Approdi evolutivi sul meccanismo impositivo dell’IRAP

Andrea A. Salemme
14 Aprile 2016

Può affermarsi con ragionevole prudenza che, nel variegato panorama impositivo italiano, l'IRAP spicca per un erudito concettualismo, permeante il meccanismo impositivo in un'anticipazione del prelievo che prescinde dall'effettiva generazione di reddito e quindi dalla remunerazione dei fattori della produzione. Tuttavia la tendenza della legislazione più recente, da un lato, ad assimilare sia il piccolo imprenditore sia finanche le società di persone ad artisti, lavoratori autonomi e professionisti e, dall'altro, a defiscalizzare il lavoro dipendente a vantaggio dei soli labour intensive subjects impone un radicale ripensamento della tesi dell'insensibilità dell'IRAP ai costi. Riemerge una discriminazione qualitativa riferita, anziché ai redditi, come nell'ILOR, nientemeno che a detti costi.
Definizione economico-aziendalistica dell'IRAP

L'IRAP è un'imposta reale, decentrata, gravante sulla produzione, caratterizzata da una base imponibile ampia a fronte di un'aliquota ordinaria contenuta (PROCOPIO, Il sistema tributario italiano, Padova, 2013).

Il 90% del gettito è attribuito alle regioni allo scopo di finanziare il Servizio Sanitario Nazionale (SSN), come quota-parte della spesa pubblica, in conseguenza della scelta di fiscalizzazione del relativo onere.

L'incidenza sulla produzione, che costituisce il tratto saliente dell'imposta, esprime un unicum nel modo di determinazione del prelievo, in quanto correlato non, come normalmente accade, all'utile, bensì sostanzialmente al fatturato, che ben può prescindere dalla realizzazione di un utile. Il rilievo è centrale sol che si consideri che, in economia aziendale, l'utile, essendo la differenza tra ricavi e costi, coincide con il profitto o surplus o avanzo. Inversamente, se tale differenza è negativa, si parla di perdita o deficit o disavanzo.

L'utile è bensì soggetto a tassazione, tuttavia alla stregua di reddito. Nelle imprese individuali è considerato reddito d'impresa del titolare e sottoposto all'IRPEF: la qual cosa accomuna il titolare (e con lui, per estensione, i soci di società di persone in proporzione alle quote) ai lavoratori dipendenti ed assimilati. Diversamente per le società soggette all'IRES è prevista una tassazione autonoma con un'aliquota – su cui si appunta la differenza rispetto agli scaglioni dell'IRPEF – del 27,5%.

Nondimeno, ove non si abbia un reddito, ma una perdita, quest'ultima non è tassabile sub specie dell'IRPEF perché non costituente manifestazione di ricchezza.

L'IRAP, invece, non tassando l'utile, non è un'imposta sul reddito, tanto che teoricamente è dovuta anche quando l'attività produttiva non genera alcun utile: ragion per cui in passato se ne rimarcava la contrarietà al principio di capacità contributiva ed ancora oggi se ne recrimina l'ingiustizia.

In effetti oggi non si mette più in discussione la legittimità costituzionale dell'IRAP per mancanza di un sostrato economico – in termini di concreta positività o addirittura di astratta configurabilità – del presupposto, giacché, fors'anche stancamente, le motivazioni delle decisioni sia di legittimità che di merito riproducono formule tralaticie evocative delle giustificazioni espresse dalla Consulta nella sentenza 21 maggio 2001, n. 156, tra l'altro in Riv. dir. trib., 2001, 783 (nota di: FALSITTA), Dir. prat. trib., 2001 (nota di: MARONGIU), Giur. it., 2001, 1979 (nota di: SCHIAVOLIN), Rass. trib., 2001, 833 (nota di: BATISTONI FERRARA), che risale solo a qualche anno di distanza dall'entrata in vigore di un'imposta tanto innovativa come quella di cui si discute e che ha tenuto al trascorrere dei tempi.

Attesane l'incidenza sulla ricostruzione – essa sì tutt'ora assai lontana dall'aver raggiunto una conformazione definitiva – del meccanismo impositivo, occorre accennare ai passi salienti del decisum testé evocato, che inserisce a pieno titolo l'IRAP (concettuale e persino contorta, ma ragionevole ex art. 3 Cost.) nello spettro delle possibili manifestazioni della discrezionalità tributaria del legislatore (viepiù, in forza di quanto si vedrà in seguito, neppure parlamentare ma governativo).

