Profili critici della nuova disciplina degli atti emessi nei confronti delle società estinte

Mauro Tortorelli
17 Novembre 2015

La disciplina di legge introdotta dall'art. 28, D. Lgs n. 175/2014, relativa alla validità ed efficacia degli atti ivi indicati, riguardanti le società estinte per l'avvenuta richiesta di cancellazione dal Registro delle imprese, seppure condivisibile nello scopo di evitare che le azioni di recupero poste in essere dagli enti creditori possano essere vanificate da operazioni societarie all'uopo preordinate, non pare scevra da critiche, sia sul piano giuridico sia su quello pratico, come da subito evidenziato dalla dottrina e da un recente arresto della Suprema Corte di Cassazione.
Gli effetti della cancellazione della società prima e dopo la riforma dell'art. 2495 c.c.

Nel vigore della precedente disciplina giuridica, la cancellazione della società commerciale, di persona o di capitale, dal Registro delle Imprese aveva una funzione esclusivamente dichiarativa di pubblicità, sicché alla cancellazione non seguiva l'estinzione della società qualora tutti i rapporti giuridici alla stessa facenti capo non si fossero esauriti (Cass. civ., sez. lav. 27 gennaio 2004, n. 1468; Cass. civ.,sez. lav. 4 novembre 2003, n. 16551; Cass. civ.,sez. lav. 18 agosto 2003, n.12078; Cass. civ.,sez. trib. 16 luglio 2003, n.11112; Cass. civ., sez. II, 4 ottobre 1999, n. 11021). Limitatamente a tali rapporti, in capo alla società cancellata permaneva lo stato di soggettività e capacità, anche processuale. Ne conseguiva che il creditore non soddisfatto poteva esperire un'azione autonoma e diretta sia contro la società, seppure cessata, sia, in via facoltativa, nei confronti dei liquidatori e dei soci, seppure nel limite delle somme da questi riscosse in base al bilancio finale di liquidazione.

La modifica operata all'art. 2495 c.c. dal D. Lgs. n. 6/2003, entrata in vigore il 1° gennaio 2004, (applicabile in via interpretativa anche alle società di tipo personale v. Cass. SS.UU. 22 febbraio 2010, n. 4060, n. 4061 e n. 4062; per le società cooperative, v. il richiamo contenuto nell'art. 2519, c.c.) ha innovato gli effetti della cancellazione delle società commerciali dal Registro delle Imprese. Essa ha affermato che tale cancellazione ha efficacia dichiarativa, nel senso che ne comporta sempre l'estinzione, indipendentemente dall'eventuale esistenza di debiti o di altri rapporti giuridici non ancora definiti in capo al soggetto estinto.

Motivo per cui, salva la prova contraria della reale prosecuzione dell'attività sociale, la cancellazione dal Registro delle imprese produce l'estinzione irreversibile della società ed il conseguente venir meno della sua capacità e soggettività (Cass. SS.UU. 12 marzo 2013, n. 6070, id. n. 4060 e n. 4061 del 2010).

A tale ultima conclusione, in via giurisprudenziale, ha fatto seguito l'affermazione del principio di diritto secondo cui alla cancellazione della società segue un fenomeno, invero opinabile, di tipo “successorio” nei confronti dei soci, in forza del quale:

i) l'obbligazione della società non si estingue, ma prosegue in capo ai soci, nel limite di quanto riscosso a seguito della liquidazione (per i soci di società di capitali) oppure illimitatamente per i debiti sociali (per i soci di società in nome collettivo o per i soci accomandatari per le società in accomandita semplice);

ii) i diritti e i beni non compresi nel bilancio di liquidazione della società estinta si trasferiscono ai soci, in regime di contitolarità o comunione indivisa, con esclusione delle mere pretese e dei crediti ancora incerti o illiquidi, la cui mancata inclusione nel bilancio di liquidazione, da parte del liquidatore, è da ricondurre alla volontà della società di rinunciarvi a favore di una più rapida conclusione del procedimento di estinzione (Cass. civ. SS.UU n. 6070/2013, n. 6071/2013 e n. 6072/2013; Cass. civ. n. 1677/2012, n. 9110/2012 e n. 12796/2012; Cass. civ.n. 24955/2013).

