Abuso del diritto ed imposta di registro

26 Settembre 2016

Con il D.Lgs. n. 128/2015 (“La certezza del diritto nei rapporti tra fisco e contribuente”), emesso in attuazione dell'art. 5 della Legge Delega n. 23/2014, è stato introdotto, all'interno del corpus normativo di cui alla L. n. 212/2000, l'art. 10-bis rubricato “disciplina dell'abuso del diritto o elusione fiscale”.Nel presente lavoro, si cercherà di mettere in luce l'ambito applicativo dell'art. 20 del d.P.R. n. 131/1986, al fine di comprendere se, a seguito della novella legislativa recata dal D.Lgs. n. 128/2015, allo stesso possa essere ancora riconosciuta natura antielusiva.
Premessa

Con il D.Lgs. n. 128/2015 (“La certezza del diritto nei rapporti tra fisco e contribuente”), emesso in attuazione dell'art. 5 della L. Delega n. 23/2014, è stato introdotto, all'interno del corpus normativo di cui alla L. n. 212/2000, l'art. 10-bis rubricato “disciplina dell'abuso del diritto o elusione fiscale”.

Con tale norma il Legislatore ha, di fatto, proposto normativamente quanto già “definito”, a livello di principi, dalla migliore Dottrina e dalla giurisprudenza in questi ultimi anni, facendo assurgere l' “abuso del diritto” ad istituto di carattere generale, non più correlato a fattispecie tassativamente determinate (avalla tale conclusione l'abrogazione dell'art. 37-bis del d.P.R. n. 600/1973).

La valenza generale assunta dall'istituto de quo impone, inevitabilmente, un'attenta riflessione sull'impatto dello stesso nel comparto dell'imposta di registro in cui l'art. 20 del d.P.R. n. 131/1986, il quale dispone che “l'imposta è applicata secondo l'intrinseca natura e gli effetti giuridici degli atti presentati alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente”, è stato da molti considerato quale disposizione antielusiva, in particolare in riferimento alla fattispecie di conferimento di azienda e di successiva cessione della partecipazione.

Nel presente lavoro, dopo aver proceduto ad un inquadramento dell'abuso del diritto, così come delineato dall'art. 10-bis dello Statuto dei Diritti del Contribuente, si cercherà di mettere in luce l'ambito applicativo dell'art. 20 del d.P.R. n. 131/1986, al fine di comprendere se, a seguito della novella legislativa recata dal D.Lgs. n. 128/2015, allo stesso possa essere ancora riconosciuta natura antielusiva.

La ratio alla base del D.Lgs. n. 128/2015

L'art. 5 della L. Delega n. 23/2014 (c.d. “Delega fiscale”) ha delegato il Governo ad attuare la revisione delle disposizioni antielusive vigenti al fine di unificarle al principio generale del divieto dell'abuso del diritto, in applicazione dei canoni e criteri direttivi individuati dallo stesso, e tramite coordinazione con quelli contenuti nella Raccomandazione della Commissione europea sulla pianificazione fiscale aggressiva n. 2012/772/UE del 6 dicembre 2012.

Nella citata Raccomandazione del 6 dicembre 2012 la Commissione ha invitato gli Stati membri ad adottare una norma generale antiabuso nel settore delle imposte dirette, applicabile sia ai rapporti nazionali, sia a quelli transnazionali, volta ad elidere quelle costruzioni di puro artificio, in quanto prive di sostanza economica, poste in essere essenzialmente allo scopo di eludere l'imposizione e, quindi, a ritrarre un vantaggio fiscale non dovuto.

La volontà del legislatore nazionale di dar corso ai principi informatori della suddetta Raccomandazione si è concretizzata attraverso l'art. 1, comma primo, del D.Lgs. n. 128/2015 che, in attuazione dell'art. 5 della L. Delega n. 23/2014, ha introdotto di nuovo conio, all'interno della L. n. 212/2000, l'art. 10-bis rubricato “disciplina dell'abuso del diritto o elusione fiscale”; al contempo, è stato espunto l'art. 37-bis del d.P.R. n. 600/1973, con il quale il legislatore aveva limitato la disciplina dell'elusione ad ipotesi ben individuate e ritenute di maggiore pericolosità.