Nel dettaglio, la Corte Costituzionale era investita della questione della contrarietà dell'IRAP all'art. 53 Cost. sotto entrambi i profili dell'irrilevanza del risultato economico d'esercizio e della determinazione della base imponibile in misura coincidente, giusta gli artt. 4, 8 e 11 del D.Lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, al “valore della produzione netta, al netto degli ammortamenti, costituita dalla differenza tra ricavi e costi, esclusi tuttavia – e qui sta il punto – gli interessi passivi ed i costi relativi al personale”.

La tesi sostenuta dai Giudici rimettenti evidenziava come entrambi i profili di cui si tratta facciano gravare l'imposta “su una mera potenzialità di capacità contributiva, suscettibile di non tradursi in reddito – pregasi di por mente alla chiamata in causa di questo concetto – nel caso in cui l'ammontare di retribuzioni ed interessi passivi sia uguale o superiore al valore della suddetta produzione netta”: in tal caso, infatti, il reddito si negativizza, per modo che l'imposta non avrebbe ragione di colpire una forma di ricchezza la quale, pur manifestandosi nelle evidenze contabili come capacità di sostenere i costi derivanti dalla somma delle retribuzioni e degli interessi passivi, tuttavia è assorbita dal differenziale negativo conseguente ad un valore della produzione netta neppure pari ai costi stessi. La Corte Costituzionale risponde che legittimamente il legislatore ha forgiato un inedito indice di capacità contributiva, rappresentato dal “valore aggiunto prodotto dalle attività autonomamente organizzate” (brevemente VAP). Detto valore “altro non è che la nuova ricchezza creata dalla singola unità produttiva, che viene, mediante l'IRAP, assoggettata ad imposizione ancor prima che sia distribuita al fine di remunerare i diversi fattori della produzione, trasformandosi in reddito per l'organizzatore dell'attività, i suoi finanziatori, i suoi dipendenti e collaboratori”. In conclusione, l'IRAP colpisce “con carattere di realità, un fatto economico, diverso dal reddito, comunque espressivo di capacità di contribuzione in capo a chi, in quanto organizzatore dell'attività, è autore delle scelte dalle quali deriva la ripartizione della ricchezza prodotta tra i diversi soggetti che, in varia misura, concorrono alla sua creazione” (paragrafi 6, 6.1 e 6.2 delle motivazioni in diritto).

L'IRAP, dunque, assoggetta a tassazione l'incremento di valore, indice non solo di ricchezza, ma di ricchezza novella, derivante dall'organizzazione quale requisito in sé dell'attività produttiva. Ne discende che può essere qualificata come un'imposta anticipata, e solo in conseguenza di ciò anche reale, colpendo non i fattori della produzione e neppure la loro remunerazione, né in capo ai percipienti né in capo al centro di erogazione (secondo un meccanismo coincidente ovvero anche solo assimilabile a quello delle ritenute d'imposta), ma la loro combinazione e quindi la loro organizzazione in funzione della produzione (che aziendalisticamente può anche dare risultati negativi d'esercizio).

Quanto precede spiega la vulgata per cui il VAP – ossia valore della produzione (espressione sinonimica eppure forse più chiara del valore aggiunto prodotto) che l'IRAP assoggetta ad imposizione – è rappresentato da tre componenti o “gambe”:

  • quella gravante sul costo del lavoro, che, coincidendo con il quantum destinato alla remunerazione della forza-lavoro, ha sostituito i pregressi contributi per il SSN;
  • quella gravante sulla spesa per gli utili, che, coincidendo con il quantum destinato alla remunerazione del capitale e perciò rimanendo nel perimetro della valutazione economica dell'impresa ad opera del capitalista che l'ha attivata, ha sostituito la pregressa imposta locale sui redditi;
  • quella gravante sulla spesa per gli interessi passivi, che, coincidendo con il quantum destinato alla remunerazione dei finanziamenti, esprime un tratto di autentica novità dell'IRAP rispetto al passato, individuando anche in siffatta grandezza un'espressione della capacità dell'attività produttiva di organizzarsi al fine specifico di assumere e sostenere obbligazioni.

Tenuto presente quanto precede, l'elemento di scottante attualità che impone una profonda rivisitazione teorica dell'IRAP concerne la defiscalizzazione del costo del lavoro dipendente a tempo indeterminato operata dalla Legge 23 dicembre 2014, n. 190 (Legge di stabilità del 2014): essa, infatti, è destinata ad incidere sul nocciolo duro, ad un tempo, del meccanismo impositivo dell'IRAP e del finanziamento della fiscalità sanitaria.

IRAP ed IVA al cospetto della parametrazione sul fatturato

Affermare che l'IRAP è parametrata sul fatturato significa correlarla al concetto, con esso sostanzialmente coincidente, di volume o cifra d'affari.

