Danno in forma specifica (risarcimento del)

Alessandro Benni de Sena
27 Maggio 2014

L'eliminazione dei danni cagionati si attua o mediante il risarcimento in forma specifica, oppure mediante il risarcimento per equivalente, con corresponsione di una somma di denaro. Il risarcimento in forma specifica consiste nell'obbligazione del responsabile del danno di ricostituire la situazione di fatto antecedente alla perdita procurata, consentendo così al danneggiato di attuare l'interesse vantato senza accontentarsi dell'equivalente pecuniario. Campo elettivo del risarcimento in forma specifica è l'illecito aquiliano, in quanto espressamente previsto dall'art. 2058 c.c. (l'art. 1223 c.c. non dispone alcunché circa le modalità risarcitorie, che possono essere individuate altrove, ossia appunto nell'art. 2058 c.c., e pone problemi di interferenza con l'esecuzione in forma specifica, come si vedrà nel prosieguo). Il danneggiato può chiedere il risarcimento in forma specifica, ove sia in tutto o in parte possibile. Tuttavia, il giudice può disporre che il risarcimento avvenga solo per equivalente, se la reintegrazione risulti eccessivamente onerosa per il debitore.

Inquadramento

Il risarcimento in forma specifica è una forma di risarcimento del danno alternativa al risarcimento per equivalente e consiste nell'obbligazione del responsabile del danno di ricostituire la situazione di fatto antecedente alla perdita procurata, consentendo così al danneggiato di attuare l'interesse vantato senza accontentarsi dell'equivalente pecuniario.

Campo elettivo del risarcimento in forma specifica è l'illecito aquiliano, in quanto espressamente previsto dall'art. 2058 c.c. (l'art. 1223 c.c. non dispone alcunché circa le modalità risarcitorie e pone problemi di interferenza con l'esecuzione in forma specifica, come vedremo).

Il danneggiato può chiedere il risarcimento in forma specifica, ove sia in tutto o in parte possibile. Tuttavia, il giudice può disporre che il risarcimento avvenga solo per equivalente con corresponsione di una somma di denaro, se la reintegrazione risulti eccessivamente onerosa per il debitore.

Rapporti tra risarcimento in forma specifica e risarcimento per equivalente

Fonte di acceso dibattito è la questione della relazione tra le due forme di risarcimento.

Configurandole come modalità di attuazione della medesima obbligazione risarcitoria (dunque, in nome dell'unità dei rimedi sotto la categoria generale della riparazione del danno), alcuni hanno configurato una vera e propria gerarchia, in virtù della quale l'uno è qualcosa di più dell'altro, ma con esiti, poi, diversi. Secondo una corrente di pensiero, infatti, il risarcimento in forma specifica sarebbe prioritario, vuoi in base ad una pretesa dizione letterale dell'art. 2058 c.c. (specie con riferimento all'espressione “solo per equivalente” usata nel comma 2, come se il risarcimento pecuniario integrasse un quid minoris rispetto all'altro modo di riparazione), vuoi riconoscendone la forma ideale di riparazione del danno. Proseguendo sull'onda, si è anche giunti a ritenere la reintegra in forma specifica il parametro di valutazione del risarcimento del danno anche nella liquidazione fatta per equivalente, con la conseguenza che lo stesso comma 2 dell'art. 2058c.c. sarebbe contraddittorio, nella parte in cui collega l'eccessiva onerosità alla reintegrazione, visto che il costo della medesima sarebbe proprio la misura del danno.

Altri hanno ricostruito il rapporto in termini di subordinazione della reintegrazione in forma specifica al risarcimento per equivalente, partendo dal presupposto che la prima forma non potrebbe operare nei casi di impossibilità e di eccessiva onerosità.

Da qualche decennio si è cercato di superare l'impostazione tradizionale, traendo suggerimenti dalla dottrina giureconomica nordamerica, in particolare la c.d. griglia di Calabresi e Melamed. In questa prospettiva le regole che presiedono alla tutela delle situazioni soggettive connesse ad una risorsa scarsa vengono distinte in property rules e liability rules, ossia in regole di proprietà (che garantiscono al titolare della posizione una tutela piena mediante il mantenimento dell'assetto allocativo) e in regole di responsabilità (che permettono l'appropriazione della risorsa scarsa anche senza il consenso dell'avente diritto, che deve essere compensato delle perdita subita sulla base di una valutazione astratta, compiuta dal giudice facendo riferimento a criteri collettivamente determinati): M.R. Marella, La riparazione del danno in forma specifica,Cedam, 2000, 6 ss..

Su questa base, il rimedio in forma specifica assume carattere eccezionale e costituisce un limite nell'ambito del sistema delle responsabilità civile e non potrebbe essere ammesso in assenza di espressa previsione normativa.

La giurisprudenza ritiene che la reintegrazione in forma specifica, ricondotta alla figura del risarcimento del danno, costituisca il modo primario di riparazione del danno, considerando il risarcimento per equivalente come il sostituto legale sussidiario della reintegrazione, ovvero considerando la riparazione pecuniaria come un minus rispetto alla reintegrazione (con importanti conseguenze processuali in tema di emendatio e mutatio libelli, che vedremo). Altra cosa è riconoscere che il risarcimento per equivalente rappresenta la forma “tipica”, ovvero più diffusa, di risarcimento del danno.