Prima dell'entrata in vigore del D.Lgs. 21 novembre 2014, n. 175, sul piano tributario ne conseguiva che un eventuale atto impositivo notificato ad una società estinta era da ritenere giuridicamente inesistente, privo di effetti giuridici a causa dell'inesistenza del soggetto destinatario dello stesso. Per gli enti impositori ne conseguiva la necessità di emettere e di notificare gli atti direttamente nei confronti dei soci e dei liquidatori, sempreché ricorressero le condizioni di cui all'art. 2495 c.c.

La disciplina di legge introdotta dall'art. 28, D. Lgs n. 175/2014

In tale contesto si colloca lo ius superveniens dell'art. 28, co. 4, D. Lgs. 21 novembre 2014, n. 175, entrato in vigore il 13 dicembre 2014, a mente del quale “ai soli fini della validità e dell'efficacia degli atti di liquidazione, accertamento, contenzioso e riscossione dei tributi e contributi, sanzioni e interessi, l'estinzione della società di cui all'art. 2495 del codice civile ha effetto trascorsi cinque anni dalla richiesta di cancellazione dal Registro delle imprese”.

È evidente che la norma risponde all'esigenza di contrastare le cancellazioni di società quali operazioni strumentali alla sottrazione di materia imponibile per l'erario.

In altri termini, l'effetto estintivo della società di persone o di capitali, a seguito della cancellazione dal Registro delle imprese disposta su richiesta, è differito per cinque anni, a decorrere dalla data della richiesta di cancellazione, per i soli debiti della società riconducibili sostanzialmente ai settori tributario e contributivo. Con la conseguenza che l'estinzione intervenuta durante tale periodo non fa venir meno la validità e l'efficacia:

i) degli atti di liquidazione, accertamento, riscossione relativi a tributi e contributi, sanzioni e interessi,

ii) degli atti processuali relativi a giudizi concernenti detti tributi e contributi, sanzioni e interessi.

Va considerato, peraltro, che il differimento degli effetti dell'estinzione della società non opera necessariamente per un quinquennio, ma deve essere circoscritto all'eventuale minor periodo che risulta al netto dello scarto temporale tra la richiesta di cancellazione e l'estinzione.

Diversamente da quanto previsto per la generalità dei creditori, nei cui confronti opera esclusivamente l'art. 2495 c.c., il disposto normativo prevede che gli enti impositori possano agire direttamente contro la società cessata per far valere il proprio credito rimasto insoddisfatto. Il processo potrà pertanto svolgersi nei confronti della società cessata per tutto l'arco temporale previsto dalla norma.

Sempre al fine di evitare che le azioni di recupero degli enti accertatori possano inibirsi a causa della cancellazione della società nei cui confronti sono dirette, il co. 5 dell'art. 28 prevede nuove disposizioni in merito alla responsabilità e agli obblighi di amministratori, soci e liquidatori della società cancellata. La nuova disposizione di legge introduce una responsabilità diretta in capo ai liquidatori di società di capitali che omettono di pagare, con le attività della liquidazione, le imposte dovute se non provano di avere soddisfatto i crediti tributari prima dell'assegnazione di beni ai soci o agli associati, o di avere soddisfatto crediti di ordine superiore a quelli tributari. In tale ipotesi, la responsabilità dei liquidatori è limitata al valore dei crediti tributari che avrebbero trovato capienza in sede di graduazione dei crediti.

La responsabilità dei soci o associati opera, invece, nel limite di quanto ricevuto in denaro o beni nel corso della liquidazione o nel corso dei due periodi precedenti la messa in liquidazione, fatte salve ulteriori responsabilità. La responsabilità è limitata al valore dei beni ricevuti, che, salvo prova contraria, si presume proporzionale alla quota di capitale sociale detenuta.