Come evidenziato nella Relazione Illustrativa al D.Lgs. n. 128/2015, “Questa collocazione muove dall'esigenza di introdurre un istituto che, conformemente alle indicazioni della legge delega, unifichi i concetti di elusione e di abuso e conferisca a questo regime valenza generale con riguardo a tutti i tributi, sia a quelli armonizzati, per i quali l'abuso trova fondamento nei principi dell'ordinamento dell'Unione europea, sia a quelli non armonizzati, per i quali il fondamento è stato individuato dalla Corte di Cassazione nel principio costituzionale della capacità contributiva. Ciò consente, in altri termini, di riferire l'applicazione di questa disciplina tanto alle imposte sui redditi, come finora previsto dall'art. 37 bis del d.P.R. n. 600/1973, quanto a quelle indirette, fatta salva la speciale disciplina in materia doganale. Inoltre, l'inserimento di questa disciplina nell'ambito dello Statuto dei Diritti del Contribuente conferisce ad essa la forza di principio preordinato alle regole previste nelle discipline dei singoli tributi, come è stato più volte riconosciuto dalla Corte di Cassazione relativamente alle altre disposizioni contenute nello Statuto”.

La novella legislativa è intervenuta, quindi, in un sistema in cui regnavano forti incertezze tra gli operatori del diritto, dovute all' interpretazione di matrice giurisprudenziale la quale aveva assunto, come parametro per vagliare le condotte abusive, il principio costituzionale di capacità contributiva (art. 53), ritenendo, quindi, sussistente nell'ordinamento un principio antiabuso generale non scritto, i cui confini venivano tratteggiati di volta in volta dalla stessa.

In particolare, la Suprema Corte (SS.UU., nn. 30055, 30056 e 30057 del 23 dicembre 2008) aveva identificato la nozione di abuso nella sola assenza, nella condotta intrapresa, di valide ragioni economiche extrafiscali; ed aveva ritenuto tale assenza sufficiente a giustificare la ripresa a tassazione dei vantaggi fiscali ritratti dal contribuente, senza porre il dovuto accento sul carattere indebito degli stessi. Le lacune della predetta ricostruzione interpretativa avevano spesso indotto l'Amministrazione Finanziaria ed i giudici a sottovalutare la libertà del contribuente di scegliere tra varie operazioni possibili anche in ragione del differente carico fiscale (senza violare la ratio delle norme tributarie).

Altresì, era evidente come la non codificazione dei presupposti delle “ragioni economiche extrafiscali”, con cui la giurisprudenza predicava doversi giudicare in via esclusiva l'esistenza della condotta abusiva, dava luogo a ricostruzioni opinabili e del tutto soggettive. Al contrario, in tale contesto aveva assunto rilevanza del tutto marginale quello che, invece, avrebbe dovuto essere uno dei principali elementi costitutivi dell'abuso, id est, il perseguimento di vantaggi non voluti dal legislatore.

Il tutto in un contesto in cui vi era un'ingiustificata sovrapposizione di due piani di indagine che avrebbero dovuto, invece, rimanere ben distinti: quello del lecito risparmio di imposta (legato alla libertà di iniziativa economica) e quello del vantaggio disapprovato dal sistema (sul punto, Cass. civ., sez. VI-T, 11 novembre 2014, n. 24027).

L'esigenza, ben colta dal legislatore con la L. Delega n. 23/2014 e con il D.Lgs. di attuazione n. 128/2015, di una chiara normativa, che determinasse esaustivamente e senza ambiguità di sorta i connotati dell'abuso e le modalità del suo verificarsi (oggettivizzando la dimostrazione della sussistenza della sostanza economica), in sostituzione dell'art. 37-bis del d.P.R. n. 600/1973, era, quindi, oramai improcrastinabile.

In tale contesto, si è colloca, quindi, l'art. 10-bis della L. n. 212/2000.

Sull'esegesi dell'art. 10-bis della L. n. 212/2000

La rubrica “Disciplina dell'abuso del diritto o elusione fiscale”, del nuovo art. 10-bis della L. n. 212/2000, mette subito in evidenza l'unificazione della nozione di abuso del diritto con quella di elusione fiscale, attraverso la congiunzione disgiuntiva “o” (in virtù di ciò, si spiega l'abrogazione dell'art. 37-bis del d.P.R. n. 600/1973). Ne deriva che nell'articolato normativo i due termini sono usati indifferentemente in quanto equipollenti.

Ai sensi del primo comma dell'art. 10-bis, “Configurano abuso del diritto una o più operazioni prive di sostanza economica che, pur nel rispetto formale delle norme fiscali, realizzano essenzialmente vantaggi fiscali indebiti. Tali operazioni non sono opponibili all'amministrazione finanziaria, che ne disconosce i vantaggi determinando i tributi sulla base delle norme e dei principi elusi e tenuto conto di quanto versato dal contribuente per effetto di dette operazioni”.