In evidenza

In proposito occorre infatti precisare che il risarcimento del danno in forma specifica e quello per equivalente sono espressione della medesima esigenza di eliminazione del pregiudizio derivante dall'illecito e si distinguono fra loro esclusivamente per le differenti modalità di attuazione.

Tali distinte modalità attuative sono tuttavia del tutto fungibili fra loro, essendo entrambe riconducibili alla comune finalità di porre riparo agli effetti negativi dell'illecito, e in tal senso si è implicitamente espressa questa Corte in proposito, che segnatamente ha reiteratamente riconosciuto al giudice il potere di disporre autonomamente il risarcimento per equivalente anzichè in forma specifica (Cass. n. 13/15875, Cass. n. 7/866, Cass. n. 4/3004), ed alle parti la facoltà di mutare la domanda dall'una all'altra ipotesi, essendo qualificata la nuova configurazione della richiesta come semplice "emendatio libelli" della richiesta originaria (Cass. n. 5/12964, Cass. 96/10624): Cass., Sez. Un., 28 maggio 2014, n. 11912.

Elemento oggettivo. Reintegrazione e tutela reale

In via generale e salvo quanto si vedrà meglio nel prosieguo, la giurisprudenza appare dilatare l'istituto della reintegrazione fino ad attribuirgli quasi una funzione di azione generale di rimozione della situazione lesiva del diritto, specie in rapporto alla tutela ripristinatoria dei diritti reali.

Contro tale ampliamento, vi è anche chi contrasta la riconduzione alla categoria generale della riparazione del danno in nome dello statuto di autonomia dei rimedi, evidenziando che alla separazione esistente, sul piano sostanziale, tra illecito e danno corrisponde di necessità un'altrettanta netta distinzione tra strumenti di tutela azionabili: l'illecito andrà represso col ricorso all'inibitoria, il danno sarà riparato col risarcimento. In altre parole, si sottolinea la differenza tra gli strumenti atti a prevenire il danno e quelli atti a reprimerlo, non potendosi confonderli in un unico istituto.

V'è da dire che la reintegrazione è prevista, oltre che dalla norma di cui si discute, da altre disposizioni e, in particolare, dall'art. 872 comma 2 c.c. (che prevede la riduzione in pristino a seguito della violazione delle norme sulle distanze legali delle costruzioni); dall'art. 948 c.c. (secondo cui il convenuto nell'azione di rivendica è tenuto a recuperare la cosa a proprie spese o in alternativa a corrisponderne il valore, salvo il risarcimento del danno); dall'art. 949 comma2 c.c. (ove all'ordine di cessazione delle molestie e turbativa si aggiunge il risarcimento del danno); dall'art. 1079 c.c. (in materia di servitù è prevista la remissione in pristino oltre al risarcimento del danno); dall'art. 2599 c.c. (che prevede l'inibitoria giudiziale della continuazione degli atti di concorrenza sleale e la determinazione giudiziale dei provvedimenti idonei a eliminare gli effetti di quegli atti, la quale viene considerata reintegrazione in forma specifica), mentre il successivo art. 2600 disciplina il risarcimento del danno; dall'art. 158 l. 22 aprile 1941, n. 633 (in tema di diritto d'autore), piuttosto che dagli artt. 7,9,10 c.c. (ove alla tutela inibitoria del nome, dello pseudonimo e dell'immagine si accompagna il risarcimento del danno); dall'art. 185 comma 1 c.p.

Viene, dunque, in considerazione la natura stessa del risarcimento in forma specifica: in questa prospettiva ci si interroga sul rapporto tra il risarcimento in forma specifica e gli altri rimedi di natura ripristinatoria e, in particolare, se l'istituto in questione sia un rimedio tipico della responsabilità civile oppure finisca per confondersi con altri strumenti di repressione del torto in generale.

Ecco la ragione per la quale la giurisprudenza appare (e solo appare) dilatare l'istituto de quo.

Giurisprudenza e dottrina, infatti, sono attenti a distinguere, nella sostanza, le due sfere di applicazione, specie con riguardo alla tutela reale: se un soggetto agisce a tutela di un proprio diritto reale o del possesso, agisce per ottenere la reintegra del diritto o del potere violati. Accanto a ciò, bene il soggetto può chiedere il risarcimento del danno, ma le due situazioni rimangono distinte, in quanto ben distinte sono le rispettive fonti: nel primo caso, la violazione del diritto o del possesso; nel secondo caso, la causazione di un danno ingiusto.

Anche ove l'azione reale o possessoria non sia più esperibile e al suo posto venga chiesto il risarcimento in forma specifica, la giurisprudenza tiene ferma la distinzione, indagando il tipo di azione esperita al duplice fine di accertare la legittimazione attiva dell'attore e verificare l'applicazione della limitazione di cui al comma 2 della norma in esame.

Infatti, un'azione reale presuppone la qualifica di proprietario, cosa non richiesta per l'azione di danni, che, però, presuppone che il risarcimento in natura sia in tutto o in parte possibile e che non sia eccessivamente oneroso per il responsabile.

