Onere di allegazione e prova del danno patrimoniale e non patrimoniale

Francesca Picardi
11 Settembre 2014

L'onere di allegazione nel processo civile è una proiezione della regola di cui all'art. 112 c.p.c., in applicazione della quale, dovendo il giudice limitare la sua decisione alla domanda proposta, la parte deve introdurre in giudizio i fatti che ne costituiscono il fondamento, pena la loro irrilevanza.
Allegazione: nozione e disciplina

L'onere di allegazione nel processo civile è una proiezione della regola di cui all'art. 112 c.p.c., in applicazione della quale, dovendo il giudice limitare la sua decisione alla domanda proposta, la parte deve introdurre in giudizio i fatti che ne costituiscono il fondamento, pena la loro irrilevanza.

Tale regola va coordinata, nell'attuale sistema, con il regime delle preclusioni, il cui superamento è rilevabile d'ufficio, essendo strumentale non solo alla tutela dell'interesse della controparte, ma anche di quello pubblico al celere e corretto svolgimento del processo (tra le tante, v. Cass., Sez. II, 17 maggio 2004, n. 9323, secondo cui nel sistema di preclusioni introdotto dalla legge 26 novembre 1990 n. 353 il "thema decidendum" non è più modificabile dopo la chiusura della prima udienza di trattazione o la scadenza nel termine concesso dal giudice ai sensi dell'art. 183, comma 5, c.p.c. , potendo le parti successivamente solo formulare istanze istruttorie per provare i fatti allegati; Cass., Sez. I, 16 maggio 2008, n. 12454, secondo cui nel procedimento davanti al giudice di pace non è configurabile una distinzione tra udienza di prima comparizione e prima udienza di trattazione, per cui deve ritenersi che le parti all'udienza di cui all'art. 320 c.p.c. possano ancora allegare fatti nuovi e proporre nuove domande od eccezioni, visto che esse sono ammesse a costituirsi fino a detta udienza; il rito è tuttavia caratterizzato dal regime di preclusioni che assiste il procedimento dinanzi al tribunale, le cui disposizioni sono applicabili in mancanza di diversa disciplina; ne consegue che, dopo la prima udienza, in cui il giudice invita le parti a "precisare definitivamente i fatti", non è più possibile proporre nuove domande o eccezioni e allegare a fondamento di esse nuovi fatti costitutivi, modificativi, impeditivi o estintivi, né tale preclusione è disponibile dal giudice di pace mediante un rinvio della prima udienza, per consentire tali attività oramai precluse, e parimenti l'omissione da parte del giudice del predetto formale invito non impedisce la verificazione della preclusione).

Va, tuttavia, ricordato che solo i fatti principali - e, cioè, costitutivi, modificativi, estintivi o impeditivi del diritto azionato devono necessariamente confluire negli atti introduttivi, nella prima o nella seconda memoria dell'art. 183, comma 6, c.p.c. (nella seconda solo ove strumentali alla proposizione di un'eccezione consequenziale alla proposizione o modifica delle domande e eccezioni della controparte), mentre i fatti secondari, stante la loro funzione meramente probatoria, possono tradursi anche in un capitolo di prova formulato nella seconda o terza memoria ex art. 183 c.p.c. (in questo senso Cass., Sez. II, 27 marzo 2013, n. 7786, secondo cui i fatti secondari, per la loro funzione di prova dei fatti principali, possono essere indicati entro i termini di decadenza stabiliti per la trattazione probatoria).

A ciò va aggiunto che il rilevo d'ufficio delle eccezioni in senso lato, secondo una parte della giurisprudenza, non è subordinato alla specifica e tempestiva allegazione della parte ed è ammissibile anche in appello, dovendosi ritenere sufficiente che i fatti risultino documentati "ex actis", in quanto il regime delle eccezioni si pone in funzione del valore primario del processo, costituito dalla giustizia della decisione, che resterebbe frustrato ove anche le questioni rilevabili d'ufficio fossero subordinate ai limiti preclusivi di allegazione e prova previsti per le eccezioni in senso stretto (così Cass. S.U., 7 maggio 2013, n. 10531; per la diversa posizione, v., però, Cass. 22 giugno 2007, n. 14581, secondo cui le eccezioni in senso lato, ovvero rilevabili anche d'ufficio hanno una rilevabilità condizionata al rispetto del principio dispositivo e del contraddittorio, per cui è vietato al giudice porre alla base della propria decisione fatti che non rispondano ad una tempestiva allegazione delle parti, ovvero il giudice non può basare la propria decisione su un fatto, ritenuto estintivo, modificativo o impeditivo, che non sia mai stato dedotto o allegato dalla parte o comunque non sia risultante dagli atti di causa, e tale allegazione non solo è necessaria ma deve essere tempestiva, ovvero deve avvenire al massimo entro il termine ultimo in cui, nel processo di primo grado, si determinano definitivamente il "thema decidendum" ed il "thema probandum", ovvero entro il termine perentorio eventualmente fissato dal giudice ex art. 183, comma 5, c.p.c. ).

Le allegazioni relative al danno

In tale sistema processuale assume fondamentale importanza individuare i fatti principali costitutivi, che l'attore è tenuto ad allegare entro la prima memoria ex art. 183, comma 6, c.p.c. , e distinguerli da quelli secondari, che, in ragione della funzione meramente probatoria, possono essere introdotti anche nella seconda o terza memoria ex art. 183, comma 6, c.p.c. , con la formulazione di un capitolo di prova o con l'indicazione di una prova contraria.

