Aspetti applicativi dell’istituto della revocazione

18 Gennaio 2016

La necessità di far sì che l'ordine giuridico, compendiato nelle pronunce giudiziali, non sia violato, ha indotto il legislatore ad introdurre un mezzo di impugnazione con cui rimettere in discussione il giudizio di fatto viziato nei suoi presupposti logici e motivazionali.Tale strumento è il giudizio di revocazione, esperibile sia per impedire che una sentenza di tal natura possa passare in giudicato, sia per far venire meno il carattere di incontrovertibilità ed irretrattabilità della stessa, qualora presenti determinati vizi riconducibili a fattispecie tipizzate dalla legge.L'istituto in esame, che coinvolge la giustizia del provvedimento impugnato, riproduce, quindi, lo stesso oggetto del procedimento anteriore, segue il regime della devoluzione automatica e postula una pronuncia sostitutiva.Nel presente lavoro, dopo aver proceduto ad un inquadramento di tale mezzo di impugnazione, conosciuto già nel diritto romano, si procederà a delinearne gli aspetti applicativi ed i rapporti sussistenti con gli altri rimedi offerti dall'ordinamento.
Caratteristiche generali dell'istituto

La sentenza erronea in fatto o ritenuta “il risultato di una ingiusta valutazione […] di tutto ciò che, nell'ambito del merito del giudizio, è lasciato alla valutazione più o meno discrezionale del giudice” (C. MANDRIOLI, Diritto processuale civile, I, Torino, 2011) è l'oggetto del giudizio di revocazione.

Tramite il predetto l'ordinamento riconosce la possibilità di riparare gli errori verificatisi nel giudizio di merito e non più rimediabili mediante gli ordinari mezzi di impugnazione, che siano in relazione causale con le circostanze tassativamente indicate nell'art. 395 c.p.c. (al quale si rifà l'art. 64 del D.Lgs. n. 546/1992), ogni qualvolta tali errori abbiano in concreto esplicato, sulla formazione del decisum, una influenza decisiva, tale, cioè, che il giudizio avrebbe potuto avere esito diverso, qualora il giudice fosse stato a conoscenza di determinati elementi fattuali (all'origine di tali errori) o se essi non si fossero verificati.

Da quanto brevemente esposto emerge, ictu oculi, come la previsione del primo comma dell'art. 64 cit. (in vigore per i giudizi instaurati sino al 31 dicembre 2015), secondo cui le sentenze delle Commissioni tributarie per divenire oggetto di revocazione debbano involgere accertamenti di fatto, sia facilmente comprensibile.

L'esame di fatto che deve operare il giudice della revocazione si risolve in un accertamento di carattere storico-ricostruttivo di tutti gli elementi (costitutivi, modificativi, estintivi) effettivi che hanno costituito l'iter logico-argomentativo della decisione, elementi che, in quanto viziati, hanno deviato tale iter, dando origine ad una pronuncia non rispondente alla realtà materiale.

La pertinenza del rimedio in esame agli “accertamenti di fatto” (espressione cancellata dal legislatore con il D.Lgs. n. 156 del 24 settembre 2015, con valenza per i giudizi instaurati dal 1° gennaio 2016) fa sì che siano suscettibili di revocazione anche sentenze meramente processuali, quali sono quelle di rito.

Ciò in quanto la distinzione giudizi di fatto/giudizi di diritto e decisioni di merito/decisioni di rito opera su piani diversi, sicchè non è poi così assurdo avere una pronuncia di rito che involga una declaratoria di fatto.

L'eccezionalità, per le ragioni appena rappresentate, di tale istituto è unita alla sua proponibilità limitata, in quanto ammissibile solo per i motivi tassativamente indicati nella norma e da ritenersi non suscettibili di interpretazione analogica.

In quanto mezzo a critica vincolata, è stato condivisibilmente osservato (G. CRISTIANI, I giudizi di impugnazione delle sentenze tributarie, Milano, 2008) come lo stesso non possa essere esperito dalla parte contro cui l'impugnazione è proposta, la quale non può sollevare nel giudizio di revocazione una questione già dedotta nel precedente procedimento in cui vi sia stata una decisione a lei sfavorevole o un'omessa pronuncia. In questo caso, l'unico rimedio consentito è il ricorso per Cassazione (denunciando nel primo caso un errore di diritto come il vizio di motivazione, nel secondo caso il vizio di omessa pronuncia).

La tipologia dei vizi, oltre al momento in cui sono conoscibili o vengono concretamente conosciuti, determina la distinzione tra revocazione ordinaria (art. 395, nn. 4 e 5), per essere gli stessi emergenti dalla sentenza e straordinaria (art. 395, nn. 1, 2, 3 e 6), per essere i predetti non ricavabili direttamente dal testo della decisione.