L'ultimo comma dell'art. 28 dispone, infine, che il regime di responsabilità di amministratori, liquidatori e soci attiene a tutte le imposte dovute dalla società e non più solo alle imposte dirette.

Profili critici della nuova disciplina di legge

Lo ius superveniens dettato dal citato art. 28, D. Lgs. n. 175/2014, ha suscitato dubbi di legittimità costituzionale da parte della dottrina. Dubbi in seguito espressi, seppure incidentalmente, da un recente intervento della Corte di cassazione (v. Cass. civ., sez. trib., 2 aprile 2015, n. 6743, punto n. 2.3).

Una prima censura alla nuova disposizione di legge è data dalla sua difformità rispetto alla legge delega, con conseguente esito negativo del giudizio di conformità alla prescrizione di cui all'art. 76 Cost. in base al quale il Governo può esercitare la funzione legislativa, ma nel rispetto dei “principi e criteri direttivi” fissati nella delega “e soltanto per (…) oggetti definiti”.

Sotto tale profilo, si è osservato che l'art. 7 della Legge 11 marzo 2014, n. 23, ha delegato al Governo un intervento in materia di semplificazioni degli adempimenti, in particolare per quelli ritenuti di scarsa utilità ai fini dell'attività di accertamento e di controllo. Da tale previsione della norma di legge primaria è parso arduo, sia sul piano letterale sia sul piano funzionale, trarre il convincimento di una previsione a favore del legislatore delegato di un intervento teso ad attribuire all'Amministrazione finanziaria la previsione di ulteriori e specifici poteri di accertamento tributario, prima inesistenti, al fine di assicurare nuove forme di garanzie patrimoniali del credito erariale, peraltro, in danno al restante ceto creditorio.

L'art. 28, comma 4, D.Lgs. n. 175/2014, ha previsto, viceversa, la validità ed efficacia di particolari atti per i cinque anni successivi dalla richiesta di cancellazione della società dal Registro delle imprese al fine di estendere la garanzia del credito erariale al patrimonio della società cancellata, ma evidentemente non estinta ai fini fiscali, oltre alla garanzia data dal patrimonio del liquidatore e dei soci, nei limiti indicati, senza precisarne l'ordine e la misura. Da qui la censura di illegittimità della norma delegata per eccesso di delega, non potendosi ricondurre alla eliminazione di adempimenti superflui né la previsione di legge di una nuova disciplina degli effetti estintivi delle società differenziata a seconda dei creditori, né la notificazione ad una società estinta di atti impositivi o di riscossione, né la previsione di nuove forme di garanzia del credito erariale nei confronti di soggetti terzi rispetto alla società, né la previsione dell'inversione dell'onere della prova riguardo all'esclusione di colpa per i fatti evasivi.

Sotto un altro profilo, si è dubitato della irragionevole disparità di uguaglianza e di trattamento tra i creditori “enti impositori” indicati nella disposizione di legge, da un lato, e gli altri creditori sociali, dall'altro, nei cui confronti continuerebbe ad operare il disposto del comma 2 dell'art. 2495 c.c., secondo cui a seguito dell'estinzione della società eventuali azioni a tutela del proprio credito possono vantarsi nei confronti dei soli soci e nel limite di quanto da essi riscosso in base al bilancio finale di liquidazione. Il sospetto della irragionevole differenziazione tra le componenti il ceto creditorio è avvalorato dalla circostanza che lo stesso art. 1 della legge delega 11 marzo 2014, n. 23, richiede espressamente il rispetto dell'art. 3 Cost.

La (ir)retroattività della norma e l'interpretazione della prassi amministrativa

Ulteriore profilo di grande attualità e criticità della nuova normativa attiene alla pretesa retroattività della norma di legge prevista dal comma 4 dell'art. 28. Tale profilo merita la dovuta attenzione perché, di recente, oggetto di intervento della Suprema Corte (v. Cass. civ., 2. aprile 2015, n. 6743; per la giurisprudenza di merito, v. C.T.P. Reggio Emilia, 23 gennaio 2015, n. 5).