Il fatturato trova bensì una definizione normativa, tuttavia nell'ambito della disciplina dell'IVA, con riferimento alla quale comprende i ricavi delle vendite e delle prestazioni di servizi, nonché gli altri ricavi e proventi ordinari di un'azienda, registrati perché a priori fatturati.

Ciò determina un avvicinamento concettuale dell'IRAP all'IVA: entrambe le imposte colpiscono il valore aggiunto, tuttavia la prima in quanto prodotto, ossia espressione dell'organizzazione dei fattori della produzione, mentre la seconda in quanto aggiunto, ossia espressione dell'incremento di utilità incorporato nel bene o servizio destinato all'immissione nel mercato di consumo.

Nondimeno la Corte di Giustizia dell'Unione Europea ha escluso che l'armonizzazione dell'IVA osti ad un'imposta reale che colpisce la produzione, qual è, in Italia, l'IRAP. Infatti, nella sentenza 3 ottobre 2006, in causa C-475/03, ha affermato che l'IRAP non genera alcuna sovrapposizione rispetto all'IVA giacché, “mentre l'IVA grava unicamente sul consumatore finale ed è perfettamente neutrale nei confronti dei soggetti passivi che intervengono nel processo di produzione e di distribuzione che precede la fase di imposizione finale”, nell'IRAP, “anche se si può supporre che un soggetto passivo … tenga conto, nel determinare il suo prezzo, dell'importo dell'imposta incorporato nelle sue spese generali, non tutti i soggetti passivi si trovano nella condizione di poter così ripercuotere il carico dell'imposta o di poterlo ripercuotere nella sua interezza” (paragrafi 32 e 34 delle motivazioni in diritto).

Tali concetti sono stati ribaditi anche nella sentenza 11 ottobre 2007, in causa C-283/06, la quale ha escluso che la legge ungherese istitutiva dell'imposta sulle attività produttive (Az 1990. évi C. törvény), simile all'IRAP perché la base imponibile è data dai ricavi di beni e di servizi al netto del costo delle materie prime e dei servizi intermedi e perché i soggetti passivi si individuano negli esercenti attività economiche condotte in forma imprenditoriale o professionale, interferisca con l'IVA e dunque con il regime della concorrenza a livello del mercato di consumo.

Spingendo il discorso alle estreme conseguenze, la non interferenza con l'IVA dell'IRAP non è intaccata dalla considerazione che, ai sensi dell'art. 193 della Direttiva n. 2006/112/CE del Consiglio, del 28 novembre 2006, relativa al sistema comune d'imposta sul valore aggiunto, debitore dell'IVA resta chi effettua una cessione di beni o una prestazione di servizi. Solo eccezionalmente, infatti, ai sensi dell'art. 395 dello stesso testo, uno Stato membro può essere autorizzato – all'unanimità dal Consiglio su proposta della Commissione – ad introdurre meccanismi derogatori, come l'inversione contabile (o reverse charge), il cui scopo è trasferire l'obbligo d'imposta al destinatario della cessione o della prestazione il 22 maggio 2015, ad. es., con il documento COM (2015) 214 final, la Commissione si è opposta alla richiesta dell'Italia di essere autorizzata ad applicare il meccanismo dell'inversione contabile in relazione a tutte le forniture ai c.d. grandi dettaglianti per l'indimostrata maggiore attitudine di tale misura a combattere l'evasione rispetto al regime ordinario.

Facendo il caso dell'Italia, se la cessione o la prestazione sono effettuate al consumatore dal titolare di un'attività autonomamente organizzata, costui è debitore sia dell'IVA che dell'IRAP. Ciò, per il diritto vivente, non assume rilievo al cospetto dell'ordinamento dell'UE, anche se, sul piano speculativo, la decisione della Corte di Giustizia sull'IRAP non è l'unica possibile. Prova ne è che per ben due volte l'Avvocato Generale aveva rassegnato conclusioni opposte a quelle prevalse, sostenendo la tesi della contrarietà dell'IRAP alla Direttiva 17 maggio 1977, n. 77/388/CEE, sull'IVA, perché la prima presenterebbe “tutte e quattro le caratteristiche proprie di questa, ossia:

  • è riscossa su tutte le persone fisiche e giuridiche che esercitano abitualmente un'attività diretta alla produzione o allo scambio di beni o alla prestazione di servizi;
  • colpisce la differenza tra i ricavi e i costi dell'attività imponibile;
  • è applicata in ordine a ciascuna fase del processo di produzione e di distribuzione corrispondente ad una cessione o ad una serie di cessioni di beni o servizi effettuate da un soggetto passivo;
  • impone, in ciascuna di tali fasi, un onere che è globalmente proporzionale al prezzo al quale i beni o servizi sono ceduti.

