Danno all’ambiente (responsabilità per)

Pasquale Fimiani
18 Ottobre 2016

La figura del danno ambientale fu introdotta dall'art. 18 della legge n. 349/1986 secondo cui “qualunque fatto doloso o colposo in violazione di disposizioni di legge o di provvedimenti adottati in base a legge che comprometta l'ambiente, ad esso arrecando danno, alterandolo, deteriorandolo o distruggendolo in tutto o in parte, obbliga l'autore del fatto al risarcimento nei confronti dello Stato”.

Inquadramento

La figura del danno ambientale fu introdotta dall'art. 18, l. n. 349/1986 secondo cui “qualunque fatto doloso o colposo in violazione di disposizioni di legge o di provvedimenti adottati in base a legge che comprometta l'ambiente, ad esso arrecando danno, alterandolo, deteriorandolo o distruggendolo in tutto o in parte, obbliga l'autore del fatto al risarcimento nei confronti dello Stato”.

In seguito, la parte VI (artt. 298-bis/318) del d.lgs. n. 152/2006 (di seguito anche T.U.) ha recepito la dir. 2004/35/CE sostituendo l'intera disciplina del danno ambientale contenuta nell'art. 18 cit. (abrogato dall'art. 318, fatta eccezione per il comma 5, relativo alle facoltà processuali delle associazioni ambientaliste) caratterizzandosi per la definizione di danno ambientale, che invece non era presente nell'art. 18, consistente, secondo l'art. 300, comma 1, in “qualsiasi deterioramento significativo e misurabile, diretto o indiretto, di una risorsa naturale o dell'utilità assicurata da quest'ultima”, con l'espressa limitazione, in conformità alla direttiva, al danno alle specie e habitat protetti, alle aree protette, alle acque ed al terreno (comma 2).

La disciplina del danno ambientale nel T.U. del 2006 e successive modifiche ed integrazioni

La disciplina prevista dalla parte VI del T.U. è improntata su:

  1. l'introduzione di meccanismi di attuazione del principio di precauzione di derivazione comunitaria, incentrati sull'autocontrollo dell'operatore (cioè del soggetto che esercita o controlla un'attività professionale) quando un danno ambientale non si è ancora verificato, ma esiste una minaccia imminente che si verifichi, con la definizione delle necessarie azioni di prevenzione da attuarsi sotto il controllo del Ministro dell'Ambiente (art. 304);
  2. l'attribuzione a quest'ultimo di un ruolo centrale nella procedura amministrativa volta all'individuazione delle misure di ripristino quando si è verificato un danno ambientale (artt. 305-308);
  3. il conseguente ridimensionamento del ruolo degli Enti locali, cui viene espressamente attribuita - al pari delle persone fisiche o giuridiche che sono o che potrebbero essere colpite dal danno ambientale o che vantino un interesse tale da legittimare alla partecipazione al procedimento relativo all'adozione delle misure di precauzione, di prevenzione o di ripristino - la sola facoltà di sollecitare l'intervento statale (art. 309) e di ricorrere in caso di inerzie od omissioni (art. 310), ma non la legittimazione ad agire ed intervenire in proprio nei processi per danno ambientale;
  4. la parallela abrogazione dell'art. 9, comma 3, del d.lgs. n. 267/2000 (T.U.E.L.) che, riproponendo l'omologa previsione dell'art. 4, comma 3, l. n. 265/1999, consentiva alle associazioni di protezione ambientale di cui all'art. 13, l. n. 349/1986, di proporre le azioni risarcitorie di competenza del giudice ordinario spettanti al comune ed alla provincia a seguito di danno ambientale, nel qual caso l'eventuale risarcimento era da liquidarsi in favore dell'ente sostituito, con spese processuali in favore o a carico dell'associazione;
  5. la previsione, per quanto riguarda il risarcimento del danno ambientale, dell'alternativa (art. 315) tra l'azione risarcitoria in sede giudiziaria, anche penale mediante la costituzione di parte civile (art. 311) e l'ordinanza a contenuto risarcitorio, ricorribile in via amministrativa, che il Ministro dell'ambiente può emanare secondo le previsioni degli artt. 312/314;
  6. l'individuazione di specifici parametri di riferimento per le misure risarcitorie sia in sede giudiziaria, che di ordinanza ministeriale (allegati 3 e 4 alla parte VI).

La disciplina del danno ambientale introdotta nel 2006 è stata oggetto della procedura di infrazione n. 2007/4679 aperta dalla Commissione Europea sotto tre profili:

a) violazione della regola generale della responsabilità oggettiva prevista dall'art. 3, par. 1, e dall'art. 6 dir. 21 aprile 2004, n. 2004/35/CE;

b) previsione della possibilità di risarcimento pecuniario in luogo della riparazione, in violazione degli articoli 1 e 7 e dell'allegato II della direttiva;

c) l'esclusione dalla materia del danno ambientale delle situazioni di inquinamento per le quali siano effettivamente avviate le procedure relative alla bonifica, prevista dall'articolo 303, lettera i), del decreto legislativo 152/2006, in violazione degli articoli 3 e 4 della direttiva.

Il legislatore è intervenuto per rispondere alla procedura di infrazione e per integrare la disciplina originaria prima con l'art. 5-bis del d.l. n. 135/2009, aggiunto dalla legge di conversione n. 166/2009 e, poi, con l'art. 25 della legge n. 97/2013 (Legge europea 2013).

Il regime di imputazione della responsabilità per danno ambientale

Secondo la Commissione UE, l'articolo 311, comma 2, T.U., nella parte in cui ancorava la responsabilità per danno ambientale ai requisiti del dolo o della colpa, anche nel caso in cui il danno ambientale fosse stato causato da una delle attività professionali elencate nell'allegato III della direttiva 2004/35/CE, contrastava con gli articoli 3 e 6 della stessa per i quali, quando il danno ambientale sia stato causato da una delle predette attività professionali, l'operatore è tenuto ad adottare le necessarie misure di riparazione anche in assenza di colpa o dolo.

Tale profilo di contrasto con la direttiva è stato superato dall'art. 25 della legge n. 97/2013 con l'introduzione dell'art. 298-bis per il quale la disciplina della parte sesta del T.U. si applica:

a) al danno ambientale causato da una delle attività professionali elencate nell'allegato V alla stessa parte sesta e a qualsiasi minaccia imminente di tale danno derivante dalle suddette attività;

b) al danno ambientale causato da un'attività diversa da quelle elencate nell'allegato V alla stessa parte sesta e a qualsiasi minaccia imminente di tale danno derivante dalle suddette attività, in caso di comportamento doloso o colposo.