Riguardo all'applicazione temporale della norma in deroga al regime delle società cancellate, ex art. 2495 c.c., in un documento di prassi l'Agenzia delle Entrate ha affermato che “trattandosi di norma procedurale, si ritiene che la stessa trova applicazione anche per attività di controllo fiscale riferite a società che hanno già chiesto la cancellazione dal Registro delle imprese o già cancellate dallo stesso registro prima della data di entrata in vigore del decreto in commento”(Agenzia delle Entrate, Circolare 30 dicembre 2014, n. 31/E, e, nello stesso senso, Circolare 19 febbraio 2015, n. 6). Tale interpretazione, peraltro, trova un sotteso sostegno nella giurisprudenza di legittimità che ha riconosciuto natura procedurale, ed effetto retroattivo, a norme sopraggiunte in materia di accertamento da indagini finanziarie, da redditometro o, in via generale, da accertamenti di tipo induttivo.

Seppure autorevole per la fonte da cui promana, tale interpretazione non appare condivisibile perché se, da un lato, il carattere procedimentale o sostanziale di una norma giuridica non è codificato dalla legge, dall'altro lato, il principio di irretroattività di una norma giuridica è espressamente previsto dall'art. 11 delle preleggi secondo cui la legge non dispone che per l'avvenire: essa non ha effetto retroattivo.

Da un altro profilo, e con riguardo specifico al diritto tributario, l'asserita retroattività del comma 4 dell'art. 28 trova un limite, alla luce del quale deve essere vagliata, nella sua compatibilità con i principi generali contenuti negli artt. 3 e 10 della Legge n. 212/2000.

A mente dell'art. 3 dello Statuto dei diritti del contribuente, infatti, in via generale le disposizioni tributarie non hanno effetto retroattivo. Ed ancora, mette conto rilevare che il successivo art. 10 esige, a tutela del principio del legittimo affidamento e della buona fede, che i rapporti tra contribuente e enti impositori siano improntati alla reciproca collaborazione. Principi che paiono violati da una disposizione di legge che, da un lato, è fortemente indiziata di illegittimità costituzionale per eccesso di delega e che, dall'altro lato, favorisce apertamente la parte pubblica del rapporto tributario la quale, seppure in via interpretativa, la esige dotata di efficacia retroattiva in palese danno dei contribuenti.

Il vaglio della Corte di cassazione e la reale portata temporale del comma 4, dell'art. 28

Nel decidere l'ambito temporale di efficacia della norma, in un recente intervento (Cass. civ. 2 aprile 2015, n. 6743), la Corte di Cassazione ha osservato, in primo luogo, che la relazione illustrativa al D. Lgs. n. 175/2014 afferma che l'obiettivo della norma è di "evitare che le azioni di recupero poste in essere dagli enti creditori possano essere vanificate". In altri termini, lo scopo del legislatore è da ricondurre alla volontà di disciplinare l'imputazione alla società di rapporti e situazioni con gli enti creditori dell'imposizione nel periodo quinquennale successivo alla richiesta di cancellazione della società dal Registro delle imprese. A tal uopo, prevedendo a favore di tali enti e per il periodo precisato l'inefficacia dell'estinzione della società eventualmente verificatasi in quel periodo. Muovendo da tale precisazione, la Suprema Corte ha quindi concluso che il comma 4 dell'art. 28 deve ritenersi operante sul piano “sostanziale” e non "procedurale" perché la sua operatività non è ascrivibile ad una diversa regolamentazione dei termini processuali o dei tempi e delle procedure di accertamento o di riscossione prevedendone il prolungamento. A tale proposito, sempre per la Suprema Corte, non rileva la circostanza che il legislatore abbia individuato il tempo di sospensione degli effetti dell'estinzione della società nella misura di cinque pari a quello dalle norme sull'accertamento, art. 43, comma 2, D.P.R. n. 600/1973 e art. 57, comma 2, D.P.R. n. 633/72). La fattispecie regolata dall'art. 28, comma 4, D.Lgs. n. 175/2014, infatti, come precisato, attiene esclusivamente allo stato di soggettività e capacità, anche processuale, della società e non ai termini fissati per l'accertamento.