Relativamente al danno, patrimoniale e non patrimoniale, l'individuazione del confine non può prescindere dalla posizione della giurisprudenza di legittimità, che configura quali elementi costitutivi dell'illecito civile il danno evento, consistente nella lesione dell'interesse giuridicamente protetto, ed il danno conseguenza, consistente nel concreto pregiudizio che ne è derivato (sul punto, si rinvia in particolare a Cass. S.U., 11 novembre 2008, n. 26972 e Cass., Sez. III, 31 maggio 2003, n. 8827; nella giurisprudenza costituzionale, v. Corte Cost. 30 giugno 1986, n. 184; va, tuttavia, segnalata Cass., Sez. III, 23 gennaio 2014, n. 1361, che, nell'ammettere la risarcibilità del danno da perdita di vita e la sua trasmissibilità “iure hereditatis”, ha posto in dubbio la distinzione tra danno evento e danno conseguenza, per cui tutta la materia potrebbe essere oggetto di rivisitazione all'esito dell'intervento delle Sezioni Unite, a cui la questione delle risarcibilità del danno da morte immediata è stata rimessa da Cass., Sez. III, 4 marzo 2014, n. 5056. In dottrina, tra gli autori contrari alle categorie del danno evento e conseguenza, v. C.M.Bianca, Diritto civile – 5.La responsabilità, Milano, 1994, 114). La Suprema Corte ha, difatti, chiarito che i c.d. danni conseguenza devono essere allegati e provati, in quanto il risarcimento del danno non è dovuto qualora la lesione dell'interesse giuridicamente protetto non abbia in concreto determinato alcuna conseguenza pregiudizievole, non potendo tradursi in una sanzione privata per il comportamento “contra ius” del convenuto.

Nelle domande di risarcimento, l'onere di allegazione investe, quindi, necessariamente non solo il danno evento ma anche tutti i danni conseguenza lamentati.

In questo senso è chiaramente orientata Cass., Sez. III, 18 gennaio 2012, n. 691, secondo cui le allegazioni che devono accompagnare la proposizione di una domanda risarcitoria non possono essere limitate alla prospettazione della condotta colpevole della controparte, produttiva di danni nella sfera giuridica di chi agisce in giudizio, ma devono includere anche la descrizione delle lesioni, patrimoniali e/o non patrimoniali, prodotte da tale condotta, dovendo l'attore mettere il convenuto in condizione di conoscere quali pregiudizi vengono imputati al suo comportamento, a prescindere dalla loro esatta quantificazione e dall'assolvimento di ogni onere probatorio al riguardo.

Vi è da chiedersi se da tale premessa derivi, ai sensi dell'art. 164, comma 4, c.p.c., la nullità della citazione che, pur contenendo una richiesta risarcitoria, sia priva della puntuale descrizione del danno evento e/o del danno conseguenza.

Invero, la carente allegazione dell'interesse giuridicamente tutelato sembra riflettersi sull'esposizione dei fatti costituenti la ragione della domanda e determinare, pertanto, la nullità della citazione ai sensi dell'art. 164, comma 4, c.p.c.: si pensi alla domanda di risarcimento per danni a cose, in cui l'attore non precisi, in alcun modo, il diritto vantato sul bene deteriorato. Non è, tuttavia, sufficiente la mancata qualificazione giuridica della posizione lesa, che, comunque, emerga dal complessivo tenore dell'atto.

Qualora, invece, l'attore specifichi il danno evento (ad esempio, lesione del diritto di proprietà), ma non indichi dettagliatamente le conseguenze pregiudievoli che ne sono derivate, può osservarsi che non sussiste la totale omissione o assoluta incertezza della cosa oggetto della domanda, in quanto, da un lato, il “petitum” immediato è costituito dal provvedimento di condanna e quello mediato dalla somma di danaro (in senso parzialmente diverso appare orientato U. Scotti, Le voci di danno e il loro computo nella materia contrattuale, extracontrattuale e lavoristica, relazione al corso organizzato dal C. S.M. in data 18-20 aprile 2011, secondo cui “In effetti, è evidente che una domanda risarcitoria del danno non patrimoniale che non sia accompagnata da una prospettazione del pregiudizio lamentato, sufficientemente articolata e comprensibile, potrebbe incorrere, almeno inizialmente, se non corretta in via integrativa attraverso un meccanismo sanante ex nunc, nel vizio di indeterminazione considerato dall'art.164 comma 4, c.p.c. -incertezza assoluta della “cosa oggetto di domanda” o dell'esposizione “dei fatti costituenti le ragioni della domanda”). Ove si ritenesse, pertanto, la domanda validamente proposta, anche in assenza della descrizione dello specifico pregiudizio subito, il giudice non potrebbe assegnare alcun termine, ai sensi dell'art. 164 c.p.c. , per l'integrazione o rinnovazione della citazione. Tuttavia, qualora il danno conseguenza non sia evidente, secondo l'“id quod plerumque accidit”, e non sia tempestivamente precisato entro la prima memoria ex art. 183, comma 6, c.p.c. , la domanda formulata dovrebbe essere rigettata nel merito in assenza di uno dei fatti costitutivi del diritto azionato e, cioè, del danno conseguenza. Né risulterebbe giustificata la formula di rito dell'inammissibilità o dell'improponibilità.

La prospettazione di nuovi danni: mutatio o emendatio?