Va ricordato che l'allegato V della parte VI, riproducendo con alcune modifiche l'allegato III della direttiva, fa riferimento ad una serie di attività comportanti rischi di inquinamento ed in genere pericoli per l'ambiente.

Per tali attività, a seguito della modifica, non è più richiesta la prova del dolo o della colpa da parte dell'operatore.

Sulla base dei principi affermati dalla sentenza della Corte di Giustizia (grande sezione), 9 marzo 2010, causa C‑378/08, gli elementi indiziari necessari e sufficienti ai fini della responsabilità per il danno ambientale dell'operatore che gestisca una delle attività di cui all'allegato V della parte VI sono due:

  1. la vicinanza dell'impianto dell'operatore all'inquinamento accertato;
  1. la corrispondenza tra le sostanze inquinanti ritrovate e i componenti impiegati da detto operatore nell'esercizio della sua attività.

Peraltro, il gestore di una delle attività di cui all'allegato V, può vincere la presunzione di responsabilità offrendo la prova contraria nelle ipotesi tassativamente previste dai commi 4 e 5 dell'art. 308 (tra le quali va ricordata quella in cui il danno ambientale o la minaccia imminente di tale danno è stato causato da un terzo e si è verificato nonostante l'esistenza di misure di sicurezza astrattamente idonee).

Qualora l'attività che ha causato il danno ambientale sia posta in essere da soggetti diversi dagli operatori di cui all'allegato V della parte VI, si riespandono i principi generali in tema di responsabilità da fatto illecito.

Vanno, quindi, richiamate le affermazioni risalenti alla vigenza dell'art. 18 della legge n. 349/1986, ma ancora attuali, secondo cui chi agisce per ottenere il risarcimento danno ambientale deve provare non soltanto la violazione di legge, di regolamento, di provvedimento amministrativo e di norme tecniche, ma anche che la stessa è stata commessa a titolo di dolo o colpa (fornendo sul punto elementi anche presuntivi) ed ha causato il danno all'ambiente (Cass. civ., sez. III,n. 1087/1998).

Quanto al regime transitorio, le modifiche ai presupposti per la responsabilità per danno ambientale hanno esteso per gli operatori di cui all'allegato V i presupposti della responsabilità (che è ora presunta e non più a titolo di dolo o colpa), per cui non operano retroattivamente.

Di conseguenza, per i fatti che abbiano causato un danno ambientale commessi prima del 4 settembre 2013, giorno di entrata in vigore della L. n. 97/2013, continuano a valere i presupposti generali della responsabilità per dolo o colpa.

Segue: la responsabilità per danno ambientale nei gruppi societari

In una fattispecie relativa alla impugnazione avanti al giudice amministrativo di una ordinanza di rimozione dei rifiuti da una discarica e di bonifica, emessa nei confronti della capogruppo si è affermato (Tar Abruzzo, Pescara, sez. I, n. 204/2014) che, ai fini dell'accertamento di illeciti ambientali commessi da gruppi societari deve essere accolta la concezione sostanzialistica di impresa fatta propria dalla giurisprudenza comunitaria (maturata soprattutto in tema di concorrenza) e quindi applicato il principio della prevalenza dell'unità economica del gruppo rispetto alla pluralità soggettiva delle imprese controllate, secondo cui per illeciti commessi dalle società operative la responsabilità si estende anche alle società madri, che ne detengono le quote di partecipazione in misura tale, come nel caso di specie, da evidenziare un rapporto di dipendenza e quindi escludere una sostanziale autonomia decisionale delle controllate stesse (nel caso di controllo totalitario, come nella fattispecie esaminata dalla sentenza, l'assenza di autonomia decisionale è presunta, secondo Corte di Giustizia, 25 ottobre 1983, causa C- 107/82).

La decisione ha altresì precisato che l'applicazione del principio eurounitario dell'unicità economica del gruppo al fine di allocare l'obbligo di bonifica su chi per lungo tempo si è giovato di tali attività realizzate anche mediante società operative attiene all'imputazione della responsabilità intera e finale in capo alla holding e al gruppo nel suo complesso e non alla misura del concorso nella responsabilità.

Inoltre tale soluzione favorisce l'effetto utile dell'applicazione di principi fondamentali della materia ambientale (di matrice eurounitaria), quale quello secondo cui "chi inquina paga".

Pertanto il principio della responsabilità di gruppo fatto proprio dalla risalente giurisprudenza comunitaria nella materia degli illeciti concorrenziali, costituisce un principio generale di diritto amministrativo interno e quindi «deve essere applicato dalle Amministrazioni nell'adottare anche i provvedimenti del tipo in esame, per via dell'effetto spill over dei principi comunitari, oggi del resto codificato espressamente all' articolo 1 della L. n. 241 del 1990».

L'applicabilità di tali principi nella materia del danno ambientale è stata esaminata da Tar Lazio (Roma), sez. II-bis, n. 3449/2016, relativa alla impugnazione di una ordinanza ministeriale a contenuto risarcitorio rivolta anche nei confronti della società holding del gruppo.

La sentenza, premesso che il rapporto di società con le partecipate era di carattere finanziario (ed asseritamente decisorio, con riguardo all'invocato patto parasociale), afferma che dal punto di vista astrattamente teorico, ed in prima approssimazione, non si può escludere che si verta in ipotesi di attribuibilità alla ricorrente della qualità di “operatore economico” quanto al potere decisionale sulle scelte finanziarie da parte della società nei confronti delle partecipate (a loro volta partecipanti nelle società immediatamente impegnate nell'attività chimica e materialmente responsabili dell'attività inquinante).

Tuttavia, nell'esame concreto della vicenda, la sentenza ha rilevato che le attività inquinanti erano cessate prima dell'ingresso dell'istante nel gruppo societario.

Pertanto, pur concordando, in linea di massima, con l'interpretazione estensiva e garantista della c.d. internalizzazione del danno ambientale in via teorica, attraverso la quale si giunge ad un'ampia nozione di operatore economico, del resto coerente con il dato letterale della norma, la decisione oltre a menzionare le partecipazioni societarie dell'odierna ricorrente e delle altre società intimate, nulla dice sul particolare, concreto e differenziato ruolo effettivamente svolto dalle stesse a livello decisionale e con specifico riferimento al ramo industriale interessato e responsabile della condotta inquinante.

