Beneficio ACE: brevi note sui possibili effetti di illegittimità esistenti nella disciplina

18 Luglio 2016

Il contributo – dopo aver delineato le modalità di calcolo del beneficio del cd. “Aiuto alla crescita economica” (ACE) previste dalla disciplina vigente rispettivamente per le società di capitali e per alcune delle società di persone – si sofferma sulle disuguaglianze che dalla stessa emergono e sui possibili correlati effetti di illegittimità che la potrebbero in parte colpire.
La disciplina prevista dal D.L. 6 dicembre 2011, n. 201

L'art. 1 del D.L. 6 dicembre 2011, n. 201 (di seguito, “D.L. 201/2011”), così come convertito dalla Legge del 22 dicembre 2011, n. 214, ha introdotto nell'ordinamento tributario il cd. “Aiuto alla crescita economica” (di seguito, “ACE”) volto, ai sensi del 1° comma, a ridurre, tra l'altro:

  • l'“imposizione sui redditi derivanti dal finanziamento con capitale di rischio”; e
  • lo “squilibrio del trattamento fiscale tra imprese che si finanziano con debito ed imprese che si finanziano con capitale proprio”;

con l'obiettivo finale di “rafforzare … la struttura patrimoniale delle imprese e [di conseguenza, in generale] del sistema produttivo italiano”.

Per adempiere gli obiettivi in parola, sempre nel 1° comma del richiamato articolo, il Legislatore ha definito, ai fini che qui rilevano, per le società di capitali una specifica deduzione da applicarsi nella determinazione dell'imposta sui redditi delle società (IRES).

In particolare, la deduzione prevista dal Legislatore nel D.L. n. 201/2011 (di seguito, la “Deduzione ACE”) è stata fatta pari “al rendimento nozionale del nuovo capitale proprio” della società da quantificarsi “mediante applicazione dell'aliquota percentuale individuata con [apposito] provvedimento* alla variazione in aumento del capitale proprio rispetto a quello esistente alla chiusura dell'esercizio in corso al 31 dicembre 2010”(Art. 1, co. 2, D.L. n. 201/2011).

In evidenza*

Provvedimento del Ministro dell'Economia e delle Finanze:

In ogni caso, per i primi esercizi di funzionamento dell'ACE (segnatamente sino al “periodo di imposta in corso al … 31 dicembre 2016”), il Legislatore non ha mancato nel D.L. n. 201/2011 (cfr. l'articolo 1, comma 3) di stabilire le aliquote percentuali da impiegare. Di conseguenza, solo per i periodi di imposta in corso a far tempo dal 31 dicembre 2017 l'“aliquota percentuale per il calcolo del rendimento nozionale del nuovo capitale proprio … [verrà identificata dal] Ministro dell'Economia e delle Finanze … [tenuto in ogni caso] conto dei rendimenti finanziari medi dei titoli obbligazionari pubblici, aumentabili di ulteriori tre punti percentuali a titolo di compensazione del maggior rischio”.

In questo ambito, il Legislatore non ha mancato poi di sottolineare:

  • da un lato, come “il capitale proprio esistente alla chiusura dell'esercizio in corso al 31 dicembre 2010 [sia] costituito dal patrimonio netto risultante dal relativo bilancio, senza tener conto dell'utile del medesimo esercizio [e che] rilevano [: i)] come variazioni in aumento i conferimenti in denaro nonché gli utili accantonati a riserva ad esclusione di quelli destinati a riserve non disponibili; [nonché ii)] come variazioni in diminuzione: a) le riduzioni del patrimonio netto con attribuzione, a qualsiasi titolo, ai soci o partecipanti; b) gli acquisti di partecipazioni in società controllate; c) gli acquisti di aziende o di rami di aziende”; (art. 1, comma 5, del D.L. n. 201/2011) e
  • dall'altro, come i)gli incrementi derivanti da conferimenti in denaro [rilevino] a partire dalla data di versamento [e quelli da] … accantonamento di utili [rilevino] a partire dall'inizio dell'esercizio in cui le relative riserve sono formate[, mentre] i decrementi [rilevino] a partire dall'inizio dell'esercizio in cui si sono verificati”, nonché ii)per le … società di nuova costituzione si [consideri] incremento tutto il patrimonio conferito”(art. 1, comma 6, del D.L. 201/2011).