L'ulteriore problema che si pone è quello di stabilire se l'indicazione di un un ulteriore danno evento o di un ulteriore danno conseguenza, diverso rispetto a quello originariamente allegato in citazione, si traduca in una “mutatio” o “emendatio libelli” e sia conseguentemente vietata o consentita entro la prima memoria ex art. 183, comma 6, c.p.c. Sul punto può essere fuorviante il principio, affermato dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui l'unitarietà dell'illecito impone di chiedere il risarcimento di tutti i danni che ne conseguono in un unico processo (si ricordi Cass., Sez. III, 22 dicembre 2011, n. 28286, secondo cui, conformemente a Cass., S.U., 15 novembre 2007, n. 23726, in tema di risarcimento dei danni da responsabilità civile, non è consentito al danneggiato, in presenza di un danno derivante da un unico fatto illecito, riferito alle cose ed alla persona, già verificatosi nella sua completezza, di frazionare la tutela giurisdizionale mediante la proposizione di distinte domande, parcellizzando l'azione extracontrattuale davanti al giudice di pace ed al tribunale in ragione delle rispettive competenze per valore, e ciò neppure mediante riserva di far valere ulteriori e diverse voci di danno in altro procedimento, in quanto tale disarticolazione dell'unitario rapporto sostanziale nascente dallo stesso fatto illecito, oltre ad essere lesiva del generale dovere di correttezza e buona fede, per l'aggravamento della posizione del danneggiante-debitore, si risolve anche in un abuso dello strumento processuale: nella specie, in applicazione dell'enunciato principio, la S.C. ha confermato la sentenza di merito, che aveva ritenuto improponibile la domanda di risarcimento dei danni alla persona subiti dall'attore in occasione di un sinistro stradale, nel quale lo stesso aveva subito altresì danni materiali, oggetto di separato giudizio concluso con sentenza passato in giudicato.). Tale posizione si fonda, difatti, sui principi di buona fede e correttezza e non sulla struttura della pretesa risarcitoria, che concerne un diritto etero-determinato, per cui ad ogni danno evento corrisponde un autonomo diritto e conseguentemente un'autonoma domanda. Da ciò dovrebbe, pertanto, derivare che l'allegazione di un nuovo danno evento integra una “mutatio libelli” (sebbene non più attuale, quanto alla ricostruzione della categoria del danno biologico, si può menzionare in questo senso Cass., Sez. III, 5 luglio 2001, n. 9090, secondo cui in tema di risarcimento del danno derivante da fatto illecito, non è legittimamente estensibile alla richiesta di liquidazione del danno biologico il principio secondo cui ricorre la fattispecie processuale della mera "emendatio libelli" e non anche della - non consentita - "mutatio" nella ipotesi di originaria specificazione del danno in determinate voci e di successiva deduzione, nel corso del medesimo grado di giudizio, di voci ulteriori, con correlativo ampliamento del "petitum" mediato, ma all'esito di una variazione nella sola estensione del "petitum" immediato, ferma restandone l'identità e l'individualità ontologica. Mentre le varie voci di danno non integrano, difatti, una pluralità e diversità strutturale di "petitum", ma ne costituiscono soltanto delle articolazioni o "categorie" interne quanto alla sua specificazione quantitativa, il danno biologico costituisce, per converso, un vero e proprio "tertium genus" rispetto alle tradizionali categorie del danno civile, sicché la relativa richiesta introduce un nuovo tema di indagine e di decisione in qualunque grado del giudizio intervenga, concretando, per l'effetto, una vera e propria " mutatio libelli", anche se formulata nel corso del giudizio di primo grado), mentre l'indicazione di ulteriori pregiudizi, conseguenti alla lesione del medesimo interesse giuricamente tutelato, si traduce in una mera “emendatio”, che può intervenire nel corso del giudizio, ma entro la prima memoria ex art. 183, comma 6, c.p.c. (Appare, pertanto, condivisibile Cass., Sez. III, 23 ottobre 2013, n. 23917, che ha ritenuto tardiva e, quindi, inammissibile l'allegazione del pregiudizio, consistente nella perdita della possibilità di un rapporto affettivo con il fratello, avvenuta solo in sede di legittimità, successivamente al rigetto della domanda di risarcimento del danno, originariamente prospettato come mera sofferenza per la morte del congiunto, con cui, tuttavia, il giudice di merito ha accertato l'assenza di frequentazione e conoscenza. Non sembra, difatti, che il rigetto della domanda in primo grado integri una causa non imputabile di rimessione in termini, idonea a riaprire la fase deputata alla definizione del “thema decidenum”. Ciritica relativamente alla decisione è, invece, A. Vapino, Danno non patrimoniale: unitarietà del risarcimento e unitarietà della domanda, in Giur. it., 835).

Queste considerazioni vanno, tuttavia, adattate al caso concreto ed alla formulazione della domanda, che, salvo una puntuale specificazione del danno lamentato (e, comunque, ove le conclusioni si estendano a tutti i danni subiti, patrimoniali e non), viene considerata onnicomprensiva, per cui si tende ad ammettere anche l'allegazione di un ulteriore danno evento prima della cristallizzazione del “thema decidendum” (a conferma di ciò, si possono menzionare Cass., Sez. L., 24 febbraio 2006, n. 4184, secondo cui non incorre nel vizio di ultrapetizione il giudice che, anche senza una specifica domanda della parte, le attribuisca il risarcimento dei danni non patrimoniali di cui essa risulti aver sofferto in conseguenza del fatto illecito costituente reato posto a fondamento della sua domanda di risarcimento di danni, la quale, salva espressa specificazione, deve ritenersi comprensiva di tutti i danni e, quindi, anche di quelli morali; Cass. Sez. III, 19 maggio 2006, n. 11761, secondo cui, in tema di responsabilità civile, la domanda di risarcimento di tutti i danni, patrimoniali e non patrimoniali, proposta dal danneggiato nei confronti del soggetto responsabile, per la sua onnicomprensività esprime la volontà di riferirsi ad ogni possibile voce di danno, con la conseguenza che solo nel caso in cui nell'atto di citazione siano indicate specifiche voci di danno, l'eventuale domanda proposta in appello per una voce non già indicata in primo grado, costituisce domanda nuova, come tale inammissibile; Cass, Sez. III, n. 14446, 22 giugno 2006, secondo cui in tema di risarcimento dei danni da responsabilità civile, la domanda di risarcimento di tutti i danni, materiali e morali, proposta dal danneggiato nei confronti del soggetto responsabile, comprende necessariamente la richiesta volta al risarcimento del danno biologico, anche quando non contenga alcuna precisazione in tal senso, in quanto tale danno non richiede una specifica e autonoma richiesta).

È possibile un'allegazione implicita del danno conseguenza?