La prova del danno ambientale

Ai fini della responsabilità per danno ambientale, il regime di imputazione del fatto presuppone la prova del danno.

Al riguardo, l'orientamento prevalente è nel senso che, una volta accertata la compromissione dell'ambiente in conseguenza di un fatto riferibile ad un determinato soggetto, la prova del danno ambientale deve ritenersi “in re ipsa" e, quindi, può essere anche fornita tramite presunzioni (Cass. civ., sez. III, n. 25010/2008 e Cass. civ., sez. I, n. 5705/2013).

Si pensi all'ipotesi in cui risulti che i rifiuti pericolosi siano venuti a contatto con il suolo senza adeguate impermeabilizzazioni e coperture, essendo noto che, in tale evenienze, essi interagiscono con le componenti ambientali per il solo fatto di essere accumulati in un luogo senza precauzioni (Cass. pen., sez. III, n. 4261/1991) od al caso di accertata violazione di norme anti-inquinamento, penalmente sanzionate (Cass. pen., sez. III, n. 6190/1994).

Non mancano, però, decisioni che negano autosufficienza all'allegazione del semplice dato obbiettivo dell'evento generatore del danno ambientale e richiedono che questo sia specificamente provato tramite prove documentali o testimoniali, senza possibilità di surroga da parte di una CTU (Cass. civ.,sez. III, n. 1087/1998).

In verità, anche nella prima prospettiva, il danno più che “in re ipsa”, è presunto, in considerazione della natura dell'evento lesivo dell'ambiente e delle conseguenze ad esso collegabili alla stregua di un giudizio di probabilità basato sull'"id quod plerumque accidit" (in virtù della regola dell'inferenza probabilistica).

Il contenuto dell'obbligazione risarcitoria

Nella procedura di infrazione, la Commissione UE aveva rilevato che, secondo l'allegato II, punto 1.2.3, della direttiva, le misure di riparazione non si possono sostituire con risarcimenti pecuniari, mentre varie disposizioni del T.U. – in particolare gli articoli 311 e 313, comma 2 – consentivano che le misure di riparazione potessero essere sostituite da risarcimenti pecuniari. Inoltre, le modalità di calcolo del danno per equivalente patrimoniale di cui all'articolo 314, comma 3, prevedevano la possibilità che nell'ordinanza a contenuto risarcitorio il danno fosse calcolato proporzionalmente alla somma corrispondente alla sanzione applicata o al numero di giorni di pena detentiva irrogati.

A tali antinomie rispetto alla disciplina comunitaria ha definitivamente risposto l'art. 25 della legge europea 2013, modificando diverse disposizioni del T.U. in modo da escludere, definitivamente, che il risarcimento del danno ambientale possa avvenire per equivalente pecuniario.

L'evoluzione si coglie chiaramente nel principio enunciato dall'art. 298-bis di nuova introduzione che, al secondo comma, fissa la regola secondo cui la riparazione del danno ambientale deve avvenire nel rispetto dei principi e dei criteri stabiliti nel titolo II e nell'allegato III alla parte sesta (che fissa le misure da attuare per tale riparazione), ove occorra anche mediante l'esperimento dei procedimenti finalizzati a conseguire dal soggetto che ha causato il danno, o la minaccia imminente di danno, le risorse necessarie a coprire i costi relativi alle misure di riparazione da adottare e da lui non attuate.

L'attuazione di tale principio avviene poi attraverso la modifica dell'azione risarcitoria disciplinata dall'art. 311 T.U., attraverso la eliminazione, nella rubrica, delle parole “e per equivalente patrimoniale” e la sostituzione dei commi 2 e 3 che fissano i seguenti principi:

¾ obbligo, quando si verifica un danno ambientale, per gli operatori le cui attività sono elencate nell'allegato V alla presente parte sesta, o per chiunque altro cagioni un danno ambientale con dolo o colpa, di adozione delle misure di riparazione di cui all'allegato III alla medesima parte sesta secondo i criteri ivi previsti, da effettuare;

¾ intervento del Ministro dell'ambiente, quando l'adozione delle misure di riparazione anzidette risulti in tutto o in parte omessa, o comunque realizzata in modo incompleto o difforme dai termini e modalità prescritti, con la determinazione dei costi delle attività necessarie a conseguirne la completa e corretta attuazione ed azione nei confronti del soggetto obbligato per ottenere il pagamento delle somme corrispondenti;

¾ determinazione delle misure di riparazione da adottare in base ai criteri enunciati negli allegati 3 e 4 della parte sesta, integrati da quelli previsti dal decreto ministeriale da adottarsi entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore dell'art. 25 della legge europea 2013 (trattasi dei criteri e dei metodi, anche di valutazione monetaria, per determinare la portata delle misure di riparazione complementare e compensativa);

¾ applicabilità dei criteri e metodi previsti dall'emanando decreto ministeriale anche ai giudizi pendenti non ancora definiti con sentenza passata in giudicato alla data di entrata in vigore del decreto stesso.

Specularmente, l'art. 25 della legge europea 2013 ha modificato la disciplina dell'ordinanza ministeriale a contenuto risarcitorio (comma 2 dell'art. 313 e comma 3 dell'art. 314) ed altre disposizioni del T.U. non più coerenti con la nuova impostazione (articolo 299, commi 1 e 5, articolo 303, comma 1, lettera f , ed art. 317, comma 5).

Dei criteri risarcitori introdotti nel 2013 si occupano le sentenze della terza sezione civile della Cassazione n. 9012/2015 e n. 16806/2015.

Le decisioni hanno ricordato che, “in virtù dell'evoluzione della normativa, la disciplina nazionale - assai di recente ulteriormente modificata e definitivamente armonizzata con quella eurounitaria con il recepimento organico dei relativi principi, anche a causa di un duplice avvio a carico della Repubblica italiana, da parte della Commissione dell'Unione Europea, di procedure di infrazione alla direttiva 2004/35/CE - può in linea di grande approssimazione (e per quel che qui interessa) sintetizzarsi nell'espunzione dall'ordinamento della stessa risarcibilità per equivalente e nella legittimità dei soli interventi di recupero o riparazione (sia pur suddivisi in primaria, complementare e compensativa), se del caso all'esito di una compiuta riconsiderazione complessiva dei numerosi e differenziati interessi - generali e particolari, mai soltanto economici o patrimoniali in senso stretto - coinvolti, facenti capo ad una collettività potenzialmente indeterminabile ex ante e coinvolgenti valutazioni complesse ed affidati pertanto esclusivamente allo Stato”.

