personali opinioni/valutazioni economiche.

Questi rilievi necessitano di essere approfonditi.

Prima di tutto il precedente Coccia c. Soc. Turkish Airlines ( C. Cost., 6 maggio 1985, n. 132) non è stato correttamente rappresentato.

Infatti, la Consulta 2014, trascurando l'esito di tale controversia (l'incostituzionalità della disciplina risarcitoria impugnata), attribuisce a questa pronuncia di avere negato che sia possibile configurare l'illegittimità di una legge per la lesione del diritto inviolabile all'integrità psicofisica «ove la disciplina in contestazione sia volta a comporre le esigenze del danneggiato con altro valore di rilievo costituzionale, come, in quel caso, il valore dell'iniziativa economica privata connesso all'attività del vettore».

Sennonché, in tale precedente del 1985 la Corte affermò a chiare lettere l'illegittimità costituzionale di una disciplina addirittura internazionale, negando ogni rilevanza giuridica alla tutela degli interessi economici dei vettori aerei.

In quella occasione la Consulta era stata chiamata a stabilire se fossero contrari alla nostra Costituzione gli art. 1 della l. 19 maggio 1932 n. 841 e art. 2 della l. 3 dicembre 1962 n. 1832 nella parte in cui, dando esecuzione all'art. 22 della Convenzione di Varsavia (12 ottobre 1929), come modificato dall'art. XI del Protocollo dell'Aja (28 settembre 1955), stabilivano che la r.c. del vettore aereo per il risarcimento del danno alla persona o per la morte del passeggero fosse contenuta entro il “cap” di 250.000 franchi-oro Poincaré, una somma ragguardevole per l'epoca (nel 1983 tale limite - giudicato incostituzionale - ammontava all'incirca a £ 300 milioni).

In effetti la Consulta, affermata l'illegittimità della predetta disciplina, aggiunse il seguente obiter: «Si può … precisare che l'aver comunque sancito un limite alla responsabilità del vettore non basta ad integrare la prospettata ipotesi di illegittimità costituzionale, sebbene importi una deroga al principio del risarcimento integrale del danno; principio che, in stretta connessione con l'altro della responsabilità colpevole, informa la disposizione dettata in via generale, per quanto qui interessa, dall'art. 1681 c.c., sotto il capo del contratto di trasporto. Ma tale rilievo non esaurisce l'indagine rimessa alla Corte. Occorre vedere … se la limitazione dell'obbligo risarcitorio sia giustificata dallo stesso contesto normativo in cui essa si colloca, nel senso che la denunciata disciplina pattizia riesca a comporre gli interessi del vettore con un sistema di ristoro del danno non lesivo della norma costituzionale di raffronto. L'esigenza di tutela del danneggiato, che qui viene in considerazione, va peraltro puntualizzata, tenendo conto delle ragioni che hanno ispirato il regime della responsabilità in sede internazionale e ne hanno promosso l'evoluzione. È, allora, in questa prospettiva, che risulta quale assetto della limitazione del risarcimento possa soddisfare gli estremi della compatibilità con l'art. 2 Cost. Ad avviso della Corte, deve trattarsi di una soluzione normativa atta ad assicurare l'equilibrato componimento degli interessi in giuoco: e dunque, per un verso sostenuta dalla necessità di non comprimere indebitamente la sfera di iniziativa economica del vettore, per l'altro congegnata secondo criteri che, in ordine all'imputazione della responsabilità o alla determinazione della consistenza del limite in discorso, comportano idonee e specifiche salvaguardie del diritto fatto valere da chi subisce il danno».

In tale passo la Corte sì prospettò l'astratta legittimità di previsioni legislative tali da comportare limitazioni al risarcimento dei danni alla persona, ma concluse poi per l'incostituzionalità della normativa predetta («essa lede la garanzia eretta dall'articolo 2 Cost. a presidio inviolabile della persona»), ritenendo non comprimibile il diritto al risarcimento integrale pur dinanzi ad una norma internazionale e nonostante la sicura rilevanza sociale degli interessi economici dei vettori aerei.

Il precedente del 1985, quindi, è lungi dal fondare una qualche limitazione del diritto al risarcimento dei danni alla persona dei danneggiati da sinistri stradali (ciò, peraltro, a fronte di un sistema di responsabilità civile - quello di cui ai commi 1 e 2 dell'art. 2054 c.c. - fondato sul criterio della colpa).

Del resto, il vero “contemperamento” effettuato dalla Consulta nella sentenza C. Cost. n. 235/2014 è quello tra, da un lato, «le esigenze del danneggiato» e, dall'altro lato, «il valore dell'iniziativa economica privata» delle assicurazioni, sicché l'esclusione, da parte della pronuncia del 1985, della rilevanza della «sfera di iniziativa economica» dei vettori aerei avrebbe potuto e dovuto condurre alla declaratoria di incostituzionalità dell'art. 139 Cod. Ass. (perlomeno, la Corte avrebbe dovuto spiegarci per quali ragioni le assicurazioni andrebbero avvantaggiate rispetto ai vettori aerei, i quali, eppure, nell'esercizio della loro attività sono gravati di ben più costosi oneri rispetto alla gestione dei sinistri, venendo in rilievo l'effettuazione di trasporti dispendiosi innanzitutto per i mezzi impiegati, per gli adempimenti a livello di sicurezza e per i premi assicurativi da sostenersi, senza contarsi le tasse aeroportuali che le compagnie aeree versano agli Stati, ben maggiori dei contributi che le assicurazioni, traendole dai premi e, quindi, dagli assicurati stessi, destinano al Fondo di garanzia).

Ad ogni modo, la Consulta avrebbe dovuto confrontare tale precedente con altre sue importantissime successive sentenze e, comunque, soffermarsi a verificare la correttezza teorica dell'impostazione seguita nel 1985, prima del fenomeno della “costituzionalizzazione” del diritto al risarcimento integrale dei danni da violazione di diritti fondamentali.

Infatti, l'impostazione, per la quale il legislatore, nel disciplinare il risarcimento dei danni alla persona, sarebbe vincolato esclusivamente all'obbligo di effettuare un «equilibrato componimento degli interessi contrapposti», risulta:

  • essere stata sconfessata dalla stessa Consulta e dalla Cassazione proprio in relazione ai sinistri stradali;
  • viziata, vetusta e priva di qualsivoglia coerenza con i principi cardine del sistema risarcitorio attuale;
  • in ogni caso inidonea all'assoluzione dell'art. 139 Cod. Ass.

In ordine al primo punto ci si riferisce alla storica sentenza della Consulta in Repetto c. Atm Genova (Corte cost., 14 luglio 1986, n. 184), che fondò i principi cardine, tuttora saldissimi, del nostro modello risarcitorio.

In tale precedente, che (N.B.) interveniva con riferimento a due sinistri stradali che avevano prodotto conseguenze lesive di lieve entità, con estrema chiarezza la Consulta escluse la possibilità di riconoscere in capo al legislatore ordinario un qualche potere discrezionale quanto alla previsione di delimitazioni del diritto al risarcimento integrale del danno biologico.