Per quanto concerne la completezza dell'allegazione, l'attore dovrebbe specificare, in modo puntuale e dettagliato, le lesioni - patrimoniali o non patrimoniali - asseritamente sofferte, vista la strumentalità dell'onere di allegazione a delimitare il “thema decidendum” anche al fine di consentire alla controparte l'esercizio del suo diritto di difesa. Del resto, la genericità delle allegazioni può assumere rilievo quale argomento di prova. A titolo esemplificativo, può rilevarsi che, sul versante del danno patrimoniale, occorre precisare se vi sia stata la perdita di un guadagno o di una “chanche” (e di quale guadagno o quale “chanche”) o l'esborso di una o più spese, mentre, sul versante del danno non patrimoniale, occorre evidenziare le peculiari condizioni soggettive che contribuiscono alla personalizzazione del danno (ad esempio, le attività praticate prima del sinistro e precluse dalla lesione psico-fisica subita, come lo sport con cui sia incompatibile la invalidità permanente riportata). Su tale ultimo aspetto, potrebbe, invero, ritenersi che le pregresse abitudini di vita del danneggiato, trattandosi di circostanze rilevanti al fine della esatta quantificazione del danno, abbiano un rilievo meramente probatorio e possano, quindi, essere introdotte anche nella secondo memoria ex art. 183, comma 6, c.p.c. , con la formulazione di un capitolo di prova. Va, tuttavia, obiettato che tutto ciò che incide sull'esatto ammontare del danno attiene alla sua configurazione concreta e, quindi, prima di essere provato, deve essere allegato. Del resto, la categoria del c.d. danno conseguenza è stata eleborata proprio per l'esigenza di concretezza del danno. Va, però, rilevato che alcune conseguenze pregiudizievoli (i c.d. “general damages”), secondo l'“id quod plerumque accidit”, si accompagnano ad un determinato danno evento con regolarità tale da attenuare l'onere di allegazione, mentre le conseguenze collegate al vissuto individuale di ciascuno di noi, i c.d. “specific damages”, devono necessariamente descritte in modo analitico entro l'esaurimento della trattazione. Proprio in base alla distinzione tra “general damages” e “specific damages” si è elaborata la teoria dell'allegazione automatica, secondo cui, in particolare con riferimento alle richieste di danno non patrimoniale che rientrino - sotto il profilo della reazione soggettiva al fatto illecito - nell'assoluta normalità, si sostiene che la parte, prospettando il fatto illecito (ad esempio, sinistro stradale) e l'evento lesivo (ad esempio, morte del figlio) ed avanzando domanda di risarcimento del danno non patrimoniale, indichi implicitamente la sua sofferenza psicologica, che coincide con quella normalmente patita da un individuo medio colpito dallo stesso episodio (v. sul punto U.Scotti, op. ult. cit.). Invero, in giurisprudenza il discorso viene impostato sul piano probatorio, piuttosto che su quello dell'allegazione, ma di fatto, si finisce con l'esigere una minore specificità o, addirittura, dal prescindere completamente dalla descrizione del pregiudizio in presenza di determinati eventi lesivi che hanno delle normali conseguenze pregiudizievoli.

L'esempio più eclatante di attenuazione dell'onere di allegazione è quello del danno da irragionevole durata del processo. Secondo la giurisprudenza di legittimità, ai fini dell'esplicitazione degli elementi costitutivi della domanda di equa riparazione per violazione del diritto alla ragionevole durata del processo, è sufficiente l'allegazione del pregiudizio non patrimoniale subito come conseguenza dell'irragionevole durata del processo, senza necessità che la parte istante indichi analiticamente in quale forma di sofferenza lo stesso si sia concretizzato ed adduca specifici riferimenti alla sua situazione personale, ben potendo, con riguardo al danno di siffatta natura, reputarsi adeguata anche una richiesta d'indennizzo avanzata con formulazione onnicomprensiva, la quale è da intendere riferita sia al danno non patrimoniale che al danno patrimoniale, fermo restando, peraltro, che, relativamente a quest'ultimo (ma soltanto ad esso), il quale deve formare oggetto di prova piena e rigorosa, occorre l'ulteriore specificazione di tutti gli estremi, variabili da caso a caso, così da risultarne possibile l'individuazione sulla base del contesto complessivo dell'atto e da consentire alla controparte l'esercizio del diritto di difesa (In tal senso, Cass., Sez. I, 16 marzo 2006, n. 5820). In pratica, in tale peculiare contenzioso, anche in considerazione dell'esigenza di adeguarsi alla giurisprudenza europea, il danno non patrimoniale è reputato omogeneo con riferimento a tutti gli attori, per cui può prescindersi da una sua specifica allegazione. Al contrario, il danno patrimoniale non è né automatico né omogeneo e necessita, quindi, di una puntuale allegazione e di una rigorosa prova (V., anche, Cass., Sez. 6 – 2, 12 giugno 2013, n. 14775, secondo cui, in tema di equa riparazione per il mancato rispetto del termine di ragionevole durata del processo, ai sensi della legge 24 marzo 2001, n. 89, il danno patrimoniale, diversamente da quello non patrimoniale, deve essere oggetto di prova piena e rigorosa, occorrendo che ne siano specificati tutti gli estremi, fra l'altro variabili da caso a caso, ovvero che ne sia possibile l'individuazione sulla base del contesto complessivo dell'atto). Analogamente al danno patrimoniale, anche il danno biologico, che si assuma derivare dalla durata eccessiva del processo, non può ritenersi presuntivamente sussistente come voce autonoma ed ulteriore rispetto al patema d'animo ed alla sofferenza morale, normalmente insiti nella mancata conclusione del processo in termini fisiologici, essendo necessaria la prova dell'esistenza del pregiudizio alla salute, fisica o psichica, e del nesso di causalità tra l'irragionevole durata del processo e il danno (così, da ultimo, Cass., Sez. II, 24 agosto 2012, n. 14636).

La giurisprudenza è meno nitida, invece, relativamente ad altre fattispecie, quali, ad esempio, 1) il danno non patrimoniale derivante dalla morte di un congiunto (nel senso della possibilità della c.d. allegazione automatica appare muoversi Cass., Sez. III, 13 maggio 2011, n. 10527, secondo cui la morte di una persona cara costituisce di per sé un fatto noto dal quale il giudice può desumere, ex art. 2727 c.c., che i congiunti dello scomparso abbiano patito una sofferenza interiore tale da determinare un'alterazione della loro vita di relazione e da indurli a scelte di vita diverse da quelle che avrebbero altrimenti compiuto, sicché nel giudizio di risarcimento del relativo danno non patrimoniale incombe al danneggiante dimostrare l'inesistenza di tali pregiudizi, mentre in senso diverso Cass., Sez. III, 11 novembre 2003, n. 16946, secondo cui il danno non patrimoniale da uccisione di un congiunto consiste nella privazione di un "valore" non economico ma personale, costituito dalla irreversibile perdita del godimento del congiunto stesso, cui consegue la definitiva e irreparabile preclusione delle reciproche relazioni interpersonali secondo le diverse modalità e sfumature in cui esse normalmente si esprimevano nell'ambito del nucleo familiare, che deve risultare oggetto di allegazione e di prova da parte dell'avente diritto, anche se, trattandosi di un pregiudizio proiettato nel futuro, è consentito il ricorso a valutazioni prognostiche e a presunzioni sulla base di elementi obbiettivi che sarà onere del danneggiato fornire), 2) la sofferenza collegata al danno biologico, che oggi, dopo l'arresto del 2008, non dovrebbe più ritenersi implicita, quantomeno per le lesioni più lievi, 3) il dolore derivante dalla lesione della reputazione all'esito della diffamazione a mezzo stampa (per quanto riguarda tale ultima fattispecie, v., da ultimo, Cassazione, Sez. 6-1, 24 settembre 2013, n. 21865, secondo cui il danno non patrimoniale, anche quando sia determinato dalla lesione di diritti inviolabili della persona, come nel caso di lesione al diritto alla reputazione quale conseguenza di un ingiusto protesto, non è “in re ipsa”, ma costituisce un danno conseguenza, che deve essere allegato e provato da chi ne domandi il risarcimento, mentre secondo il più risalente orientamento, di cui è espressione Cass., Sez. III, 18 settembre 2009, n. 20120, si riteneva, una volta provata la lesione alla reputazione personale, il danno "in re ipsa", quale perdita di tipo analogo a quello indicato dall'art. 1223 c.c., costituita dalla diminuzione o dalla privazione di un valore, per quanto non patrimoniale, della persona umana alla quale il risarcimento deve essere commisurato. Invero, il problema andrebbe impostato non sulla automaticità del danno conseguenza in presenza di determinati danni eventi, come quelli collegati alla lesione di un diritto inviolabile, ma piuttosto sulla sua normalità, secondo l'“id quod plerumque accidit”).