In sintesi, quindi, “non residua alcun danno ambientale economicamente quantificabile e quindi risarcibile - né in forma specifica, né a maggior ragione per equivalente - ogniqualvolta, avutasi la riduzione al pristino stato, non persista la necessità di ulteriori misure sul territorio reso oggetto dell'intervento inquinante o danneggiante, soltanto il costo (ovvero il rimborso) delle quali potrà essere oggetto di condanna nei confronti dei danneggianti: misure che vanno ora tutte verificate alla stregua della nuova normativa”.

Tale criterio va applicato anche alle controversie ancora in corso, nonostante possano riferirsi anche a fatti anteriori alla data di applicabilità della direttiva comunitaria.

Ciò, sia perché è inscindibile l'identificazione dell'ambiente quale oggetto di tutela e delle modalità e dell'ambito del risarcimento della sua lesione, sia per evitare «la responsabilità dello Stato, membro dell'Unione ed unitariamente considerato e quindi anche quale Stato in persona dei suoi giudici di ultima istanza (….), per la violazione concreta della disciplina eurounitaria recata da un acte claire, quale certamente deve qualificarsi la normativa in materia ambientale, alla stregua della duplice procedura di infrazione avviata nei confronti della Repubblica italiana proprio per la mancata applicazione di quei principi generalissimi, tra cui quelli in tema di esclusione del risarcimento per equivalente» (così, in particolare, la sentenza n. 9012/2015, a pag. 17).

La conseguenza è che il giudice della domanda di risarcimento del danno ambientale ancora pendente alla data di entrata in vigore della L. 6 agosto 2013, n. 97, essendo ormai esclusa la liquidazione per equivalente, può ancora conoscere della domanda in applicazione del nuovo testo del D.lgs. 3 aprile 2006, n. 152, art. 311, come modificato prima dal D.L. n. 135 del 2009 cit., art. 5-bis, comma 1, lett. b) e poi dalla L. n. 97 del 2013 cit., art. 25 individuando le misure di riparazione primaria, complementare e compensativa - secondo la definizione data dalla normativa più recente ed in conformità alle sue previsioni - e, per il caso di omessa o imperfetta loro esecuzione, determinandone il costo.

Solo in questo caso il rimborso di tale costo potrà essere oggetto di condanna nei confronti dei soggetti obbligati.

Il giudizio sul risarcimento del danno ambientale

Il sistema delineato dai commi 6, 7 ed 8 della legge n. 349 prevedeva, quale parametro per la liquidazione del danno ambientale, in luogo del pregiudizio patrimoniale subito, elementi chiaramente sanzionatori, quali la gravità della colpa del trasgressore, il profitto conseguito dallo stesso, ed il costo necessario al ripristino; inoltre, la condanna al ripristino dei luoghi a spese del responsabile, in deroga al secondo comma dell'art. 2058 c.c., costituiva la misura privilegiata da adottare, mentre la valutazione equitativa appariva soluzione obbligata quando una prova completa e minuziosa del danno era obiettivamente impossibile o comunque difficilmente ricostruibile (Cass. civ., Sez. Un., n. 440/1989).

Il T.U. mantenne fermo tale sistema per i fatti pregressi, stante la non applicabilità ad essi della parte sesta, ai sensi dell'art. 303 lett. f), ma non previde alcuna disposizione specifica sul risarcimento giudiziale del danno ambientale, quanto al rapporto tra risarcimento in forma specifica e per equivalente.

Sul punto intervenne l'art. 5-bis del d.l. n. 135/2009, con la modifica sia dell'articolo 311, commi 2 e 3 (peraltro non pienamente sattisfattiva dei rilievi di cui alla procedura di infrazione, in quanto era ancora prevista la possibilità per l'operatore che avesse causato un danno ambientale di essere tenuto al risarcimento pecuniario in luogo della riparazione primaria, complementare e compensativa), sia della lett. f) dell'art. 303, in cui aggiunse la previsione, in deroga alla inapplicabilità del T.U. ai fatti comportanti danno ambientale verificatisi in precedenza, che i criteri di determinazione dell'obbligazione risarcitoria stabiliti dai nuovi commi 2 e 3 dell'art. 311 valevano anche per le domande di risarcimento proposte o da proporre ai sensi dell'articolo 18 cit., in luogo delle previsioni dei commi 6, 7 e 8 di tale norma.

A seguito di tale modifica, fu definitivamente sancito il principio generale, applicabile nei giudizi di risarcimento del danno ambientale causato da fatti sia anteriori che successivi al 2006, secondo cui il giudice può condannare il responsabile al ripristino dello stato dei luoghi o al risarcimento in forma specifica anche d'ufficio, dovendosi considerare la richiesta di tutela reale sempre insita nella domanda risarcitoria (Cass. civ., sent. n. 22382/2012). A tal fine, il giudice poteva determinare le misure di riparazione facendo diretta applicazione delle previsioni dei punti 1, 2 e 3, dell'Allegato II alla Direttiva 2004/35/CE, come trasfusi negli allegati III e IV alla parte sesta e, solo eventualmente, ove fosse stato nelle more emanato, di quelle contenute nel d.m. previsto nell'ultimo periodo dell'art. 311, comma 3 (Cass. civ., sent. n. 6551/2011).

Tale impostazione sembra da confermare anche a seguito dell'art. 25 della legge n. 97/2013, che ha soppresso la norma transitoria introdotta nell'art. 303 lett. f) dall'art. 5-bis ed ha contestualmente modificato l'art. 311, comma 3, prevedendo un futuro decreto ministeriale per la definizione dei criteri e dei metodi, anche di valutazione monetaria, di determinazione della portata delle misure di riparazione complementare e compensativa, i quali trovano applicazione anche ai giudizi pendenti non ancora definiti con sentenza passata in giudicato alla data di entrata in vigore del decreto stesso.

Nelle more dell'approvazione di tale decreto continuano ad essere direttamente applicabili i criteri di cui ai punti 1, 2 e 3, dell'Allegato II alla Direttiva 2004/35/CE, come trasfusi negli allegati 3 e 4 alla parte sesta del T.U.