Precisato quanto sopra, la Suprema Corte ha poi considerato i disposti normativi di cui al comma 1 dell'art. 11 delle Preleggi, secondo cui "la legge non dispone che per l'avvenire: essa non ha effetto retroattivo", e il comma 1 dell'art. 3, legge n. 212/2000, secondo cui "le disposizioni tributarie non hanno effetto retroattivo", salvi i casi di interpretazione autentica. A tale proposito, per la Corte, entrambi gli indicati disposti normativi costituiscono delle "metanorme". Nel senso che, in mancanza di una espressa deroga da parte di successive norme di pari grado gerarchico, esse rappresentano il criterio interpretativo utile per la soluzione dei casi dubbi. Intendendo per tali le disposizioni tributarie, successive alle metanorme, prive di una espressa previsione della propria sfera temporale di efficacia. Alla luce di tali fondamentali premesse l'art. 28, comma 4, più volte citato, proprio perché privo di una specifica previsione di efficacia temporale resta regolata dai principi generali dell'ordinamento che dispongono per l'efficacia a valere per il futuro. Sotto tale profilo, inoltre, la Suprema Corte non ha mancato di precisare che, come evidenziato in altra parte del presente scritto, il legislatore delegato non avrebbe avuto neppure in astratto il potere di derogare ai principi regolatori della materia, perché la legge di delega n. 23 del 2014 gli ha imposto l'obbligo di rispetto (e non di deroga) dello Statuto dei diritti del contribuente (v. art. 1 della legge delega) e, quindi, della relativa disposizione che prevede, in via generale, l'irretroattività delle norme tributarie (v. comma 1, art. 3, Legge n. 212/2000).

Precisato, infine, che l' art. 28, comma 4 del D.Lgs. n. 175 del 2014, non ha alcuna valenza interpretativa sia per il suo tenore testuale sia, in via implicita, perché non intende privilegiare una tra le diverse possibili interpretazioni delle precedenti disposizioni in tema di estinzione della società, il Giudice della nomofilachia conclude affermando che l'enunciato della disposizione in esame non consente né di attribuirgli un indice di retroattività della sua efficacia né autorizza ad attribuire effetti di sanatoria in relazione ad atti notificati a società già estinte per le quali la richiesta di cancellazione e l'estinzione siano intervenute anteriormente al 13 dicembre 2014. Con l'ulteriore conclusione che il differimento quinquennale disposto dall'art. 28, comma 4, D.Lgs. n. 175/2014, nei confronti delle società cancellate dal Registro delle Imprese, operante a favore dell'Amministrazione finanziaria e degli altri enti creditori o di riscossione, si applica esclusivamente ai casi in cui la richiesta di cancellazione della società dal Registro delle Imprese (atto presupposto al differimento) sia presentata nella vigenza di detto decreto legislativo, ovverosia a decorrere dal 13 dicembre 2014.

In conclusione

In estrema sintesi, quindi, per la Cassazione il comma 4 dell'art. 28 ha natura sostanziale e non procedurale e il differimento quinquennale della cancellazione delle società opera, pertanto, a partire dalle richieste effettuate a decorrere dal 13 dicembre 2014.

È così smentita l'opposta tesi della natura procedurale della norma, e quindi della sua efficacia retroattiva, prospettata dall'Amministrazione finanziaria allo scopo evidente di trarre la possibilità di sanare ex post gli atti impositivi improduttivi di effetti giuridici perché notificati a società inesistenti a causa della richiesta di cancellazione dal Registro delle imprese avanzata prima dell'entrata in vigore del D. Lgs. n. 175/2014.