Va, infine, evidenziato che la teoria dell'allegazione automatica può trovare applicazione anche riguardo al danno patrimoniale: si pensi al danno da occupazione abusiva di immobile, su cui, tuttavia, la posizione della giurisprudenza di legittimità è ancora oscillante (v. Cass., Sez. III, 17 giugno 2013, n. 15111, secondo cui il danno da occupazione abusiva di immobile non può ritenersi sussistente "in re ipsa" e coincidente con l'evento, che è viceversa un elemento del fatto produttivo del danno, ma, ai sensi degli artt. 1223 e 2056 cod. civ., trattasi pur sempre di un danno-conseguenza, sicchè il danneggiato che ne chieda in giudizio il risarcimento è tenuto a provare di aver subito un'effettiva lesione del proprio patrimonio per non aver potuto locare o altrimenti direttamente e tempestivamente utilizzare il bene, ovvero per aver perso l'occasione di venderlo a prezzo conveniente o per aver sofferto altre situazioni pregiudizievoli, con valutazione rimessa al giudice del merito, che può al riguardo avvalersi di presunzioni gravi, precise e concordanti, e Cass., Sez. III, 16 aprile 2013, n. 9137, secondo cui, in caso di occupazione senza titolo di un immobile altrui, il danno subito dal proprietario è "in re ipsa", discendendo dalla perdita della disponibilità del bene e dall'impossibilità di conseguire l'utilità ricavabile dal bene medesimo in relazione alla sua natura normalmente fruttifera, per cui la liquidazione del danno ben può essere, in tal caso, operata dal giudice sulla base di presunzioni semplici, con riferimento al cosiddetto danno figurativo, qual è il valore locativo del bene usurpato).

Ad ogni modo, appare opportuna un'esaustiva e completa allegazione del danno –patrimoniale e non patrimoniale – in presenza di un contrasto di giurisprudenza, che, come affermato in tema di onere di allegazione e prova del danno da demansionamento, non giustifica alcuna rimessione in termini (si ricordi Corte di Cass., Sez. Lav., 5 giugno 2013, n. 14214, che ha escluso che l'intervento regolatore delle Sezioni Unite, derivante da un preesistente contrasto di orientamenti di legittimità in ordine alle norme regolatrici del processo, renda condifurabile un errore scusabile, ai fini dell'esercizio del diritto alla rimessione in termini, in capo alla parte che abbia confidato sull'orientamento che non è prevalso e, di conseguenza, ha negato la rimessione in termini alla parte che aveva ritenuto non necessaria l'allegazione del danno ai fini del risarcimento per demansionamento professionale, in base a un indirizzo giurisprudenziale poi superato da Cass., Sez.U., 24 marzo 2006 n. 6572, secondo cui, in tema di demansionamento e di dequalificazione, il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale, biologico o esistenziale, che asseritamente ne deriva - non ricorrendo automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale - non può prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo del giudizio, sulla natura e sulle caratteristiche del pregiudizio medesimo).

La contestazione: nozione e disciplina

La contestazione consiste nella negazione di un fatto, che, in questo modo, necessariamente confluisce nel “thema probandum”. Al contrario, la condotta processuale della non contestazione ha carattere vincolante per il giudice, il quale, ai sensi dell'art. 115, comma 2, c.p.c. , deve porre a fondamento della decisione, oltre alle prove acquisite, i fatti non specificamente contestati dalle parti costituite, relativamente ai quali, pertanto, dovrà astenersi da qualsivoglia controllo probatorio, ritenendoli sussistenti (v., da ultimo, Cass., Sez. III, 21 giugno 2013, n. 15658 e Cass., Sez. III, 4 aprile 2013, n. 8213). Resta, tuttavia, incerto se la non contestazione comporti una mera “relevatio ab onere probandi” (così Bove, Lineamenti di diritto processuale, Torino, 2009, 201), nel senso che il giudice dovrà considerare il fatto come esistente, sempre che non risulti smentito dall'esame del restante materiale probatorio, o, piuttosto, se si traduca in un vero e proprio meccanismo probatorio, per cui il fatto, proprio in forza della mancata contestazione, è, in una qualche misura, assistito da prova (in questo senso Balena, La nuova pseudo-riforma del processo civile, in www.judicium.it, par. 12).

Tale regola, la cui “ratio” va colta nelle esigenze di rapidità ed economia processuale, che sono perseguite anche attraverso la responsabilizzazione delle parti nell'allegazione dei fatti di causa e nella delimitazione dell'oggetto della decisione, è estesa a tutte le parti, a prescindere dal ruolo assunto di attore o convenuto, ed a tutti i procedimenti, a prescindere dal rito ordinario o speciale, come dimostrato dalla sua collocazione nel libro del codice dedicato ai principi generali e dalla rubrica dell'art. 115 c.p.c. (disponibilità delle prove).

