Dirigenti illegittimi, danni risarcibili e responsabilità
30 Settembre 2015
La sentenza della CTR Milano del 25 giugno 2015, n. 2842 introduce, inoltre, un argomento di estremo interesse allorché, facendo esplicito riferimento ad ipotesi di danno, specialmente erariale, e ai doveri del pubblico ufficiale, afferma testualmente che, "considerato che il giudice collegiale tributario (pubblico ufficiale ex art. 357 c.p.) ha un obbligo giuridico diretto (ex art. 83 L.l240/1923, art. 53 c.2 e 3 R.D. 1214/1934, artt. 20 e 21 t.u. 3/1957, art. 1 c.3 L.20/94) di trasmettere alla Procura della Corte dei conti un rapporto su eventuali responsabilità per danno erariale, nonché alla Procura della Repubblica (ex art. 331 c.p.p.) denuncia per eventuali rilievi penali e che responsabilità contabili e penali incombono direttamente anche sul giudice collegiale tributario che abbia omesso le doverose denunce (361 c.p.), manda - per debito d'ufficio e per quanto di propria rispettiva ritenuta competenza - alla segreteria di sezione per la trasmissione in copia del fascicolo di causa alle locali Procure della Repubblica, contabile e penale.". Prima di argomentare in proposito, vale la pena considerare altri due aspetti della complessa problematica afferente "i Dirigenti decaduti". Il primo attiene alla decorrenza della pronuncia costituzionale, vale a dire che occorre stabilire da quale data debbano considerarsi affetti da nullità assoluta i provvedimenti tributari (in particolare gli accertamenti e gli altri atti affini concretanti manifestazioni di volontà impositiva) adottati dai predetti funzionari, che, nella sentenza che si annota, non viene affrontato partitamente ma liquidato con espressioni del tipo: la sentenza n. 37, del 17 marzo 2015 - è "efficace ex tunc per tutti i rapporti non precedentemente definiti, attesane la natura dichiarativa"; l'affermazione è ineccepibile a patto che si individui un preciso dies a quo, esigenza che non può essere soddisfatta col solo avverbio "ex tunc". Sul primo aspetto, avendo la Consulta dichiarato la incostituzionalità in riferimento agli artt. 3, 51 e 97: 1) dell'art. 8, comma 24, del D.L. n. 16 del 02 marzo 2012, convertito, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della Legge n. 44 del 26 aprile 2012;
In altre parole dovranno essere presi in esame gli accertamenti sottoscritti successivamente all'entrata in vigore del D.L. n. 16 del 02 marzo 2012, o anche quelli promananti dall'esercizio iniziale del potere impositivo indebitamente attribuito? la risposta potrebbe essere verosimilmente, parzialmente interlocutoria, nel senso che sono sicuramente viziati di nullità gli atti successivi alla data di entrata in vigore della legge dichiarata costituzionalmente illegittima, ma che non si può escludere che lo siano anche quelli precedenti emanati comunque da funzionari privi della qualifica corrispondente all'incarico.
La Corte, in definitiva, contesta un perenne ed ingiustificato congelamento della titolarità legittima della funzione, sostituita da una, altrettanto perenne, surrogazione precaria nei poteri d'istituto. In altre parole, gli istituti sostitutivi della titolarità nella funzione, quali l'assegnazione temporanea a mansioni superiori, la delega e la reggenza (da provarsi sempre dalla P.A come chiarisce la Cassazione con la sentenza n. 14942 del 14 giugno 2013 molto preziosa anche sul tema specifico) hanno assunto, nella specie, in luogo della precarietà, della provvisorietà e della temporaneità, attributi tipici dell'istituto della sostituzione nella funzione, quello della permanenza durevole e sine die, attributo tipico della titolarità nella funzione. Tutto ciò ha sovvertito l'ordine delle cose, con la conseguenza di togliere ogni significato alla competenza, intesa in senso tecnico/amministrativo di legittima provenienza soggettiva del provvedimento e non, ovviamente, come mera capacità specifica nel concreto, anche se taluni dei dirigenti di che trattasi sono carenti persino dei requisiti minimi (es: laurea) per partecipare ad un eventuale concorso sanante. Se si aggiunge che il tutto ha avuto luogo con l'avallo di provvedimenti legislativi materiali e/o formali (spesso di proroga dello status quo di perdurante