Differentemente dalle società di capitali, sul versante delle società di persone, il Legislatore nel D.L. 201/2011 ha ritenuto di non dover stabilire una specifica disciplina, ma più semplicemente – dopo aver statuito che l'ACE sia applicabile per la determinazione del reddito d'impresa di taluni tipi societari, segnatamente le “società in nome collettivo e in accomandita semplice in regime di contabilità ordinaria”(art. 1, comma 7, del D.L. 201/2011) – ha rimandato l'individuazione delle modalità applicative (così come tutte le altre disposizioni attuative dell'ACE, si veda l'art. 1, comma 8, del D.L. 201/2011) ancora una volta a un apposito “decreto del Ministro dell'Economia e delle Finanze … [che, nel definirle avrebbero dovuto a ogni modo assicurare] un beneficio conforme [leggasi, pari] a quello garantito” (art. 1, comma 7, del D.L. 201/2011) alle società di capitali.

La disciplina prevista per le società di persone dal Decreto del Ministro dell'Economia e delle Finanze del 14 marzo 2012

In esecuzione a quanto disposto nel D.L. 201/2011, il Ministro dell'Economia e delle Finanze ha emanato, il successivo 14 marzo 2012, un decreto ministeriale con le “Disposizioni [regolamentari] di attuazione dell'art. 1 del D.L. 6 dicembre 2011, n. 201 concernete l'Aiuto alla crescita economica (ACE)” (di seguito, il “Decreto Ministeriale”) (Peraltro, tale emanazione è avvenuta oltre il termine perentorio definito nel D.L. 201/2011. Infatti, nonostante l'art. 1, comma 8, del D.L. 201/2011 statuisse che “le disposizioni di attuazione [dell'ACE dovessero essere] emanate … entro 30 giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione [del D.L. 201/2011]” avvenuta il 28 dicembre 2011, il Decreto Ministeriale è stato emanato solamente il 14 marzo 2012 e, quindi, oltre un mese e mezzo dopo il termine di cui sopra, il che potrebbe far sin da subito riflettere sulla validità dell'atto ministeriale).

Per quanto qui d'interesse, il Decreto Ministeriale:

  • dopo aver riesposto con qualche limitata e, nella sostanza, formale precisazione attuativa la disciplina ACE delle società di capitali normata dal D.L. 201/2011;
  • nell'articolo 8 ha definito la disciplina ACE, per le società in nome collettivo e in accomandita semplice, stabilendo, in particolare, che a dette società l'ACE si applichi “assumendo, in luogo della variazione in aumento del capitale proprio, il patrimonio netto risultante in bilancio al termine di ciascun esercizio” (Art. 8, comma 1, del Decreto Ministeriale).

A miglior chiarimento di quanto riportato, nella relazione accompagnatoria al Decreto Ministeriale (di seguito, la “Relazione”) si sottolinea come “il mancato richiamo [delle] regole [valide per le società di capitali per il calcolo del beneficio ACE delle società in nome collettivo e accomandita semplice sarebbe il] frutto di una precisa scelta [ministeriale:]

  • operata al fine [proprio] di dare diretta rilevanza all'entità contabile del patrimonio netto così come esistente alla chiusura dell'esercizio [e che,] in conseguenza di tale scelta, tutto il patrimonio netto contabile [costituisce*] la base su cui applicare il rendimento nozionale, non assumendo alcun rilievo che si tratti di capitale di vecchia formazione (vale a dire, risultante dall'esercizio 2010) ovvero di nuova formazione, anche derivante da apporti in natura[; nonché]
  • dettata anche da esigenze di semplificazione in considerazione della estrema complessità che sarebbe derivata dall'applicazione [in generale] ai soggetti IRPEF [quali le società in nome collettivo e in accomandita semplice] di regole analoghe a quelle previste per le società di capitali [evidenziazioni nostre, n.d.s.]” (Relazione, pagg. 15 e seg.).