Il principio in esame, quale espressione del potere dispositivo della parte, viene, però, tradizionalmente limitato all'omessa contestazione dei fatti principali, e, cioè, costitutivi, estintivi, impeditivi e modificativi del diritto azionato, mentre, relativamente ai fatti secondari e, cioè, dedotti con esclusiva funzione probatoria, si ritiene persista la discrezionalità del giudice, che potrà ricavarne argomenti di prova ex art. 116 c.p.c. (sulle diverse conseguenze collegate all'omessa contestazione di un fatto principale e di un fatto secondario, si rinvia a Cass., S.U., 23 gennaio 2002, n. 761 a Cass., Sez. I, 27 febbraio 2008, n. 5191 e, soprattutto, a; per saperne di più, v. F.De Vita, Onere di contestazione e modelli processuali, Roma, 2012, p. 173 e ss.). Sussistono, nondimeno, dubbi in dottrina circa la possibile distinzione degli effetti della non contestazione in considerazione alla natura (principale o secondaria) del fatto che ne costituisce l'oggetto (in senso contrario v. A. Carratta, Il principio della non contestazione nel processo civile, Milano, 1995, p. 331 ss., e L. Viola, Il nuovo principio di non contestazione alla luce della prima giurisprudenza, in Altalex, che sottolinea l'assenza, nell'art. 115 c.p.c. , di una distinzione tra fatti principali e secondari).

Sul piano degli effetti, si è, inoltre, sottolineato che l'omessa contestazione, non essendo equiparabile ad una prova legale, non può escludere la valutazione, da parte del giudice, del materiale probatorio legittimamente acquisito, come, ad esempio, i documenti tempestivamente prodotti dalla stessa parte che ha allegato un fatto. Si può fare l'esempio del danno conseguenza di carattere patrimoniale, non contestato, consistente nella contrazione del proprio reddito o dei propri guadagni, smentito dalle dichiarazioni dei redditi, dai bilanci o dalle scritture contabili prodotte, da cui si desuma la non veridicità di tale dato fattuale. Più complesso il discorso per le prove costituende, che, in considerazione dell'omessa contestazione dovrebbero diventare superflue e quindi inammissibili: ad esempio, la prova testimoniale espletata su circostanze che la controparte ha ammesso o su cui non ha preso alcuna posizione. In proposito va ricordato l'orientamento giurisprudenziale, secondo cui, pur esonerando la non contestazione dall'accertamento del fatto, ove nessuna delle parti deduca l'inammissibilità della prova ed il giudice vi dia ingresso, emerge tacitamente una convergente contestazione del fatto stesso, con la conseguente necessità del relativo accertamento, per cui la parte interessata a far valere la non contestazione, al fine di rendere illegittimo l'espletamento della prova e dolersi della decisione fondata su di essa, ha l'onere di dedurla prima dell'assunzione del mezzo istruttorio (così Cass., Sez. lav., 20 settembre 2005, n. 18503).

Ad ogni modo, la non contestazione non opera:

1) per i diritti indisponibili, sottratti anche alla confessione dall'art. 2733 c.c.,

2) per i fatti in ordine ai quali la legge richieda un atto scritto ad substantiam o ad probationem,

3) in danno del contumace, la cui scelta processuale non comporta affatto un'implicita omessa contestazione, né alcuna attenuazione dell'onere probatorio incombente sull'attore;

4) nelle fattispecie di litisconsorzio necessario, con riguardo all'atteggiamento di uno solo dei litisconsorti, a cui non può attribuirsi il potere di disposizione delle altrui posizioni giuridiche (per saperne di più vedi A. Scarpa, L'introduzione e la trattazione della causa, in Giur. merito, 2011, 254; cfr. Cass., Sez. III, 13 giugno 2013, n. 14860 che precisa che alla contumacia ex art. 290 c.p.c. e ss. non solo non può attribuirsi il significato della mancata contestazione, ma neppure del comportamento valutabile ai sensi dell'art. 116, comma 1, c.p.c. ).

Va, pertanto, osservato che nei giudizi di risarcimento del danno derivante da sinistro stradale, in cui sussiste litisconsorzio necessario tra danneggiato, responsabile del sinistro e assicurazione, la non contestazione contribuisce a circoscrivere il “thema probandum” solo se comune ad entrambi i convenuti costituiti e non, invece, se proveniente da uno solo dei convenuti costituiti o se uno dei essi è contumace (sulla configurabilità del litisconsorzio necessario nel giudizio promosso dal danneggiato nei confronti dell'assicuratore della responsabilità civile da circolazione, v., per tutte, Cass. S.U., 5 maggio 2006, n. 10311, secondo cui nel giudizio promosso dal danneggiato nei confronti dell'assicuratore della responsabilità civile da circolazione stradale, il responsabile del danno, che deve essere chiamato nel giudizio sin dall'inizio, assume la veste di litisconsorte necessario, poiché la controversia deve svolgersi in maniera unitaria tra i tre soggetti del rapporto processuale -danneggiato, assicuratore e responsabile del danno- e coinvolge inscindibilmente sia il rapporto di danno, originato dal fatto illecito dell'assicurato, sia il rapporto assicurativo, con la derivante necessità che il giudizio deve concludersi con una decisione uniforme per tutti i soggetti che vi partecipano; va, tuttavia, segnalato in proposito il recente orientamento, espresso da Cass., Sez. III, 23 febbraio 2010, n. 4342, secondo cui il rispetto del principio costituzionale della ragionevole durata del processo impone al giudice di evitare comportamenti che siano di ostacolo ad una sollecita definizione dello stesso e si traducano in un inutile dispendio di energie processuali e di formalità non giustificate dalla struttura dialettica del processo e, in particolare, dall'effettivo rispetto del principio del contraddittorio, espresso dall'art. 101 c.p.c. : pertanto, nel giudizio avente ad oggetto l'azione diretta proposta dal soggetto danneggiato in un sinistro stradale nei confronti dell'assicuratore del responsabile, ai sensi degli artt. 18 e 23 della legge n. 990 del 1969, qualora sia stata chiesta la condanna del solo assicuratore, va esclusa, in sede di legittimità, la necessità dell'integrazione del contraddittorio nei confronti del proprietario del veicolo, rimasto contumace in primo e secondo grado, atteso che l'integrazione del contraddittorio, pur prevista dalle norme sopracitate, si risolverebbe esclusivamente in un pregiudizio per le parti costituite senza produrre alcuna concreta contrazione dei diritti sostanziali e processuali della parte esclusa).

