La sinteticità degli atti processuali di parte nel processo amministrativo sui contratti pubblici

07 Marzo 2016

Il focus offre l'occasione per approfondire la nuova problematica della sinteticità degli atti processuali di parte nel processo amministrativo sulle controversie relative all'affidamento di contratti pubblici che, da semplice valore dialettico, è divenuta rigido criterio positivo.
Abstract

Il focus offre l'occasione per approfondire la nuova problematica della sinteticità degli atti processuali di parte nel processo amministrativo sulle controversie relative all'affidamento di contratti pubblici che, da semplice valore dialettico, è divenuta rigido criterio positivo.

Le nuove disposizioni in tema di sinteticità nel contenzioso amministrativo sulle procedure di affidamento di contratti pubblici

Nell'ambito del processo amministrativo, il tema della sinteticità, sia degli atti di parte che dei provvedimenti del giudice, è stato tradizionalmente affrontato con particolare attenzione alle controversie in materia di procedure di affidamento di contratti pubblici.

Una prima disposizione in tal senso era stata inserita nell'art. 245, comma 2-undecies, d.lgs 12 aprile 2006, n. 163 (introdotto dall'art. 8, d.lgs 20 marzo 2010, n. 53), secondo cui «tutti gli atti di parte devono essere sintetici e la sentenza che decide il ricorso è redatta, ordinariamente, in forma semplificata». Tale disposizione ha trovato puntuale conferma, dopo l'adozione del codice del processo, nell'art. 120, comma 10, cod.proc.amm.

Nell'ambito dei giudizi sulle procedure di affidamento dei contratti pubblici il principio di sinteticità – oltre ad essere enunciato in termini di principio generale dall'art. 3, comma 2, cod.proc.amm. – è ribadito anche in una specifica disposizione settoriale.

Da questo punto di vista, comunque, sebbene confermasse la particolare sensibilità al valore della sintesi nell'ambito di questi giudizi, l'originaria disposizione inserita nell'art. 120, comma 10, cod.proc.amm. non aggiungeva nulla – in termini applicativi – rispetto al rito ordinario, posto che il principio generale sancito nell'art. 3, comma 2, cod.proc.amm. avrebbe trovato pacifica applicazione anche nel rito speciale la cui disciplina, però, non contemplava un autonomo apparato sanzionatorio per la violazione del precetto; ciò in quanto, è la medesima l. 11 agosto 2014, n. 114, di conversione del d.l. 24 giugno 2014, n. 90, ad aver introdotto la possibilità per il giudice di condannare la parte soccombente, che abbia agito o resistito temerariamente in giudizio, al pagamento di una sanzione pecuniaria che può arrivare all'uno per cento del valore del contratto.

Sino a quel momento, dunque, anche nel processo sui contratti pubblici l'attuazione dei principi di sinteticità e chiarezza degli atti processuali era rimessa alle qualità di ciascun operatore e l'eventuale violazione di tali canoni – eccetto i casi marginali in cui ciò potesse dar luogo all'incertezza assoluta sul contenuto dell'impugnazione – avrebbe potuto trovare adeguata reazione dell'ordinamento sul piano della ripartizione delle spese di lite, ai sensi dell'art. 26, comma 1, cod.proc.amm.

In tale contesto, è intervenuto il legislatore che, per mezzo dell'art. 40, comma 1, lett. a), d.l. 24 giugno 2014, n. 90, nella versione modificata con la legge di conversione 11 agosto 2014, n. 114, ha ulteriormente specificato il contenuto del principio di sinteticità nell'ambito del rito speciale.

Si è previsto, in particolare, che – al fine di consentire lo spedito svolgimento del giudizio in coerenza con il principio generale di sinteticità – le parti devono contenere le dimensioni degli atti difensivi entro un limite predeterminato, stabilito con decreto del Presidente del Consiglio di Stato, da adottarsi sentiti il Consiglio nazionale forense e l'Avvocato generale dello Stato, nonché le associazioni di categoria riconosciute degli avvocati amministrativisti. Tale decreto, nella fissazione dei limiti dimensionali degli atti – che comunque devono poter essere derogati in casi particolari – tiene conto del valore effettivo della controversia, della sua natura tecnica e del valore dei diversi interessi sostanzialmente perseguiti dalle parti.

Si prevede, inoltre, che il giudice è tenuto a esaminare tutte le questioni trattate nelle pagine rientranti nei suddetti limiti, costituendo il mancato esame delle suddette questioni un motivo di appello avverso la sentenza di primo grado e di revocazione della sentenza di appello.