In evidenza*

In questo senso, nella Relazione non si manca di specificare come:

  • il riferimento al patrimonio netto [includa] anche l'utile dell'esercizio[,che] ovviamente tale entità [vada] considerata al netto di eventuali prelevamenti in conto utili effettuati dall'imprenditore o dai soci [,e che rilevino], altresì, tutte le riserve di utile, a nulla influendo le specifiche disposizioni sul punto applicabili alle società di capitali e agli enti commerciali” (pagg. 15 e seg.);
  • per … le società di persone in regime di contabilità ordinaria, per natura o per opzione, [assumendosi] quale entità agevolabile agli effetti dell'ACE [solamente] il patrimonio netto risultante al termine di ciascun esercizio[,] nessuna rilevanza [assuma], pertanto, la variazione [prevista per le società di capitali] del capitale proprio di cui all'art. 5 del … decreto” (pag. 15).

Le problematiche emergenti dalla disciplina ACE come definita dalla fonte normativa primaria e secondaria

Dal quadro delineato nei precedenti paragrafi, emerge come la disciplina ACE – per stessa ammissione ministeriale – diverga a livello sostanziale a seconda del tipo societario coinvolto, arrivando a determinare in capo alle società di capitali un beneficio differente rispetto a quello di cui possono disporre le società in nome collettivo e in accomandita semplice. Invero, per sintesi, come non considerare che:

  • mentre per una società di capitali la base sulla quale calcolare l'ACE è limitata dal D.L. n. 201/2011 da un punto di vista:

a) sia temporale, poiché possono essere considerate solo le variazioni quantitative intervenute a far tempo da un determinato periodo storico, ossia quelle verificatesi dal 1° gennaio 2011, posto che il capitale proprio (rectius, il patrimonio netto, come definito nel D.L. 201/2011) indicato nel bilancio al 31 dicembre 2010 costituisce il parametro di riferimento per determinare le variazioni; nonché

b) sia quantitativo, poiché possono essere considerate tra le variazioni positive solamente quelle derivanti da nuovi conferimenti in denaro o dagli utili per espressa volontà dei soci destinati a costituire o alimentare una riserva di patrimonio netto;

  • tali limitazioni non risultano presenti nelle modalità individuate dal Decreto Ministeriale per le società in nome collettivo o in accomandita semplice, visto che la base per quantificare l'ACE in ogni periodo d'imposta è più semplicemente data dal patrimonio netto risultante in bilancio.

È ben si vero che, come segnalato in dottrina, nello stesso art. 8 del Decreto Ministeriale, il 3° comma (segnatamente, l'art. 8, comma 3, del Decreto Ministeriale prevede che “ai fini della determinazione dell'imposta ai sensi dell'art. 11 del TUIR nonché delle detrazioni spettanti ai sensi dei successivi art. 12, 13, 15 e 16, la quota dedotta dal reddito d'impresa concorre alla formazione del reddito complessivo delle persone fisiche e dei soci delle società partecipate beneficiarie della deduzione”) cerca di “limitare il beneficio ACE [per] assicurare una maggiore equità all'istituto [prevedendo nella sostanza che] … ai fini della determinazione degli scaglioni IRPEF (nonché delle detrazioni), il reddito complessivo [debba] essere considerato al lordo del rendimento nozionale, il quale deve essere dedotto, per il calcolo dell'imposta dovuta, dal primo scaglione e, per la parte eccedente, in quelli successivi [con la conseguenza che] … il reddito nozionale concorre alla formazione degli scaglioni e delle aliquote applicabili, ma non partecipa alla determinazione dell'imposta dovuta quale base imponibile”.

Tutto ciò, però, non è tale da eliminare alla radice lo squilibrio di base di calcolo evidenziato in partenza tra società in nome collettivo e in accomandita semplice, da una parte, e società di capitali, dall'altra. Invero, non è matematicamente provabile in maniera assoluta che il “correttivo” (se così si può definire) contenuto nel 3° comma dell'art. 8 del Decreto Ministeriale riesca a garantire una parità di trattamento tra le diverse tipologie societarie.