Onere di contestazione specifica e danno conseguenza

L'art. 115 c.p.c. , nell'attuale formulazione, come modificato dalla l. 18 giugno 2009, n. 69, subordina la rilevanza della contestazione alla sua specificità, per cui una contestazione generica non è più sufficiente a far ricadere un fatto nel “thema probandum”. Va, però, sottolineato che l'onere di specificità non si traduce nella necessità di un'espressa manifestazione di volontà: non è, quindi, escluso che la contestazione possa essere implicita e possa consistere nella prospettazione di un fatto diverso ed incompatibile con quello allegato da controparte, purché descritto in modo puntuale e dettagliato.

La circostanza dedotta da una parte dovrà, perciò, ritenersi pacifica non solo se la controparte l'ha esplicitamente ammessa o se ha impostato la sua difesa su circostanze o argomentazioni incompatibili con il suo disconoscimento (così Cass., Sez. III, 24 novembre 2010, n. 23816, conformemente alla giurisprudenza anteriore alla novella), ma anche, nei giudizi in cui si applica l'art. 115 c.p.c., come modificato dalla l. n. 69 del 2009, se l'ha contestata in modo generico, con mere clausole di stile, senza esprimere alcuna specifica posizione sul punto, senza allegare una propria versione dei fatti incompatibile con quella allegata, oppure rimanendo del tutto silente in proposito.

Tale conclusione va, tuttavia, mitigata riguardo ai fatti che non sono comuni ad entrambe le parti e che non rientrano, quindi, nella sfera di cognizione dell'avversario, il quale conseguentemente, essendone estraneo ed ignaro, non può certamente contestarli in modo specifico. Il principio di non contestazione deve, difatti, necessariamente essere coordinato con quello di vicinanza della prova, in base al quale l'onere della prova viene ripartito tra le parti non solo in considerazione della distinzione tra fatti costitutivi, estintivi, impeditivi e modificativi, ma anche in virtù della riferibilità e vicinanza dei mezzi di prova, per cui quando i fatti possono essere noti solo ad una parte, sulla stessa incombe anche l'onere della prova negativa (così Cass., Sez. L., 25 luglio 2008, n. 20484). Allo stesso modo, anche il contenuto della contestazione non può che dipendere dalla vicinanza della parte al fatto, come impone l'art. 24 Cost. ed il divieto di interpretare la legge in modo da rendere impossibile o troppo difficile l'esercizio dell'azione in giudizio.

Questa situazione ricorre frequentemente nei giudizi risarcitori, con particolare riferimento alle voci di danno e soprattutto agli elementi necessari alla loro quantificazione. Va notato che, mentre la produzione del danno è tendenzialmente comune al danneggiante ed al danneggiato, essendone stato il primo, con la sua condotta, protagonista, il più delle volte i pregiudizi, attenendo alla sfera del danneggiato, sono conosciuti esclusivamente da quest'ultimo, per cui il convenuto può solo limitarsi a manifestare la sua inconsapevolezza circa le circostanze allegate dall'attore. Ciò avviene sia per il danno patrimoniale sia per quello non patrimoniale: si pensi al danno patrimoniale da perdita di capacità lavorativa specifica, collegato ai pregressi guadagni effettivi e potenziali del danneggiato, oppure al danno non patrimoniale, la cui concreta quantificazione dipende dalle specifiche situazioni personali del danneggiato.

Invero, pur essendo stato affermato, proprio nell'ambito di un giudizio risarcitorio e relativamente al danno, che l'onere di contestazione - la cui inosservanza rende il fatto pacifico e non bisognoso di prova - sussiste soltanto per i fatti noti alla parte, non anche per i fatti ad essa ignoti (Cass. Sez. III, 13 febbraio 2013, n. 3576 ), sembrerebbe più corretto ritenere che, nell'ambito dei diritti disponibili, l'atteggiamento del tutto inerte del convenuto comporta comunque l'esclusione della circostanza allegata dalla controparte dal “thema probandum”, vincolando il giudice a considerarla ammessa, stante l'onere attuale di esprimere la propria posizione in modo chiaro ed esplicito in ordine ad ogni aspetto della difesa avversaria. In virtù del principio della vicinanza del fatto alla parte, non può, però, pretendersi una contestazione puntuale e dettagliata relativamente a quei pregiudizi che sono circoscritti e limitati alla sfera personale o alla situazione economica del danneggiato, per i quali risulterà sufficiente, al fine di renderli bisognosi di prova, una generica negazione o semplicemente l'invocazione dell'onere probatorio della controparte. A conferma di tale posizione può citarsi il secondo comma dell'art. 214 c.p.c. , ai sensi del quale gli eredi o gli aventi causa contro i quali è prodotta una scrittura privata del “de cuius” possono limitarsi a dichiarare di non conoscere la scrittura o la sottoscrizione del loro autore: va, difatti, osservato che, così come i successori del “de cuius” devono assumere posizione sulla scrittura privata di quest'ultimo, ma, non essendone gli autori, è giustificata la loro eventuale ignoranza al riguardo, parimenti la parte, che non ha partecipato al fatto e non ne ha una conoscenza diretta, dovrà limitarsi ad esplicitare la sua inconsapevolezza (Sull'onere di contestazione dei fatti noti solo alla parte che li allega, v. G. Frus, Sul rispetto dell'onere di contestazione anche in caso di incolpevole ignoranza e sugli effetti della mancata contestazione, in Giur. It., 2010, 7, che assume una posizione parzialmente diversa, desumendo dall'art. 214, comma 2,c.p.c. una categorica esclusione dell'onere di contestazione in caso di incolpevole igonoranza di un fatto: l'Autore distingue i “casi in cui l'ignoranza incolpevole della parte sull'altrui allegazione è di tutta evidenza, ad esempio perché il fatto non è comune a entrambi le parti” e quelli “in cui, invece, l'incolpevole ignoranza della parte sull'altrui allegazione deve essere dalla stessa formalmente esplicitata”, osservando che “nelle prime ipotesi il silenzio della parte sarà privo di rilievo, non essendo il fatto comune, e non sarà valutato in suo danno anche in assenza di precisazioni da parte sua, essendo evidente che essa nulla avrebbe potuto fare di diverso; nelle seconde, invece, per evitare pregiudizi processuali la parte dovrà esplicitare — così “prendendo posizione” - che essa ignora incolpevolmente il fatto allegato dall'avversario e, per tale ragione, non può dichiararsi sulla sua veridicità”).