Le due imposte avrebbero quindi stessa base imponibile (il valore aggiunto), verrebbero traslate entrambe sul prezzo di beni finali, ci sarebbe identità tra le operazioni e gli operatori soggetti ad IVA e quelli soggetti ad Irap” [GAVELLI-SANTINI, Nuova “bocciatura europea” per l'Irap (con qualche riserva): effetti su acconti e contenzioso, in Il Fisco, 2006, 3709].

Quel che preme di rimarcare è che la prospettiva fatta propria dalla Corte di Giustizia era stata anticipata dalla Corte Costituzionale, la quale, nella sent. n. 156 del 2001, cit., già aveva sottolineato che “irrilevante, ai fini della valutazione della conformità dell'imposta al principio di capacità contributiva, è d'altro canto la mancata previsione del diritto di rivalsa da parte del soggetto passivo dell'imposta stessa nei confronti di coloro cui pure il valore aggiunto prodotto è, pro quota, riferibile (e cioè i lavoratori ed i finanziatori)”, atteso che, come si verifica per qualsiasi altro costo (anche di carattere fiscale) gravante sulla produzione, l'onere economico dell'imposta potrà essere infatti trasferito sul prezzo dei beni o servizi prodotti, secondo le leggi del mercato, o essere totalmente o parzialmente recuperato attraverso opportune scelte organizzative” (paragrafo 6.2 delle motivazioni in diritto).

Il quadro normativo

La disciplina di riferimento dell'IRAP è contenuta nel D.Lgs. n. 446/1997, emanato in esecuzione dell'art. 1, commi 143 e 144, della Legge delega 23 dicembre 1996, n. 662 (legge finanziaria del 1996).

A termini della prima parte del comma 143, le ragioni della delega al Governo – da esercitarsi sotto la duplice condizione del rispetto dei principi costituzionali del concorso alle spese pubbliche in ragione della capacità contributiva e dell'autonomia politica e finanziaria degli enti territoriali” – erano individuate, per un verso, nella semplificazione e razionalizzazione degli “adempimenti dei contribuenti” e, per altro verso, nella riduzione sia del “costo del lavoro” sia però anche del “prelievo complessivo che grava sui redditi da lavoro autonomo e di impresa minore”. L'obiettivo di uno snellimento burocratico avrebbe dunque dovuto coniugarsi con quello dell'alleggerimento della pressione fiscale su due entità pur tuttavia eterogenee, quali sono il lavoro tout court, ossia il lavoro dipendente, ed il lavoro autonomo e di impresa minore, ossia il lavoro autogestito: entità equiparate in forza della componente personale nella prestazione lavorativa.

Nella seconda parte del comma 143, la strada del perseguimento dei predetti obiettivi era tracciata dall'autorizzazione alla contemporanea abolizione – tuttavia a saldi invariati di gettito ex comma 144, lett. e) – di ben cinque prelievi: i contributi per il SSN, di cui all'art. 31, Legge 28 febbraio 1986, n. 41; l'ILOR, di cui al titolo III del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (tuir); l'imposta comunale per l'esercizio di imprese e di arti e professioni (ICIAP), di cui al titolo I del D.L. 2 marzo 1989, n. 66, convertito, con modificazioni, dalla Legge 24 aprile 1989, n. 144; la tassa sulla concessione governativa per l'attribuzione del numero di partita IVA, di cui all'art. 24 della tariffa allegata al D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 641; l'imposta sul patrimonio netto delle imprese, istituita con D.L. 30 settembre 1992, n. 394, convertito, con modificazioni, dalla Legge 26 novembre 1992, n. 461.

Il comma 144, dedicato ai principi e criteri direttivi per l'esercizio della delega, inserisce nel relativo catalogo – oltreché la realità [lett. a)] – l'“applicazione dell'imposta in relazione all'esercizio di una attività organizzata per laproduzione di beni o servizi, nei confronti degli imprenditori individuali, delle società, degli enti commerciali e non commerciali, degli esercenti arti e professioni, dello Stato e delle altre amministrazioni pubbliche” [lett. b)].

Il D.Lgs. n. 446/1997, nel dare attuazione alla delega, mette subito in chiaro che l'IRAP, “ha carattere reale e non é deducibile ai fini delle imposte sui redditi” (art. 1, comma 2), enucleandone il presupposto nell'“esercizio abituale di una attività autonomamente organizzata diretta alla produzione o allo scambio di beni ovvero alla prestazione di servizi” (art. 2, primo periodo).

La qualificazione incidentale “autonomamente organizzata”, riferita all'attività, è un'integrazione fatta solo dall'art. 1, comma 1, del D.Lgs. 10 aprile 1998, n. 137.