La revocazione ordinaria (la cui proponibilità condiziona il passaggio in giudicato della sentenza impugnata) può essere proposta al ricorrere dei seguenti motivi:

  • se la sentenza è l'effetto di un errore di fatto risultante dagli atti o documenti della causa (art. 395, n. 4, c.p.c.);
  • se la sentenza è contraria ad altra precedente avente fra le parti autorità di cosa giudicata, purchè non abbia pronunciato sulla relativa eccezione (art. 395, n. 5, c.p.c.).

La revocazione straordinaria (che può avanzarsi a prescindere dal passaggio in giudicato del provvedimento oggetto di impugnazione) è esperibile quando:

  • la decisione è l'effetto del dolo di una delle parti in danno dell'altra (art. 395, n. 1, c.p.c.);
  • si è giudicato in base a prove riconosciute o comunque dichiarate false dopo la sentenza, oppure che la parte soccombente ignorava essere state riconosciute o dichiarate tali prima della sentenza (art. 395, n. 2, c.p.c.);
  • dopo la sentenza sono stati trovati uno o più documenti decisivi che la parte non aveva potuto produrre in giudizio per causa di forza maggiore o per fatto dell'avversario (art. 395, n. 3, c.p.c.);
  • la sentenza è effetto del dolo del giudice, accertato con sentenza passata in giudicato (art. 395, n. 6, c.p.c.).

Al di là di tali distinzioni, nel giudizio de quo si ravvisa, una volta superato il vaglio della procedibilità ed ammissibilità dello stesso, una fase rescindente, volta all'accertamento della fondatezza del motivo di revocazione ed alla rescissione della sentenza impugnata ed una fase rescissoria, che perviene alla nuova pronuncia nel merito in luogo di quella revocata.

Sentenza, questa ultima, che andrà a sostituire quella impugnata, il cui contenuto varierà in ragione delle singole fattispecie (ad es: rigetto del ricorso per insussistenza del motivo invocato; accoglimento della domanda e rigetto, nel merito, della sentenza impugnata, qualora il vizio sia stato riscontrato; accoglimento della domanda sia con riferimento al motivo revocatorio, sia in relazione al merito).

Sul rapporto tra la revocazione e gli altri mezzi di impugnazione

Per poter proporre la revocazione avverso le sentenze delle Commissioni tributarie è necessario che:

  • non siano ulteriormente impugnabili;
  • non siano state impugnate.

Il significato di tale previsione lo si coglie unitamente al disposto secondo cui “le sentenze per le quali è scaduto il termine per l'appello possono essere impugnate per i motivi di cui ai nn. 1, 2, 3, e 6 dell'art. 395 c.p.c. purchè la scoperta del dolo o della falsità dichiarata o il recupero del documento o il passaggio in giudicato della sentenza di cui al n. 6 dell'art. 395 del codice di procedura civile siano posteriori alla scadenza del termine suddetto” (art. 64, comma 2°, D.Lgs. n. 546/1992).

Ne deriva, pertanto, come siano soggette a revocazione sia le decisioni passate in giudicato (id est, che non siano state impugnate), sia le pronunce che, in relazione al motivo di impugnazione, non possono essere altrimenti ricorribili.

Al riguardo bisogna quindi distinguere tra:

  1. sentenze di primo grado per le quali sia scaduto il termine per l'appello: in tal caso è esperibile la revocazione straordinaria a condizione che delle circostanze alla base della stessa si sia venuti a conoscenza dopo il decorso del termine per proporre gravame. Questa conclusione non sembrerebbe valere, però, per la revocazione ordinaria. Infatti, considerato che essa attiene a vizi che la sentenza presenta fin dalla sua emanazione, è giocoforza ritenere che la loro denuncia mediante il mezzo di gravame dell'appello debba avvenire subito;
  2. sentenze di primo grado per le quali pende il termine per l'appello: tali pronunce non sono suscettibili di essere revocate, dal momento che è sufficiente il solo appello per farne valere l'ingiustizia. Sarebbe superfluo servirsi del rimedio limitato ed eccezionale (la revocazione), quando è proponibile quello normale ed illimitato, in quanto a critica libera (l'appello) e deducibile per far valere anche censure attinenti all'ingiustizia del provvedimento. Sul punto, la Cassazione (con sentenza del 21 dicembre 1999, n. 14359) è chiara: “non è pertanto mai ammissibile la revocazione contro una sentenza di primo grado quando sia pendente l'appello, anche ove il proposto appello abbia un oggetto diverso da quello del giudizio di revocazione, giacchè questo ultimo attiene a vizi della formazione della volontà del giudice che, per essere fatti valere, richiedono che tale volontà si sia definitivamente espressa, o per essersi completata la fase del riesame con la pronuncia della sentenza di appello, o per essere scaduti i termini per proporre l'appello stesso”.