Infatti, i giudici costituzionali, ricordando come già in precedenza la stessa Corte (Corte cost., 26 luglio 1979, n. 87) «nel dichiarare rientrante nella discrezionalità del legislatore adottare trattamenti differenziati in relazione alle differenti situazioni, per presupposti e gravità, del fatto costituente reato e del fatto dannoso integrante esclusivamente illecito civile, [avesse escluso] dalla predetta discrezionalità le “situazioni soggettive costituzionalmente garantite”», affermarono che «se è vero che l'art. 32 Cost. tutela la salute come diritto fondamentale del privato, e se è vero che tale diritto è primario e pienamente operante anche nei rapporti tra privati, allo stesso modo come non sono configurabili limiti alla risarcibilità del danno biologico, quali quelli posti dall'art. 2059 c.c., non è ipotizzabile limite alla risarcibilità dello stesso danno, per sé considerato, ex art. 2043 c.c.», essendo «il risarcimento del danno ex art. 2043 c.c. […] sanzione esecutiva del precetto primario»: «Quand'anche si sostenesse che il riconoscimento, in un determinato ramo dell'ordinamento, d'un diritto subiettivo non esclude che siano posti limiti alla sua tutela risarcitoria (disponendosi ad esempio che non la lesione di quel diritto, per sé, sia risarcibile ma la medesima purché conseguano danni di un certo genere) va energicamente sottolineato che ciò, in ogni caso, non può accadere per i diritti e gli interessi dalla Costituzione dichiarati fondamentali. […] La solenne dichiarazione della Costituzione si ridurrebbe ad una lustra, nelle ipotesi escluse dalla tutela risarcitoria: il legislatore ordinario rimarrebbe arbitro dell'effettività della predetta dichiarazione costituzionale. […] Dalla correlazione tra l'art. 32 Cost. e l'art. 2043 c.c., è posta, dunque, una norma che, per volontà della Costituzione, non può limitare in alcun modo il risarcimento del danno biologico». In claris non fit interpretatio.

Ora, appare piuttosto grave che la Consulta, chiamata a dipanare una questione di tutto rilievo per la tutela rimediale dei diritti fondamentali di una vasta classe di cittadini (i danneggiati da sinistri stradali), abbia ritenuto di ignorare la sua storica sentenza del 1986, pur intervenuta con riferimento al tema specifico del potere del legislatore di limitare l'integralità del risarcimento dei danni alla persona nel settore della r.c.a.

Per quale motivo la Consulta ha brutalmente oscurato un siffatto precedente? Forse perché esso affermava dei principi inequivocabilmente favorevoli ai danneggiati (il fondamento costituzionale della tutela risarcitoria integrale del danno alla salute e la conseguente impossibilità per il legislatore ordinario di comprimerla)?

L'omessa citazione della sentenza capostipite del danno biologico - omissione caratterizzante, guarda caso, anche i contributi della dottrina filo-assicurativa - costituisce una pesante mancanza della pronuncia in disamina. Non è questo lo stile tipico di una sentenza della Consulta, che, peraltro, in questi stessi giorni ha nuovamente consacrato la tutela giurisdizionale dei diritti fondamentali delle persone addirittura ponendosi in contrasto con una pronuncia della Corte Internazionale di Giustizia (C. Cost., 22 ottobre 2014, n. 238).

La Consulta, invece di considerare il proprio precedente del 1986 (tra l'altro, ben recepito - anzi, ulteriormente affinato - nella sua successiva sentenza C. Cost., 11 luglio 2003, n. 233), ha preferito richiamarsi alle pronunce, parimenti reazionarie, delle SS.UU. 2008.

Sennonché, la Consulta, manifestando ulteriormente il suo ragionamento “a senso unico”, ha omesso di considerare quanto segue:

  • nelle sentenze del “San Martino 2008” (cfr. il § 4.8) la Cassazione - sul punto in linea con la sua tradizione più consolidata - aveva, comunque, ribadito il seguente inequivocabile principio: «il risarcimento del danno alla persona deve essere integrale, nel senso che deve ristorare interamente il pregiudizio» (invero, di questa importante chiosa delle pronunce novembrine la Consulta risulta essersene dimenticata);
  • sempre in queste sentenze le SS.UU. avevano sì sostenuto, (N.B.) sul diverso versante dell'an della risarcibilità dei danni non patrimoniali, che l'art. 2 Cost. imporrebbe «un grado minimo di tolleranza», obbligando, di conseguenza, «ogni persona» ad «accettare» tutta una serie di pregiudizi «in virtù del dovere della tolleranza che la convivenza impone»; tuttavia, le SS.UU. avevano quale bersaglio ben altri scenari del contenzioso risarcitorio (i “danni bagatellari”, cioè «i pregiudizi consistenti in disagi, fastidi, disappunti, ansie ed in ogni altro tipo di insoddisfazione concernente gli aspetti più disparati della vita quotidiana che ciascuno conduce nel contesto sociale, ai quali ha prestato invece tutela la giustizia di prossimità»), non già i pregiudizi da menomazioni dell'integrità psicofisica, del resto, per quanto concerne le invalidità (temporanee e/o permanenti) da sinistri stradali, espressamente contemplate dal legislatore ordinario alla stregua di situazioni di danno suscettibili di tutela risarcitoria (dunque, tali da non ricadere sotto il filtro selettivo inventato dalle SS.UU. per i pregiudizi “bagatellari”).

In breve, la Consulta del 2014 ha esteso il criterio selettivo della “tollerabilità” alle lesioni psicofisiche, senza considerare che la prospettiva delineata dalle SS.UU. 2008 riguardava unicamente l'an della tutela risarcitoria di situazioni di danno ben diverse (quelle “bagatellari”) e non già il quantum dei danni non patrimoniali riconducibili ad eventi lesivi tali, come le menomazioni dell'integrità psicofisica, da costituire situazioni pregiudizievoli meritevoli, per l'ordinamento, di riparazione (per queste rimanendo fermo il principio, ribadito dalle stesse SS.UU., del risarcimento integrale).

Insomma, la Consulta, estendendo la portata del criterio della “tollerabilità” al quantum dei danni non patrimoniali da lesioni di beni tutelati a livello costituzionale e dallo stesso legislatore ordinario, ha frainteso anche le SS.UU. 2008.

La Corte, inoltre, avrebbe dovuto porsi qualche interrogativo pure sulla fondatezza del predetto limite della “tolleranza” degli illeciti apoditticamente sostenuto dalle SS.UU.

Infatti:

  • sul punto le pronunce di “San Martino 2008” sono state smentite da diversi successivi precedenti sia delle stesse SS.UU. (Cass. civ., S.U., 15 gennaio 2009, n. 794) che della Corte UE (cfr., per es., Corte di Giustizia UE, Sez. III, 13 ottobre 2011, causa C-83/10);
  • soprattutto: 1) l'art. 2 Cost. e, più in generale, la Costituzione sono lungi dall'imporre ai consociati di “tollerare” le conseguenze di condotte illecite (colpose o, addirittura, dolose), oppure di inadempimenti contrattuali (da nessuna parte dei lavori preparatori della Costituzione si rinviene una qualche conferma del dovere dei cittadini di tollerare condotte lesive dei loro diritti fondamentali); 2) fermo restando che nella tradizione giuridica occidentale e nel linguaggio comune l'idea della “tolleranza” ha sempre significato qualcosa di molto diverso (la comprensione ed il rispetto di idee e comportamenti diversi dai propri per ragioni culturali, razziali, religiose e politiche; John Locke docet),dovrebbe essere indubbio come la decisione di subire le conseguenze pregiudizievoli di un illecito o di un inadempimento sia una libertà del cittadino, non già un suo dovere giuridico a favore di chi gli abbia arrecato danno; 3) nessuna norma di diritto positivo (senz'altro non l'art. 1218 o gli artt. 2043 e ss. c.c.) indica che, una volta accertata una r.c. e dimostrate le conseguenze dannose ascrivibili a questa, possano essere operati, peraltro discriminandosi tra soggetti gravati dell'obbligazione risarcitoria, sconti a favore dei convenuti in ragione dell'entità del danno o della gravità dell'offesa (fattori che semmai possono incrementare il quantum); 4) l'esclusione della risarcibilità dei pregiudizi non pecuniari “minori” è palesemente contraddetta dalla previsione del giudizio secondo equità (art. 113, comma 2, c.p.c.).