Tale disposizione trova il suo naturale completamento nel successivo comma, laddove il legislatore delegato ha conferito concretezza ed effettività ai concetti di “operazioni prive di sostanza economica” e di “vantaggi fiscali indebiti”, facendoli uscire dal limbo dell'astrattezza nel quale li aveva relegati il diritto vivente, allargandone artificiosamente le maglie.

Sono “operazioni prive di sostanza economica” i fatti, gli atti ed i contratti, anche tra loro collegati, inidonei a produrre effetti significativi diversi dai vantaggi fiscali. Costituiscono indici di mancanza di sostanza economica, in particolare, la non coerenza della qualificazione delle singole operazioni con il fondamento logico del loro insieme e la non conformità dell'utilizzo degli strumenti giuridici a normali logiche di mercato (art. 10-bis, comma secondo, lettera a, L. n. 212/2000).

Vengono definiti “vantaggi fiscali indebiti” i benefici, anche non immediati, realizzati in contrasto con le finalità delle norme fiscali o con i principi dell'ordinamento tributario (art. 10-bis, comma secondo, lettera b), L. n. 212/2000).

Ictu oculi, dal combinato disposto delle due disposizioni, risulta come il perno su cui si basa il concetto di “abuso del diritto” sia il conseguimento di un vantaggio fiscale ottenuto violando la ratio della disciplina la quale regola la condotta, riconosciuta meritevole di tutela dall'ordinamento e che, in quanto tale, ad essa il contribuente avrebbe dovuto conformarsi.

Il carattere indebito del risparmio di imposta è tale, quindi, in quanto disapprovato dal sistema, non diversamente giustificabile sulla base di “valide ragioni extrafiscali, non marginali, anche di ordine organizzativo o gestionale, che rispondono a finalità di miglioramento strutturale o funzionale dell'impresa ovvero dell'attività professionale del contribuente” (art. 10-bis, comma terzo, della L. n. 212/2000), già ritenute da parte della giurisprudenza quali esimenti per predicare l'insussistenza di connotazioni di abusività (Cass. civ., sez. trib., 21 novembre 2011, n. 1372; Cass. civ., sez. trib., 26 febbraio 2014, n. 4604).

Le valide ragioni extrafiscali non marginali, le quali sussistono solo se l'operazione non sarebbe stata posta in essere in loro assenza, fanno sì che non abbia ragion d'essere il sindacato, in termini di abusività, della condotta del contribuente, in quanto le stesse rendono il vantaggio fiscale conseguito quale dovuto e, quindi, riconosciuto dal sistema.

Ne deriva, quindi, come condivisibilmente rilevato (V. Mastroiacovo, L'abuso del diritto o elusone in materia tributaria: prime note nella prospettiva della funzione notarile, in Studio 151-2015/T del Consiglio Nazionale del Notariato) che “i vantaggi indebiti non sono sindacabili dall'Amministrazione Finanziaria dal punto di vista abusivo se:

  • i vantaggi sono stati generati in un quadro operativo oggettivamente dotato di sostanza economica (e non è obiettivamente contestabile uno sviamento dalla ratio dello strumento giuridico, né un disallineamento dell'operazione posta in essere rispetto alle normali logiche di mercato);
  • si tratta di conseguimento di vantaggi indebiti non essenziali (ovverosia caratterizzanti l'operazione nel suo complesso, in un'accezione oggettiva e non soggettiva avuto riguardo all'interesse del soggetto al conseguimento del vantaggio);
  • il contribuente dimostra che il conseguimento di vantaggi essenzialmente indebiti, in difetto di sostanza economica dell'operazione oggettivamente intesa, sia avvenuto nel solco di valide ragioni extrafiscali e non marginali (non devono riguardare il piano fiscale ma devono sostenere altrimenti l'operazione sul piano della prova secondo le regole del procedimento e del processo tributario)”.

Del resto, tale previsione è perfettamente coerente con il disposto secondo cui “resta ferma la libertà di scelta del contribuente tra regimi opzionali diversi offerti dalla legge e tra operazioni comportanti un diverso carico fiscale” (art. 10-bis, comma quarto, L. n. 212/2000).