Non vi è, dunque, concorrenza, ma rapporto di subordinazione tra appello e revocazione, in quanto la seconda è ammissibile soltanto quando il primo è escluso.

Se il motivo di revocazione straordinaria è stato conosciuto prima dello spirare del termine per proporre appello, il termine stesso è prorogato dal giorno dell'avvenimento in modo da raggiungere i sessanta giorni da esso.

Le conclusioni spiegate valgono anche a seguito della modifica cha ha interessato il primo comma dell'art. 64 D.Lgs. n. 546/1992.

Allo scopo di eliminare le incertezze interpretative a cui ha dato luogo il testo vigente fino al 31 dicembre 2015, nel suo riferirsi alle sentenze non ulteriormente impugnabili o non impugnate, il legislatore, con l'art. 9 del D.Lgs. n. 156 del 24 settembre 2015, ha sostituito tale comma con il seguente: “le sentenze pronunciate in grado di appello o in unico grado dalle commissioni tributarie possono essere impugnate ai sensi dell'articolo 395 del codice di procedura civile”, formulazione identica a quella di cui all'art. 395 c.p.c.

Il dato normativo pone in maniera esplicita quanto già connaturato al giudizio de quo e supra illustrato: sono escluse dall'ambito di esso le sentenze ancora appellabili, perché l'appello è il rimedio normale ed illimitato contro l'ingiustizia della decisione e ciò anche se esso abbia un oggetto diverso da quello del procedimento di revocazione.

Il riferimento alle sentenze pronunciate in unico grado sembrerebbe da ricondurre, nel processo tributario, ad un'altra novità introdotta dalla novella legislativa in esame, id est al ricorso per Cassazione per saltum (art. 62 D.Lgs. n. 546/1992).

Essendo questo ultimo incentrato sulla possibilità, per le parti, di denunciare le decisioni di primo grado direttamente in sede di legittimità, evitando il secondo grado di giudizio, sembrerebbe evidente come, perdendo tali pronunce il carattere dell'appellabilità, per esse si aprano le porte, oltre che del giudizio di Cassazione, anche per quello di revocazione.

Posta la relazione tra appello e revocazione, è da porre l'accento sul differente rapporto che sussiste tra la revocazione (ordinaria e straordinaria) ed il giudizio di Cassazione, il quale si configura in termini di concorrenza e non di reciproca esclusione (come accade con l'appello).

Il perchè è presto detto: da un lato (procedimento di revocazione) entrano in gioco censure inerenti il merito, dall'altro (ricorso per Cassazione) profili relativi, esclusivamente, alla legittimità.

Rebus sic stantibus, tale diversità di causa petendi consente che le sentenze di secondo grado possano essere impugnate sia con il mezzo della revocazione, ordinaria e straordinaria, sia tramite ricorso per Cassazione.

Non sempre, tuttavia, è facile porre una linea di demarcazione tra l'errore revocatorio di cui al n. 4, comma primo, dell'art. 395 c.p.c. ed il motivo di ricorso per Cassazione di cui all'art. 360, n. 5, c.p.c.

L'errore di fatto che può essere dedotto ai sensi del n. 4, comma primo, dell'art. 395 c.p.c., consiste in un travisamento della realtà materiale, o in una mera svista formale che abbia indotto il giudice ad affermare l'esistenza (o l'inesistenza) di un fatto la cui sussistenza (o insussistenza) risulti in modo incontestabile dagli atti; tale vizio postula l'esistenza di un contrasto tra due diverse rappresentazioni dello stesso oggetto emergenti, rispettivamente, l'una dalla sentenza impugnata, l'altra dagli atti processuali.

La sentenza impugnata per revocazione deve, quindi, basarsi su una circostanza (in positivo o in negativo) esclusa, nella sua realtà storica, dalla documentazione o dagli atti di causa, per cui il giudice deve aver preso in esame una fattispecie, in termini di fatto, in contrasto con quanto emergente dal quadro probatorio. Deve trattarsi, dunque, di un errore di percezione della realtà fattuale, sul quale la sentenza revocanda non si sia pronunciata, essenziale e decisivo, nel senso che tra l'erronea percezione del giudice e la pronuncia da lui emessa deve sussistere un rapporto causale tale che, senza l'errore, la decisione stessa sarebbe stata diversa (cfr. ex multis, Cass. civ., sez. V, 26 novembre 2007, n. 24539; Comm. Trib. Reg. Milano, sez. I, 17 gennaio 2011, n. 5).