Dal confronto dell'art. 2, primo periodo, D.Lgs. n. 446/1997 con il comma 144 della legge di delega (esercizio di una attività organizzata per la produzione di beni o servizi), emergono tre aggiunte:

  • l'esercizio dell'attività deve essere abituale (ancorché non professionale ex art. 2082 c.c.;
  • l'attività deve essere non semplicemente organizzata ma autonomamente organizzata;
  • l'organizzazione è funzionale non solo alla produzione di beni e servizi ma alla produzione e scambio di beni ed alla prestazione di servizi.

In entrambi i testi pur sempre di “attività” si ragiona, di guisa che “non sono sufficienti una o più prestazioni occasionali, ma vi è la necessità che le stesse vengano svolte con continuità, in modo da poter trasformare una serie di beni, servizi e persone in una attività unitaria nella sua complessità” (D'AGOSTINO, IRAP ed esercenti arti e professioni: ulteriori ipotesi di insussistenza dell'attività autonomamente organizzata, in Rass. trib., 2011, 1332).

Ciò premesso, il problema interpretativo di concentra nell'appesantimento qualificatorio derivante dalla previsione di abitualità nell'esercizio di un'attività organizzata sì, ma autonomamente.

Un'opinione suppone che il legislatore delegato si sarebbe avveduto con ritardo che tra abitualità e organizzazione non necessariamente sussiste una relazione biunivoca e che il requisito dell'organizzazione – seppur connaturato nella nozione stessa di impresa – non può ritenersi implicito con riferimento all'attività di lavoro autonomo, ancorché svolta con carattere di abitualità” (COCIANI, Attività autonomamente organizzata e Irap, in Riv. dir. trib., 2003). In altre parole, il lavoro autonomo, ed a maggior ragione quello professionale, pur svolto con continuità, non necessariamente è organizzato: segnatamente non lo è quando conta soltanto sullo sforzo di chi vi attende.

Eppure colui che può essere considerato il teorico dell'IRAP aderisce ad una prospettazione antitetica, affermando che l'attività è autonomamente organizzata in quanto si estrinseca “in sequenze di atti e comportamenti coordinati e programmati al conseguimento di fini unitari stabilmente perseguiti”, con la conseguenza, sostanzialmente numerica o dimensionale, che tanto più si produce e tanto più si impiegano fattori della produzione quanto più l'organizzazione di tali fattori - assunta quale indice di capacità contributiva - si espande proporzionalmente all'entità del prodotto e si misura su di esso(GALLO, Ratio e struttura dell'IRAP, in Rass. trib., 1998). Per l'effetto “l'ulteriore requisito dell'‘autonomia dell'organizzazione' dovrebbe avere la funzione di rafforzare il carattere di abitualità dell'attività medesima, riconoscendo la possibilità che il presupposto dell'imposta sia integrato anche dalla mera auto-organizzazione. Da una parte, l'esercizio abituale andrebbe inteso nel senso, scontato, di ‘continuità' e, quindi, di mera ‘stabilità' dell'attività; dall'altra, l'autonomia dell'organizzazione significherebbe che detta attività può anche non essere inserita in un'organizzazione di capitale e di lavoro altrui. L'auto-organizzazione, in particolare, dovrebbe essere intesa come svolgimento abituale di un'attività mediante l'impiego come fattore produttivo anche della sola capacità di lavoro del soggetto passivo. In altri termini, il carattere autonomo dell'organizzazione dovrebbe escludere letteralmente che quest'ultima possa essere definita solo e sempre come etero-organizzazione” [GALLO, sub Imposta regionale sulle attività produttive (IRAP), in Enc. Dir., Agg., V, Milano, 2001, 661].

Il concetto di autonoma organizzazione tra sufficienza dell'auto-organizzazione e necessità dell'etero-organizzazione