Infine, nel negare il fondamento costituzionale del principio dell'integralità del risarcimento dei diritti fondamentali la Consulta non ha ha considerato come nel campo dei danni alla persona e da uccisione tale caposaldo sia stato ribadito dalla Cassazione più recente, sovvenendo, per es., le sentenze intervenute in relazione all'art. 16 delle preleggi in merito al trattamento risarcitorio degli stranieri (Cass. civ., Sez. III, 4 aprile 2013, n. 8212; Cass. civ., Sez. III, 11 gennaio 2011, n. 450; Cass. civ. Sez. III, 24 febbraio 2010, n. 4484) e la pronuncia Cass. Civ., Sez. III, 22 agosto 2013 n. 19405, che, sempre nel segno di tale fondamento, ha ritenuto contrario all'ordine pubblico e da disapplicarsi il diritto straniero che pregiudichi la tutela risarcitoria integrali dei diritti recati dalla nostra Costituzione (art. 2 Cost. in primis).

Ciò ricordato, si può e si deve contestare l'effettiva fondatezza del principio dell'“equo contemperamento” così come affermato dalla Consulta del 2014, almeno per le seguenti ragioni:

  • la tesi, per cui un “equo contemperamento” fra gli interessi in gioco potrebbe autorizzare il legislatore a limitare l'integralità della tutela risarcitoria dei diritti fondamentali degli individui, si pone in netto contrasto con il fondamento costituzionale del principio del risarcimento integrale dei danni da violazioni di tali diritti, consacrato dalla Consulta a partire dalla pronuncia del 1986 e poi ribadito anche dalle SS.UU. 2008 e dalla giurisprudenza di legittimità successiva a queste;
  • non ha senso giuridico alcuno da un lato esaltare, ai fini della tutela risarcitoria, l'inviolabilità di una serie (peraltro limitata) di diritti costituzionali e, dall'altro lato, asserire che il legislatore - a suo totale arbitrio attribuendo rilievo agli interessi economici di coloro che hanno violato il diritto o che sono, comunque, tenuti a farsi carico dell'obbligazione risarcitoria - possa depotenziare, peraltro con autentiche discriminazioni fra vittime, la tutela concreta degli stessi; come si insegna da diversi secoli, l'entità della tutela dei diritti è strettamente connessa alla portata dei rimedi in concreto concessi ai danneggiati, sicché le limitazioni poste a alla tutela risarcitoria si risolvono inevitabilmente in un ridimensionamento dei primi (tutela risarcitoria depotenziata à depotenziamento dei diritti protetti);
  • il richiamo all' “equilibrato contemperamento” non già tra diritti di pari livello, bensì tra diritti fondamentali e meri interessi economici non può trovare alcuna condivisione; infatti, è sin troppo evidente che altrimenti si opererebbe un bilanciamento fra due parametri tra loro incomparabili, da un lato il diritto “costituzionalizzato” della vittima ad una piena tutela rimediale dei suoi diritti inviolabili e dall'altro lato l'interesse, recato dal soggetto responsabile di una siffatta violazione (e del suo assicuratore), a pagare di meno rispetto ad un risarcimento integrale (N.B.: è questo, in definitiva, l'interesse che viene ad essere tutelato nella prospettiva della Consulta); a seguire la logica dell'“equo contemperamento” si finirebbe con il bilanciare la tutela di un diritto fondamentale con un interesse (non già un diritto!) divenuto attuale in ragione dell'illecita violazione del diritto “inviolabile” della vittima, il che stride contro ogni logica (non solo giuridica).

Magistrati ed interpreti hanno abbattuto immense foreste per affermare che la violazione dei diritti inviolabili deve dare luogo ad un risarcimento integrale, sicché non si vede proprio su quali basi si dovrebbe ora accettare che siffatta tutela sia in realtà una sorta di “scatola vuota”, che il legislatore ordinario può scegliere di riempire o svuotare per compiacere gli interessi economici dei soggetti obbligati ai risarcimenti.

Insomma, il legislatore, ogniqualvolta restringe i margini della tutela risarcitoria dei danneggiati da lesioni della salute, incorre nella violazione degli artt. 2 e 32 Cost.

Con ciò non si intende sostenere che al legislatore ordinario sia preclusa l'introduzione di parametri monetari di riferimento per la liquidazione dei danni ciò per dare concreta attuazione all'obiettivo sancito dall'art. 3 Cost. (evitare disparità di trattamento). Nondimeno, questo potere del legislatore è lungi dall'essere illimitato: esso incontra paletti ben precisi, da ravvisarsi non già in contingenti ragioni di opportunità economica (peraltro, del tutto opinabili), bensì nel fondamento costituzionale del risarcimento integrale dei danni da violazione di diritti fondamentali della persona.

Infatti, tanto l'art. 3 Cost. legittima tale potere legislativo quanto lo limita in ragione della particolare tutela costituzionale accordata ai diritti fondamentali che il legislatore intende disciplinare.

In particolare, si hanno i seguenti limiti:

  • divieto di discriminazione fra soggetti che presentino medesime situazioni lesive (principio del parametro uniforme di base valido, senza trattamenti differenziati, per tutte le vittime, a prescindere dal tipo di evento lesivo);
  • divieto di un trattamento uguale di situazioni diverse (di cui è diretto corollario il principio della incomprimibile personalizzazione del danno: soltanto attraverso la piena attuazione di questo principio è possibile distinguere fra situazioni differenti, con conseguente illegittimità della fissazione di soglie invalicabili per la personalizzazione).

Ciò posto, la Consulta 2014 si richiama al criterio della “ragionevolezza del bilanciamento”, sennonché:

  • il ricorso a questo criterio può avere senso soltanto allorquando si tratti di contemperare fra loro valori giuridicamente equiparabili (per es., gli interessi contrapposti di due parti contrattuali o quelli dei soci di un'impresa), non già diritti fondamentali ed interessi economici;
  • ad ogni modo, la giurisprudenza costituzionale ci insegna come il giudizio di ragionevolezza sia da ancorarsi al principio di uguaglianza e, dunque, all'art. 3 Cost., imponendo che si proceda a verificare se le differenziazioni introdotte in sede di disciplina legislativa siano compatibili con tale principio, se cioè il legislatore abbia trattato in modo diseguale soggetti (e/o fattispecie) uguali o in modo uguale casi diversi;
  • una legge può essere considerata “ragionevole” e, quindi, legittima soltanto qualora scongiuri discriminazioni od introduca disparità di trattamento che siano adeguatamente motivate alla luce dei valori in gioco, valori che comunque, nel caso della tutela risarcitoria dei danneggiati da sinistri stradali, annoverano, da un lato, al primo posto ed in posizione gerarchicamente/costituzionalmente superiore i diritti fondamentali ed inviolabili all'integrità psicofisica ed alla dignità umana e, dall'altro lato, in posizione subordinata meri interessi economici di soggetti assoggettati ad un'obbligazione risarcitoria sorgente da fatto illecito).