Al contrario, “l'omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, prospettato dalle parti o rilevabile di ufficio” (art. 360, n. 5, c.p.c.), si sostanzia in un errore di ragionamento, id est, nell'omissione di valutazione di un fatto (e delle sue conseguenze giuridiche) che ha formato oggetto di indagine nel corso del processo (e, per tal ragione, controverso), trasfuso nella motivazione della sentenza denunziata.

Ciò in quanto la citata norma non conferisce alla Corte di Cassazione il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico-formale e della correttezza giuridica, l'esame e la valutazione fatta dal giudice del merito al quale unicamente spetta individuare le fonti del proprio convincimento ed, all'uopo, valutarne le prove, controllarne l'attendibilità e la concludenza, e scegliere, tra le risultanze probatorie, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione.

Da un lato (quello della revocazione), si ha un travisamento della realtà, obiettivamente ed immediatamente rilevabile, dall'altro lato (quello del giudizio di Cassazione) l'inesatto apprezzamento degli atti di causa.

Qualora, pertanto, venga in discussione un vizio riconducibile nell'alveo di cui all'art. 395, comma primo, n. 4, c.p.c., la decisione presenta il carattere della non ulteriore impugnabilità, dato dal fatto che il predetto non può essere fatto valere con nessun altro mezzo di impugnazione (nella specie, ricorso per Cassazione), ad eccezione della revocazione.

Considerato il rapporto di concorrenza tra giudizio di Cassazione e revocazione, si pongono inevitabili problemi di coordinamento tra gli stessi.

Al riguardo soccorre quanto disposto dall'art. 398, comma quarto, c.p.c., a tenore del quale “la proposizione della revocazione non sospende il termine per proporre il ricorso per cassazione o il procedimento relativo. Tuttavia il giudice davanti a cui è proposta la revocazione, su istanza di parte, può sospendere l'uno o l'altro fino alla comunicazione della sentenza che abbia pronunciato sulla revocazione qualora ritenga non manifestamente infondata la revocazione proposta”.

Solamente qualora la domanda di revocazione sia manifestamente fondata, necessaria ed opportuna (N. SANTI DI PAOLA – F. TAMBASCO, Le impugnazioni delle sentenze tributarie, Rimini, 2014), al giudice della revocazione è demandata la facoltà di “bloccare” l'iter di legittimità innanzi alla Suprema Corte; in caso contrario, i due giudizi proseguono contemporaneamente stante la diversità dell'oggetto.

La disposizione può operare solo nel caso in cui il ricorso di revocazione sia stato proposto in pendenza del termine per presentare il ricorso per Cassazione o dopo che lo stesso sia stato incardinato, atteso che un termine, in tanto può rimanere sospeso, in quanto sia ancora in corso e non sia interamente spirato; il termine per la proposizione del ricorso per Cassazione ricomincia a decorrere per la parte residua, dalla comunicazione della sentenza che pronuncia sulla revocazione (ed, in caso di mancata costituzione della controparte, dalla pubblicazione della decisione) e non dal passaggio in giudicato della stessa (Cass. civ., sez. II, 9 agosto 1996, n. 7361).

La sospensione si riferisce anche al termine semestrale per instaurare il giudizio di legittimità, il quale opera in caso di mancata notificazione della sentenza impugnata, sicchè tale ricorso diviene inammissibile solo se, sommando il periodo intercorso tra la pubblicazione della sentenza e la proposizione dell'istanza di revocazione con quello compreso tra la comunicazione della pronuncia sulla revocazione e la proposizione del ricorso per Cassazione, si oltrepassi il predetto termine semestrale.

Ai fini della riattivazione del giudizio di Cassazione, sospeso in pendenza di quello di revocazione avverso la medesima sentenza impugnata ai sensi dell'art. 360 c.p.c., è stato affermato come non sia necessaria l'istanza di riassunzione, poiché il giudizio di cassazione è dominato dall'impulso di ufficio, il cui concreto esercizio può essere sollecitato dalla parte interessata anche con una mera segnalazione informale della cessazione della causa di sospensione, senza necessità di osservare i termini stabiliti dalla legge per il diverso caso della riassunzione del processo sospeso (Cass. civ., sez. III, 20 febbraio 2015, n. 3362).