In tema di autonoma organizzazione, i due poli interpretativi attorno ai quali si avvita la speculazione classica si concentrano sulla sufficienza della mera auto-organizzazione o sulla necessità di una vera e propria etero-organizzazione (SCALINCI, L'Irap sul professionista: dalla Consulta un “ibrido” che fa “breccia” nella coerenza o autosufficienza del presupposto normativo, in Giur. mer., 2004, 1281). Specialmente sul terreno del lavoro autonomo e professionale, la partita si gioca tra l'eventualità che i fattori della produzione possano essere anche solo interni all'attività d'impresa e l'indefettibile esigenza che quest'ultima si avvalga di fattori della produzione altrui, facendoli diventare propri attraverso l'organizzazione, quest'ultima soltanto pertinente all'attività d'impresa sottoforma di capacità anzitutto di approvvigionamento e quindi di combinazione di un quid non originario – e pertanto di un quid pluris – tassabile in quanto manifestazione di un surplus di ricchezza in funzione delle potenzialità incrementative di reddito. Il concetto è evocato dalla S.C. a proposito della sottoposizione all'IRAP, nell'impresa familiare, del titolare dell'impresa ma non anche dei singoli collaboratori: essa spiega che, afferendo l'IRAP “non al reddito o al patrimonio in sé, ma allo svolgimento di un'attività autonomamente organizzata per la produzione di beni e servizi, ne è soggetto passivo anche l'imprenditore familiare (stante il valore esemplificativo dell'elencazione delle figure nell'art. 3 del D.lgs. 15 dicembre 1997, n. 446), mentre non lo sono i familiari collaboratori - cui [pure] viene imputato, a determinate condizioni e proporzionalmente alla rispettive quote di partecipazione, il reddito derivante dall'impresa familiare - colpendo tale imposta il valore della produzione netta dell'impresa ed integrando la collaborazione dei partecipanti quel quid pluris dotato di attitudine a produrre una ricchezza ulteriore (o valore aggiunto) rispetto a quella conseguibile con il solo apporto lavorativo personale del titolare (Sez. trib., 8 maggio 2013, n. 10777).

A fronte di un'adesione dell'Agenzia delle Entrate, quantomeno in origine, alla prima delle due tesi esposte, fatta oggetto di articolati approfondimenti nella Risoluzione n. 32/E del 31 gennaio 2002 e, prima ancora, nella Circolare n. 141/E del 4 giugno 1998, la linea della giurisprudenza di legittimità da sempre sostiene che è soggetto passivo solo chi si avvalga, nell'esercizio dell'attività di lavoro autonomo, di una struttura organizzata in un complesso di fattori che per numero, importanza e valore economico siano suscettibili di creare un valore aggiunto rispetto alla mera attività intellettuale supportata dagli strumenti indispensabili e di corredo al suo know-how, con la conseguenza che può essere escluso il presupposto di imposta quando il risultato economico trovi ragione esclusivamente nella auto-organizzazione del professionista o, comunque, quando l'organizzazione da lui predisposta abbia incidenza marginale e non richieda necessità di coordinamento(sez. trib., 30 dicembre 2011, n. 30753; da ultimo, sez. trib., 27 novembre 2012).

Occorre tuttavia rimarcare una volta di più che altro sono i fattori della produzione ed altro è l'organizzazione: se, secondo la S.C., il requisito dell'autonoma organizzazione scatta quando ad essere organizzati sono fattori della produzione altrui e quindi esterni, tuttavia l'organizzazione di per se stessa considerata non deve obbligatoriamente essere interna. Sostenere il contrario equivarrebbe a perdere il passo con i tempi, che contemplano aree in progressiva espansione di esternalizzazione di momenti, prima ancora che organizzativi, strutturali in nome di maggiori agilità e leggerezze costitutive: si va da un fenomeno semplice, quale la stipula di un contratto di outsourcing, alla creazione di elaborate architetture infra-gruppo contemplanti società serventi e soggetti – generalmente collettivi ma anche individuali – beneficiari. La S.C. se ne dimostra avvertita laddove afferma ad esempio che “l'impiego non occasionale di lavoro altrui, costituente una delle possibili condizioni che rende configurabile un'autonoma organizzazione, sussiste se il professionista eroga elevati compensi a terzi per prestazioni afferenti l'esercizio della propria attività, restando indifferente il mezzo giuridico utilizzato e, cioè, il ricorso a lavoratori dipendenti, a una società di servizi o un'associazione professionale” (sez. trib., 24 ottobre 2014, n. 22674, in un caso in cui è stato confermato l'assoggettamento all'IRAP di un commercialista che, per la tenuta della contabilità dei propri clienti, si avvaleva in modo non occasionale di una società di servizi retribuita a percentuale).

Conclusioni

Il problema definitorio dell'autonoma organizzazione, mai sopito dal punto di vista teorico, è rinverdito da recentissime riforme legislative maturate sulla logica di dare soluzione all'emergenza sociale cagionata da una dilagante disoccupazione in specie giovanile.