In tutti i casi richiamati, dunque, il ripristino o l'ordine di cessazione dell'attività lesiva ripristinano la pienezza del diritto o della situazione di fatto lesa. A questa può aggiungersi l'eliminazione delle conseguenze dannose secondo l'art. 2043 c.c. Ma in questo caso nessuna sovrapposizione di rimedi vi può essere, in quanto la funzione delle due azioni rimane distinta: la prima ristabilisce il diritto, l'altra ripara il danno, che si pone come ulteriore effetto della violazione della norma.

Questa riparazione può avvenire in natura, ad esempio nel caso in cui derivino danni dalla stessa attività di ripristino oppure nel caso in cui la cosa restituita ai sensi dell'art. 948 c.c. non sia integra. E così anche nelle ipotesi di inibitoria, quest'ultima potrà far cessare lo stato di fatto dannoso e, tutt'al più limitarlo quantitativamente, ma non lo esaurisce e, pertanto, la reintegrazione in forma specifica mantiene la propria autonomia e conserva la propria funzione compensativa, che manca alle azioni, ad esempio, reali.

Conferma di ciò si trae anche dall'art. 936 c.c., a mente del quale la costruzione eseguita sul fondo altrui con materiali propri può creare una situazione di favore in capo al proprietario del fondo, il cui valore potrebbe accrescersi. In tale evenienza il proprietario del fondo potrà chiedere il ripristino, ma non il risarcimento del danno in natura, poiché dall'altrui attività riceve un lucro: il ripristino riguarda il diritto violato, mentre il risarcimento attiene alla repressione del danno.

Riassumendo, l'art. 2058 c.c. non legittima la configurazione di un autonomo istituto di reintegra di qualsiasi situazione violata, i cui diversi ambiti sono stabiliti dalle norme sopra viste. La norma configura due forme di risarcimento (la condanna alla riparazione in natura oppure alla dazione di una somma di denaro). Il presupposto del risarcimento resta sempre la causazione di un danno risarcibile.

Consegue che in tutti i casi nei quali venga disposta la cessazione dell'attività lesiva o la riduzione in pristino, si è al di fuori dell'area del risarcimento, in tanto in quanto il danno non sia il loro fatto produttivo. L'ulteriore conseguenza è che, come detto, non è applicabile la limitazioni posta dall'art. 2058 comma 2 c.c. sull'eccessiva onerosità.

Orientamenti a confronto

ORIENTAMENTI A CONFRONTO

Art. 2058 c.c. e obbligazioni. Applicabilità

Il risarcimento del danno in forma specifica, secondo il principio generale fissato dall'art. 2058 c.c., é applicabile anche alle obbligazioni contrattuali, in quanto rimedio alternativo al risarcimento per equivalente pecuniario, sicché il danneggiato può chiedere ed ottenere la reintegrazione in forma specifica anche quando il suo diritto di condomino sia leso per effetto di violazione del regolamento pattizio (Cass. civ., sez. II, 17 giugno 2015, n. 12582).

Art. 2058 c.c. e compravendita. Azione di esatto adempimento. Esclusione.

In tema di compravendita, la disciplina della garanzia per vizi si esaurisce negli art. 1490 ss. c.c., che pongono il venditore in una situazione non tanto di obbligazione, quanto di soggezione, esponendolo all'iniziativa del compratore, intesa alla modificazione del contratto od alla sua caducazione mediante l'esperimento, rispettivamente, della actio quanti minoris o della actio redhibitoria. Ne consegue che il compratore non dispone - neppure a titolo di risarcimento del danno in forma specifica - di un'azione "di esatto adempimento" per ottenere dal venditore l'eliminazione dei vizi della cosa venduta, rimedio che gli compete soltanto in particolari ipotesi di legge (garanzia di buon funzionamento, vendita dei beni di consumo) o qualora il venditore si sia specificamente impegnato alla riparazione del bene (Cass. civ., Sez. Un., 13 novembre 2012, n. 19702).

Risarcimento in forma specifica e per equivalente. Rapporto.

Il risarcimento del danno in forma specifica rappresenta, rispetto a quello per equivalente, una forma - più ampia ed onerosa per il debitore - di ristoro del pregiudizio dallo stesso arrecato (Cass. civ., sez. III, 20 ottobre 2014, n. 22223).

In materia di risarcimento del danno, la reintegrazione per equivalente rappresenta un surrogato legale della reintegrazione in forma specifica (Trib. Lucca, 4 febbraio 2013, n. 110).

La reintegrazione per equivalente rappresenta un sostitutivo legale della reintegrazione del patrimonio del creditore in forma specifica, mediante la restituzione dell'eadem res debita (Cass. civ., sez. II, 22 febbraio 2001, n. 26139).

Non è condivisibile la tesi che considera la tutela per equivalente del diritto soggettivo come la regola, e la tutela specifica come l'eccezione. Infatti, l'art. 2058 c.c. nega un rapporto regola-eccezione così prospettato ed anzi lo capovolge: l'illecito aquiliano - ma la norma si estende all'illecito contrattuale - attribuisce al danneggiato (nel rapporto contrattuale, al creditore insoddisfatto) la "reintegrazione in forma specifica", se giuridicamente e materialmente possibile (comma 1) ed il risarcimento "per equivalente" alla subordinata condizione che la reintegrazione risulti, secondo il giudice, eccessivamente onerosa per il debitore (comma 2) (Trib. Reggio Calabria, sez. lav., 20 dicembre 2010).

