La dialettica processuale, le frasi ingiuriose ed i destinatari della condanna per uso di linguaggio sconveniente

31 Maggio 2016

La ratio della norma di cui all'art. 89 c.p.c. è quella di evitare, nel linguaggio processuale, locuzioni non aventi apporto utile all'oggetto della causa e che, lungi dall'articolare una risposta ai fatti narrati - coessenziale ad una costituzione in giudizio - finiscono, in modo gratuito ed assolutamente ultroneo, per dar voce al vicendevole malanimo dei litiganti.
Massima

Destinataria della domanda di risarcimento del danno ex art. 89, comma 2, c.p.c., è sempre e solo la parte che, se condannata, potrà rivalersi nei confronti del difensore cui siano addebitabili le espressioni offensive, ove ne ricorrano le condizioni.

Il caso

Il Tribunale condanna due avvocati alla cancellazione di alcune espressioni dagli scritti difensivi delle parti, ai sensi dell'art. 89 c.p.c., e al pagamento, l'uno in favore dell'altro, di 100 euro a titolo risarcitorio. La Corte d'Appello rigetta gli appelli proposti dagli avvocati, evidenziando come la condanna al pagamento avesse un valore meramente simbolico e non patrimoniale, ponendosi come obiettivo la stigmatizzazione del loro comportamento.

La decisione viene impugnata in Cassazione sulla base degli artt. 89 c.p.c., 24 e 111 Cost., secondo cui il diritto di difesa è garantito anche nel caso in cui gli scritti difensivi contengano espressioni forti e colorite ma attinenti l'oggetto del giudizio. Difatti ciò comporterebbe la condanna al risarcimento solo della parte e mai del procuratore. La Corte di Cassazione accoglie il ricorso osservando che delle offese contenute negli scritti difensivi risponde sempre la parte, anche quando provengano dal difensore, sia perché gli atti sono sempre riferibili alla parte, sia perché la sentenza può contenere statuizioni dirette soltanto nei confronti della parte in causa.

La questione

La questione in esame è la seguente: può essere condannato l'avvocato ai sensi dell'art. 89 c.p.c.?

La soluzione giuridica

Ai sensi e per gli effetti dell'art. 89, comma 2, c.p.c. (in riferimento al comma 1 del medesimo articolo), è formulabile da un soggetto del processo al giudice civile apposita istanza di cancellazione delle espressioni sconvenienti ed offensive adoperate da una parte del giudizio nei suoi confronti.

In conseguenza, il richiedente, può, inoltre, unitamente alla sentenza che decide la causa, formulare l'assegnazione, con valutazione equitativa, di una somma a titolo di risarcimento del danno, anche non patrimoniale, patito.

Ratio della norma è quella di evitare, nel linguaggio processuale, locuzioni connotate da una passionalità che dovrebbe restare estranea alla contesa dialettica e al normale esercizio del diritto di difesa nell'ambito del processo, e perciò non congrue rispetto al contesto in cui si inscrivono, per dar voce al vicendevole malanimo dei litiganti.

In tema, la giurisprudenza è assolutamente univoca nel configurare violazione dell'art. 89 c.p.c. tutte le volte che le locuzioni adoperate non riguardino o travalichino le esigenze difensive di un determinato processo, avuto riguardo all'oggetto di esso, sì da additare un intento dello scrivente meramente offensivo.

Le condizioni per la cancellazione di espressioni sconvenienti e offensive contenute negli scritti difensivi, prevista dall'art. 89 c.p.c., sussistono allorquando le stesse siano dettate da un incomposto intento dispregiativo e rilevino, pertanto, un'esclusiva volontà offensiva nei confronti della controparte o dell'ufficio, non bilanciata da alcun profilo di attinenza, anche indiretta, con la materia controversa (T.A.R. Torino, Piemonte, sez. I, 15 gennaio 2014, n. 66).

«A norma dell'art. 89 c.p.c. l'offesa all'onore ed al decoro comporta, indipendentemente dalla possibilità o meno della cancellazione delle frasi offensive contenute negli atti difensivi, l'obbligo del risarcimento del danno non solo nell'ipotesi in cui le espressioni offensive non abbiano alcuna relazione con l'esercizio della difesa, ma anche nell'ipotesi che esse si presentino come eccedenti le esigenze difensive; l'apprezzamento dell'avvenuto superamento dei limiti di correttezza e civile convivenza entro cui va contenuta l'esplicazione della difesa integra, peraltro, esercizio di un potere discrezionale del giudice del merito, non sindacabile in sede di legittimità, se congruamente motivato» (Cass., 22 febbraio 1992, n. 2188; Cons. Stato, 6 maggio 2002, n. 2385).