Ad esempio, non è possibile configurare una condotta abusiva laddove il contribuente scelga, per dare luogo all'estinzione di una società, di procedere ad una fusione anziché alla liquidazione. Seppur sia vero che la prima operazione è a carattere neutrale, mentre la seconda ha natura realizzativa, tuttavia nessuna disposizione tributaria mostra “preferenza” per l'una o l'altra operazione; sono due condotte messe sullo stesso piano, ancorché disciplinate da regole fiscali diverse.

Affinché si configuri un abuso andrà dimostrato il vantaggio fiscale indebito concretamente conseguito attraverso l'aggiramento della ratio legis o dei principi dell'ordinamento tributario, seppur nel rispetto formale delle disposizioni fiscali; qualora non vi sia aggiramento, ma violazione di specifiche disposizioni tributarie, non si è nel campo dell'elusione, bensì in quello dell'evasione. In tal caso, quindi, l'Amministrazione Finanziaria non potrà procedere a muovere una contestazione in termini di abuso del diritto, dovendo, al contrario, erigere la propria costruzione sui principi posti a base delle specifica disciplina prescritta per la singola violazione (comma dodicesimo dell'art. 10-bis dello Statuto dei Diritti del Contribuente).

In conclusione, il nuovo volto dell'abuso del diritto è stato tratteggiato in termini di “residualitànell'individuazione delle fattispecie contestabili, al fine di evitare qualsiasi sovrapposizione con le condotte di evasione di imposta; al contempo, il legislatore ha fornito nuova dignità normativa al carattere indebito del beneficio ritratto, il quale viene meno ogniqualvolta la condotta sia sorretta da valide ed apprezzabili (in quanto non marginali) ragioni extrafiscali ed in essa si rinvenga, oggettivamente, la presenza di sostanza economica.

L'ipotesi di conferimento di azienda e di successiva cessione della partecipazione

Delineati i confini del nuovo art. 10-bis della L. n. 212/2000, non resta che procedere all'esegesi dell'art. 20 del d.P.R. n. 131/1986, disposto normativo al quale l'Amministrazione Finanziaria ricorre, in funzione “antielusiva” al fine di riqualificare i singoli atti che accompagnano il conferimento di azienda (o di ramo di azienda) seguito dalla cessione della partecipazione nella società conferitaria, come un unico atto produttivo di un solo effetto giuridico-tributario, quello di cessione (indiretta) di azienda.

Al fine di riscontrare come tale impostazione si palesi giuridicamente erronea, diviene fondamentale esaminare il tenore letterale dell'art. 20 del d.P.R. n. 131/1986, il quale dispone che “l'imposta è applicata secondo la intrinseca natura e gli effetti giuridici degli attipresentati alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente”.

Il dato positivo in questione impone di concentrare l'analisi sull'inciso della norma che fa riferimento alla “intrinseca natura e gli effetti giuridici dei singoli atti presentati alla registrazione”.

Da esso si ritrae come l'imposizione dipenda unicamente dal contenuto delle clausole dello stesso ed agli effetti giuridici prodotti, non assumendo alcuna rilevanza, invece, gli atti ad esso precedenti e successivi o il comportamento complessivamente tenuto dagli stipulanti, in quanto elementi e dati di fatto extratestuali (in tal senso, CTP Rimini, 11 maggio 2011, n. 184).

Pertanto, il contenuto giuridico di ogni atto deve essere riqualificato singolarmente (CTP Milano, 29 maggio 2012, n. 168) e sottoposto a distinta ed autonoma tassazione, in quanto il fatto giuridico che determina il sorgere del presupposto dell'imposta non è il trasferimento di un bene, l'assunzione di un'obbligazione o la costituzione di una società, ma la stipulazione di un atto di vendita, di mutuo, di società, poiché l'imposta colpisce la singola pattuizione (CTP Treviso, 30 giugno 2010, n. 76).

Non potendo gli elementi extratestuali trovare una loro rilevanza interpretativa, in virtù del fatto che l'imposta di registro è un'imposta “d'atto”, si rivela giuridicamente infondata ed erronea l'impostazione, fatta propria dell'Amministrazione Finanziaria, secondo cui elementi dirimenti al fine di avvalorare la messa in atto di un'unica operazione (quella di cessione di azienda) sarebbero la consecuzione degli atti in un ridottissimo arco temporale ed il contenuto delle pattuizioni in esse contenute che, lette le une alla luce delle altre, manifesterebbero il loro collegamento funzionale.