Elemento oggettivo, reintegrazione e tutela reale

In via generale e salvo quanto si vedrà meglio nel prosieguo, la giurisprudenza appare dilatare l'istituto della reintegrazione fino ad attribuirgli quasi una funzione di azione generale di rimozione della situazione lesiva del diritto, specie in rapporto alla tutela ripristinatoria dei diritti reali.

Contro tale ampliamento, vi è anche chi contrasta la riconduzione alla categoria generale della riparazione del danno in nome dello statuto di autonomia dei rimedi, evidenziando che alla separazione esistente, sul piano sostanziale, tra illecito e danno corrisponde di necessità un'altrettanta netta distinzione tra strumenti di tutela azionabili: l'illecito andrà represso col ricorso all'inibitoria, il danno sarà riparato col risarcimento. In altre parole, si sottolinea la differenza tra gli strumenti atti a prevenire il danno e quelli atti a reprimerlo, non potendosi confonderli in un unico istituto.

V'è da dire che la reintegrazione è prevista, oltre che dalla norma di cui si discute, da altre disposizioni e, in particolare, dall'art. 872 comma 2c.c. (che prevede la riduzione in pristino a seguito della violazione delle norme sulle distanze legali delle costruzioni); dall'art. 948 c.c. (secondo cui il convenuto nell'azione di rivendica è tenuto a recuperare la cosa a proprie spese o in alternativa a corrisponderne il valore, salvo il risarcimento del danno); dall'art. 949, comma2, c.c. (ove all'ordine di cessazione delle molestie e turbativa si aggiunge il risarcimento del danno); dall'art. 1079 c.c. (in materia di servitù è prevista la remissione in pristino oltre al risarcimento del danno); dall'art. 2599 c.c. (che prevede l'inibitoria giudiziale della continuazione degli atti di concorrenza sleale e la determinazione giudiziale dei provvedimenti idonei a eliminare gli effetti di quegli atti, la quale viene considerata reintegrazione in forma specifica), mentre il successivo art. 2600 disciplina il risarcimento del danno; dall'art. 158, l. 22 aprile 1941, n. 633 (in tema di diritto d'autore), piuttosto che dagli artt. 7,9,10 c.c. (ove alla tutela inibitoria del nome, dello pseudonimo e dell'immagine si accompagna il risarcimento del danno); dall'art. 185, comma 1, c.p..

Viene, dunque, in considerazione la natura stessa del risarcimento in forma specifica: in questa prospettiva ci si interroga sul rapporto tra il risarcimento in forma specifica e gli altri rimedi di natura ripristinatoria e, in particolare, se l'istituto in questione sia un rimedio tipico della responsabilità civile oppure finisca per confondersi con altri strumenti di repressione del torto in generale.

Ecco la ragione per la quale la giurisprudenza appare (e solo appare) dilatare l'istituto de quo.

Giurisprudenza e dottrina, infatti, sono attenti a distinguere, nella sostanza, le due sfere di applicazione, specie con riguardo alla tutela reale: se un soggetto agisce a tutela di un proprio diritto reale o del possesso, agisce per ottenere la reintegra del diritto o del potere violati. Accanto a ciò, bene il soggetto può chiedere il risarcimento del danno, ma le due situazioni rimangono distinte, in quanto ben distinte sono le rispettive fonti: nel primo caso, la violazione del diritto o del possesso; nel secondo caso, la causazione di un danno ingiusto.

Anche ove l'azione reale o possessoria non sia più esperibile e al suo posto venga chiesto il risarcimento in forma specifica, la giurisprudenza tiene ferma la distinzione, indagando il tipo di azione esperita al duplice fine di accertare la legittimazione attiva dell'attore e verificare l'applicazione della limitazione di cui al comma 2 della norma in esame. Infatti, un'azione reale presuppone la qualifica di proprietario, cosa non richiesta per l'azione di danni, la quale ultima, però, presuppone che il risarcimento in natura sia in tutto o in parte possibile e che non sia eccessivamente oneroso per il responsabile, a differenza dell'azione reale.

In tutti i casi richiamati, dunque, il ripristino o l'ordine di cessazione dell'attività lesiva ripristinano la pienezza del diritto o della situazione di fatto lesa. A questa può aggiungersi l'eliminazione delle conseguenze dannose secondo l'art. 2043 c.c.. Ma in questo caso nessuna sovrapposizione di rimedi vi può essere, in quanto la funzione delle due azioni rimane distinta: la prima ristabilisce il diritto, l'altra ripara il danno, che si pone come ulteriore effetto della violazione della norma.

Questa riparazione può avvenire in natura, ad esempio nel caso in cui derivino danni dalla stessa attività di ripristino oppure nel caso in cui la cosa restituita ai sensi dell'art. 948 c.c. non sia integra. E così anche nelle ipotesi di inibitoria, quest'ultima potrà far cessare lo stato di fatto dannoso e, tutt'al più limitarlo quantitativamente, ma non lo esaurisce e, pertanto, la reintegrazione in forma specifica mantiene la propria autonomia e conserva la propria funzione compensativa, che manca alle azioni, ad esempio, reali.