In tale direzione, è stato statuito che deve rigettarsi l'istanza ex art. 89 c.p.c., volta a ottenere la cancellazione di frasi asseritamente sconvenienti ed offensive, ove queste ultime non abbiano un intento meramente denigratorio ed offensivo ma siano invece strumentali al diritto di difesa e strettamente collegate alle argomentazioni difensive (Trib. Modena, 20 luglio 2011, n. 1217).

Peraltro, è ritenuta esplicazione del potere discrezionale del giudice il disporre la cancellazione di frasi o parole ingiuriose contenute negli atti difensivi (Cass., 3 novembre 1994 n. 9040). Il potere del giudice di merito di riferire alle autorità che esercitano il potere disciplinare sui difensori in caso di violazione del dovere di comportarsi in giudizio con lealtà e probità, ovvero di ordinare la cancellazione di espressioni sconvenienti ed offensive utilizzate negli scritti presentati o nei discorsi pronunciati davanti al giudice, costituisce un potere valutativo discrezionale volto alla tutela di interessi diversi da quelli oggetti di contesa fra le parti, ed il suo esercizio d'ufficio, presentando carattere ordinatorio e non decisorio, si sottrae all'obbligo di motivazione e non è sindacabile in sede di legittimità (Cass., 12 febbraio, 2009, n. 3487).

Analogamente, per il giudice di legittimità ai sensi dell'art. 89 c.p.c., delle offese contenute negli scritti difensivi risponde sempre la parte, anche quando provengano dal difensore, sia perché gli atti sono sempre riferibili alla parte, sia perché la sentenza può contenere statuizioni dirette soltanto nei confronti della parte in causa (Cass., sez. III, 26 luglio 2002, n. 11063). Sottolinea, inoltre, come sia sempre e solo la parte, legittimata passivamente, che, se condannata, potrà rivalersi nei confronti del difensore, cui siano addebitabili le espressioni offensive, ove ne ricorrano le condizioni (Cass., sez. II, 9 settembre 2008, n. 23333). Infine, la Cassazione ribadisce che “il difensore è passivamente legittimato, a titolo personale, nell'azione per danni da espressioni offensive contenute negli atti di un processo, proposta davanti ad un giudice diverso da quello che ha definito quest'ultimo, ove non sia più possibile agire ai sensi dell'art. 89 c.p.c., (Cass., sez. VI, 29 agosto 2013 n. 19907; Cass., sez. III, 12 settembre 2013, n. 20891; Cass., sez. III, 9 luglio 2009, n. 16121; Cass., sez. III, 7 agosto 2001, n. 10916).

Osservazioni

La ratio della norma di cui all'art. 89 c.p.c. è quella di evitare, nel linguaggio processuale, locuzioni non aventi apporto utile all'oggetto della causa e che, lungi dall'articolare una risposta ai fatti narrati - coessenziale ad una costituzione in giudizio - finiscono, in modo gratuito ed assolutamente ultroneo, per dar voce al vicendevole malanimo dei litiganti; pertanto deve configurarsi la violazione di tale disposizione tutte le volte in cui le locuzioni adoperate non riguardino o travalichino le esigenze difensive di un determinato processo, avuto riguardo all'oggetto di esso, sì da additare un intento dello scrivente meramente offensivo (Trib. Monza, 12 marzo 2014, n. 873).

Peraltro deve evidenziarsi come in tema di risarcimento del danno per le espressioni offensive contenute negli atti del processo, l'art. 89 c.p.c. devolve al giudice del processo, cui gli atti si riferiscono, il giudizio circa l'applicazione in concreto delle sanzioni previste; tuttavia - poiché la responsabilità processuale ha natura analoga a quella aquiliana, e, quindi, l'antigiuridicità dei comportamenti non si esaurisce nell'ambito del processo - quando il procedimento, per qualsiasi motivo, non si concluda con sentenza (come nel caso di estinzione del processo) ovvero quando i danni si manifestino in uno stadio processuale in cui non sia più possibile farli valere tempestivamente davanti al giudice di merito (come nel caso in cui le frasi offensive siano contenute nella comparsa conclusionale del giudizio di primo grado) ovvero quando la domanda sia avanzata nei confronti non della parte ma del suo difensore, l'azione di danni per responsabilità processuale può essere proposta davanti al giudice competente secondo le norme ordinarie.

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