illegittimità), si comprenderanno, oltre alle difficoltà di inquadramento del fenomeno, la necessità di apprendere appieno il senso e la portata, anche in termini di decorrenza, della decisione della Consulta. I sostenitori della decorrenza della decisione in esame, a far tempo dal 2 marzo 2012, nel senso che essa riguarderebbe e travolgerebbe, per nullità assoluta, esclusivamente i provvedimenti emessi dai funzionari illegittimi successivamente a quella data, fanno riferimento al fatto che il Consiglio di Stato, che ha sollevato la questione di legittimità costituzionale di che trattasi, lo ha fatto, sicuramente, anche se non esclusivamente, proprio con riferimento alla disposizione dell'art. 8, comma 24, del D.L. n. 16 del 02 marzo 2012, convertito, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della Legge n. 44 del 26 aprile 2012; in proposito siamo portati a credere, o, meglio, a sospettare, che in ogni caso ed in ogni sede si propenderà per la tesi meno coinvolgente anche se non sarà facile giustificare, quanto meno in sede giudiziaria, la legittimità di deleghe palesemente illegittime e di reggenze eternamente in essere. Prima di esaminare in maniera più approfondita il secondo aspetto, vale la pena intrattenersi, quanto basta, sulla tipologia della invalidità di cui si discute. Avvertiamo subito che non tratteremo la fattispecie del funzionario di fatto che è del tutto estranea non solo alla sentenza annotata ma all'intera vicenda che qui si esamina nonché agli atti posti in essere dal funzionario di fatto, perché, in ipotesi, si sarebbe, al più, in presenza di una sorta di irregolarità e non di illegittimità o, addirittura, di nullità.
È notorio che la patologia del provvedimento amministrativo ha rappresentato da sempre una delle tematiche di maggiore interesse di tutto il diritto amministrativo, ma, ciò nonostante, non si è mai avuta una esaustiva codificazione in proposito. Ciò fino alla entrata in vigore della Legge n. 15 del 2005, portante la riforma della Legge n. 241 del 1990. Generalmente un atto può definirsi invalido se è difforme dal diritto, la qual cosa ne determina la inefficacia definitiva che può atteggiarsi come sanzione automatica, ed è il caso della nullità, o come sanzione da applicazione giudiziale, ed è il caso della annullabilità. Una codificazione parziale aveva riguardato in passato esclusivamente i tradizionali vizi di legittimità (incompetenza, eccesso di potere e violazione di legge). Per quello che qui interessa e nell'economia di queste note, dobbiamo rilevare che solo con la predetta riforma della Legge 241/90, avvenuta nel 2005, con la introduzione di altre importantissime novità, si è proceduto alla codificazione della "nullità" come principale vizio invalidante, anteriormente enucleato, solo in sede interpretativa, dalla giurisprudenza amministrativa. In questa sede, per intuibili motivi, ci soffermeremo solo sul vizio di nullità e, solo molto brevemente, accenneremo a quello limitrofo della inesistenza, peraltro affermato dalla sentenza esaminata. Prima della cennata riforma, la stessa nullità in sede di diritto amministrativo aveva un rilievo del tutto marginale, dal momento che le cosiddette "nullità virtuali" facenti capo alla violazione di norme imperative (art. 1418 c.c.) rilevavano solo in sede civile; nel campo amministrativo, retto sempre da norme imperative, infatti, tali violazioni comportavano, in ogni caso, i tre noti vizi di legittimità che potevano sfociare solo nell'annullabilità del provvedimento che, nelle more, continuava a produrre effetti regolari fino alla declaratoria giudiziale. Pertanto, a differenza che nel diritto civile, dove la regola generale della invalidità è quella della nullità, in diritto amministrativo la regola generale, ante riforma, è storicamente quella dell'annullabilità. A seguito della riforma de qua, dunque, risulta codificata anche in diritto amministrativo la invalidità del provvedimento per nullità, ciò, però, trattandosi di una forma speciale di invalidità, potrà verificarsi nei soli casi in cui essa sia specificamente sancita dalla legge. La predetta codificazione si è avuta con l'art. 21- septies della riformata legge 241/90 (nel testo novellato con la legge 15/2005).