Relativamente alla consecutio degli atti è da rilevare come i comportamenti contrattuali sovente censurati dall'Ufficio sono da considerare, come in effetti sono, quali momenti di una più generale riorganizzazione aziendale, nel rispetto dell'art. 41 della Costituzione e non quali produttivi di un unico effetto giuridico-tributario (in tal senso, CTP Milano, n. 168 del 29 maggio 2012).

Ragionare diversamente, significherebbe dare spazio interpretativo ad una circostanza (quella dell'intervallo temporale, per l'appunto) priva di riscontro normativo, lasciata al libero apprezzamento dell'Amministrazione Finanziaria.

Così come l'intervallo temporale ravvicinato fra le vari operazioni economiche alla base degli atti giuridici de quibus, anche l'asserito collegamento funzionale tra i predetti atti non è circostanza tale da far ritenere che si sia in presenza di un'unica operazione negoziale.

Infatti, laddove il legislatore ha voluto attribuire rilevanza al collegamento tra più atti lo ha fatto espressamente, così come accade con gli artt. 21, 22, 24 d.P.R. n. 131/1986.

Innanzitutto, “l'art. 21 T.U. è assolutamente chiaro nel condizionare la rilevanza del collegamento tra più disposizioni alla circostanza che le stesse siano contenute in un medesimo atto. L'art. 22 T.U., eccezionalmente, attribuisce rilevanza ad un precedente atto non registrato in virtù del meccanismo dell'enunciazione, ma solo nei limiti ivi previsti, al di fuori dei quali, evidentemente, non è consentito all'amministrazione operare. Analogamente, l'art. 24, comma 2, T.U., assoggetta ad un determinato trattamento tributario il trasferimento delle pertinenze, solo se effettuato entro tre anni dal trasferimento dell'immobile a cui servizio le stesse sono destinate. Tutte queste disposizioni assumono una particolare importanza, ai fini sistematici, in quanto chiariscono l'intento del legislatore tributario, che – ai fini dell'imposta di registro – laddove ha voluto attribuire rilevanza a vicende estranee all'atto oggetto di registrazione, ed in particolare al collegamento tra più atti, lo ha fatto espressamente.

Le norme che attribuiscono rilievo, ai fini dell'imposta in esame, a tale collegamento sono quindi eccezionali, e non possono essere applicate oltre i casi da esse considerati. Il che è conforme, del resto, ai principi costituzionali ed in particolare alla riserva di legge in materia tributaria, che verrebbe agevolmente elusa attribuendo all'interprete il compito di ricostruire le condizioni ed i limiti di rilevanza del collegamento negozialeConsiglio Nazionale del Notariato, Studio n. 95/2003/T, “Imposta di registro – Elusione fiscale, interpretazione e riqualificazione degli atti”, approvato dalla Commissione Studi Tributaria il 26 marzo 2004. In senso conforme, CTP Rimini, 11 maggio 2011, n. 184).

Ne deriva, quindi, come solo tali norme (artt. 21, 22, 24 d.P.R. n. 131/1986) attribuiscano rilevanza al collegamento negoziale, sicchè all'infuori di siffatte ipotesi il collegamento non assume alcuna importanza.

Inoltre, anche qualora, per assurdo, si ritenesse che i vari atti siano collegati, ciò non significherebbe che gli stessi possano essere ricondotti ad unitatem e che, conseguentemente, possano essere assoggettati ad un'unica tassazione.

Al riguardo l'Agenzia delle Entrate con Circolare n. 10/E del 12 marzo 2010 ha affermato, chiaramente, che ai fini dell'applicazione della norma in esame (art. 20 d.P.R. n. 131/1986), la Corte di Cassazione fa usualmente richiamo alla distinzione, di matrice civilistica, tra negozio complesso e negozi collegati, che deve essere effettuata con riferimento alla causa, ossia alla funzione economico-sociale che identifica e qualifica il negozio giuridico.

In particolare, seppure in entrambe le ipotesi sia dato ravvisare una pluralità di disposizioni, occorre distinguere a seconda che esse diano vita ad un mero collegamento negoziale, in quanto rette da cause distinte, seppur fra loro funzionalmente connesse, oppure se le diverse disposizioni, derivando le une dalle altre, integrino un atto complesso, riconducibile ad un'unica causa nella quale si fondono i ricorrenti elementi di più negozi tipici o atipici.