Resta, piuttosto, il dubbio di come applicare nel giudizio la previsione dell'art. 311, comma 2, di carattere generale ed applicabile, quindi, non solo all'ordinanza ministeriale a contenuto risarcitorio, che delinea il passaggio progressivo dall'obbligo (primario) di adozione delle misure di riparazione alla determinazione, quando tali misure risultino in tutto o in parte omesse, o comunque realizzate in modo incompleto o difforme dai termini e modalità prescritti, dei costi delle attività necessarie per la completa e corretta attuazione nei confronti del soggetto obbligato onde ottenere dallo stesso il pagamento delle somme corrispondenti.

Tale passaggio, infatti, è regolato, dall'art. 313 solo per l'intervento ministeriale, con la previsione di due distinte ordinanze, la prima a contenuto ripristinatorio e/o riparatorio e la seconda (eventuale) recante l'ingiunzione del pagamento di una somma pari al valore economico del danno accertato o residuato, mentre non vi è alcuna previsione circa il contenuto del provvedimento del giudice.

Il dubbio sorge in quanto:

-l'impossibilità di attuazione dell'effettivo ripristino o delle misure di riparazione complementare o compensativa può emergere nell'ambito del giudizio (di regola a seguito di consulenza tecnica), sì da determinare il contenuto della decisione nel senso della condanna del responsabile al risarcimento di natura pecuniaria;

-al contrario, le ipotesi di omissione, ovvero di attuazione degli interventi in modo incompleto o difforme rispetto a quelli prescritti, non possono che emergere a seguito dell'inadempimento del relativo obbligo, cioè in una fase successiva al suo insorgere, evidentemente a seguito di provvedimento del giudice in tal senso.

L'alternativa che si prospetta è quella tra un secondo giudizio, finalizzato alla condanna al risarcimento pecuniaria a seguito di omissione o attuazione in modo incompleto o difforme dell'effettivo ripristino o delle misure di riparazione complementare o compensativa, ed una condanna a contenuto plurimo: al ripristino o riparazione in prima battuta ed al risarcimento per equivalente, in via eventuale, rimettendo alla fase esecutiva ogni eventuale questione.

Riparto e successione nella responsabilità per danno ambientale

L'ultima parte del comma 3 dell'art. 311 T.U., introdotta dall'art. 5-bis del d.l. n. 135/2009 e confermata dalla novella del 2013, prevede che:

- nei casi di concorso nello stesso evento di danno, ciascuno risponde nei limiti della propria responsabilità personale;

- il relativo debito si trasmette, secondo le leggi vigenti, agli eredi nei limiti del loro effettivo arricchimento.

Il primo riproduce il comma 7 dell'art. 18 cit. e, al pari di questo, “rappresenta una deroga del principio nell'art. 2055 c.c., perché, nell'ipotesi di concorso di più soggetti, non sussiste la prevista solidarietà, ma ciascuno dei coautori del danno risponde nei limiti della propria responsabilità individuale” (Cass. civ., sent. n. 9211/1995).

Il secondo, in ragione dei termini usati e della natura di norma eccezionale che non ammette estensioni analogiche, si riferisce soltanto alla successione a titolo universale tra le persone fisiche e cioè alle due ipotesi in cui il “de cuius” sia responsabile dell'evento di danno per averlo causato, ovvero sia socio illimitatamente responsabile della società di persone che ha tale responsabilità.

La limitazione non si applica, invece, nel caso di successione comprendente la partecipazione nella società di capitali responsabile del danno (obbligata resta la sola società e le c.d. “passività ambientali” incidono solo sul valore della partecipazione) e nel caso di fusione tra società, poiché tale fenomeno attua l'unificazione mediante l'integrazione reciproca delle società partecipanti alla fusione, risolvendosi in una vicenda meramente evolutivo-modificativa dello stesso soggetto giuridico, che conserva la propria identità, pur in un nuovo assetto organizzativo (Cass. civ., sez. un., sent. n. 2637/2006).

Tali deroghe ai principi generali in tema di responsabilità aquiliana non hanno carattere retroattivo e si applicano ai fatti successivi all'entrata in vigore dall'art. 5-bis del d.l. n. 135/2009.

Per quanto riguarda il primo profilo (danno ambientale causato da una pluralità di operatori) la citata Cass. civ., sez. III, n. 9012/2015 ha esaminato un caso in cui era stato chiesto il risarcimento del danno ambientale nei confronti di una società esercente attività di coltivazione di cava, unitamente alle persone fisiche dell'amministratore unico e del direttore dei lavori, per aver posto in essere per diversi anni attività estrattiva in violazione delle autorizzazioni concesse e non avendo essi, conclusisi i procedimenti penali per gli stessi fatti con sentenza di patteggiamento, dato corso alle opere di ripristino loro ingiunti dalla Procura della Repubblica.

Ritenuta la responsabilità risarcitoria, si era posta la questione della applicabilità del principio, affermato dall'art. 18, comma 7, della legge n. 349/1986 e riproposto dall'art. 311, comma 3, ultimo periodo T.U.A., secondo cui «nei casi di concorso nello stesso evento di danno, ciascuno risponde nei limiti della propria responsabilità personale».

Con riferimento al comma 7 dell'art. 18 cit., Cass. pen., sez. III, n. 11870/2003, aveva precisato che con tale norma “il legislatore non ha inteso trasformare l'obbligazione solidale per il risarcimento del danno ambientale in obbligazione parziaria, ma ha semplicemente affermato che nei rapporti interni di regresso tra i condebitori ciascuno risponde nei limiti della propria responsabilità, in deroga alla norma stabilita dall'art. 2055, comma 3, c.c., secondo cui in caso di dubbio le colpe si presumono uguali. E ciò perché costituisce principio generale del nostro ordinamento la solidarietà passiva nelle obbligazioni risarcitorie ex delicto (art. 187, comma 2, c.p.) e da fatto illecito (art. 2055, comma 1, c.c.), e sarebbe assurdo che una legge, come la 349/1986, che ha inteso approntare nuovi strumenti di tutela dello Stato, degli enti territoriali e delle associazioni ambientaliste a fronte del danno ambientale, abbia poi affievolito la garanzia dei soggetti danneggiati nei confronti dei responsabili del danno, trasformando da solidale in parziaria l'obbligazione risarcitoria di questi”.

(la sentenza peraltro dà atto che natura derogatoria del comma 7 dell'art. 18 era stata in precedenza affermata da Cass. civ., sez. I, n. 9211/1995).