Ciò chiarito ed anche a voler attribuire un qualche (residuale) margine salvifico di operatività al criterio del “ragionevole contemperamento” (nonostante venga in rilievo la tutela rimediale di diritti fondamentali), in ogni caso nella giurisprudenza costituzionale si trae piena conferma dell'impossibilità, ex art. 3 Cost., per il legislatore ordinario di discriminare, a seconda dei fatti causativi di danno, tra persone lese nel medesimo bene adducendo a giustificazione delle disparità di trattamento particolari situazioni contingenti o determinate ragioni d'opportunità economica.

Già C. Cost., 29 marzo 1960, n. 15 segnalò come la sua giurisprudenza fosse ormai «costante nel senso che il principio di eguaglianza è violato anche quando la legge, senza un ragionevole motivo, faccia un trattamento diverso ai cittadini che si trovino in eguali situazioni».

Successivamente per C. Cost., 3 novembre 1988, n. 1009 «il principio di cui all'art. 3 Cost. è violato non solo quando i trattamenti messi a confronto sono formalmente contraddittori in ragione dell'identità delle fattispecie, ma anche quando la differenza di trattamento è irrazionale secondo le regole del discorso pratico, in quanto le rispettive fattispecie, pur diverse, sono ragionevolmente analoghe».

In breve, razionalità ed eguaglianza costituiscono da tempo un tutt'uno, sintetizzato nel «principio generale di ragionevolezza e di eguaglianza» (C.Cost., 9 luglio 2009, n. 206).

In C. Cost., 28 marzo 1996, n. 89 troviamo poi i seguenti principi:

  • «L'eguaglianza davanti alla legge… non determina affatto l'obbligo di rendere immutabilmente omologhi fra loro fatti o rapporti che, sul piano fenomenico, ammettono una gamma di variabili …, ma individua il rapporto che deve funzionalmente correlare la positiva disciplina di quei fatti o rapporti al paradigma dell'armonico trattamento che ai destinatari di tale disciplina deve essere riservato, così da scongiurare l'intrusione di elementi normativi arbitrariamente discriminatori»;
  • «Il giudizio di eguaglianza… è in sé un giudizio di ragionevolezza, vale a dire un apprezzamento di conformità tra la regola introdotta e la “causa” normativa che la deve assistere: ove la disciplina positiva si discosti dalla funzione che la stessa è chiamata a svolgere nel sistema e ometta, quindi, di operare il doveroso bilanciamento dei valori che in concreto risultano coinvolti, sarà la stessa “ragione” della norma a venir meno, introducendo una selezione di regime giuridico priva di causa giustificativa e, dunque, fondata su scelte arbitrarie che ineluttabilmente perturbano il canone dell'eguaglianza. Ogni tessuto normativo presenta, quindi, e deve anzi presentare, una “motivazione” obiettivata nel sistema, che si manifesta come entità tipizzante del tutto avulsa dai “motivi”, storicamente contingenti, che possono avere indotto il legislatore a formulare una specifica opzione: se dall'analisi di tale motivazione scaturirà la verifica di una carenza di “causa” o “ragione” della disciplina introdotta, allora e soltanto allora potrà dirsi realizzato un vizio di legittimità costituzionale della norma, proprio perché fondato sulla “irragionevole” e per ciò stesso arbitraria scelta di introdurre un regime che necessariamente finisce per omologare fra loro situazioni diverse o, al contrario, per differenziare il trattamento di situazioni analoghe».

C. Cost., 12 gennaio 2000, n. 5 (cfr., anche, C.Cost., 7 luglio 2005, n. 264) ha continuato a specificare che, «trattandosi di stabilire se [una] disposizione sia tale da determinare la irragionevole equiparazione di situazioni non tutte meritevoli di eguale tutela, il giudizio richiesto alla Corte si incentra … sul “perché” una determinata disciplina operi, all'interno del tessuto egualitario dell'ordinamento, quella specifica equiparazione (oppure, a seconda dei casi, quella specifica distinzione), traendone, quindi, le debite conclusioni in punto di corretto uso del potere normativo. Solo nel caso in cui una siffatta verifica dovesse evidenziare una carenza di causa o ragione della disciplina introdotta potrà dirsi realizzato un vizio di legittimità costituzionale della norma, proprio perché fondato sulla irragionevole omologazione di situazioni diverse».

Orbene, posto che, per quanto qui di interesse, tali indicazioni sono necessariamente da coordinarsi con il fondamento costituzionale della tutela risarcitoria integrale dei diritti fondamentali della salute e della dignità umana (il controllo di costituzionalità condotto secondo il criterio della ragionevolezza deve, comunque, saldarsi al «generale principio di conservazione dei valori giuridici», C. Cost., 28 marzo 1996, n. 89), la Consulta del 2014 - prima di affermare la legittimità dell'art. 139 Cod. Ass. in base alla “ragionevolezza” del bilanciamento (in radice impraticabile!) tra diritto all'integrale risarcimento dei danneggiati da sinistri stradali ed il «valore dell'iniziativa economica privata» delle imprese assicuratrici - avrebbe dovuto verificare attentamente la sussistenza, a copertura di tale norma e della discriminazione da essa introdotta, di una motivazione obiettivata nell'ordinamento, tale da costituire un'entità tipizzante del tutto avulsa dai motivi, storicamente contingenti, che indussero il legislatore del 2001 ad optare, ad esclusivo discapito delle specifiche vittime qui in questione, per il netto ridimensionamento del quantum del danno biologico e dell'introduzione del “cap” alla personalizzazione di questo danno.

Invece, la Consulta - (N.B.) senza andare alla ricerca in seno alla ratio legis dell'art. 5 della l. n. 57/2001 (confluito poi nell'art. 139Cod. Ass.) di una motivazione obiettivata nel sistema (sganciata dai motivi contingenti del mercato assicurativo) - ha giustificato la disparità di trattamento, offrendo essa stessa una sua personale motivazione (rectius, opinione) della legge scrutinata.

Questa singolare operazione condotta dalla Consulta ci pone, pertanto, dinanzi ad un giudizio di costituzionalità doppiamente fallace: 1) viziato in quanto si sono contemperati fra loro diritti fondamentali ed interessi economici; 2)scorretto in quanto all'arbitrio del legislatore si è sommato quello della Consulta, che ha fornito una sua personalissima (e fallace) opinione sulle dinamiche del mercato assicurativo r.c.a.

Ciò posto, per quanto possa risultare un'affermazione estrema, ci troviamo allora ad esaminare una sentenza “incostituzionale”, in quanto fuori dai canoni del giudizio di costituzionalità.