In altri termini, la determinazione, nell'ambito delle società in nome collettivo e in accomandita semplice, dell'ACE per socio seguendo la logica degli scaglioni di reddito ex art. 11 del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 e le relative aliquote può in generale stemperare, ma quasi mai annullare lo squilibrio determinato dalla diversa base di calcolo, come visto più ampia per le società in nome collettivo e in accomandita semplice rispetto alle società di capitali (il che in ultima analisi comporta inevitabilmente un importo del beneficio ACE diverso a seconda della tipologia societaria). Semmai si può sicuramente affermare che – proprio grazie alla presenza del 3° comma dell'art. 8 del Decreto Ministeriale – si eviti disparità di trattamento tra soci di società in nome collettivo e in accomandita semplice, posto che “in mancanza di tale disposizione, la riduzione dell'imposizione sarebbe stata di importo maggiore e avrebbe operato in maniera progressiva a favore dei soggetti con un reddito maggiore: [infatti] il rendimento nozionale … avrebbe eroso gli scaglioni più alti, garantendo un risparmio di imposta pari all'aliquota prevista per tali scaglioni di reddito”.

Peraltro, lo squilibrio di sistema nel beneficio ACE visto tra società in nome collettivo e in accomandita semplice, da un lato, e società di capitali, dall'altro, appare difficilmente giustificabile con l'esigenza indicata in Relazione “di semplificazione in considerazione della estrema complessità [che deriverebbe] dall'applicazione ai soggetti IRPEF di regole analoghe a quelle previste per le società di capitali” (invero, non si può ritenere una motivazione il fatto di segnalare nella Relazione, come fatto nella relazione ministeriale, di aver volutamente voluto “dare diretta rilevanza all'entità contabile del patrimonio netto così come esistente alla chiusura dell'esercizio” (pag. 15). Del resto, anche Assonime, Circolare n. 17: La disciplina dell'ACE (aiuto alla crescita economica), in www.assonime.it, Roma, 7 giugno 2012, pag. 91 sottolinea come non possa che trattarsi, “evidentemente, di una scelta di carattere semplificatorio che il decreto ha assunto riproponendo la soluzione adottata in tema di DIT”).

Per il vero, in assenza di ulteriori specificazioni ministeriali, si fa alquanto fatica a comprendere quali possano essere le reali difficoltà a individuare in un bilancio di una società in nome collettivo o in accomandita semplice, in luogo del solo patrimonio netto, le singole poste patrimoniali componenti lo stesso.

Ancora, la sostanziale assenza di motivazioni alla base della disuguaglianza tra tipi societari prodottasi con il Decreto Ministeriale risulta ancor più grave se solo si considera che le statuizioni in esso contenute risultano del tutto contrarie a quanto è stabilito nel D.L. 201/2011, che:

  1. nel demandare al Ministro dell'Economia e delle Finanze l'individuazione tecnica delle “modalità [con le quali consentire, tra l'altro, alle società in nome collettivo e in accomandita semplice di beneficiare dell'ACE;
  2. ha statuito che dette modalità debbano assicurare un beneficio conforme a quello garantito [evidenziazione nostra, n.d.s.]” (Art. 1, comma 7, del D.L. 201/2011) alle società di capitali.

A livello ministeriale si è andati, quindi, ben al di là dei compiti attribuiti dal Legislatore, arrivando a “confezionare” con il Decreto Ministeriale un regolamento, che configura per le società in nome collettivo e in accomandita semplice una disciplina ACE di favore, non contemplata dal D.L. 201/2011, che più semplicemente chiedeva che l'effetto positivo di quanto da quest'ultimo definito per le società di capitale fosse assicurato anche alle società di persone e in accomandita semplice.

Alla luce di quanto esposto, ci si trova inevitabilmente di fronte alla fattispecie di un contrasto tra norme, in cui il contenuto di una disposizione regolamentare (il Decreto Ministeriale) risulta non conforme (o meglio, contrario) ai stringenti principi della legge primaria (il D.L. 201/2011) dalla quale trae il proprio fondamento giuridico-normativo. Di conseguenza, si apre il tema dell'illegittimità dell'art. 8, comma 1, del Decreto Ministeriale, in quanto antitetico rispetto alle richieste dell'art. 1, comma 7, del D.L. 201/2001.