Nella fattispecie esaminata dalla sentenza n. 9012/2015 l'amministratore unico ed il direttore dei lavori contestavano il carattere solidale della condanna pronunziata nei loro confronti e la mancanza di un previo accertamento delle precise e singole responsabilità e colpe individuali, in violazione dell'art. 18 della legge n. 349/1986 e del principio da esso introdotto (poi confermato nel T.U.A.), di deroga alla regola generale dell'art. 2055 c.c. e censuravano la conclusione dei giudici di merito sulla non separabilità delle loro responsabilità e sulla cooperazione di tutti nella determinazione della totalità del danno, per rimarcare l'esclusiva sua ascrivibilità alla società, anziché al suo amministratore unico ed al direttore dei lavori, oltretutto incaricati di funzioni diverse, il cui peculiare apporto causale avrebbe dovuto essere specificamente e separatamente valutato.

La Cassazione ha respinto tale impostazione affermando:

¾ la disposizione, nel prevedere che «nei casi di concorso nello stesso evento di danno, ciascuno risponde nei limiti della propria responsabilità personale», esclude l'operatività, dell'art. 2055 c.c., ma tale esclusione «deve avvenire con cautela, in quanto il principio di solidarietà ha natura generale in tema di responsabilità extracontrattuale, rispondendo ad esigenze di tutela immediata ed effettiva del danneggiato»;

¾ tale esclusione di operatività, infatti, «mira ad evitare il rischio di una sorta di responsabilità oggettiva o per fatto altrui ed in particolare quello di ascrivere ad ogni compartecipe anche per un modesto segmento di una delle condotte sfociate in un danno ambientale complessivo la responsabilità per l'ingentissimo danno che ne è derivato, anche quanto alle specifiche conseguenze non prevedibili o perfino non controllabili perché da ascriversi alla condotta indipendente di altri: si pensi al caso di danneggiamenti ambientali di contesti complessi, determinati da condotte tra loro del tutto indipendenti (come, ad esempio, l'inquinamento di un corso d'acqua da parte di diversi imprenditori trasgressori), nei quali è parso opportuno che il risultato complessivo finale non fosse ripagato per intero secondo la casualità del soggetto economicamente solvibile»;

¾ se questa è la ratio della norma di limitazione della responsabilità, essa «non può operare pure nei casi di condotta unitaria, risultante dalla combinazione, quale indispensabili antefatti causali tra loro avvinti da inscindibili e reciproci nessi di consequenzialità, delle azioni colpose o dolose concorrenti di più persone: alle quali ultime sia quella complessiva condotta che quell'unitario danno allora andranno altrettanto unitariamente ascritti, in persistente applicazione - o, se si vuole, in non limitata applicazione o non estesa esclusione - della regola generale»;

¾ la limitazione di responsabilità prevista dall'art. 18, comma 7, della legge n. 349/1986 e riproposto dall'art. 311, comma 3, ultimo periodo T.U.A., va allora circoscritta ai casi in cui le condotte causative dell'unitario evento di danno siano differenti e tra loro indipendenti;

¾ ragionando «a contrario, ove l'unitario evento di danno sia causato non da una pluralità di condotte autonome od indipendenti, ma da una altrettanto unitaria condotta colposa o dolosa, però indissolubilmente ascrivibile a più soggetti tra loro indifferenziatamente e quindi a condotte concorrenti in senso stretto, può riprendere applicazione - o non soffrire la limitazione speciale suddetta - la regola generale dell'art. 2055 c.c. , che pone appunto in via generalissima i criteri di imputazione degli effetti di una condotta complessiva ed inscindibile nelle componenti delle azioni od omissioni di più soggetti»;

¾ tale era la situazione verificatasi nella fattispecie, in cui l'attività estrattiva illegittima, protratta nel tempo, era «da ascriversi appunto alla società, quale centro di imputazione della volontà di procedere a quelle attività, a chi - quale legale rappresentante - in essa ne ha determinato e concretato le scelte e a chi, ponendo in essere i lavori, ha materialmente reso possibile gli episodi di depredazione della sponda del Po in cui l'illiceità dell'attività estrattiva si è concretata»;

¾ infatti, il giudice di appello aveva accertato che, nella causazione dell'unico evento di danno, consistente nel danno ambientale da attività estrattiva eccedente i limiti dell'autorizzazione, il concorso causale di ciascuno - società, suo legale rappresentante e direttore dei lavori in cui materialmente si erano estrinsecate le attività di estrazione – era stato di per sé idoneo a cagionare per l'intero il danno, avendo tutti i soggetti operato per l'intero periodo in cui l'attività, pur se riferibile in ultima analisi alla società di cui un ricorrente era legale rappresentante ed un altro direttore dei lavori, era stata posta in essere in dipendenza delle attività gestionali o materiali dell'uno e dell'altro.

In definitiva, «la regola prevista dall'art. 311, comma 3, penultimo periodo, del Codice ambientale - per la quale nei casi di concorso nello stesso evento di danno, ciascuno risponde nei limiti della propria responsabilità personale - mirando ad evitare la responsabilità anche per fatti altrui, opera nei casi di plurime condotte indipendenti e non anche in caso di azioni od omissioni concorrenti in senso stretto alla concretizzazione di una unitaria condotta di danneggiamento dell'ambiente, quando siano tutte tra loro avvinte quali indispensabili antefatti causali di questa: con la conseguenza che, in tale ultima ipotesi, non soffre limitazione la regola generale dell'art. 2055 c.c. in tema di responsabilità di ciascun coautore della condotta per l'intero danno causato».

La prescrizione del diritto al risarcimento del danno ambientale

Della prescrizione del diritto al risarcimento del danno ambientale si sono occupate sia la citata sentenza n. 9012/2015, sia Cass. civ., sez. III, n. 3259/2016.

In precedenza si discuteva se l'illecito civile fonte del danno ambientale avesse natura permanente, e quindi restasse in essere fino a che permaneva il danno, ovvero se fosse illecito istantaneo ad effetti permanenti, con conseguente decorrere della prescrizione a partire dal momento di realizzazione della condotta.

La soluzione del quesito assume rilevanza ai fini della prescrizione dell'azione risarcitoria (che, secondo l'art. 2947 c.c. si prescrive in cinque anni dal giorno in cui il fatto si è verificato, salvo che il fatto sia considerato dalla legge come reato e per il reato è stabilita una prescrizione più lunga, nel qual caso questa si applica anche all'azione civile) atteso che nel caso d'illecito permanente il danno si verifica momento per momento, per cui in ogni momento sorge il diritto al risarcimento per il danno già verificatosi e decorre il relativo termine di prescrizione (Cass. civ., sez. I, n. 11474/1993 e Cass. civ.n. 14861/2000).