I casi testé indicati rappresentano un numerus clausus e, come si può notare, non includono una definizione o un caso di "inesistenza" che rimane ipotesi di elaborazione dottrinale e si esaurisce in un quid facti privo di rilevanza giuridica. Senza addentrarci in una disputa dogmatica, possiamo dire che, mentre nel passato, anche recente, la nullità assoluta e la inesistenza erano inquadrabili in un fenomeno unitario rappresentativo della invalidità grave del provvedimento amministrativo, la inesistenza, oggi, si esaurisce in una sorta di inqualificazione giuridica dell'atto; in essa si fanno rientrare oltre alle ipotesi exempli causa (ioci o docendi), quella, più interessante ai nostri fini, dell'usurpatore di pubbliche funzioni (art. 347 c.p.), la cui attività, per il solo fatto di concretarsi in un atto, suscettibile di produrre effetti sebbene inesistente, può cagionare danni notevoli dei quali qualcuno dovrà essere chiamato a rispondere.
Va rimarcato che, ancor prima della riforma, interpretativamente, erano state enucleate alcune nullità testuali, tanto gravi da poter essere rilevate d'ufficio, tra le quali, ai nostri fini, va richiamata quella "dell'assegnazione del dipendente pubblico a mansioni superiori al di fuori delle ristrette ipotesi consentite" (art. 52 D.lgs. 165/2001). Per economia di indagine, tralasceremo ogni riferimento alle nullità derivanti dalla mancanza degli elementi o requisiti essenziali dell'atto (soggetto, oggetto, forma e causa) come pure non ci occuperemo degli atti adottati in violazione o elusione del giudicato o delle nullità cosiddette "testuali" e prenderemo in esame solo le nullità di quei provvedimenti viziati da difetto assoluto di attribuzione, posto che la sentenza che si annota ha affermato testualmente tra l'altro, che alla decisione della Corte Costituzionale n. 37/2015: "...consegue la decadenza dall'incarico dirigenziale, con effetto retroattivo, di tutti coloro che erano stati nominati in base alle succitate norme dichiarate incostituzionali e, di conseguenza, l'invalidità derivata di tutti gli avvisi di accertamento da costoro sottoscritti, personalmente o su delega, per incompetenza assoluta in difetto di attribuzione (art. 21-septies L. 241/90: “è nullo il provvedimento amministrativo … che è viziato da difetto assoluto di attribuzione ...”; trattasi di c.d. “inesistenza giuridica”. Cass. civ., sez. III, 2003, n. 12104). Infatti, ritenuta, la competenza, misura dell'attribuzione di funzioni e poteri, come quelli dirigenziali, e che l'esercizio della competenza può essere spostato in capo ad altri soggetti a mezzo rituale delega, relativamente ai casi di usurpazione di funzioni pubbliche sia dei deleganti che dei delegati decaduti per la citata sentenza, per il loro illegittimo esercizio di funzioni dirigenziali si versa nell'ipotesi dello straripamento di potere."
Come può notarsi, nel brano appena riportato testualmente, si sovrappongono terminologie involgenti tuttavia situazioni fattuali e giuridiche alquanto diversificate. Il difetto assoluto di attribuzione, infatti, sembra potersi risolvere nell'ipotesi della "incompetenza assoluta" dalla quale deriva un atto nullo perché adottato o posto in essere da soggetto, qualificabile formalmente come Pubblica Amministrazione, che, tuttavia, utilizzi poteri del tutto estranei alle proprie attribuzioni. L'usurpazione sembrerebbe, invece, ipotesi in cui manchi del tutto un soggetto qualificabile come Pubblica Amministrazione il cui atto è, quindi, "inesistente" più che "nullo". Emerge da ciò, che tutta la vicenda decisa dalla Corte Costituzionale e dalla Commissione Tributaria Regionale di Milano, qui esaminata, è sicuramente di una singolarità unica; si potrebbe affermare che nella fattispecie si sia realizzata una sorta di allocazione illegittima di poteri istituzionalizzata; al punto che, vertendosi in una ipotesi di illegittimità elevata a sistema, non appare fuori luogo, prima facie, inquadrare il fenomeno proprio in quello della usurpazione, perché quello della incompetenza, ancorché assoluta, è pur sempre un fatto inquadrabile in una previsione, normativa, interpretativa, dottrinale o giurisprudenziale che sia, comportante una aberrazione dell'azione amministrativa.