Siffatta impostazione non sembra pienamente condivisibile, in quanto mostra di trascurare come la sospensione operi anche in relazione all'avvio del giudizio di legittimità il quale, comunque, è rimesso all'iniziativa della parte; sembrerebbe, dunque, che in tal caso la riassunzione (entro i rigorosi limiti temporali di cui alla legge) debba avvenire ad impulso di parte.

Considerando che il giudizio di revocazione costituisce antecedente logico rispetto a quello di Cassazione (V. CARBONE – A. BATÁ, Le notificazioni. Dottrina e giurisprudenza, Torino, 2010), vertendo su questioni unicamente fattuali, è chiaro che, qualora la sentenza di accoglimento della revocazione passi in giudicato, in pendenza del giudizio di Cassazione (a prescindere dal fatto che sia stato o meno sospeso), questo ultimo dovrà essere dichiarato estinto a causa della cessazione della materia del contendere.

Come condivisibilmente osservato da Autorevole Dottrina (G. TARZIA, Lineamenti del processo civile di cognizione, Milano, 1991), data la relazione tra la revocazione ed il giudizio di Cassazione possono verificarsi le seguenti situazioni:

  1. il ricorso per Cassazione è stato respinto prima della conclusione del giudizio di revocazione: questo ultimo proseguirà per accertare l'esistenza dei vizi revocatori;
  2. i giudici di legittimità accoglie il ricorso con una pronuncia di annullamento senza rinvio: il giudizio di revocazione si concluderà con una decisione di cessazione di materia del contendere, se ancora pendente al momento della pronuncia della Suprema Corte; “se, viceversa la pronuncia della Cassazione sia successiva a quella della revocazione e divenga definitiva, essa travolgerà la pronuncia della revocazione stessa, come atto dipendente (benchè in senso particolarmente ampio) della sentenza cassata”;
  3. la Cassazione ha accolto il ricorso con rinvio ad altro giudice: se il procedimento di revocazione è ancora pendente si avrà cessazione della materia del contendere, mentre se già concluso la sentenza emessa al termine dello stesso sarà caducata, in quanto inutiliter data.

La littera legis non dice alcunchè in merito alla possibilità di sottoporre a revocazione anche le sentenze di legittimità.

Tale silenzio non deve, tuttavia, essere considerato quale volontà di sbarrare l'ingresso, nel sistema tributario, a tale istituto; non bisogna dimenticare, infatti, la clausola di cui al comma 2° dell'art. 1 del D.Lgs. n. 546/1992, a tenore della quale “i giudici tributari applicano le norme del presente decreto e, per quanto da esse non disposto e con esse compatibili, le norme del c.p.c.”.

Non ravvisandosi, nella fattispecie che ne occupa, alcun profilo di incompatibilità, si può ritenere, con assoluta certezza, mutuando i principi processualcivilistici, che il rimedio in questione possa essere proposto, nelle forme previste per il ricorso per Cassazione, sia quando la pronuncia risulti affetta da errore di fatto (art. 395, n. 4, c.p.c.), ai sensi della previsione di cui all'art. 391 bis c.p.c, sia quando la sentenza, che abbia deciso nel merito, presenti vizi riconducibili ai motivi di revocazione straordinaria (cfr. art. 391 ter c.p.c).

Non risulta, invece, alcun riferimento alla revocazione per contrasto con precedente giudicato; proprio tale omissione ha dato la stura ad una querelle giurisprudenziale, la quale è stata composta dall'intervento delle Sezioni Unite della Cassazione (30 aprile 2008, n. 10867), le quali hanno recisamente escluso l'impugnazione ex art. 395, n. 5, c.p.c., contro le sentenze di mera legittimità, perché logicamente e giuridicamente incompatibile con la loro natura. Secondo il Supremo Consesso, infatti, su tali sentenze, al momento del deposito, si formerebbe solo il giudicato in senso formale, ma non anche quello sostanziale, ex art. 2909 c.c. essendo estraneo all'oggetto di tali sentenze l'accertamento della situazione giuridica sostanziale, che invece è contenuto nelle pronunce di merito.

Tale statuizione è condivisibile, in quanto il giudizio di Cassazione è, essenzialmente, di legalità, volto a porre rimedio ai vizi incidenti sul procedere o sul giudicare, sicchè è alquanto improbabile che tra i due giudizi vi sia la ontologica e strutturale concordanza degli elementi sui quali deve essere espresso il secondo giudizio rispetto a quelli distintivi della decisione emessa per prima.

Modalità di proposizione dell'impugnazione

Ai sensi dell'art. 65 D.Lgs. n. 546/1992 competente per la revocazione è la stessa commissione tributaria, provinciale o regionale, che ha pronunciato la sentenza impugnata; specularmente, l'art. 398 c.p.c. prevede che la revocazione si propone davanti allo “stesso giudice” che ha emesso la decisione oggetto della stessa.