Conferma di ciò si trae anche dall'art. 936 c.c., a mente del quale la costruzione eseguita sul fondo altrui con materiali propri può creare una situazione di favore in capo al proprietario del fondo, il cui valore potrebbe accrescersi. In tale evenienza il proprietario del fondo potrà chiedere il ripristino, ma non il risarcimento del danno in natura, poiché dall'altrui attività riceve un lucro: il ripristino riguarda il diritto violato, mentre il risarcimento attiene alla repressione del danno.

L'ulteriore conseguenza è che, come detto, la limitazione posta dall'art. 2058, comma 2,c.c. (che prevede la possibilità di ordinare il risarcimento del danno per equivalente anziché la reintegrazione in forma specifica in caso di eccessiva onerosità di quest'ultima) non trova applicazione nelle azioni intese a far valere un diritto reale la cui tutela esige la rimozione del fatto lesivo, come quella diretta ad ottenere la riduzione in pristino per violazione delle norme sulle distanze, atteso il carattere assoluto del diritto leso (Cass. civ., sez. II, 16 luglio 2015, n. 14916).

Elemento oggettivo, risarcimento in forma specifica ed esecuzione in forma specifica: l'inadempimento dell'obbligazione

L'esecuzione in forma specifica prevista dagli artt. 2930 e ss. c.c. tende a realizzare il medesimo risultato dell'adempimento volontario mancato. Il suo presupposto è l'inadempimento dell'obbligazione, rispetto al quale lo strumento non necessariamente rimuove tutte le conseguenze.

Se il risarcimento ex art. 2058 e l'esecuzione in forma specifica sembrano simili, il fine dei due mezzi rimane differente, in quanto l'esecuzione in forma specifica mira a soddisfare l'interesse del creditore rappresentato dal vincolo obbligatorio, mentre il risarcimento in natura mira a eliminare le conseguenze del danno, che potrebbe anche non esserci.

Pertanto, ferme queste precise coordinate istituzionali, si riconosce l'estensibilità del risarcimento in forma specifica al danno da inadempimento in senso stretto dell'obbligazione non coperta dalla esecuzione in forma specifica.

Potrebbero sorgere dei dubbi nel caso del mandatario che acquisti un bene immobile per conto proprio e non per conto del mandante violando il regolamento contrattuale; nel caso di vizi della cosa compravenduta o nel caso di riconsegna al locatore da parte del conduttore della cosa locata modificata. In questi casi potrebbe apparire che all'inadempimento segua il risarcimento in forma specifica (trasferimento del bene, eliminazione dei vizi o delle modifiche).

Tuttavia, per le ragioni viste non è possibile confondere gli istituti dell'esatto adempimento e del risarcimento in forma specifica, in quanto il danno resta il punto di partenza dell'analisi: occorre interrogarsi se il rimedio esperito tenda a restaurare la situazione violata dalla condotta illecita, oppure se miri a compensare la perdita cagionata.

Così anche nel caso delle restituzioni che si fondano su azioni personali, conseguenti all'invalidità e all'inefficacia del contratto. Esse non mirano a rimuovere un danno ingiusto, ma hanno la funzione di evitare il conseguimento di un arricchimento senza causa per effetto della caducazione del contratto, ossia dell'atto che diede causa all'attribuzione patrimoniale.

Un'ultima questione concerne l'ammissibilità del risarcimento in forma specifica dell'interesse contrattuale negativo.

Se astrattamente non lo si può escludere, in concreto molto dubbia è la sua ammissibilità, per la semplice ragione che, se l'interesse negativo si sostanzia nelle spese affrontate per il contratto non concluso e le occasioni perdute confidando nella sua conclusione, ebbene le prime si configurano come rimborso, le seconde come un guadagno sperato o una forma di lucro cessante. In entrambi i casi, per la natura del danno quest'ultimo non potrà che essere risarcito che per equivalente.

Onere della prova

Il danno deve essere provato secondo le regole ordinarie da parte del danneggiato.

In ambito contrattuale, si può presumere la colpa ex art. 1218 c.c., ma non il danno (Cass. civ., sez. II, 30 luglio 2004, n. 14599).

Criteri di liquidazione

Come detto, presupposto dell'art. 2058 c.c. è l'esistenza di un danno ingiusto e patrimoniale.

La prima forma di risarcimento in forma specifica è la ricostituzione della situazione materiale esistente prima del fatto.

Ove questo non sia possibile, ulteriore forma di risarcimento in natura è rappresentata dalla consegna di una cosa appartenente al medesimo genere di quella, ad esempio, distrutta. Si attua una ricostituzione della situazione giuridica, per equivalente, ma sempre in natura.

La cosa data a titolo di risarcimento non deve avere un valore pari alla media, ma pari a quello della cosa distrutta, diversamente attribuendosi al danneggiato un lucro ingiustificato.

Proprio perché non è sempre agevole trovare sul mercato un bene funzionalmente ed economicamente identico al bene distrutto, la forma “ordinaria” di risarcimento in natura è dato dalla riparazione materiale dei danni cagionati alla cosa, così da ricondurre la cosa nel suo stato antecedente il fatto. Il danneggiante viene condannato ad un facere, ossia ad eseguire le riparazioni necessarie al ripristino dello stato anteriore.