Ne consegue che, come chiarito dalla Suprema Corte con la citata sentenza n. 8142 del 1996, “l'atto complesso va assoggettato ad un'unica tassazione come se l'atto contenesse la sola disposizione che dà luogo all'imposizione più onerosa, in quanto le varie disposizioni sono rette da un'unica causa e, quindi, derivano necessariamente, per loro intrinseca natura, le une dalle altre”. Diversamente, “Le disposizioni che danno vita ad un collegamento negoziale, in quanto rette da cause distinte, sono soggette ciascuna ad autonoma tassazione, in quanto la pluralità delle cause dei singoli negozi, ancorché funzionalmente collegate dalla causa complessiva dell'operazione, essendo autonomamente identificabili, porta ad escludere che le disposizioni rette da cause diverse possano ritenersi derivanti, per loro intrinseca natura, le une dalle altre”.

L'Amministrazione Finanziaria, quindi, nel suddetto documento, afferma che le disposizioni, le quali diano vita ad un collegamento negoziale, in quanto rette da cause distinte, sono soggette ciascuna ad autonoma tassazione; ogni singolo atto, unitariamente considerato, sconta, quindi, l'imposta di registro.

Si possono, pertanto, ritrarre due considerazioni:

  • è giuridicamente erroneo ritenere che il collegamento negoziale possa essere assunto quale elemento per riqualificare il conferimento di azienda, cui segua la cessione della partecipazione, come operazione di cessione di azienda. Rileva, infatti, la natura giuridica dell'imposta di registro quale imposta d'atto e la circostanza, decisiva, che laddove il legislatore ha inteso attribuire rilevanza al collegamento negoziale lo ha fatto espressamente (artt. 21, 22, 24 del d.P.R. n. 131/1986);
  • il collegamento negoziale (ove ravvisabile) non fa sì che gli atti possano essere considerati come segmenti di un'unica operazione. Al contrario, gli stessi, in quanto retti da cause distinte, sono soggetti ciascuno ad autonoma tassazione, scontando ognuno l'imposta di registro corrispondente.

Sull'inesistenza di un supporto normativo alla tesi della valenza antiabusiva dell'art. 20 del d.P.R. n. 131/1986 e sulla non abusività del conferimento di azienda e della successiva cessione della partecipazione

Da quanto innanzi esposto deriva, quindi, come la vera funzione che può riconoscersi all'art. 20 del d.P.R. n. 131/1986 sia quella interpretativa e non antiabusiva in quanto, disponendo che l'imposta deve essere applicata secondo “l'intrinseca natura e gli effetti giuridici degli atti assoggettati a registrazione”, interviene a delineare positivamente l'ambito oggettivo del rapporto giuridico tributario di riferimento (in senso conforme Cass. civ., sez. trib., n. 21770 del 15 ottobre 2014).

Del resto, come osservato dal Consiglio Nazionale del Notariato (Studio n. 95/2003/T, “Imposta di registro – Elusione fiscale, interpretazione e riqualificazione degli atti”, approvato dalla Commissione Studi Tributaria il 26 marzo 2004), “non esiste, nel sistema dell'imposta di registro, una generale norma antielusiva (...). Esistono, al contrario, nel d.P.R. 131/1986 specifiche disposizioni, emanate dal legislatore in relazione a determinate, tassative fattispecie, che portano a tassare alcuni specifici atti senza tener conto della loro esatta qualificazione ed efficacia giuridica:

  • si pensi alla procura irrevocabile a vendere senza obbligo di rendiconto (art. 33, comma 1, T.U.);
  • ai trasferimenti tra coniugi e parenti in linea retta (art. 26 T.U.);
  • alla disciplina dell'usucapione (art. 26, ultimo comma, T.U., e art. 8, nota II-bis, della relativa tariffa, parte prima),
  • ed a quella del contratto per persona da nominare (art. 32 T.U.)”.

Pertanto, “Al di fuori delle ipotesi espressamente previste, non è quindi consentito all'ufficio disconoscere gli effetti del comportamento delle parti, che pongono in essere uno o più negozi per raggiungere, oltre agli effetti tipici di essi, altri effetti indiretti: ciò rientra nell'autonomia negoziale delle parti, oggetto di tutela non solo nella legislazione ordinaria ma, ancor prima, nella carta costituzionale, che tutela la libertà di iniziativa economica privata e pone una precisa riserva di legge nella materia dell'imposizione tributaria”.

L'Amministrazione Finanziaria non è, quindi, legittimata, sulla base del dato testuale dell'art. 20 del d.P.R. n. 131/1986, a superare la forma giuridica adottata dal contribuente in ragione della mera sostanza economica dell'operazione veicolata nell'atto sottoposto a registrazione. Ciò in quanto il suddetto art. 20 del d.P.R. n. 131/1986 ha valenza meramente interpretativa degli atti negoziali, sulla base delle clausole contrattuali ivi contenute, non potendosi attribuire ad esso alcuna valenza antiabusiva/antielusiva.