La formulazione di entrambe le norme aveva, inizialmente, ingenerato qualche dubbio in ordine a come avrebbe dovuto intendersi l'espressione “stesso giudice” (e, di converso, “stessa commissione”); parte della Dottrina (F. PISTOLESI, Le impugnazioni in generale, in Il processo tributario, Torino, 1999) infatti, aveva ritenuto che il legislatore avesse voluto riferirsi allo stesso soggetto autore della revocanda sentenza.

Tale interpretazione è stata superata da una lettura del dato normativo (Comm. Trib. Centr., sez. XI, 21 settembre 1979, n. 13704; Cass. civ., sez. lav., 12 settembre 2006, n. 19498) secondo cui le espressioni de quibus sarebbero da intendersi come “stesso ufficio giudiziario”, per modo che, se questo è diviso in più sezioni, il giudizio di revocazione può essere ritualmente celebrato davanti ad una sezione diversa da quella che ha emesso la sentenza gravata, sicchè l'identità del giudice non vien meno, anche se sulla istanza di revocazione si pronunci una sezione diversa da quella che ha emesso la decisione impugnata.

Questa ultima conclusione (possibilità che la decisione sull'impugnazione per revocazione spetti ad una sezione diversa rispetto a quella che ha emesso la sentenza oggetto della predetta) diviene incontestabile qualora il motivo che si invoca per ottenere la revocazione sia quello di cui al numero 6 dell'art. 395 c.p.c., vale a dire “il dolo del giudice accertato con sentenza passata in giudicato”.

In tal caso, infatti, il comportamento scientemente, volutamente ed illegittimamente a favore di una parte ha inficiato la volontà del giudice incidendo, quindi, sul proprio dovere di imparzialità.

La competenza è funzionale ed inderogabile, ex art. 5 D.Lgs. n. 546/1992, il che vuol dire come vi sia il dovere, in capo alla Commissione tributaria adìta non competente, di dichiarare la propria incompetenza, indicando la commissione tributaria competente, assegnando, altresì, un termine per la riassunzione della causa innanzi a questa ultima. In mancanza di indicazione del predetto termine, la riassunzione dovrà avvenire entro sei mesi dalla comunicazione della sentenza stessa; l'inosservanza di tali forme e modalità comporta l'estinzione del processo.

L'atto introduttivo del giudizio di revocazione ha la forma del ricorso il quale deve contenere (a pena di inammissibilità dello stesso):

  • l'indicazione della commissione tributaria a cui è diretto;
  • l'indicazione del ricorrente e delle altre parti nei cui confronti è proposta la domanda;
  • gli estremi della sentenza impugnata;
  • l'esposizione sommaria dei fatti di causa;
  • l'oggetto della domanda;
  • l'indicazione specifica del motivo di revocazione;
  • le prove su cui la richiesta di revocazione, di cui ai numeri 1, 2, 3 e 6 dell'art. 395 c.p.c., si basa, nonché del giorno della scoperta o della falsità dichiarata o del recupero del documento;
  • la sottoscrizione del difensore (munito di procura speciale: così art. 398, comma terzo, c.p.c.) o del ricorrente, il quale possa stare in giudizio personalmente, ai sensi dell'art. 12 D.Lgs. n. 546/1992.

Essendo il giudizio di revocazione mezzo di impugnazione limitato, a critica vincolata, l'indicazione del motivo assume portata fondamentale e, per tal ragione, la predetta non può risolversi in un mero richiamo alla previsione della norma, essendo necessaria la descrizione della fattispecie concreta (F. ROTA, Revocazione nel diritto processuale civile, in Dig. disc. priv., Sez. civ., Torino, 1998, XVII), la quale deve essere puntuale e specifica in modo da consentire al giudice, dalla sola lettura del ricorso, di desumere una conoscenza della questione sostanziale e processuale, sufficiente per bene intendere il significato e la portata delle critiche rivolte alla pronuncia impugnata.

Pertanto, il motivo di revocazione delimita il potere di indagine e di decisione del giudice al quale, mentre è consentito riqualificare il fatto revocatorio secondo le previsioni di cui all'art. 395 c.p.c., anche in difformità dall'indicazione data dal ricorrente, non è riconosciuto, invece, il potere di elevare a circostanza revocatoria un fatto ontologicamente diverso da quello dedotto dal ricorrente (cfr. Cass. civ., sez. III, 16 febbraio 2006, n. 3440).