Fatte queste premesse, se la Consulta si fosse data la pena di indagare seriamente, come suo sicuro dovere, sulle motivazioni addotte dal legislatore per l'introduzione della disciplina settoriale (leggasi discriminatoria) del danno biologico da sinistri stradali, avrebbe potuto realizzare quanto segue:

  • all'origine dell'art. 139 Cod. Ass. si pose l'art. 3 del d.l. n. 70/2000, che - «ritenuta la necessità e l'urgenza di contenere le spinte inflattive derivanti dall'andamento dei prezzi internazionali del petrolio; di tenere sotto costante osservazione la lievitazione dei costi dei premi delle polizze per l'assicurazione obbligatoria della responsabilità civile derivante dalla circolazione dei veicoli a motore e dei natanti; di disciplinare il risarcimento del danno alla persona per le lesioni di lieve entità; di ovviare ad altri fattori che comunque incidano sullo stesso fenomeno inflattivo» - introdusse, senza discriminare tra vittime a seconda della causa delle lesioni, una disciplina ad hoc per il risarcimento dei danni alla persona di lieve entità, ciò (N.B.) «in attesa della riforma della disciplina relativa al danno biologico»;
  • il d.l. non fu poi convertito a fronte delle critiche pervenute avverso tale primo tentativo di disciplinare al ribasso il danno biologico; nonostante ciò, il Governo presentò il progetto di legge A.C. 6994/2000 («Misure in tema di risarcimento del danno alla persona per le lesioni di lieve entità e di attività assicurativa»), che ricalcava l'art. 3 del d.l. n. 70/2000, nuovamente senza, però, discriminare fra vittime;
  • la discussione su tale progetto non venne mai avviata in seno alla Commissione Giustizia, poiché (luglio 2000) a sorpresa il Governo propose un emendamento all'art. 5 del progetto di legge A.C. 7115 («Disposizioni in materia di apertura e regolazione dei mercati»), già approvato al Senato (disegno di legge n. 4339-A), collegato alla finanziaria; tale emendamento, diversamente dal progetto di legge A.C. 6994/2000, si distingueva per la previsione della sua applicabilità ai soli incidenti stradali, senza che, però, fossero indicate motivazioni per tale discriminazione;
  • per sostenere tale iniziativa il Ministero dell'Industria (Enrico Letta) promosse una serie di incontri con ISVAP, ANIA e varie associazioni di settore (il c.d. «Tavolo di concertazione sull'assicurazione rc auto»), escludendo, però, per sua espressa volontà la partecipazione di ANM e OUA, che pure avevano richiesto di sedere al tavolo; in uno di questi incontri “selezionati” l'Associazione Melchiorre Gioia presentò al Ministero un documento, in cui sottolineava l'inopportunità di una riforma settoriale finalizzata a disciplinare esclusivamente una fascia di invalidità e con solo riguardo alla r.c.a.; tale suggerimento fu ignorato, e Governo, ANIA, ISVAP e diverse associazioni dei consumatori siglarono il 25 ottobre 2000 il Protocollo di Intesa sulla RCA, in cui si conveniva sull'esigenza della rapida approvazione del progetto di legge A.C. 7115 per le «positive conseguenze … sul piano della equità risarcitoria e di abbattimento dell'elevato contenzioso giudiziario», precisandosi, però, come questo fosse soltanto «un primo ed importante passo per la regolamentazione del danno biologico che, comunque, va affrontata nella sua interezza per una disciplina organica dell'intera materia» (a tale fine le parti concordarono «sulla costituzione di un gruppo ad hoc costituito da esperti in materia di danno alla salute»);
  • fu sulla base di tali motivazioni, che fu approvata la l. n. 57/2001, che, occupandosi un po' di tutto, perseguiva il sin troppo generico scopo di inserire nell'ordinamento delle «Disposizioni in materia di apertura e regolazione dei mercati»; come espressamente sancito dall'art. 5, co. 2, l. n. 57/2001 la disciplina settoriale per la r.c.a. e, quindi, le prime discriminazioni dei danneggiati da incidenti stradali furono introdotte, conformemente al Protocollo di Intesa sulla RCA, soltanto a livello sperimentale, «In attesa di una disciplina organica sul danno biologico il risarcimento dei danni alla persona di lieve entità»;
  • la limitazione di un quinto alla personalizzazione del danno biologico venne inserita in seno all'art. 5 della legge n. 57/2001 (che continuava a recare una “disciplina di passaggio”) dall'art. 23, comma 3, della legge 12 dicembre 2002, n. 273, recante una serie di disposizioni per i settori più disparati «per favorire l'iniziativa privata e lo sviluppo della concorrenza»;
  • nel 2005 la disciplina settoriale per il danno biologico da lieve entità da sinistri stradali, di cui all'art. 5 della legge n. 57/2001, così come modificata dalla l. n. 273/2002, approdò, infine, in seno all'art. 139 Cod. Ass., soltanto in tale occasione perdendosi magicamente per strada il rinvio alla promessa disciplina organica, al riguardo senza alcuna spiegazione al riguardo.

Ora, tale ricostruzione del percorso legislativo evidenzia come la norma, approdata poi nell'art. 139 cod. ass., sia stata introdotta con la specifica (assurda) motivazione/promessa per cui essa sarebbe stata soltanto transitoria, in attesa di una normativa organica tale da riguardare tutti gli ambiti della responsabilità civile e, quindi, superare le discriminazioni.

Fermo restando che non pare proprio che una siffatta motivazione sia idonea a sorreggere discriminazioni tra cittadini quanto alla tutela risarcitoria di diritti fondamentali, è un fatto storico come tale motivazione/promessa sia stata poi definitivamente tradita dal legislatore con l'approdo all'art. 139 Cod. Ass., che per l'appunto cancellò la natura transitoria della norma iniziale.

Inoltre, dal Protocollo di intesa sulla RCA(2001) si ricava chiaramente come l'obiettivo di calmierare i premi delle polizze non fosse stato richiamato a giustificazione della predetta disciplina settoriale (motivata a fronte del duplice obiettivo di apportare una maggiore equità risarcitoria e diminuire i contenziosi in materia), bensì in relazione ad altre misure, tra le quali «polizze bonus-malus più franchigia» («Le parti, convengono che questa forma di polizza possa contribuire a ridurre i falsi sinistri e i costi assicurativi derivanti dalla cosiddetta microsinistrosità e conseguentemente condurre tendenzialmente a premi assicurativi più convenienti»).

Peraltro, tale ultimo passaggio dimostra come il ridimensionamento dei diritti dei danneggiati da sinistri stradali non costituisca l'unica soluzione per calmierare i premi delle polizze, posto che in effetti ricorra una stretta correlazione tra risarcimenti e premi.

La Consulta del 2014 avrebbe dovuto considerare tutti questi dati storici per stabilire quale specifica motivazione avesse addotto il legislatore nell'introdurre la disciplina settoriale/discriminatoria sul danno biologico da r.c.a. e se sussistesse una «motivazione obiettivata nel sistema»: semplicemente non lo ha fatto, così incorrendo in un giudizio di costituzionalità gravemente affetto nei suoi stessi presupposti (omessa verifica delle motivazioni obiettive della legge scrutinata).

La Consulta, invece, ha individuato da sé la seguente sua giustificazione per l'art. 139 Cod. Ass.: 1)i fini solidaristici perseguiti dalle assicurazioni (in realtà una falsa prospettiva, poiché le compagnie assicuratrici sostengono il Fondo di garanzia attraverso i premi riscossi; semmai sono gli assicurati a farsi carico del ruolo solidaristico del Fondo!); 2) la tutela dell'interesse degli assicurati ad avere un livello accettabile dei premi (invero, l'interesse delle assicurazioni a risarcire di meno, incrementare i propri profitti e, poi, a loro piacimento eventualmente abbassare i premi).