Pur senza fare ancora diretta attuazione delle nuove norme, anche il recente orientamento della giurisprudenza ha dedicato particolare attenzione al tema della sintesi, ritenendo che l'inosservanza del precetto della sinteticità, in particolare se ciò va a detrimento anche della chiarezza, non possa affatto essere sottovalutata, dovendo al contrario essere sanzionata affinché la funzione della giustizia possa svolgersi in modo rapido e lineare.

In particolare, nell'ambito del processo amministrativo è rinvenibile un orientamento particolarmente rigido che qualifica la fattispecie in termini di inammissibilità che, però, sembra per il momento essere circoscritto alle ipotesi estreme in cui la violazione dei principi in trattazione comporta l'assoluta difficoltà di comprensione del contenuto del ricorso, delle censure e delle richieste del ricorrente (cfr. Cons. St., Sez. I, 27 febbraio 2014, n. 346 e CGA, ord. 15 settembre 2014, n. 536; in quest'ultima occasione è stata comunque disposta l'acquisizione di una memoria illustrativa dei motivi di ricorso).

Nell'impostazione allo stato prevalente, la violazione dell'obbligo di sinteticità e chiarezza è sanzionata per lo più ricorrendo alla leva delle spese di lite, azionando il meccanismo sopra riferito di cui all'art. 26, cod.proc.amm. In tale contesto, poiché la ratio dei principi di sinteticità e chiarezza è da rinvenirsi nell'esigenza di evitare che la redazione di atti eccessivamente prolissi e oscuri costringa il giudice ad un defatigante scrutinio e precluda alla controparte di poter esercitare efficacemente le proprie prerogative difensive, la violazione del precetto di cui all'art. 3, comma 2, cod.proc.amm. è stata anche configurata in termini di abuso del processo, determinando uno svolgimento distorto del rapporto e un'indebita dilatazione dei tempi del giudizio, ponendosi per questo altresì in contrasto con il principio di ragionevole durata del processo, inteso quale corollario del giusto processo (Cons. St., Sez. IV, 1° luglio 2014, n. 3296; Cons. St., Sez. V, 11 giugno 2015, n. 3210).

Fra l'altro, può essere utile evidenziare che anche in sedi diverse da quella normativa sono state proposte diverse soluzioni per ricondurre le modalità redazionali degli atti processuali entro criteri precisi e predeterminati.

In tal senso, possono essere menzionati, da un lato, gli interventi interpretativi degli Organi di vertice degli ordini giurisdizionali che, facendo leva sulla propria capacità di moral suasion, hanno tentato di definire i limiti contenutistici degli atti di parte e, dall'altro, l'esperienza dei protocolli con cui – in uno spirito di autoregolamentazione, anche al fine di perseguire una migliore organizzazione del giudizio e un'uniforme applicazione delle regole processuali – sono stati gli stessi operatori a dettare indicazioni sulla tecnica di redazione degli atti, in modo da favorirne la brevità e la chiarezza.

In questa prospettiva, da ultimo, assumono rilievo i Protocolli sottoscritti in data 17 dicembre 2015 fra il primo Presidente della Corte di Cassazione e il Presidente del Consiglio Nazionale Forense, con l'obiettivo di favorire la chiarezza e la sinteticità degli atti processuali e di formulare raccomandazioni per la redazione dei ricorsi funzionale a facilitarne la lettura e la comprensione da un lato e a dare maggiori certezze agli avvocati circa i criteri di autosufficienza e quindi di ammissibilità degli stessi dall'altro.

Considerazioni problematiche sulle nuove regole

La nuova prescrizione suscita molteplici questioni problematiche, dando luogo a notevoli incertezze sia sul piano dell'inquadramento sistematico che dal punto di vista applicativo.

L'ambito di applicazione del nuovo regime è circoscritto ai giudizi aventi ad oggetto l'affidamento delle procedure ad evidenza pubblica nonché i connessi provvedimenti dell'Autorità Nazionale Anticorruzione. Già da questo primo punto di vista, appare alquanto singolare che – proponendosi quale attuazione di un principio generale del processo amministrativo – l'operatività del nuovo sistema sia limitata ad un solo rito speciale, senza estendersi anche al rito ordinario o, almeno, agli altri riti abbreviati, in cui parimenti è avvertita l'esigenza di una sollecita definizione.

Infatti, nella misura in cui il dovere di sinteticità degli atti viene inteso dal legislatore, pur secondo una logica alquanto discutibile, quale veicolo per assicurare una ragionevole durata del processo, non appare del tutto saggia la scelta di circoscriverne l'applicazione ad un solo rito processuale.

Certamente, nel contenzioso amministrativo sui contratti pubblici l'esigenza di una sollecita definizione delle controversie è ancora più sentita che negli altri riti, essendo un settore preordinato ad implementare lo sviluppo dell'economia e, dunque, del complessivo sistema-paese.