Appare, quindi, necessario che il convenuto assuma una posizione anche rispetto a quei danni conseguenza, subiti dalla controparte, che esulano dalla sua sfera di conoscenza: posizione che potrà consistere nella mera dichiarazione della sua estraneità o nella generica invocazione dell'onere probatorio. Una totale assenza di difese sul punto integrerebbe, difatti, un'omessa contestazione, idonea a rendere il pregiudizio pacifico e fuori dal “thema probandum”.

La contestazione del danno evento si estende al danno conseguenza?

Un ulteriore dubbio che può frequentemente porsi nei giudizi risarcitori investe il rapporto esistente tra la contestazione del danno evento e quella del danno conseguenza.

Occorre rilevare che il problema posto s'intreccia, ma non si sovrappone con quello dei rapporti tra la contestazione dell'“an” e quella del “quantum”. Va, difatti, rilevato che ove per “quantum” s'intenda non la verificazione del danno conseguenza, ma soltanto la quantificazione economica proposta dalla controparte, non è configurabile un'omessa contestazione in senso vero e proprio, visto che tale condotta può riguardare solo le circostanze di fatto e non anche le qualificazioni giuridiche, tra cui deve comprendersi la traduzione in termini monetari del pregiudizio, di competenza del giudice e non delle parti.

Più problematico, invece, risulta stabilire se i danni conseguenza (ad esempio, una determinata spesa per sostituire il bene oggetto dell'illecito) debbano reputarsi ammessi in assenza di una presa di posizione del convenuto, che si sia limitato a contestare la verificazione del danno evento (lesione del diritto di proprietà del bene distrutto, negando la titolarità del bene da parte dell'attore o il suo deterioramento). Una simile conclusione giustificherebbe il rigetto delle istanze istruttorie formulate sul punto, in quanto superflue, e, in caso di prova della lesione dell'interesse giuridicamente tutelato, l'accoglimento della domanda sulla base della mera prospettazione del pregiudizio lamentato. Invero, se si aderisce alla tesi secondo cui l'onere di contestazione specifica non esclude la possibilità della contestazione implicita, appare preferibile ritenere che la contestazione del segmento anterioriore della fattispecie (danno evento) si estenda necessariamente anche a quello successivo e dipendente (danno conseguenza), in quanto la negazione del presupposto travolge anche tutte le sue conseguenze, che sono radicalmente negate.

I tempi della contestazione e la revoca della non contestazione

Relativamente ai tempi processuali, è controverso se la contestazione possa intervenire entro la prima o la seconda memoria ex art. 183, comma 6, c.p.c. , attenendo al piano delle allegazioni ed alla formazione del “thema decidendum”, oppure entro la terza memoria ex art. 183, comma 6, c.p.c. , investendo il “thema probandum” (così S. Giani, La non contestazione nel processo civile tra definizione del “thema decidendum” e “del thema probandum” in Il caso.it n. 217/2010). Invero la giurisprudenza di legittimità sembra orientata verso una posizione di maggiore rigore, avendo affermato che il sistema di preclusioni, su cui si fondano il rito del lavoro ed il rito civile riformato, comporta per entrambe le parti l'onere di collaborare, fin dalle prime battute processuali, a circoscrivere la materia controversa, evidenziando con chiarezza gli elementi in contestazione, con la conseguenza che ogni volta che sia posto a carico di una delle parti (attore o convenuto che sia) un onere di allegazione (e di prova), il corretto sviluppo della dialettica processuale impone che l'altra parte prenda posizione in maniera precisa rispetto alle affermazioni della parte onerata, nella prima occasione processuale utile (così Cass., Sez. L., 5 marzo 2003, n. 3245; su tale problematica v. G.Buffone, L'onere di contestazione, relazione al corso organizzato dal C.S.M. in data 18-20 aprile 2011,21-23 febbraio 2011).

Ad ogni modo, non sembra ammissibile una contestazione tardiva, successiva alla cristallizzazione del “thema decidendum” e di quello “probandum”.Chiarificatrice sul tema appare Cass, Sez. II, 29 novembre 2013, n. 26859, secondo cui nel processo di cognizione, l'onere previsto dall'art. 167, comma 1, c.p.c. , di proporre nella comparsa di risposta tutte le difese e di prendere posizione sui fatti posti dall'attore a fondamento della domanda, comporta che, esaurita la fase della trattazione, non è più consentito al convenuto, per il principio di preclusione in senso causale, di rendere controverso un fatto non contestato, né attraverso la revoca espressa della non contestazione, né deducendo una narrazione dei fatti alternativa e incompatibile con quella posta a base delle difese precedentemente svolte. La pronuncia, pur soffermandosi sulla diversa portata dei principi generali di non contestazione e di preclusione, il primo funzionale ad escludere l'applicazione della regola di giudizio ex art. 2697 c.c. ed il secondo a selezionare le facoltà processuali esercitabili nel processo, ha superato il risalente orientamento secondo cui la parte può sempre introdurre nuove difese nel corso del processo, sostenuto in base all'assunto secondo cui tutto ciò che non ricade nel divieto di cui all'art. 345 c.p.c. sarebbe consentito in appello, ed ha individuato un'area comune tra non contestazione e preclusione o più precisamente “un luogo processuale” in cui i due principi si incrociano, che è quello dell'esito della trattazione. La conclusione raggiunta è, pertanto, la seguente: all'esito della trattazione, si cristallizzano in modo definitivo il “thema decidendum” ed il “thema probandum”, per cui matura anche una preclusione relativamente alla contestazione, che non consente alla parte, contro cui si è formata, proporre una versione alternativa ed incompatibile con la precedente narrazione, determinando un'inammissibile regressione dello stato del processo, incompatibile con la perfetta sequenzialità degli oneri asseritivi, contestativi e probatori, che non può essere alterata o invertita, con riapertura della trattazione dopo l'istruttoria. Va, però, ricordato che le soluzioni della giurisprudenza di legittimità non sono univoche, ammettendosi, talvolta, la rilevanza della contestazione tardiva, da cui, però, si fa discendere la rimessione in termini a favore della controparte (così, ad esempio, Cass., Sez. III, 15 gennaio 2013, n. 798). Invero, se si configura la contestazione in termini di allegazione contraria, allora necessariamente ne consegue la soggezione al limite temporale dell'esaurimento della trattazione.

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