Posto che per questa via la Corte ha tradito l'essenza stessa del giudizio di costituzionalità e che si può senz'altro concordare con quanto evidenziato da uno dei giudici rimettenti (G.d.P. Torino: non è «ragionevole sostenere che l'interesse all'esercizio dell'attività assicurativa possa essere ritenuto preminente su quello all'integrale risarcimento del danno alla persona»), le predette “motivazioni” (rectius opinioni) della Consulta non solo riguardano fenomeni economici del tutto contingenti (quelli caratterizzanti il mercato assicurativo della r.c.a.), ma, altresì, si fondano su una lettura distorta del ruolo delle assicurazioni così come delle interazioni tra il mercato assicurativo ed il risarcimento dei danni.

Infatti, tra l'altro:

  • le assicurazioni non sono in alcun modo obbligate ad esercitare la propria attività nel ramo r.c.a.; quella di farsi carico di tali danni è, invero, una loro libera scelta di mercato, operata con piena conoscenza della situazione italiana (soprattutto dei malvezzi che contraddistinguono talune aree geografiche del Paese, in larga parte prevenibili ed arginabili dalle medesime); se le compagnie continuano ad impegnarsi nel settore r.c.a. è per loro convenienza economica, non per spirito caritatevole o per un sentito ruolo sociale; peraltro, l'obbligo per i cittadini di assicurarsi per la r.c.a. costituisce per le assicurazioni (ed ora anche per le banche!) un fondamentale indotto per la vendita di altri prodotti che altrimenti non avrebbero;
  • è dimostrato (si pensi all'indagine conoscitiva avviata dall'Autorità garante della concorrenza il 6 maggio 2010) che l'art. 5 della l. n. 57/2001 ed il successivo art. 139 Cod. Ass., pur avendo ridimensionato il risarcimento delle micropermanenti, non hanno comportato il contenimento dei premi, dal 2001 in costante aumento; nessun dato indica che l'introduzione di limiti al risarcimento dei danni abbia costituito un efficace sistema per stabilizzare il mercato assicurativo; anzi, dovrebbe risultare evidente come costituisca un'autentica “bufala” la tesi per cui tra quantum dei danni e contenimento/incremento dei premi ricorra uno stretto legame; la verità è che la prospettiva di aumenti dei premi delle polizze è strumentalmente utilizzata dalle compagnie quale autentica minaccia rivolta al legislatore ed alle corti per conseguire ulteriori risparmi e profitti;
  • tutto ciò è confermato anche altrove (cfr. W. Angelly, Dealing with low ceilings, April 2012, Volume 48, No. 4: «damages caps have failed to produce the benefits that tort “reform” proponents promised; the only beneficiaries of these caps appear to be insurance companies, whose profits have increased significantly in states with caps»); per l'Avvocato Generale Jääskinen della Corte di Giustizia UE, in Haasová (Corte Giust. UE, Sez. II, 24 ottobre 2013, C 22/12) e in Drozdovs (Corte Giust. UE, Sez. II, 24 ottobre 2013, C-277/12), «la prassi dimostra che una concezione ampia dell'ambito di intervento dell'assicurazione obbligatoria della responsabilità civile non ha necessariamente ripercussioni significative pari a quelle previste sul livello dei premi assicurativi […]. Infatti, in Bulgaria, la recente modifica della legge relativa agli importi coperti dalla suddetta assicurazione, che include il risarcimento del danno morale, non ha avuto alcun impatto significativo sui relativi premi. Parimenti, in Svezia, secondo i lavori preparatori che hanno portato a introdurre nella legislazione il diritto al risarcimento per danni alle persone in caso di decesso di un congiunto in un incidente stradale, tale riforma dovrebbe avere solo effetti marginali sulle spese delle compagnie di assicurazione e, pertanto, sui premi assicurativi, i quali dovrebbero aumentare solo dell'1/1,5%, o anche in misura inferiore»;
  • le “difficoltà”, che starebbero affrontando talune note compagnie assicuratrici, oltre ad essere smentite dai bilanci positivi nel ramo auto, denotano come semmai i premi abbiano continuato a salire per far fronte a fenomeni indipendenti dai livelli risarcitori, quali i buchi prodottisi in queste società a causa di investimenti arditi in campo finanziario, vicissitudini societarie singolari, strane fusioni; mettiamola così: prima di asserire la stretta connessione tra risarcimenti ed incrementi dei premi sarebbe opportuna qualche ulteriore verifica, comunque una maggior cautela.

Insomma, che le risorse delle assicurazioni non siano infinite è del tutto lapalissiano, ma che queste possano risultare seriamente minacciate dalla illegittimità della soglia massima fissata dall'art. 139 Cod. Ass. per restringere la personalizzazione dei risarcimenti costituisce davvero una rappresentazione infondata.

In sintesi, anche a voler ritenere astrattamente comparabili diritti fondamentali dei danneggiati ed interessi economici delle assicurazioni, chiara è l'impossibilità di ravvisare una motivazione obiettiva nell'art. 139 Cod. Ass.idonea a giustificare, senza incorrersi in arbitrarie ed infondate valutazioni, il trattamento discriminatorio riservato ai danneggiati da sinistri stradali con lesioni di lieve entità.

Aggiungasi che, se si dovesse sul serio attribuire rilievo ai fattori considerati dalla pronuncia in disamina (N.B.: nel 1985 la Consulta non lo fece con riferimento alla sfera di iniziativa economica dei vettori aerei, pur in tutta evidenza socialmente rilevante), allora per ogni settore della r.c. andrebbero confezionate discipline speciali economicamente calibrate e, quindi, tutte diverse fra loro; per es., per diminuire i premi assicurativi e gli obblighi risarcitori gravanti sui datori di lavoro (che, del resto, oltre pagare ingenti premi all'INAIL ed alle assicurazioni, perseguono, con ingenti sacrifici, l'apprezzabile fine sociale di sviluppare l'economia del Paese e di attribuire fonti di sostentamento per i cittadini), s'imporrebbero drastiche riduzioni dei risarcimenti; parimenti a favore di ogni esercente un'attività destinata ad assolvere interessi pubblici (sanità, istruzione, viabilità, trasporto, ecc.) sarebbe necessario predisporre regole a loro volta settoriali per limitare i rispettivi carichi risarcitori ed i costi assicurativi; per quali motivi solo le assicurazioni per la r.c.a. ed i loro assicurati dovrebbero godere di sconti sull'obbligazione risarcitoria?

Il beffardo richiamo alla personalizzazione del danno biologico: la rilevante incidenza esistenziale e morale di una serie di menomazioni di “lieve” entità

La Consulta ha poi voluto rimarcare come le restrizioni comportate dall'art. 139 Cod. Ass. permetterebbero, comunque, al giudice di personalizzare il danno (biologico + morale!): «l'introdotto meccanismo standard di quantificazione del danno − attinente al solo specifico e limitato settore delle lesioni di lieve entità e coerentemente riferito alle conseguenze pregiudizievoli registrate dalla scienza medica in relazione ai primi (nove) gradi della tabella – lascia, comunque, spazio al giudice per personalizzare l'importo risarcitorio, risultante dalla applicazione delle suddette predisposte tabelle, eventualmente maggiorandolo fino ad un quinto, in considerazione delle condizioni soggettive del danneggiato».

Tale affermazione lascia del tutto stupefatti: infatti, entro tale limite la Consulta ha incluso anche la liquidazione dei pregiudizi morali e, ad ogni modo, è un fatto che il “cap” di un quinto dei parametri tabellari sia del tutto inadeguato a garantire un risarcimento integrale dei pregiudizi non patrimoniali in tutta una serie di casi sì particolari, ma, comunque, reali e lungi dall'essere infrequenti.