Tanto questa esigenza è avvertita che, con il citato d.l. n. 90 del 2014, sono stati introdotti numerosi correttivi volti ad accelerare ulteriormente lo svolgimento di questo tipo di contenzioso, ad esempio prevedendo termini certi per la fissazione dell'udienza di merito e per la pubblicazione della sentenza che, peraltro, dovrà essere doverosamente adottata nella forma semplificata di cui all'art. 74 cod.proc.amm.

Di conseguenza, il legislatore ha ritenuto che – stante il dovere del giudice di pronunciare la sentenza in forma semplificata, seppur non entro limiti dimensionali predefiniti come viceversa accade per le parti – un ulteriore sforzo verso la sintesi vada imposto alle parti nella redazione degli atti processuali; ciò anche in ossequio all'obbligo di collaborazione sancito nell'art. 2, comma, cod.proc.amm., secondo cui il giudice e le parti cooperano per la realizzazione della ragionevole durata del processo.

Sotto questo profilo, però, l'applicazione ai soli atti di parte della nuova disciplina sulla predeterminazione dei limiti dimensionali sembra tradire anche siffatto principio di cooperazione: infatti, pur volendo ipotizzare che la definizione della lunghezza degli atti possa costituire un contraltare dell'obbligo del giudice di adottare la sentenza in forma semplificata, la circostanza che i provvedimenti giurisdizionali non siano parimenti soggetti ad un limite massimo di estensione concretizza un'evidente disparità di trattamento tra le parti e il giudice. Più nello specifico, se si ritiene necessario stabilire un limite delle dimensioni del ricorso di primo grado per consentire al giudice di emettere una cd. sentenza breve, un'impostazione simmetrica dovrebbe applicarsi al provvedimento al giudice di primo grado per consentire alla parte di proporre un appello che rispetti il canone della sintesi. Laddove viceversa si ritenesse che, dal versante del giudice, la semplice previsione della sentenza in forma semplificata possa consentire lo spedito svolgimento del giudizio, non si comprende per quale motivo, dal versante delle parti, non si sia ritenuta sufficiente l'affermazione del principio generale di sinteticità di cui all'art. 3, comma 2, cod.proc.amm.

Da questo angolo visuale, anche ai fini di un eventuale vaglio di congruità e proporzionalità della misura legislativa, vi è da chiedersi se non fosse stato sufficiente, ai fini dell'adempimento a siffatto obbligo di cooperazione, l'aver declinato appunto i canoni della sintesi e della chiarezza in termini di principio generale. In primo luogo, non può sottacersi come non vi sia una corrispondenza biunivoca fra la sinteticità degli atti di parte e la possibilità del giudice di adottare una sentenza in forma semplificata; in secondo luogo, è noto che, fermo restando il dovere del giudice di pronunciarsi su tutti i motivi dedotti, non è necessario che la sentenza prenda posizione su ogni singolo aspetto evidenziato in chiave discorsiva negli atti di parte. Di talché, nulla precluderebbe al giudice di poter pronunciare una sentenza in forma semplificata anche a fronte di atti di parte diffusi: da questo punto di vista, anzi, lo scrutinio di un atto difensivo particolarmente sintetico potrebbe richiedere al giudice un impegno notevolmente maggiore imponendogli, ad esempio, di provvedere ad una cospicua ricerca giurisprudenziale nella materia oggetto della controversia, alla verifica delle decisioni citate dalle parti solo per estremi, all'integrale esame della documentazione prodotta nel fascicolo di cui gli atti non riporteranno più ampi stralci o, nei giudizi di impugnazione, degli atti prodotti nei precedenti gradi di giudizio.

Sempre in via preliminare, un ulteriore profilo di possibile problematicità dell'impianto delineato dal legislatore è relativo alla fonte individuata per dare attuazione al precetto normativo, ovvero un Decreto del Presidente del Consiglio di Stato. Da questo punto di vista, se certamente va condivisa la scelta di affidare la determinazione dei criteri di dettaglio ad un'istituzione che, in virtù della propria autorevolezza e della mole di dati a disposizione, ha la possibilità di compiere una completa istruttoria tecnica al riguardo, qualche perplessità può residuare sul piano di gerarchia delle fonti, a fronte di una delegazione normativa del tutto svincolata dal circuito ordinario riconducibile alla l. n. 400 del 1988.

L'aspetto notevolmente più problematico della disposizione normativa è senza dubbio quello relativo alle conseguenze della violazione dei parametri individuati dal Decreto.