Particolare attenzione deve, altresì, essere posta all'indicazione delle prove, di cui ai numeri 1, 2, 3 e 6 dell'art. 395 c.p.c., su cui la richiesta di revocazione si basa, nonché del giorno della scoperta o della falsità dichiarata o del recupero del documento (e non della sua materiale apprensione: sul punto Cass. civ., sez. II, 7 aprile 1995, n. 4062).

La ratio di tale previsione legislativa è facilmente intelleggibile.

Come notorio, sulla base del combinato disposto degli artt. 325 e 326 c.p.c., applicabili al processo tributario in virtù dell'art. 1, comma 2°, D.Lgs. n. 546/1992, il termine per proporre la revocazione straordinaria è di sessanta giorni che decorre o dal giorno in cui è stato scoperto il dolo della controparte (art. 395, n. 1, c.p.c.), o dal giorno in cui sono state dichiarate false le prove (art. 395, n. 2, c.p.c.), o dal giorno in cui è stato recuperato il documento decisivo per la pronuncia finale (art. 395, n. 3, c.p.c.), o da quando è passata in giudicato la sentenza che accerta il dolo del giudice (n. 6 dell'art. 395 c.p.c).

Al contrario, per quella ordinaria, il termine di sessanta decorre dalla notificazione della sentenza; indipendentemente dalla notificazione della pronuncia, il termine è di sei mesi dalla pubblicazione della stessa.

Ne deriva, quindi, come l'indicazione (rigorosa) della data in questione assolva alla funzione di verificare, ai fini dell'ammissibilità dell'impugnazione, se il detto ritrovamento non sia anteriore alla pronuncia della sentenza (infatti, se così fosse, lo stesso non sarebbe più sconosciuto e, per tal ragione, non si potrebbe ricorrere all'istituto in questione), sicchè un'indicazione non veritiera e non specifica è da considerare omessa.

Rilevando, quindi, per manifesta volontà legislativa il momento in cui si è avuta conoscenza del motivo revocatorio, non sembrerebbe accoglibile quell'orientamento giurisprudenziale (Cass. Civ., sez. lav., 12 novembre 1993, n. 11176) il quale fa leva sulla conoscenza legale della sentenza revocanda, che si consegue con la notificazione, al fine di individuare il dies a quo per la proposizione del rimedio in oggetto.

Ciò posto, redatto il ricorso ai sensi di quanto precede, lo stesso deve essere notificato a tutte le parti che hanno partecipato al giudizio al termine del quale è stata emessa la sentenza di cui si chiede la revocazione.

La notifica può avvenire (artt. 65, comma 3, 53, comma 2 e 16 del D.Lgs. n. 546/1992):

  1. a mezzo di ufficiale giudiziario, ex art. 137 ss. c.p.c.
  2. tramite servizio postale con plico raccomandato senza busta con avviso di ricevimento;
  3. consegna brevi manu, se la controparte è l'Amministrazione Finanziaria.

Alla notifica segue il deposito o dell'originale del ricorso (se la notifica è avvenuta nei modi di cui all'art. 137 c.p.c.) o di copia dello stesso con attestazione di conformità, al quale va allegata la ricevuta di deposito o l'avviso di ricevimento (qualora la notifica sia stata effettuata per posta o con consegna diretta) nella segreteria della Commissione adìta, da effettuarsi entro il termine di trenta giorni dalla suddetta.

Le parti resistenti devono costituirsi entro il termine (non perentorio) di sessanta giorni che decorre da quando il ricorso è stato notificato, consegnato o ricevuto, depositando presso la segreteria della commissione il proprio fascicolo contenente le controdeduzioni in tante copie quante sono le parti in giudizio ed i documenti offerti in comunicazione.

Il termine che, come visto, non è perentorio, diviene tale solo se nel predetto atto venga proposto anche ricorso incidentale.

Dato il rinvio, operato dall'art. 66 del D.Lgs. n. 546/1992, alle norme stabilite per il procedimento davanti alla commissione adìta, il giudizio di revocazione si svolge secondo la seguente tempistica:

  1. entro il termine di venti giorni liberi prima della data di trattazione, ciascuna delle parti può depositare memorie. Nel solo caso di trattazione della controversia in camera di consiglio, sono consentite brevi repliche scritte fino a cinque giorni liberi prima della data della camera di consiglio;
  2. entro il medesimo termine, almeno una delle parti può, con apposita istanza da depositare nella segreteria e da notificare alle altre parti costituite, richiedere che la trattazione avvenga in pubblica udienza;
  3. entro il termine di dieci giorni liberi prima dell'udienza di trattazione, si ritiene che la sola parte che non abbia proposto il ricorso per revocazione possa depositare documenti. Ciò in quanto alla parte che si è avvalsa di tale strumento non è consentito integrare i propri motivi di ricorso, che devono essere necessariamente indicati nell'atto introduttivo del giudizio.