Soprattutto, la Consulta non ha afferrato come nella fascia delle lesioni tra l'1% ed il 9% rientrino una serie di menomazioni tali da poter incidere seriamente e permanentemente sulla vita delle persone.

Si pensi, per es., alle seguenti menomazioni individuate dalla Tabella delle menomazioni alla integrità psicofisica comprese tra 1 e 9 punti di invalidità (d.m. 3 luglio 2003): lesioni oculari con visus residuo 5/10; riduzione dell'olfatto fino alla perdita totale; riduzione isolata del gusto fino alla perdita totale; escursione articolare della scapolo-omerale limitata globalmente di 1/3; perdita del medio; perdita dell'anulare; limitazione di 1/4 dei movimenti dell'anca; perdita dell'alluce; perdita di un testicolo in età post-puberale; perdita anatomica e/o funzionale di un ovaio in età fertile.

L'errato richiamo alla sentenza della Corte di Giustizia

Ad ulteriore supporto la Consulta ha rilevato come la Corte di giustizia (Corte di giustizia 23 gennaio 2014, C-371/12) abbia «escluso la prospettata incompatibilità dell'art. 139 Cod. Ass. con le direttive europee».

Anche sul punto la Consulta ha fornito un'errata rappresentazione della fonte citata.

Infatti, come dimostratosi (M. Bona, Sinistri stradali, azione diretta e tutela risarcitoria: progressi e arresti nelle ultime pronunce della Corte di Giustizia, in Responsabilità civile e previdenza 2014 n. 2, 452-489), la Corte di Giustizia ha considerato l'art. 139 Cod. Ass. soltanto nella ristretta prospettiva della legislazione UE, sancendo che, stanti i limiti di quest'ultima, il diritto UE non può interferire, se non entro termini «minimi», con le scelte operate dagli Stati membri quanto alle modalità di liquidazione dei danni.

In particolare, la Corte UE ha ricordato i seguenti principi già assodati nella sua giurisprudenza:

  • le norme comunitarie sull'assicurazione obbligatoria per la r.c.a. impongono «agli Stati membri di garantire che la responsabilità civile risultante dalla circolazione degli autoveicoli che stazionano abitualmente sul loro territorio sia coperta da un'assicurazione»;
  • tuttavia, «l'obbligo di copertura, mediante assicurazione della responsabilità civile, dei danni causati ai terzi dagli autoveicoli si distingue dalla questione dell'entità del risarcimento di detti danni a titolo di responsabilità civile dell'assicurato»: «mentre il primo è definito e garantito dalla normativa dell'Unione, la seconda è sostanzialmente disciplinata dal diritto nazionale»;
  • il diritto UE, dunque, si limita a garantire la copertura dell'assicurazione obbligatoria, ma le direttive in questione «non mirano ad armonizzare i regimi di responsabilità civile degli Stati membri», i quali, «allo stato attuale del diritto dell'Unione», «restano liberi di stabilire il regime di responsabilità civile applicabile ai sinistri derivanti dalla circolazione dei veicoli»;
  • in pratica, «allo stato attuale del diritto dell'Unione, gli Stati membri restano in linea di principio liberi di determinare, nell'ambito dei loro regimi di responsabilità civile, in particolare, quali danni causati dai veicoli devono essere risarciti, l'entità del risarcimento degli stessi e le persone aventi diritto a detto risarcimento».

Quindi, la Corte di Giustizia ha formulato un giudizio di conformità alla normativa comunitaria senza esprimere alcuna opinione positiva sul merito dell'art. 139 Cod. Ass., semplicemente ribadendo come la questione della liquidazione dei danni sia rimessa agli ordinamenti nazionali.

Chiarissimo sul punto era stato anche l'Avvocato Generale Wahl nelle sue conclusioni condivise dalla Corte: «Il giudice del rinvio [Trib. Tivoli] critica il fatto che tali parametri [cioè i criteri di cui all'art. 139 Cod. Ass.] sono diversi da quelli sviluppati nella giurisprudenza dei giudici italiani per i casi di responsabilità extracontrattuale che non riguardano sinistri della circolazione automobilistica. Tuttavia, questa è tutt'al più una questione che deve essere esaminata secondo il diritto nazionale, tenendo conto, ad esempio, del principio di uguaglianza» (N.B.: significativo è il richiamo da parte dell'Avvocato Generale al principio di uguaglianza).

In definitiva, la Consulta del 2014 non poteva ritenere decisiva od anche solo d'ausilio la conclusione raggiunta dalla Corte UE.

Peraltro,la pronuncia della Corte UE presenta alcuni punti deboli anche alla luce dello stesso diritto UE (cfr. M. Bona, op. cit., 481-483):

  • colpisce l'assenza di qualsiasi ragionamento circa il raccordo tra la tutela risarcitoria delle vittime di sinistri stradali e la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea; la Corte UE - dimentica del processo di costituzionalizzazione del diritto privato UE e del suo stesso invito ai giudizi nazionali a raccordare le legislazioni interne ai diritti recati dalla Carta (cfr. Åklagaren c. Åkerberg Fransson, Corte di Giustizia UE, Grande Sez., 26 febbraio 2013, causa C-617/10) - ha omesso di affrontare la tutela risarcitoria dei danneggiati da sinistri stradali, garantita dalle predette direttive, alla luce della protezione accordata dall'art. 3 («Diritto all'integrità della persona»), comma 1 («Ogni individuo ha diritto alla propria integrità fisica e psichica»); peraltro, muovendo da tale raccordo ed in considerazione di quanto sancito dalla Carta all'art. 20 («Uguaglianza davanti alla legge»: «Tutte le persone sono uguali davanti alla legge»), la Corte avrebbe potuto e dovuto dubitare della legittimità della scelta del legislatore italiano di discriminare tra vittime di sinistri stradali e danneggiati da altri eventi lesivi;
  • la Corte UE ha omesso di considerare il principio del risarcimento integrale del danno, eppure affermato in Marshall c. Southampton and South-West Hampshire Area Health Authority (No.2) (Corte Giustizia CE, 2 agosto 1993, causa C-271/91), ove aveva statuito che, «qualora … il provvedimento prescelto … [dal legislatore comunitario per la tutela di un diritto] sia il risarcimento in denaro, quest'ultimo dev'essere integrale e non può essere limitato a priori quanto al suo ammontare»; anche le direttive sull'assicurazione per la r.c.a. contemplano a tutela delle vittime un «risarcimento in denaro», sicché non si comprende il perché dell'assenza di un richiamo a tale principio, del resto da tempo evocato non solo nei vari ordinamenti nazionali,ma anche dai protagonisti dell'armonizzazione.

A quest'ultimo riguardo può ricordarsi quanto segue:

  • che questo principio sia oggi declamato pressoché ovunque in Europa è testimoniato dalle ricerche comparatistiche, che confermano come vi sia un comune modo d'intendere la restitutio in integrum, concepita quale forma di riparazione tale da consentire un risarcimento personalizzato (rende questa idea la doctrine tedesca della subjektbezogene Schadensbetrachtung);
  • il Comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa, in seno alla Risoluzione n. 7-75 del 14 marzo 1975, collocò l'«idée de la réparation intégrale» tra i principi fondamentali intorno ai quali fare evolvere il processo di armonizzazione; il principio, con riferimento ai danni contrattuali, è affermato anche dall'UNIDROIT: art. 7.4.2 («Full compensation»), Principles of International Commercial Contracts;
  • il concetto della restitutio in integrum permea anche diversi precedenti CEDU: per es., la sentenza Barberà, Messegué e Jabardo c. Spagna (CEDU, 13 giugno 1994, para 16), intervenuta con riferimento ai danni da ingiusta detenzione, afferma come «equa soddisfazione» («just satisfaction») significhi, secondo il modello tradizionale della giustizia correttiva, «restitutio in integrum or complete reparation» dei pregiudizi.