In attesa che la Corte Costituzionale sia chiamata a pronunciarsi sui profili di illegittimità costituzionale dell'art. 28, D. Lgs. n. 175/2014, avanzati dalla migliore dottrina riguardo all'irrazionalità della norma ed all'eccesso di delega, sorgono dubbi sulla valenza e sulla utilità complessiva dell'art. 28, citato, che potrebbe essere espunto dall'ordinamento giuridico a seguito dell'esito negativo del giudizio di costituzionalità, dopo, magari, aver prodotto effetti giuridici devastanti.

Dubbi sorgono anche in relazione all'attuazione pratica della norma.

La norma che prevede la responsabilità diretta per le imposte dovute nei confronti della società estinta potrebbe rilevarsi banale. Se a seguito della liquidazione finale del suo patrimonio una società si estingue insieme al suo patrimonio, avanzare pretese erariali e/o contributive nei suoi confronti non avrebbe senso.

Ecco allora che il problema si sposta verso i commi 5 e 7 dell'art. 28, i quali prevedono la responsabilità tributaria propria, e non in solido con la società estinta per le imposte da questa dovute, dei liquidatori e degli ex amministratori che risultano aver omesso di pagare le imposte dovute e non sono in grado di provare di avere soddisfatto i crediti tributari prima di aver assegnato i beni ai soci o di avere soddisfatto crediti di ordine superiore. La responsabilità dei soci, eventualmente chiamati in causa è, invece, limitata a quanto ricevuto durante la fase di liquidazione e nei due periodi precedenti l'inizio della stessa. Tali responsabilità hanno natura civilistica e non tributaria (cfr., ex multis, Cass. Ord. 8 gennaio 2014, n. 179) e presuppongono, a cura dell'ente creditore, la predisposizione di uno specifico atto motivato e notificato personalmente ai soggetti persone fisiche interessati, non essendo a tal fine sufficiente la notifica del solo atto impositivo alla società estinta. A tale proposito, l'azione nei confronti di liquidatori, soci ed ex amministratori deve però essere supportata da un credito certo dell'Amministrazione finanziaria fondato su un atto valido.

Emergono, quindi, le criticità prima rilevate circa la potenziale illegittimità costituzionale della norma che priverebbe di certezza il credito e precluderebbe la possibilità di attivare la responsabilità di liquidatori, soci ed ex amministratori.

Sempre sul piano pratico restano da risolvere questioni ulteriori e di non poco conto.

Da un punto di vista civilistico, al fine di consentire al creditore privilegiato di porre in essere gli atti impositivi nel termine di legge previsto, la società estinta dovrebbe (il condizionale è d'obbligo) continuare ad esistere? E (l'ex) liquidatore dovrebbe continuare a rappresentarla, con tanto di responsabilità personale? In attesa che si consumi il termine decadenziale per l'azione di accertamento, il patrimonio netto di liquidazione può essere distribuito ai soci? Nelle more, il liquidatore potrebbe esigere un compenso da parte della società? E al fine della notificazione degli atti, la società dovrebbe conservare la sua sede sociale? E se questa fosse detenuta a titolo di locazione, la società estinta dovrebbe continuare a sostenerne i costi? Ed allora, con tanto di componenti negativi del reddito, e relativa maturazione di debiti da liquidare, a monte, la società potrebbe considerarsi davvero estinta?

Dal lato tributario, poi, la modifica consente all'Agenzia di coinvolgere a garanzia della sua pretesa sia il patrimonio (se esistente) della società cancellata sia quelli del liquidatore e dei soci. Resterebbe da chiarire se tra i vari soggetti chiamati a rispondere per fatto proprio, società e liquidatore, e per responsabilità del terzo, i soci, vi sia un regime di responsabilità solidale, se i primi debbano essere considerati obbligati principali e i soci obbligati dipendenti e se i secondi possano vantare nei confronti del creditore super privilegiato il beneficio di previa escussione.

In tale contesto, è lecito chiedersi se l'art. 28, citato, abbia davvero semplificato gli adempimenti tributari.

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