La circostanza che il concetto di autonoma organizzazione necessiti, viepiù urgentemente, dell'esplicitazione di canoni ed eventualmente persino pametri in forza dei quali affermare quando sussiste e quando non un'attività autonomamente organizzata deve aversi per pacifica alla luce dell'art. 11 Legge 11 marzo 2014, n. 23, intitolata: “Delega al governo recante disposizioni per un sistema fiscale più equo, trasparente e orientato alla crescita” (delega fiscale). A termini del comma 2, infatti, nell'ambito dell'esercizio di una complessiva revisione dell'imposizione sui redditi di impresa e di lavoro autonomo, il Governo era chiamato a “chiarire” – e l'uso del verbo è significativo – “la definizione di autonoma organizzazione, anche mediante la definizione di criteri oggettivi, adeguandola ai più consolidati principi desumibili dalla fonte giurisprudenziale, ai fini della non assoggettabilità dei professionisti, degli artisti e dei piccoli imprenditori all'imposta regionale sulle attività produttive (IRAP)”.

Il 27 giugno 2015 è spirato invano il termine per l'attuazione in parte qua della delega, con la conseguenza che, come troppo spesso accade, si scarica sul formante giurisprudenziale la responsabilità di scelte aventi ricadute economiche di indubbio spessore, le quali meriterebbero un vaglio politico autentico, anziché una mera riflessione ermeneutica da radicare su testi di legge dichiaratamente perplessi.

In effetti i nodi sono già giunti al pettine della giurisprudenza di legittimità, ab immemorabile attestata sull'affermazione – ritenuta sino a ieri quanto più esplicativa possibile dell'art. 2, primo periodo, D.Lgs. n. 446/1997 – per cui il presupposto dell'autonoma organizzazione ricorre quando il contribuente che eserciti attività di lavoro autonomo:

a) sia, sotto qualsiasi forma, il responsabile dell'organizzazione senza essere inserito in strutture organizzative riferibili ad altrui responsabilità ed interesse;

b) impieghi beni strumentali eccedenti le quantità che, secondo l'id quod plerumque accidit, costituiscono nell'attualità il minimo indispensabile per l'esercizio dell'attività anche in assenza di organizzazione, oppure si avvalga in modo non occasionale di lavoro altrui”, costituendo “onere del contribuente che chieda il rimborso dell'imposta asseritamente non dovuta dare la prova dell'assenza di tali condizioni” (così, da ultimo, sez. trib., 5 settembre 2014, n. 18749).

Rilevato, per amor di precisione, che sull'asserto conclusivo circa l'onus probandi la dottrina (DELLA VALLE, Non scontano l'Irap i professionisti dotati di mezzi strumentali minimi, in Corr. trib., 2007, 891; MARINO, Irap e lavoratori autonomi: prime impressioni sul recentissimo orientamento della Corte di Cassazione, in Il Fisco, 2007) ritiene che si possa giungere a conclusioni opposte nel caso di impugnazione di avvisi di accertamento (ciò che pare condivisibile, dal momento che il rimborso presuppone l'allegazione del fatto costitutivo ad opera del contribuente mentre l'avviso di accertamento presuppone l'allegazione del fondamento della pretesa impositiva ad opera dell'Amministrazione Finanziaria), la massima di cui si tratta è destinata in tempi brevi a trovare una dimensione nuova nell'orizzonte che sarà delineato dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, impegnate a dirimere i contrasti esegetico-sistematici venuti a delinearsi sui temi centrali della rilevanza del lavoro dipendente e dell'esercizio dell'attività libero-professionale in forma associata e societaria (contrasti dettagliatamente illustrati nelle ordinanze di rimessione degli atti al Primo Presidente: sez. trib., 13 marzo 2015, n. 5040, in Corr. trib., 2015, 25, 1935, con nota di BODRITO; sez. VI-T, 27 marzo 2015, n. 6330, in Il Fisco, 2015, 16, 1595; sez. VI-T, 25 febbraio 2015, n. 3870, in Il Fisco, 2015, 12, 1187 nota di DENARO, e in Riv. Giur. Trib., 2015, 6, 483, con nota di BODRITO).

Non potranno le Sezioni Unite fare a meno di affrontare il groviglio teorico della sufficienza o meno dell'auto-organizzazione, giacché, pur ove ribadissero l'insegnamento costante secondo cui è necessario un momento organizzativo di fattori della produzione attinti dall'esterno, dovrebbero fare i conti con la perspicua osservazione che è il meccanismo impositivo in sé e per sé ad esigere l'intendimento dell'autonoma organizzazione (non semplicisticamente come mera auto-organizzazione, ma) come possibilità anche della mera auto-organizzazione, al fine di affrancare l'IRAP da censure di legittimità costituzionale per violazione della ragionevolezza della sottoposizione all'imposta altresì dei lavoratori autonomi, nel giudizio di comparazione collocati in mezzo tra i lavoratori dipendenti, non organizzati ed anzi subordinati, e gli imprenditori, anche piccoli, nell'accezione civilistica sempre ed anzi professionalmente organizzati.