In tale forma di risarcimento viene ricompresa, di regola, anche la refusione delle spese affrontate per riparare la cosa (Cass. civ., sez. VI, 4 novembre 2013, n. 24718). Se, a rigore, il rimborso delle spese può apparire come danno un emergente e considerato un risarcimento per equivalente, d'altra parte le spese sono funzionali e dirette a ripristinare la cosa nello stato di fatto anteriore, costituendo, così, un'ipotesi di risarcimento in forma specifica.

Criteri di operatività e limiti

L' art. 2058 c.c. prevede due limiti all'operatività della reintegrazione in forma specifica: l'impossibilità e l'eccesiva onerosità.

Il comma 1 dell'art. 2058 c.c. prevede la facoltà di scelta del risarcimento in forma specifica, se questo sia in tutto o in parte possibile.

Tale possibilità, cui la norma fa riferimento, va intesa innanzitutto come possibilità materiale, ma anche come possibilità giuridica e tendenzialmente oggettiva.

La nozione di possibilità può riferirsi ad un parametro oggettivo, collegato alla natura del bene leso o sottratto. Così sarà materialmente possibile la riparazione o la restituzione della cosa distrutta, se questa sia di genere.

L'impossibilità giuridica ricorre quando la prestazione dovuta sia oggetto di uno specifico divieto normativo.

Un caso di impossibilità giuridica può essere ravvisato in quello in cui le spese di riparazione superino il valore commerciale del bene medesimo (se cosa generica e facilmente reperibile sul mercato). Riconoscere la possibilità di risarcire in questa forma significherebbe arricchire ingiustificatamente la vittima. Classico esempio è la riparazione di un veicolo di valore commerciale prossimo al nulla.

Al riguardo occorre fare riferimento non alla cosa danneggiata, ma al “danno risarcibile” o, meglio, alle spese che lo rappresentino.

Qualora il bene danneggiato sia infungibile, le spese di riparazione possono costituire un indice attraverso cui identificare il danno subito. Dove, però, il bene sia fungibile e improduttivo, le spese di riparazione non identificano il danno, che è il valore commerciale del bene.

Insomma, la questione riguarda se quel maggior valore (delle spese) rappresenti o meno il danno da compensare, rischiando di riconoscere al danneggiato un'ingiustificata locupletazione (Cass. civ., sez III, 22 maggio 2003, n. 8052).

In questo senso sarebbe errato risolvere il problema con l'ulteriore criterio posto dal comma 2 dell'art. 2058 c.c., ossia attraverso l'eccessiva onerosità, sebbene vengano spesso usati entrambi i criteri di lettura (Cass. civ., sez. VI, 4 novembre 2013, n. 24718). Dovrebbe, invece, rilevare l'impossibilità di risarcire in questa forma, poiché in tal modo si giungerebbe ad arricchire ingiustificatamente la vittima.

Più in generale, non potendosi il danneggiato arricchire ricevendo una cosa di valore superiore, nella concreta determinazione del danno risarcibile, ove la riparazione vada oltre il ristabilimento della situazione anteriore (producendo, così un vantaggio economico per il danneggiato), il giudice può tener conto di tale arricchimento, riducendo la misura del risarcimento. L'esempio può essere quello del rifacimento completo di un vecchio pavimento (non essendo possibile, in tesi, un rifacimento parziale), così consegnando al danneggiato un bene in condizioni estetiche e funzionali migliori rispetto a quelle preesistenti.

Altra ipotesi di impossibilità giuridica di riparare il danno in natura può essere quello della doppia vendita immobiliare, nel caso in cui il terzo concorra nell'inadempimento del venditore. Se astrattamente il danneggiato potrebbe agire a titolo aquilino nei confronti del terzo che abbia per primo trascritto e, così, richiedere il risarcimento in forma specifica, tale modalità di risarcimento andrebbe ad urtare irrimediabilmente contro le regole sulla circolazione dei beni. Essendo diverse le regole sulla circolazione dei beni (garantire la certezza degli acquisti nell'interesse generale) e quelle sul risarcimento (tutelare il soggetto dal verificarsi di danni), in caso di loro concorrenza il conflitto può essere composto oppure ritenuto apparente, avendo a mente la diversa funzione e il diverso ambito di applicazione degli istituti coinvolti: non è possibile esperire il risarcimento in forma specifica, in quanto questo significherebbe disconoscere le esigenze della circolazione dei beni, ovvero, ritenendo il conflitto apparente, confondere gli ambiti e le funzioni degli istituti. Dunque, tale forma di risarcimento non è possibile alla stregua del comma 1 della norma in esame.

In caso di impossibilità parziale, la parte non reintegrabile sarà risarcibile per equivalente.

L'altro limite è previsto dal comma 2 dell'art. 2058 c.c. e riguarda l'eccessiva onerosità: se il risarcimento in natura risulta eccessivamente oneroso per il debitore, il giudice può disporre il risarcimento per equivalente.

Come già detto, la giurisprudenza è attenta ad indagare il tipo di azione esperita, per sottolineare che la limitazione de quo non è applicabile alle azioni reali aventi per oggetto il ripristino, la cui tutela esige la rimozione del fatto lesivo, come quella diretta ad ottenere la riduzione in pristino per violazione delle norme sulle distanze, atteso il carattere assoluto del diritto leso (Cass. civ., sez. II, 16 luglio 2015, n. 14916; Cass. civ., sez. II, 25 maggio 2012, n. 8358).