Quando quest'ultima, invece, si svolge in una permanente, consapevole e preordinata situazione di illegalità, non appare estemporaneo parlare di vera e propria usurpazione e di inesistenza dei provvedimenti emanati dall'usurpatore con tutte le conseguenze che ne derivano, anche in termini di responsabilità. Ad ogni modo, prescindendo da un inquadramento del fenomeno in uno degli istituti tipici, anche se anomali, quale quello della usurpazione, ciò che occorre esaminare, una volta tracciata la tipologia della invalidità, sono le conseguenze, in termini di responsabilità e di danno, che derivano dagli atti posti in essere dai dirigenti illegittimi. Nel solco appena tracciato, va detto che appare opportuno esaminare il fatto de quo dal punto di vista prospettico dei singoli gruppi di soggetti coinvolti ma più esattamente ponendosi dall'angolo visuale della posizione rilevante: E così dal punto di vista della "titolarità legittima della funzione" (e dai soggetti che occupano tale posizione legittimamente e da coloro che vi aspirano altrettanto legittimamente), il fenomeno non può che essere visto che come "usurpazione di poteri legittimi"; dal punto di vista prospettico del cittadino, esso appare sicuramente come una sorta di abuso, sopruso, privilegio indebito, arroganza della burocrazia e così via; dal punto di vista della Pubblica Amministrazione esso si atteggia come fatto di rimedio comodo, quando non particolarmente conveniente, in senso diffuso, e, comunque come perpetuazione dello status quo, come rinvio a tempo indeterminato della soluzione stabile del problema, e così via. Si comprende allora come un simile contesto avrebbe potuto essere stroncato solo nel modo in cui, in definitiva, lo è stato, auguriamoci in maniera radicale, dal momento che anche una più consapevole utilizzazione della norma sulla "disapplicazione" del provvedimento illegittimo, contenuta nell'art. 7, quinto comma del D.lgs. 546/92, da parte del giudice tributario, non si rivelerebbe risolutiva. Tutto quanto detto può essere utile per individuare il centro di responsabilità delle conseguenze. Quando si parla di responsabilità dell'attività amministrativa, viene ad evidenza l'art. 28 della Costituzione dove si stabiliscono le responsabilità del pubblico dipendente e dove tale responsabilità "si estende" alla Pubblica Amministrazione per il fatto del proprio dipendente. È evidente che non affronteremo qui le complesse problematiche connesse, soprattutto quelle afferenti il nesso di causalità soggettiva ai fini della riferibilità dell'atto di che trattasi alla Pubblica Amministrazione piuttosto che al soggetto agente che agisca al di fuori del rapporto organico. Nel caso esaminato dei dirigenti illegittimi, non pare si possa invocare da parte dello Stato, la illegittimità della posizione quale momento interruttivo del rapporto organico, per sottrarsi alla responsabilità civile per "estensione" nel risarcimento del danno al contribuente. In proposito va annoverata una molto significativa, recentissima, sentenza della Corte di Cassazione (Sez. 6^ penale, 31 marzo 2015, n. 13799), che ritiene che il cittadino deve essere ristorato (anche in via indiretta ex art. 2049 c.c.) tutte le volte che la fattispecie dimostra come questi abbia agito, nel rapporto con l'Amministrazione pubblica, nel convincimento di trovarsi di fronte ad un pubblico ufficiale; nella fattispecie, anche a considerarla come usurpazione per antonomasia, è da escludere che il contribuente abbia potuto credere, o solo sospettare, che l'interlocutore non avesse la veste di pubblico ufficiale o che non rappresentasse lo Stato per averne usurpato i poteri.
Quello che occorre stabilire, più che un inquadramento giuridico del fenomeno, è, dunque, se nella fattispecie dei dirigenti illegittimi, la Pubblica Amministrazione, alla quale vanno imputati in ogni caso gli atti impositivi possa, da un lato, chiamarsi fuori, addossando al proprio dipendente l'esclusiva responsabilità per danni nei confronti dei contribuenti afflitti da un atto illegittimo e radicalmente nullo, e possa, dall'altro, essa stessa, vantare, nei confronti del proprio dirigente illegittimo, pretese di risarcimento per una richiesta di danni, cosiddetti erariali, come ventilato nell'epilogo della decisione oggetto della presente nota. In proposito, al di là di immaginabili spinte e pressioni, verosimilmente non indifferenti (politiche, sindacali e/o burocratiche) comunque interessate, pare si possa affermare che, negli accadimenti de quibus, le responsabilità maggiori debbano essere ascritte proprio alla Pubblica Amministrazione medesima che ha originato il fenomeno, lo ha reiterato, ne ha tratto giovamento, e non lo ha risolto in via definitiva, perpetuando in maniera recidivante, cadenzati rinnovi formali della situazione atipica in essere. Questo rilievo che non risolve né elide le tematiche afferenti i danni, le responsabilità e gli eventuali risarcimenti dei contribuenti illegittimamente colpiti che, comunque, devono trovare soddisfazione proprio nei confronti dell'autorità tributaria, depongono, tuttavia, per una esclusione della possibilità di pretendere danni erariali a carico dei dirigenti illegittimi essendo proprio la Pubblica Amministrazione, che li dovrebbe pretendere, l'artefice della situazione di illegittimità sanzionata dalla Corte Costituzionale. Forse potrebbe residuare una richiesta di restituzione all'Erario delle somme corrisposte a titolo cosiddetto di "risultato", ma conviene dubitarne.