Infatti la tesi per cui, “se l'attività deve essere autonomamente organizzata, non c'è disparità di trattamento del lavoratore autonomo rispetto al lavoratore dipendente, non essendo questo autonomamente organizzato, e non c'è nemmeno disparità tra lavoratore autonomo e impresa, perché entrambi sono autonomamente organizzati” vale sì, ma solo se nell'organizzazione rientraanche l'auto-organizzazione(GALLO, op. loc. ult. cit., alla nota 15).

Allargando l'orizzonte, il compito delle Sezioni Unite si fa particolarmente arduo ove si consideri che gli estremi del segmento definitorio dell'autonoma organizzazione sono rappresentati,

  • da un lato, dal piccolo imprenditore, che perspicuamente il co. 2 dell'art. 11 della delega fiscale assimilava a professionisti ed artisti nell'ottica della perimetrazione di un'area franca comune a tutte e tre tali categorie onde sottrarle – a condizioni che però la scadenza della delega rende definitivamente inconoscibili – a tassazione;
  • dall'altro lato, da società unipersonali, esclusivamente gestorie ovvero anche solo biecamente di comodo, che, pur non disponendo di alcuna organizzazione, allo stato soggiacciono all'IRAP per il sol fatto della forma giuridica (in tal senso, ultima di una serie di precedenti conformi, sez. V, 28 novembre 2014, n. 25315, secondo cui “l'esercizio in forma associata, per il tramite di una società in nome collettivo, dell'attività di agente di commercio esclude la necessità di accertare la sussistenza di un'autonoma organizzazione, atteso che, in base alla seconda parte del primo comma dell'art. 2 del D.lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, l'attività esercitata dalle società e dagli enti costituisce in ogni caso presupposto d'imposta”).

Ma non è ancora tutto.

A sommamente complicare il quadro stanno gli ultimi interventi legislativi, che spezzano l'organicità sistemica, rischiando di mettere in crisi il cuore pulsante dell'IRAP.

Ci si riferisce anzitutto all'art. 1, comma 123, Legge 28 dicembre 2015, n. 208 (legge di stabilità del 2015), che, modificando l'art. 11, comma 4-bis, del D.lgs. n. 446/1997, raddoppia il valore delle deduzioni forfettarie – ulteriori rispetto a quella ordinaria – per i soggetti minori già agli effetti dell'IRPEF: sicché, nel tentativo di alleggerire il peso fiscale degli apporti lavorativi personali, sono allineate nel beneficio persone fisiche, imprenditori individuali e, oltre, società in nome collettivo, società in accomandita semplice ed equiparate (SCAPPINI, Novità IRAP: esenzione allargata per i produttori agricoli e incremento di deduzioni per i soggetti IRPEF minori, in Il Fisco, 2015), per modo che si approfondisce una linea di demarcazione – irrilevante agli effetti dell'art. 2 D.Lgs. n. 446/1997 – tra società di persone e società di capitali sul fondamento soltanto del nomen iuris, a prescindere dalla concretezza organizzativa dell'attività svolta.

Ci si riferisce, poi, in modo ancor più eclatante, alla nuova deduzione c.d. residuale derivante dall'art. 1, comma 20, Legge di Stabilità del 2014, che, introducendo il comma 4-octies nell'art. 11 del D.Lgs. n. 446/1997, realizza, con valenza dal 2016, la completa defiscalizzazione della componente-lavoro “per il personale dipendente con contratto a tempo indeterminato”.

Rilevato che questa volta a beneficiarne possono essere indistintamente “società di capitali ed enti commerciali, società di persone e imprese individuali, banche e altri enti e società finanziarie, imprese di assicurazione, persone fisiche e società semplici ed equiparate, esercenti arti e professioni, produttori agricoli titolari di reddito agrario ed assimilate” che impiegano “personale dipendente con contratto a tempo indeterminato” (GASPARRI, Legge di stabilità 2015: nuova deduzione per il costo del lavoro e credito d'imposta per imprese e professionisti senza dipendenti, in Il Fisco, 2015), il dato di fondo è che le tre gambe su cui poggia l'IRAP restano monche di una, quella legata al costo del lavoro.

Talché, constatata la vulnerazione per legge della purezza del meccanismo impositivo, vien fatto di domandarsi se l'IRAP sia in procinto di trasformarsi in una tassazione sulla capacità organizzativa sì, ma soltanto finanziaria, dell'impresa, viepiù – oltrepassata la barriera logica della sua insensibilità ai costi della produzione – recuperandosi la prospettiva di una discriminazione qualitativa non più dei redditi, come nell'ILOR (PORCARO, Prime esperienze giurisprudenziali su Irap e attività prive di organizzazione, in Rass. trib., 2002, 374 s.), bensì dei costi stessi.

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