La non vincolatività della sentenza

Dagli interpreti filo-assicurativi si assisterà al leitmotiv per cui, trattandosi di una sentenza della Consulta, essa va osannata e presa come oro colato quale precedente vincolante ed insuperabile, ciò a prescindere dai suoi innumerevoli vizi.

Questo leitmotiv sarà da considerarsi del tutto infondato per un motivo lapalissiano: siamo dinanzi ad una mera sentenza di rigetto (infatti, essa, in sede di dispositivo, si è limitata a dichiarare «non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 139 del decreto legislativo 7 settembre 2005, n. 209»), peraltro recante motivazioni lungi dall'essere persuasive, anzi in contrasto con i canoni del giudizio costituzionale.

In particolare, questo particolare tipo di sentenze della Corte non reca «alcuna certificazione dello status di conformità della legge alla Costituzione» e, quindi, «non impedisce che la stessa questione venga in futuro risollevata»; infatti, «le decisioni di rigetto sono prive di incidenza nel sistema delle fonti del diritto e sulla loro vigenza», sicché «una legge, già passata indenne al vaglio della Corte, è res integra, pronta a un vaglio successivo» (così, ancora da ultimo, G. Zagrebelsky e V. Marcenò, Giustizia costituzionale, Bologna, 2012, 343-344).

Del resto, anche in relazione alle sentenze interpretative di rigetto (con le quali la Corte in dispositivo non solo dichiara infondata la questione, ma altresì confeziona una precisa interpretazione, il che non è avvenuto nella sentenza in commento), si è affermato il seguente principio: «Le decisioni interpretative di rigetto della Corte costituzionale non hanno efficacia erga omnes …, e pertanto determinano solo un vincolo negativo per il giudice del procedimento in cui è stata sollevata la relativa questione. In tutti gli altri casi il giudice conserva il potere-dovere di interpretare in piena autonomia le disposizioni di legge a norma dell'art. 101, comma 2, della Cost.» (Cass. pen., S.U., 31 marzo 2004, n. 23016).

Queste SS.UU. penali hanno, altresì, evidenziato che «all'interpretazione prescelta dalla Corte costituzionale può attribuirsi soltanto il valore proprio di un precedente autorevole, sempreché, ovviamente, questo sia sorretto da argomentazioni persuasive»; «qualora le premesse ermeneutiche della soluzione proclamata costituzionalmente … travalichino i limiti dell'interpretazione letterale-logico-sistematica, i giudici hanno il dovere di non attenersi a quella soluzione, per la decisiva ragione che, in caso contrario, disapplicherebbero una norma vigente e arrecherebbero un vulnus ai principi di legalità e di soggezione alla legge».

Peraltro, la storia del nostro sistema risarcitorio ci insegna le seguenti fondamentali lezioni:

  • la sentenza della Consulta in Sgrilli c. Colzi (C. Cost., 27 ottobre 1994, n. 372), che mirava a impedire qualsiasi ulteriore erosione del “vecchio” art. 2059 c.c. rispetto alla fuoriuscita del danno biologico dalle grinfie di tale norma e, quindi, andava contro la pronuncia C. Cost., 14 luglio 1986, n. 184 (violazione di diritti fondamentali à diritto ad una tutela risarcitoria integrale non comprimibile dal legislatore ordinario), venne subito dopo gettata alle ortiche;
    • sulla questione biologico/morale la Cassazione è tornata indietro rispetto alle SS.UU. 2008, eppure da taluni ossequiate alla stregua di precedenti imperituri.

Tali casi ci dimostrano che alla fine una sentenza in materia di r.c. vale e si impone per i seguenti pregi (del tutto assenti in seno alla pronuncia in commento):

  • una ratio motivata secondo canoni interpretativi applicati correttamente ed in conformità con la “costituzionalizzazione” del principio della tutela risarcitoria integrale dei danni da violazione di diritti fondamentali;
  • un minimo di rispetto per l'intelligenza ed il buon senso dei magistrati: precludere ad un giudice di personalizzare un danno dinanzi a circostanze particolari significa offendere le sue capacità di discernimento, oltre che imporgli di violare l'art. 3 Cost., il che non può che condurre ad una sua strenua resistenza (laddove, chiaramente non sia condizionato dalle logiche filo-assicurative).

Con quale obiettivo andrebbe sin da subito superata la pronuncia in commento, anche con nuove rimessioni alla Consulta?

Si tratta di approdare al seguente risultato: il legislatore ordinario può sì dettare parametri monetari indicativi di massima per la liquidazione del danno biologico “standard” (parametri che siano in linea con il “diritto vivente”), ma non può limitare la discrezionalità del magistrato di adattarli ai casi concreti dinanzi alla prova di peculiari circostanze pregiudizievoli.

Non pare che questa soluzione sia irragionevole oppure tale da ridurre in miseria le compagnie assicuratrici.

Ad ogni modo, nell'attesa di una nuova e più avveduta risposta da parte della Consulta, giudici e corti possono dare luogo alla corretta liquidazione del danno morale fuori dal “cap” del 20%: infatti, come sopra rilevato [cfr. Biologico “mangia” morale (ma dove sta la motivazione?): una pronuncia contra legem] in nessun modo e per nessuna ragione è possibile ritenere il danno morale assoggettato alla disciplina di cui all'art. 139 Cod. Ass.

Anzi, la liquidazione del danno morale sganciata dal danno biologico (ferma restando l'unitarietà del danno non patrimoniale) potrà in molti casi rendere del tutto superfluo un nuovo rinvio dell'art. 139 Cod. Ass. alla Consulta.

E se citassimo in giudizio solo i conducenti?

Logicamente un pronto superamento della sentenza C. Cost. n. 235/2014 scongiurerebbe iniziative di questo tipo, che, però, servirebbero a dimostrare i seguenti inconfutabili dati:

  • un conducente riconosciuto colpevole ex art. 2054 c.c. non può fondatamente vantare alcun diritto a pagare un risarcimento inferiore a quello cui sarebbe tenuto, per le medesime lesioni, qualsiasi altro responsabile civile in altri ambiti della r.c.; una diversa soluzione sarebbe palesemente incostituzionale, discriminando tra responsabili civili così come tra vittime;
  • l'assicurazione per la r.c.a., chiamata da tale conducente a manlevarlo, non potrebbe validamente contrapporre a questo, innanzitutto alla luce del diritto UE, una minore portata della sua obbligazione rispetto a quella gravante sul suo assicurato, essendo tenuta a garantirlo nei limiti dei massimali di legge o di polizza (senz'altro di gran lunga superiori a qualsiasi risarcimento personalizzato per una lesione di lieve entità).

È senz'altro auspicabile che la giurisprudenza di merito e quella di legittimità non costringano i danneggiati a percorrere questa strada, ma, come si suole dire, “a mali estremi, estremi rimedi”.

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