Circa la valutazione dell'eccessiva onerosità, si tende a prendere in considerazione tutte le circostanze del caso, in termini soggettivi (le condizioni economiche delle parti e del debitore in particolare) ed oggettivi (la differenza tra il costo e l'utilità prodotta). In questo modo si tiene conto sia del grado di difficoltà di ciascun responsabile (che può essere diversa da soggetto a soggetto) in ordine alla esecuzione della prestazione, sia della proporzione dell'utilità prestata alla vittima.

Nel caso di dolo il limite dell'eccessiva onerosità si ritiene fortemente limitato nell'applicazione, se non escluso.

Aspetto medico-legali

Continuando il discorso sul limite della possibilità di risarcire in natura, si ritiene che il risarcimento in forma specifica non sia possibile nel caso di danno alla persona che comporti la menomazione di funzionalità di un organo. Infatti, se è vero che in senso ampio la norma in esame mira anche a prevenire ipotesi di danno permanente, nel caso di danno alla persona la permanenza indica un tipo di lesione che produce conseguenze non eliminabili in futuro, sicchè rispetto a questa specie di illecito il risarcimento in natura non raggiungerebbe lo scopo e non adempirebbe alla funzione di impedire che il danno si rinnovi di momento in momento fino all'eliminazione della causa.

Occorre specificare che, nel diverso caso di lesione del credito a seguito di invalidità temporanea del debitore e qualora la sua prestazione sia fungibile, in astratto è ipotizzabile che il responsabile sia condannato a procurare e pagare un dipendente che sostituisca il dipendente infortunato durante il periodo della invalidità temporanea. In concreto, l'ipotesi rimane di scuola in considerazione dei tempi di un giudizio ordinario.

Molto discussa è anche la risarcibilità, meglio riparabilità, in tale forma del danno non patrimoniale. Da una parte, questo tipo di danno è per eccellenza e per sua natura insostituibile ed infungibile. Dall'altra, non si esclude (e sembra l'opinione prevalente) l'applicabilità della reintegra in forma specifica anche al danno non patrimoniale.

Aspetti processuali

Innanzitutto, il potere di scelta in ordine al risarcimento in natura o per equivalente spetta al danneggiato, prescindendo dall'esame dei limiti previsti dalla comma 2 della norma in esame ed esaminati appena supra.

Si ritiene, ma non unanimemente, che l'obbligazione sia una, come unica risulta la prestazione risarcitoria, che può essere soddisfatta sia per equivalente, sia in natura. Questo appare conforme alla figura del risarcimento in forma specifica, non conciliabile con altre ricostruzioni in termini di obbligazioni alternative oppure con facoltà alternativa. Considerando che il risarcimento per equivalente è sempre possibile a differenza di quello in natura e che non necessariamente questo ultimo libera il responsabile dall'obbligazione risarcitoria, non si rinviene la disciplina tipica delle obbligazioni alternative, come pure non è irrevocabile la scelta operata dal danneggiato o non è previsto che l'impossibilità di una delle prestazioni liberi il danneggiante. Tanto meno è rinvenibile la disciplina dell'obbligazione con facoltà alternativa, ove è attribuita al debitore la facoltà di scelta di liberarsi eseguendo una prestazione diversa da quella dovuta. In ogni caso, la prestazione risarcitoria è unitaria e il risarcimento in natura non costituisce esecuzione di una prestazione diversa da quella per equivalente.

Quanto al mutamento di domanda, Il giudice di merito può sempre disporre il risarcimento per equivalente, anche qualora fosse stato chiesto quello in natura, senza per ciò violare l'art. 112 c.p.c. ossia il principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato.

Al contrario, non è possibile disporre la reintegrazione in forma specifica, ove fosse stato chiesto il risarcimento per equivalente.

Si ritiene questo proprio in ragione della concezione giurisprudenziale sopra vista del risarcimento de quo: essendo il risarcimento per equivalente un minus rispetto alla reintegrazione in forma specifica, la domanda di quest'ultima forma di risarcimento contiene implicitamente la prima e non giustifica il contrario e, correlativamente, si ritiene più ampio il petitum con cui si chiede il risarcimento in natura. Consegue che la richiesta di risarcimento per equivalente, ove sia stato originariamente chiesto il risarcimento in forma specifica, costituisce una semplice emendatio libelli (Cass. civ., sez. I, 18 settembre 2013 n. 21337; Cass. civ., sez. III, 20 ottobre 2014 n. 22223).

Del pari, non costituisce domanda nuova, come tale vietata, la richiesta di risarcimento per equivalente formulata per la prima volta in appello, ove restino immutati i fatti e le circostanze posti a base della domanda originaria di reintegrazione in forma specifica.

Con riguardo al termine di prescrizione, si ritiene sia quello quinquennale previsto dall'art. 2947 c.c., nonostante quest'ultima norma si riferisca al diritto al risarcimento danno. Questo, infatti, e la reintegrazione in forma specifica sono entrambi conseguenza del fatto dannoso e sono elementi del potere del danneggiato di ottenere la riparazione del danno. Pertanto, la ragione che giustifica la prescrizione breve di cinque anni ricorre anche per reintegrazione in natura.