Del resto, pare difficile poter concludere diversamente, quando, come noto, nell'ambito della gerarchia delle fonti del diritto, i regolamenti in generale, e non possono far eccezione quelli ministeriali, presentano un rango inferiore (e, quindi, subordinato) rispetto alle leggi ordinarie e agli atti aventi forza di legge: sono, infatti, atti amministrativi la cui potestà normativa per uno specifico argomento deriva (rectius, è attribuita) da quella legislativa e al rispetto di quest'ultima è, quindi, dipendente. In tal senso:

  • il combinato disposto dagli articoli 3 e 4 delle Preleggi, dal quale emerge come il potere regolamentare debba essere “esercitato nei limiti delle rispettive competenze, in conformità delle leggi particolari” e, in questo ambito, “i regolamenti non possono contenere norme contrarie alle disposizioni delle leggi”; nonché
  • con specifico riguardo ai regolamenti ministeriali, l'art. 17, commi 3 e 4, della Legge del 23 agosto 1988, n. 400, che è esplicito nel rilevare che i regolamenti in parola, oltre a “non potere dettare norme contrarie ai regolamenti governativi, debbano trovare il fondamento in una legge che espressamente conferisca il relativo potere al ministro ed essere attinenti alle «materie di competenza del [medesimo]»”.

Orbene, se si conviene con quanto sin qui scritto, ci si deve chiedere quali conseguenze derivino in capo alla norma illegittima. Al riguardo, è inevitabile che la stessa continui a produrre i propri effetti sin tanto che rimane in vigore, con la conseguenza che per farla venir meno, in assenza di abrogazione da parte del Legislatore, risulta necessaria la sua impugnazione innanzi al giudice competente per materia.

Invero, se si trattasse, ma non lo è, di un atto avente forza di legge (l'esempio calzante è il Decreto Legislativo), l'illegittimità dovrebbe essere oggetto di valutazione da parte della Corte Costituzionale sulla scorta del combinato degli art. 76 e 134 della Costituzione, che rispettivamente:

  • contengono la previsione che “l'esercizio della funzione legislativa non può essere delegato al governo se non con determinazione di principi e criteri direttivi [da seguire inderogabilmente] e soltanto per tempo limitato e per oggetti definiti”;
  • demandano alla Corte Costituzione il compito di giudicare “le controversie relative alla legittimità costituzionale delle leggi e degli atti aventi forza di legge”.

Trovandosi, però:

  • nella diversa fattispecie di un atto amministrativo (seppur avente carattere normativo) in contrasto con la legge ordinaria dalla quale trae origine la sua specifica potestà; e
  • non essendo ravvisabili profili di illegittimità nella legge ordinaria, poiché, come scritto, lo squilibrio nella disciplina ACE tra tipi societari (che potrebbe se si vuole essere passibile di una valutazione di incostituzionalità per mancato rispetto dell'art. 3 della Costituzione) è stato generato a livello di regolamento ministeriale;

il controllo di legalità “sfugge” alla Corte Costituzionale, la quale, in virtù del richiamato art. 134 della Costituzione, non può entrare nel merito della legittimità di un regolamento nel momento in cui la legge, o l'atto avente forza di legge, dal quale deriva risulta conforme alla Costituzione (del resto, come osservano R. Bin – G. Pitruzzella, Diritto Pubblico, Torino, 2002, pag. 462, il fatto che l'art. 134 della Costituzione sottolinei come, oltre alla legge, “gli atti sindacabili [di fronte alla Corte Costituzionale] debbano avere la “forza di legge” significa che la tipologia degli atti di cui la Corte può giudicare la legittimità è chiusa, così come è chiusa la categoria degli atti con forza di legge [che] comprende i decreti leggi [e] i decreti legislativi”. Al riguardo, poi, G. Silvestri (a cura di), Che cosa è la Corte Costituzionale, in www.cortecostituzionale.it, Roma, 2012, pag. 30, non manca di rilevare che “poiché la legge deve essere conforme alla Costituzione e i regolamenti devono essere conformi alla legge, anche questi ultimi risulteranno conformi alla Costituzione, senza il bisogno che siano sottoposti al controllo della Corte Costituzionale”).