In generale l'atto illecito istantaneo si distingue dall'atto illecito permanente - con le relative conseguenze in ordine alla decorrenza della prescrizione - perché nel primo la condotta dell'agente si esaurisce prima o nel momento stesso della produzione del danno, mentre in quello permanente essa perdura oltre tale momento e continua a cagionare danno per tutto il corso della sua durata (Cass. civ., sez. III, n. 875/1990). L'istantaneità o la permanenza del fatto illecito extracontrattuale deve essere accertata con riferimento non già al danno, bensì al rapporto eziologico tra questo ed il comportamento "contra ius" dell'agente, qualificato dal dolo o dalla colpa. Mentre nel fatto illecito istantaneo tale comportamento è mero elemento genetico dell'evento dannoso e si esaurisce con il verificarsi di esso, pur se l'esistenza di questo si protragga poi autonomamente (fatto illecito istantaneo ad effetti permanenti), nel fatto illecito permanente il comportamento "contra ius" oltre a produrre l'evento dannoso, lo alimenta continuamente per tutto il tempo in cui questo perdura, avendosi così coesistenza dell'uno e dell'altro (Cass. civ., sez. II, n. 1156/1995; sez. III, n. 16009/2000).

Tipico esempio di illecito a carattere permanente è quello della violazione di norme sulle distanze legali, trattandosi di attività perdurante nel tempo e comportante la compromissione ininterrotta del diritto altrui, da cui deriva il persistere del danno fino a che l'opera abusiva non sia ridotta nei limiti consentiti, con la conseguenza che la decorrenza del termine di prescrizione si rinnova di momento in momento, avendo inizio da ciascun giorno rispetto al fatto già verificatosi ed al corrispondente diritto al risarcimento (Cass. civ., sez. II, n. 685/1982, n. 1534/1985 e n. 594/1990).

In sostanza, “l'istantaneità o la permanenza del fatto illecito extracontrattuale deve essere accertata con riferimento non già al danno, bensì al rapporto eziologico tra questo ed il comportamento "contra ius" dell'agente, qualificato dal dolo o dalla colpa. Mentre nel fatto illecito istantaneo tale comportamento è mero elemento genetico dell'evento dannoso e si esaurisce con il verificarsi di esso, pur se l'esistenza di questo si protragga poi autonomamente (fatto illecito istantaneo ad effetti permanenti), nel fatto illecito permanente il comportamento "contra ius" oltre a produrre l'evento dannoso, lo alimenta continuamente per tutto il tempo in cui questo perdura, avendosi così coesistenza dell'uno e dell'altro” (Cass. civ., sez. II, n. 1156/1995).

In questo contesto, sono intervenute le sentenze n. 9012/2015 e n. 3259/2016.

La prima ha affermato che il danno ambientale integra un «illecito evidentemente permanente, attesa la persistenza nel tempo della condotta - liberamente adottata ma sempre reversibile, con spontanea tempestiva ottemperanza anche alle ingiunzioni via via impartite - di mantenimento del sito ambientale in condizioni di depredazione o diminuzione, la prescrizione avrebbe iniziato a decorrere soltanto da quando la situazione illegittima, consistente nell'addotta alterazione dello stato dei luoghi, fosse stata rimossa (…), oppure da quando fosse divenuta impossibile per i soggetti danneggianti, ove avessero perso la libera disponibilità del bene e, quindi, la possibilità di liberamente determinarsi in ordine allo stesso (…)», concludendo nel senso che «la condotta antigiuridica consiste nel mantenimento dell'ambiente nelle condizioni di danneggiamento e pertanto il termine prescrizionale dell'azione di risarcimento non inizia a decorrere se non da quando tali condizioni sono state volontariamente eliminate dal danneggiante o tale condotta è stata resa impossibile dalla perdita incolpevole della disponibilità del bene da parte del danneggiante medesimo».

La seconda sentenza, richiamato tale precedente, ha fatto due precisazioni.

In primo luogo ha operato una netta distinzione rispetto alla contigua materia della bonifica, affermando che la natura permanente dell'illecito causa del danno ambientale prescinde dall'esistenza di un obbligo legale di provvedere alla bonifica del sito contaminato e al ripristino ambientale delle aree compromesse (già previsto dall'abrogato art. 17 D.Lgs. n. 22/1997 e poi dagli artt. 242 segg. Codice ambientale), così da individuare, anche in funzione della decorrenza della prescrizione, una condotta omissiva in contrasto con l'obbligo ex lege di attivarsi ai predetti fini, la quale, tuttavia, non potrebbe ritenersi imposta retroattivamente. Differente è, quindi, prosegue la sentenza n. 3259 del 2016, la situazione che attiene alla cessazione di una condotta lesiva, di compromissione del bene ambiente, con relativa rimozione delle condizioni che la determinino, e quella che fa leva, invece, sul comportamento (direttamente imposto dalla legge) volto a porre in essere misure, lato sensu, ripristinatorie della funzionalità ambientale del sito inquinato.

La seconda precisazione riguarda la valenza del precedente giurisprudenziale rappresentato da Cass., sez. III, n. 9711/2013, secondo cui «ha natura di illecito istantaneo con effetti permanenti quello che determini un danno da inquinamento, dal momento che la condotta lesiva consiste in un fatto quod unico actu perfecitur, cioè destinato ad esaurirsi in una dimensione unitaria (sul piano logico e sostanzialmente cronologico) di concreta realizzazione, a prescindere dalla eventuale diacronia dei relativi effetti».

Tale precedente viene ritenuto non pertinente alla fattispecie, «giacché esso ha riguardo al danno (non patrimoniale) alla persona in conseguenza di inquinamento ambientale e non già al danno all'ambiente quale bene autonomamente inteso, nei termini sopra evidenziati, per il cui risarcimento è causa».

L'affermazione della natura di illecito permanente del danno ambientale, consente un chiarimento in relazione alla ipotesi in cui l'attività generatrice del danno sia realizzata da più persone che si succedono nel tempo (es. realizzazione di discarica abusiva iniziata da un soggetto e proseguita da un altro).