Profili penalistici

Di reintegrazione in forma specifica si parla anche con riguardo al danno ambientale (art. 260 comma 4 D.lgs. 3 aprile 2006 n. 152). In realtà, si tratta di due istituti diversi, solo pensando alla funzione del ripristino in sede ambientale, di natura spiccatamente sanzionatoria. D'altra parte, la giurisprudenza ha accostato tale ripristino alla tutela di natura reale (Cass. civ., sez. III, 10 dicembre 2012, n. 22382), così avvicinandosi alle property rules di cui si è fatto cenno all'inizio.

Casistica

Il rapporto tra risarcimento per equivalente e in forma specifica

Il risarcimento del danno per equivalente costituisce una reintegrazione del patrimonio del creditore che si realizza mediante l'attribuzione, al creditore, di una somma di denaro pari al valore della cosa o del servizio oggetto della prestazione non adempiuta. Lo stesso, quindi, si atteggia come la forma, per così dire, tipica di ristoro del pregiudizio subito dal creditore per effetto dell'inadempimento dell'obbligazione da parte del debitore. Diversamente, il risarcimento in forma specifica, essendo diretto al conseguimento dell'eadem res dovuta, tende a realizzare una forma più ampia e, di regola, più onerosa per il debitore, di ristoro del pregiudizio dallo stesso arrecato, dato che l'oggetto della pretesa azionata non è costituito da una somma di danaro, ma dal conseguimento, da parte del creditore danneggiato, di una prestazione del tutto analoga, nella sua specificità e integrità, a quella cui il debitore era tenuto in base al vincolo contrattuale. Deriva da quanto precede, pertanto, che la richiesta di risarcimento per equivalente allorché sia stato originariamente richiesto, in giudizio, il risarcimento in forma specifica costituisce una semplice emendatio libelli (Cass. civ., sez. I, 19 settembre 2013, n. 21337).

Possibilità giuridica ed eccessiva onerosità

Ai sensi dell'art. 2058 c.c., si ha eccessiva onerosità quando il sacrificio economico necessario per il risarcimento in forma specifica, in qualsiasi dei modi prospettabili (incluse, quindi, le riparazioni effettuate direttamente dal danneggiante o la corresponsione delle somme al danneggiato per effettuare dette riparazioni), superi in misura appunto eccessiva, date le circostanze del caso, il valore da corrispondere in base al risarcimento per equivalente. Ne consegue che, in caso di domanda di risarcimento del danno subito da un veicolo a seguito di incidente stradale, costituita dalla somma di denaro necessaria per effettuare la riparazione dei danni, in effetti si è proposta una domanda di risarcimento in forma specifica. Se detta somma supera notevolmente il valore di mercato dell'auto, da una parte essa risulta eccessivamente onerosa per il debitore danneggiante e dall'altra finisce per costituire una lucupletazione per il danneggiato. Ne consegue che in caso di notevole differenza tra il valore commerciale del veicolo incidentato ed il costo richiesto delle riparazioni necessarie, il giudice potrà, in luogo di quest'ultimo, condannare il danneggiante (ed in caso di azione diretta, l'assicuratore), al risarcimento del danno per equivalente (Cass. civ., sez. VI, 4 novembre 2013, n. 24718).

Eccessiva onerosità. Diritti assoluti. Inapplicabilità.

L'art. 2058, comma 2, c.c., che prevede la possibilità di ordinare il risarcimento del danno per equivalente anziché la reintegrazione in forma specifica in caso di eccessiva onerosità di quest'ultima, non trova applicazione nella azioni intese a far valere un diritto reale la cui tutela esige la rimozione del fatto lesivo, come quella diretta ad ottenere la riduzione in pristino per violazione delle norme sulle distanze, atteso il carattere assoluto del diritto leso (Cass. civ., sez. II, 16 luglio 2015, n. 14916; Cass. civ., sez. II, 25 maggio 2012, n. 8358).

Modalità di risarcimento in forma specifica. Rimborso spese.

Il notaio che, chiamato a stipulare un contratto di compravendita immobiliare, ometta di accertarsi dell'esistenza di iscrizioni ipotecarie pregiudizievoli sull'immobile, può essere condannato al risarcimento del danno in favore del venditore in forma specifica, mediante la cancellazione del vincolo, con il pagamento della somma necessaria a tal fine per il compimento delle richieste formalità, a prescindere dal consenso del terzo creditore ipotecario (Cass. civ., sez. III, 19 giugno 2013, n. 15305).

In materia di risarcimento del danno da circolazione dei veicoli, la domanda di risarcimento del danno subito, quando abbia ad oggetto la somma necessaria per effettuare la riparazione, deve considerarsi come richiesta di risarcimento in forma specifica, con conseguente potere del giudice, ai sensi dell'art. 2058, comma 2, c.c., di non accoglierla e di condannare il danneggiante al risarcimento per equivalente, ossia alla corresponsione di una somma pari alla differenza di valore del bene prima e dopo la lesione, allorquando il costo delle riparazioni superi notevolmente il valore di mercato del veicolo (Cass. civ., sez. III, 26 maggio 2014, n. 11662).

Sommario