Trattandosi, infatti, di atto amministrativo la competenza circa la sua legittimità è rimessa al giudice amministrativo, il quale, avendo costituzionalmente “giurisdizione per la tutela nei confronti della pubblica amministrazione” (articolo 103 Cost.), può “annullarli sia per contrasto con le leggi e gli atti con forza di legge che per contrasto “diretto” con la Costituzione”. In questo senso, peraltro, si deve ritenere come:

  • nonostante l'art. 29 del D.Lgs. 2 luglio 2010, n. 104, preveda che “l'azione di annullamento [di un qualsiasi atto amministrativo] per violazione di legge, incompetenza ed eccesso di potere si [può proporre innanzi al giudice amministrativo] nel termine di decadenza di sessanta giorni”;
  • tale norma non possa applicarsi al caso dei regolamenti ministeriali, in quanto il mancato rispetto della delega conferita, pone l'art. 8 del Decreto Ministeriale, non solo in contrasto con il D.Lgs. 201/2011, ma, quantomeno potenzialmente, anche con la stessa Costituzione, per la logica considerazione che un regolamento che è in contrasto con una disposizione di legge conforme alla Costituzione, inevitabilmente la stessa risulta in antitetica a quest'ultima.

Nondimeno, come segnalato in dottrina, “l'annullamento di un atto regolamentare [diversamente da altri atti amministrativi] – incidendo direttamente sulla fonte – elimina in radice la stessa fattispecie normativa astratta e, perciò, opera con effetti erga omnes ed ex tunc, travolgendo quindi retroattivamente i provvedimenti che su tali disposizioni si sono basati, con il solo limite dell'inoppugnabilità in concreto dei singoli provvedimenti adottati. Tale peculiare effetto è collegato alla natura della fonte oggetto di giudizio – fonte che è generale ed astratta – piuttosto che ad una peculiare efficacia della sentenza resa, che resta per il resto efficace inter partes. L'annullamento giurisdizionale di una norma regolamentare opera dunque, con questi limiti, anche nei confronti dei soggetti rimasti estranei alla controversia”.

Infine, preme sottolineare come l'annullamento ora visto non vada confuso con la disapplicazione dell'atto regolamentare, che “invece non incide sulla validità dell'atto, ma solo sulla concreta applicabilità dello stesso [nel momento in cui ravvisi una non conformità alla legge in una] specifica decisione della controversia pendente innanzi al giudice ordinario” in forza dell'art. 5 dell'allegato E della L. del 20 marzo 1865, n. 2248, e, per l'ambito tributario, al giudice tributario ex art. 7, comma 5, del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, che stabilisce che “le commissioni tributarie, se ritengono illegittimo un regolamento o un atto generale rilevante ai fini della decisione, non lo applicano, in relazione all'oggetto dedotto in giudizio, salva l'eventuale impugnazione nella diversa sede competente”.

Guida all'approfondimento

M. Baldacci, Alcune riflessioni sull'Aiuto alla crescita economica (ACE), in Rassegna Tributaria, Roma, 2014, fasc. 4, pagg. 711 e segg.

B. Barel, Commento sub articolo 3 delle Preleggi, in Codice Civile e Leggi collegate, diretto da G. Cian, Padova, 2016, pag. 23.

E. Casetta, Manuale di diritto amministrativo, edizione XVII a cura di F. Fracchia, Milano, 2015, pag. 376.

G. Silvestri (a cura di), Che cosa è la Corte Costituzionale, in www.cortecostituzionale.it, Roma, 2012, pag. 30.

C. Pettinari, Commento sub articolo 4 delle Preleggi, in A. Barba – S. Pagliantini (a cura di), in E. Gabrielli (diretto da), Commentario del Codice Civile, Torino, 2012, pagg. 145 e seg.

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