Infatti, rinvenire un fondamento antiabusivo/antielusivo nell'art. 20 del d.P.R. n. 131/1986 significherebbe conferire rilevanza ad elementi fattuali economici esterni al regolamento contrattuale delle parti, con conseguente snaturamento della funzione di imposta d'atto dell'imposta di registro.

Il suddetto disposto non può, quindi, essere utilizzato per riqualificare come unico negozio, sulla base dell'asserita “abusività” dell'operazione, regolamenti contrattuali, quali quello del conferimento di azienda e della successiva cessione di partecipazioni che, al contrario, devono rimanere distinti.

Al fine di predicare la rilevanza abusiva o meno delle operazioni de quibus l'unico addentellato normativo a cui bisogna rifarsi è l'art. 10-bis dello Statuto dei Diritti del Contribuente.

Ciò posto, in merito alla non configurabilità dell'art. 20 del d.P.R. n. 131/1986 quale clausola antiabusiva/antielusiva, non resta che da vedere se, nella fattispecie di conferimento di aziendae della successiva cessione di partecipazioni, ricorrano gli estremi dell'abuso (come codificati dall'art. 10-bis dello Statuto dei Diritti del Contribuente) ed, in particolare, se tali operazioni diano luogo ad un risparmio di imposta indebito.

La risposta è negativa, come desumile dal sistema delle imposte dirette.

Ai sensi del comma terzo dell'art. 176 del T.U.I.R.non rileva ai fini dell'art. 37-bis del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, il conferimento dell'azienda secondo i regimi di continuità dei valori fiscali riconosciuti o di imposizione sostitutiva di cui al presente articolo e la successiva cessione della partecipazione ricevuta per usufruire dell'esenzione di cui all'art. 87, o di quella di cui agli articoli 58 e 68, comma 3” (è da tenere presente che il riferimento all'art. 37-bis del d.P.R. n. 600 del 1973 deve, ora, a seguito della sua abrogazione, intendersi riferito all'art. 10-bis dello Statuto dei Diritti del Contribuente).

Nel comparto delle imposte dirette, non è, quindi, considerata dal legislatore operazione elusiva il conferimento dell'azienda in continuità dei valori fiscali e la successiva cessione della partecipazione ricevuta per fruire della Pex.

Come esplicitato dalla Norma di Comportamento n. 186 della Associazione Italiana Dottori Commercialisti ed Esperti Contabili – Sezione di Milano (“Trattamento ai fini dell'imposta di registro del conferimento di azienda e successiva cessione della partecipazione”), con la previsione di cui all'art. 176, comma 3 del TUIR, che sancisce l'irrilevanza ai fini dell'art. 37-bis del d.P.R. n. 600/1973 del conferimento di azienda, con successiva cessione della partecipazione ricevuta per usufruire dell'esenzione di cui all'art. 87 del TUIR, il legislatore:

  • ha riconosciuto lo schema negoziale in esame quale possibile alternativa concessa al contribuente;
  • ha introdotto per lo schema “conferimento- cessione” della partecipazione, una tutela addirittura premiale rispetto a quanto previsto in tema di cessione d'azienda.

Il legislatore in tema di imposta di registro non ha, invece, dettato alcuna norma derogatoria rispetto alle regole ordinarie. Pertanto i due atti sono da assoggettare autonomamente all'impostadi registro in misura fissa, come previsto rispettivamente dall'art. 4 n. 3 e dall'art. 11 della Tariffa parte prima allegata al d.P.R. n. 131/1986.

In forza delle attuali disposizioni legislative ed in applicazione dei principi dell'unitarietà dell'ordinamento e di certezza del diritto, risulta che:

  • non è possibile un diverso inquadramento di tale fattispecie (conferimento di ramo di azienda e successiva cessione della partecipazione) ai fini dell'imposta di registro rispetto all'imposizione diretta; proprio dall'art. 176, comma terzo, del d.P.R n. 917/1986 si desume come lo schema “conferimento di azienda o di ramo di azienda- cessione della partecipazione” non solo non sia disapprovato dal sistema (la norma ne detta, infatti, la non rilevanza ai fini antielusivi/antiabusivi e quindi ne riconosce la legittimità e la non riprovevolezza), ma anzi lo stesso (schema) viene posto quale opzione di almeno pari grado rispetto alla compravendita di azienda o di ramo di azienda. Da qui coerentemente, non è possibile ritenere disapprovato dal sistema ai fini dell'imposta di registro ciò che invece è ammesso per disposizione legislativa ai fini delle imposte dirette; ciò in virtù del principio dell'unitarietà dell'ordinamento giuridico (In tal senso si è espressa la CTP Rimini, 11 maggio 2011, n. 184);
  • non è possibile, poi, che lo schema negoziale così descritto possa essere riqualificato quale cessione d'azienda ai fini dell'imposta di registro, stante la mancanza nell'ordinamento della norma giuridica tramite cui procedere a tale riqualificazione. Infatti, non si può riconoscere tale valenza né all'art. 20 del d.P.R. n. 131/1986 (il quale ha, invece, per le ragioni precedentemente esposte, natura interpretativa), né all'art. 10-bis dello Statuto dei Diritti del Contribuente, non essendo tali operazioni (conferimento di ramo di azienda e successiva cessione della partecipazione) abusive, considerato che in esse difetta la condizione del conseguimento del risparmio di imposta indebito. Non si è, infatti, in presenza di operazioni disapprovate dal sistema, in quanto, nel campo dell'imposizione diretta, l'art. 176, comma terzo, del T.U.I.R., legittima le stesse ed i risultati a cui si giunge.

Affermare il contrario, significherebbe rendere inutiliter data, nel campo dell'imposizione diretta, la norma di cui all'art. 176, comma terzo, del T.U.I.R.

Non solo l'assenza di un risparmio di imposta indebito nelle operazioni in oggetto e la natura dell'imposta di registro quale “imposta d'atto”, limitano i poteri di riqualificazione propri dell'Amministrazione, ma anche un'altra circostanza, strettamente correlata alle precedenti, dimostra l'illegittimità e l'infondatezza di una contestazione in termini di abuso.

In particolare, non si può tralasciare di considerare le differenti conseguenze giuridiche dei due schemi negoziali, l'uno quello realizzato dal contribuente (atto di conferimento di ramo di azienda e successiva cessione della partecipazione) e l'altro, quello asseritamente ritenuto sussistente dall'Amministrazione (cessione di ramo di azienda senza immobili).

Come osservato dalla CTP Milano (n. 1 del 3 gennaio 2013), l'operazione “conferimento di azienda e successiva cessione della partecipazione totalitaria, consente in qualsiasi momento di tenere distinti i componenti patrimoniali conferiti da quelli della società beneficiaria e quindi le responsabilità specifiche connesse alla gestione del ramo di azienda. Diversamente, l'acquisto diretto del ramo d'azienda comporterebbe la immediata iscrizione dell'intero patrimonio tra le attività e la passività dell'azienda acquirente. Da ciò conseguirebbe una sostanziale confusione dei diritti e delle obbligazioni".

Rebus sic stantibus, nel caso specifico di conferimento di azienda e di successiva cessione della partecipazione totalitaria, non si è in presenza di negozi giuridici strutturalmente e funzionalmente collegati al fine di produrre un unico effetto giuridico finale. I comportamenti contrattuali e la “consecutio” degli atti negoziali posti in essere, non sono da considerarsi produttivi di un unico effetto giuridico - tributario, ma devono essere visti come negozi giuridici autonomi e non collegabili fra loro, perché indipendenti l'uno dall'altro.

Né in essi è rinvenibile alcuna connotazione di artificiosità.

Ciò né facendo leva sull'art. 20 del d.P.R. n. 131/1986, il quale ha funzione solamente interpretativa (come riconosciuto da Cass. civ., sez. trib., n. 9582 dell'11 maggio 2016), né sull'art. 10-bis della L. n. 212/2000 (l'unica disposizione alla quale bisogna rifarsi quando si avanzano contestazioni in materia di abuso del diritto, anche ai fini dell'imposta di registro), avuta considerazione dell'assenza, nelle condotte in oggetto, di un risparmio di imposta indebito (in ipotesi, per quanto supra illustrato, il risparmio di imposta è legittimo e riconosciuto come tale proprio dal sistema normativo tributario vigente: art. 176, comma terzo, del TUIR).

Guida all'approfondimento

M. Scuffi, Il nuovo abuso del diritto o elusione fiscale, in IlTributario.it del 5 ottobre 2015;

P. Ceroli, Abuso del diritto o elusione, in IlTributario.it, 11 aprile 2016.

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