Sappiamo benissimo che il processo tributario e quello penale tributario viaggiano su distinti e diversi binari ed ognuno per conto proprio, senza interferenze sospensive pregiudiziali o giudiziali di passata memoria, invasive, comunque, delle reciproche autonomie; ma è altrettanto indubbio che, almeno in sede di incipit, l'accertamento tributario costituisce il prodromo indispensabile anche del processo penale tributario, atteso che, accanto ad una evasione fiscale extra penale o pre-penale, si configura una vera e propria evasione penale. Dal momento che il reato de quo non può prescindere in ogni caso da un fatto di evasione delle imposte dovute, la nullità assoluta ed insanabile dell'accertamento tributario, in ipotesi della stessa esistenza dell'evasione, non può non esplicare effetti diretti anche e necessariamente, sulla sorte del reato tributario e, di conseguenza del processo penale che se ne occupa. E non ci riferiamo solo ai reati (es. art. 3, 10 bis etc. della Legge n. 74/2000) per la cui sussistenza è prevista una soglia (importo evaso) di rilevanza penale, ma anche per tutti gli altri reati che non possono prescindere da un legittimo accertamento delle condotte e delle consistenze evasive. Non ci addentreremo nell'agone ulteriormente, ma ci limitiamo ad evidenziare un altro problema non di secondo piano che ne scaturisce come corollario.
Un tale provvedimento ablativo della proprietà anche di terzi, non riguarda solo il mezzo, il corpo, il prodotto, il frutto del reato, ma viene definito "per equivalente" perché aggredisce tutti i beni (mobili e immobili) nella disponibilità dell'evasore, fino a concorrenza dell'importo asseritamente "evaso", a mente, ancora una volta, del provvedimento impositivo. Se poi si considera che il concetto di "disponibilità" è stato dilatato a dismisura dalla giurisprudenza e, prima ancora, dagli investigatori (P.M. in testa), e se si considera anche la larghezza con cui è stato interpretato il concetto di "fumus commissi delicti" (spesso in re ipsa), si potranno percepire le possibili conseguenze, in termini di danni e di responsabilità, ricollegabili alla nullità degli atti impositivi sottoscritti dai cosiddetti "dirigenti illegittimi". La gravità della cosa appare in tutta la sua ampiezza allorché si consideri che il danno de quo può essere addirittura anticipato, e in genere lo è, fin dallo stadio delle prime indagini e cioè fin dal momento in cui l'evasore in pectore assume la qualità di indagato. Ciò significa che le conseguenze dannose ante litteram sono spesso incalcolabili e non di rado comportano la fine, a volte purtroppo non solo in senso lavorativo/occupazionale, dell'imprenditore, dell'artigiano, del commerciante, del professionista, del salariato di turno il quale, colpito dal sequestro preventivo per equivalente (art. 321 c.p.), viene precipitato in un baratro senza fine, spesso anche mediatico oltre che economico/finanziario. Questo quadro immaginario, ancorché fosco, spesso, è superato dalla realtà, il che lascia intuire quali possano essere le conseguenze in termini di danni risarcibili e di responsabilità. In conclusione
Essendo solo agli albori dello scenario che potranno offrire la decisione della Corte Costituzionale de qua e le prevedibili sentenze di merito e di legittimità che possano ripercorrerne ed ampliarne il tragitto, ci fermiamo qui, sperando che la vicenda possa comportare, con il rientro nell'alveo della legittimità dell'azione amministrativa in discorso, almeno un apprezzabile recupero della credibilità della Pubblica Amministrazione finanziaria, notevolmente scemata negli ultimi tempi. |