In tal caso, vale il principio secondo cui «la successione di un soggetto ad un altro in un rapporto, comportando il termine di una condotta e l'inizio di un'altra, determina la cessazione della permanenza e l'inizio del decorso del termine di prescrizione del diritto al risarcimento, nonché, ove il successore, ponga in essere una nuova e autonoma condotta illecita, l'insorgenza di un nuovo illecito permanente alla cui cessazione inizierà a decorrere un nuovo termine prescrizionale; peraltro, ove la situazione di danno o di pericolo in pregiudizio dello stesso soggetto, ancorché apparentemente unitaria con riferimento alla posizione del danneggiato, derivi materialmente da condotte autonome e distinte, di per se stesse idonee e sufficienti a cagionare eventi dannosi o pericolosi ontologicamente separati, non insorge una situazione di condebito e non si fa luogo a solidarietà» (Cass. civ., sez.un., n. 493/1999, relativa ad un caso di captazione di acque pubbliche senza titolo inizialmente effettuato dalla Cassa per il Mezzogiorno in danno dell'A.C.E.A. e, in un secondo momento, dalla Regione Abruzzo cui la Cassa aveva trasferito le opere dell'acquedotto per il fabbisogno idrico della popolazione).

Profili penalistici

La definizione di danno ambientale contenuta nell'art. 300 del T.U., con l'espressa limitazione, quali componenti interessate, alle specie e habitat protetti, alle aree protette, alle acque ed al terreno, esclude dalla disciplina della parte VI quei profili legati ad aspetti meramente culturali ed estetici, nei quali vengono in evidenza attività di trasformazione della bellezza naturale dei luoghi protetti che alterano, sotto il profilo morfologico, il paesaggio, compromettendo il godimento che la collettività ed i singoli possono ricavarne e non anche la salubrità ambientale.

La netta distinzione tra tutela del paesaggio e tutela dell'ambiente è stata affermata anche da Corte di Giustizia, sez. X, 6 marzo 2014, causa C‑206/13, che si è dichiarata incompetente sulla questione pregiudiziale, sollevata dal TAR Palermo, relativa alla compatibilità, con l'articolo 17 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea ed il principio di proporzionalità come principio generale del diritto dell'Unione, dell'articolo 167, comma 4, lettera a), del d.lgs. n. 42 del 2004 (Codice dei beni culturali e del paesaggio), affermando la netta distinzione tra tutela del paesaggio e tutela dell'ambiente. In pratica, né le disposizioni dei Trattati UE e FUE richiamati dal giudice del rinvio, né la normativa relativa alla Convenzione di Aarhus, né le direttive 2003/4 e 2011/92 impongono agli Stati membri obblighi specifici di tutela del paesaggio, come fa invece il diritto italiano. Da ciò la Corte ha tratto la conseguenza che non vi sono elementi che consentano di ritenere che le disposizioni del decreto legislativo n. 42/2004 rilevanti nella controversia principale rientrino nell'ambito di applicazione del diritto dell'Unione, poiché esse non costituiscono attuazione di norme del diritto dell'Unione.

Ciò significa che la tutela penale del danno ambientale viene in evidenza in presenza di condotte consistenti in:

- fatti di inquinamento (acque, rifiuti, aria, secondo le previsioni sanzionatorie contenute nel T.U. ed in altre norme speciali):

- uccisione, distruzione, cattura, prelievo, detenzione di esemplari di specie animali o vegetali selvatiche protette (art. 727-b is c.p., introdotto dal D.Lgs. n. 121/2011);

- distruzione o deterioramento di habitat all'interno di un sito protetto (art. 733-bis c.p., introdotto dal D.Lgs. n. 121/2011);

- fatti rilevanti quale reati in tema di aree naturali protette (art. 30 legge n. 394/1991).

Danno ambientale e danni collegati

Il risarcimento del danno ambientale di natura pubblica è, in sé considerato, come lesione dell'interesse pubblico e generale alla integrità e salubrità dell'ambiente, con la conseguenza che il titolare della pretesa risarcitoria per tale danno ambientale è esclusivamente lo Stato, in persona del Ministro dell'ambiente, secondo la previsione dell'art. 311, comma 1, Codice ambientale (disposizione ritenuta conforme a Costituzione da Corte cost. n. 126/2016).

La legittimazione in via esclusiva dello Stato a costituirsi parte civile nei processi per reati ambientali aventi ad oggetto fatti compiuti successivamente al 29 aprile 2006 a seguito della abrogazione dell'art. 18, comma terzo, della l. n. 349/1986 derivante dall'entrata in vigore dell'art. 318, comma secondo, lett. a), del D.Lgs. n. 152/2006, spetta, in via esclusiva, allo Stato per il risarcimento del danno ambientale di natura pubblica, non esclude che tutti gli altri soggetti, singoli o associati, ivi compresi gli enti pubblici territoriali e le regioni, possano agire, in forza dell'art. 2043 c.c., per ottenere il risarcimento di qualsiasi danno patrimoniale, ulteriore e concreto, che abbiano dato prova di aver subito dalla medesima condotta lesiva dell'ambiente in relazione alla lesione di altri loro diritti patrimoniali, diversi dall'interesse pubblico e generale alla tutela dell'ambiente come diritto fondamentale e valore a rilevanza costituzionale (Cass. pen., sez. III, n. 633/2012 e Cass. pen. n. 24677/2015).

Rientrano tra i danni risarcibili anche quello non patrimoniale, inclusa la lesione dell'immagine, anche turistica, dell'ente nel cui territorio si è verificato il danno ambientale (ex multis, Cass. civ., sez. III, n. 5650/1996 e Cass. pen., sez. III, n. 48402/2004, che richiama sul punto , Cass., sez. III, n. 1145/2001 e Cass., sez. III, n. 6297/1992; v. anche Cass., sez. III, n. 8318/1988, Cass., n. 7097/2010 e Cass., n. 24619/2014).

Anche il privato cittadino è legittimato ad esercitare l'azione civile risarcitoria (eventualmente costituendosi parte civile nel processo penale) qualora non si dolga del degrado dell'ambiente, ma faccia valere una specifica pretesa in relazione a determinati beni, quali cespiti, attività, diritti soggettivi individuali (come quello alla salute), in conformità alla regola generale posta dall'art. 2043 c.c. (Cass. pen., sez. III, n. 34789/2011).

Quanto alleassociazioni ambientaliste, ferma la possibilità, per quelle riconosciute di rilevanza nazionale, di intervenire nei giudizi per danno ambientale (come previsto dal non abrogato comma 5 dell'art. 18), esse, anche se operanti su base locale, possono agire in proprio quando il danno ambientale abbia recato concreto pregiudizio all'attività svolta per la valorizzazione e la tutela del territorio sul quale incidono i beni oggetto del fatto lesivo (Cass. pen., sez. III, n. 47805/2013).

Sommario