Ciò posto, è da sottolineare la novità recata dal D.Lgs. n. 156 del 24 settembre 2015, che ha introdotto, nell'art. 65 in questione, il comma 4, il quale prevede che le parti possono proporre istanze cautelari a condizione che sussistano “gravi e fondati motivi”, colmando, pertanto, una lacuna che si era venuta a creare nel sistema.

Nel sistema processualcivilistico tale rimedio è già contemplato dall'art. 401 c.p.c.; tuttavia, in tal caso la norma richiama la disciplina prevista dall'art. 373 c.p.c., posta per il ricorso per Cassazione e relativa alla sospensione dell'esecuzione della sentenza.

La scelta del legislatore tributario di non seguire tale strada, non rifacendosi al disposto di cui all'art. 62 bis del D.Lgs. n. 546/1992, il quale positivizza la sospensione della sentenza impugnata per Cassazione, è dovuta al fatto che la revocazione è decisa nel merito dalla stessa Commissione.

Considerato che il comma 4 dell'art. 65 del D.Lgs. n. 546/1992, richiama l'art. 52 del medesimo D.Lgs., ne deriva che il presidente fisserà con decreto la trattazione dell'istanza per la prima camera di consiglio utile, disponendo che ne sia data comunicazione alle parti almeno dieci giorni liberi prima. In caso di eccezionale urgenza il Presidente, previa delibazione del merito, potrà disporre con decreto motivato la sospensione dell'esecutività della sentenza fino alla pronuncia del collegio il quale, sentite le parti in camera di consiglio e delibato il merito, provvederà con ordinanza motivata non impugnabile.

Rimedi esperibili avverso la sentenza di revocazione

Contro la sentenza che decide il giudizio di revocazione sono ammessi i mezzi d'impugnazione ai quali era originariamente soggetta la sentenza impugnata per revocazione (art. 67, comma 2°, D.Lgs. n. 546/1992).

Seppur il dato normativo non lo dica espressamente, è evidente come il legislatore tributario si sia conformato a quanto contenuto nell'art. 403, comma primo, c.p.c., secondo cui “non può essere impugnata per revocazione la sentenza pronunciata nel giudizio di revocazione”.

La ratio di tale norma è da rinvenire nel principio immanente nell'ordinamento della certezza del diritto, che risponde all'esigenza di evitare che la pronuncia, oramai scevra dai vizi che ne avevano minato la giustizia, possa essere rimessa indefinitamente in discussione.

Pertanto, per quanto riguarda la pronuncia per revocazione di una sentenza di primo grado, la stessa sarà impugnabile in via esclusiva con l'appello, mentre la sentenza per revocazione di una decisione di secondo grado sarà ricorribile solamente per Cassazione.

Sul punto la Suprema Corte (sez. lav., 4 novembre 1995, n. 11517) ha sottolineato come, qualora siano contemporaneamente pendenti sia il ricorso per Cassazione contro la sentenza già impugnata per revocazione, sia il ricorso contro la sentenza emanata in sede di revocazione, questo ultimo dovrà essere deciso per primo. In caso di rigetto, si procederà con l'esame del primo ricorso; in caso di accoglimento, invece, si sospenderà il giudizio relativo al ricorso per Cassazione contro la sentenza impugnata per revocazione. Tale sospensione durerà fino al momento in cui il giudice del rinvio, investito della questione, comunicherà la sentenza.

È, altresì, questione pacifica che le impugnazioni per Cassazione contro la sentenza di merito in grado di appello e contro quella emessa nel successivo giudizio di revocazione, possono proporsi con un unico ricorso (del quale vanno esaminati per primi i motivi concernenti la seconda decisione), realizzandosi, sostanzialmente, un'ipotesi di connessione, che potrebbe legittimare la riunione dei ricorsi, ove separatamente proposti, atteso che le due sentenze concorrono a dare contenuto alla decisione dell'unica controversia per quanto attiene alle posizioni di fatto dedotte in causa (Cass.civ., sez. V, 13 febbraio 2004, n. 2818).

Tale soluzione può trovare accoglimento solo se sia stato sospeso il termine per ricorrere per Cassazione contro la sentenza revocanda poiché, in caso contrario, sembrerebbe difficile che i termini per l'impugnazione di questa ultima non sia decorsi all'atto della pubblicazione della sentenza che pronuncia sulla revocazione (cfr. C. CONSOLO – C. GLENDI, Commentario breve alle leggi del processo tributario, sub. artt. 64- 67, Padova, 2012).

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