In ordine a tale aspetto, la norma non è affatto perspicua nella sua formulazione e darà luogo a molteplici incertezze applicative – solo in parte risolvibili in sede interpretativa – laddove, declinata in positivo, dispone che «il giudice è tenuto a esaminare tutte le questioni trattate nelle pagine rientranti nei suddetti limiti» e che «il mancato esame delle suddette questioni costituisce motivo di appello avverso la sentenza di primo grado e di revocazione della sentenza di appello».

Ad una prima lettura, la disposizione appare assolutamente pleonastica, non essendovi nessuna necessità di ribadire l'obbligo di esaminare i motivi di ricorso prospettati dalla parte, già incombente sul giudice alla luce dei referenti costituzionali in tema di giusto processo e di diritto alla tutela giurisdizionale oltre che dei principi della domanda e di corrispondenza fra chiesto e pronunciato. Ciò potrebbe legittimare l'interpretazione preferibile da dare a tutto il nuovo impianto, ritenendo che i limiti dimensionali previsti nel Decreto siano di carattere indicativo e che le conseguenze del loro superamento possano avere riflessi esclusivamente sul piano della ripartizione delle spese di lite.

Dovendo comunque interpretare la disposizione in modo da poter attribuire al testo normativo un qualche significato, si aprono diversi scenari, nessuno dei quali risulta particolarmente appagante.

Da un lato, potrebbe ipotizzarsi la sussistenza di un divieto per il giudice di affrontare i motivi trattati oltre il limite dimensionale individuato; tuttavia, una simile lettura, forse persino additiva del disposto normativo, non potrebbe essere convalidata in chiave meramente esegetica, stante il notevole riflesso restrittivo sulla possibilità di conseguire una tutela giurisdizionale.

Dall'altro lato, limitandosi la disposizione a prevedere l'obbligo per il giudice di scrutinare i motivi trattati entro il numero di pagine consentite, potrebbe ipotizzarsi che permanga in capo all'organo decidente la “facoltà” di esaminare le questioni che da tale limite esulino; tale soluzione, per un verso, consentirebbe al giudice di poter svolgere un'indagine completa sul rapporto dedotto, ferma restando la possibilità di sanzionare la violazione dei confini dimensionali ricorrendo alla leva delle spese processuali; per altro verso, però, finirebbe per attribuire all'organo decidente un – inammissibile ed arbitrario, poiché svincolato da qualsiasi parametro legislativo – potere di delimitazione del thema decidendum, in palese distonia con i principi di eguaglianza e di parità delle parti. Ciò senza considerare che il potere di autorizzare la deroga al limite dimensionale imposto dal decreto afferisce alla fase presidenziale pre-processuale e non può essere esercitato dal giudice in sede decisoria.

In attesa che l'orientamento della giurisprudenza chiarisca l'interpretazione della surriferita prescrizione in ordine alla sorte dei motivi esorbitanti i limiti predeterminati, si ritiene che la violazione del precetto sulla sintesi potrà continuare ad avere rilievo sul piano della ripartizione delle spese di lite ma che, in difetto di specifiche prescrizioni in tal senso, il mero superamento dello spazio consentito non possa determinare conseguenze sulla ammissibilità dell'impugnazione o sulla ricevibilità dei singoli atti, eccetto le ipotesi – ovviamente – in cui la prolissità pregiudichi anche la chiarezza e non consenta un'agevole individuazione dei motivi di censura proposti. Ciò anche in virtù del fatto che, accedendo al piano dell'ammissibilità, si introdurrebbe un sistema irragionevole e discriminatorio a seconda che la violazione al principio sia commessa dalla parte ricorrente invece che da quella resistente, a meno di non voler ragionare sull'irricevibilità dei singoli atti.

Più in generale, la disposizione potrebbe suscitare ulteriori spunti problematici, ad esempio in relazione alla prassi dell'assorbimento dei motivi: infatti, disponendo che “il giudice è tenuto a esaminare tutte le questioni trattate nelle pagine rientranti nei suddetti limiti”, la norma potrebbe aver escluso, almeno in questa materia, la possibilità del giudice di ricorrere alla tecnica dell'assorbimento dei motivi. Ove venisse così interpretata, la norma sarebbe senz'altro da salutare con favore, atteso che, in armonia con il principio della domanda, consentirebbe alle parti di ottenere una pronuncia giurisdizionale sull'intero compendio delle censure proposte, amplificando, peraltro, l'effetto conformativo della sentenza. In ordine a tale aspetto, però, sarà l'applicazione giurisprudenziale a chiarire l'effettiva portata della disposizione, anche alla luce, da un lato, del suo tenore letterale secondo cui – è bene precisare – il giudice è tenuto ad “esaminare” e non a “pronunciarsi” sui motivi dedotti e, dall'altro, del fatto che il più recente orientamento della giurisprudenza avalla la prassi dell'assorbimento dei motivi proprio «in caso di giudizio immediato (sentenza in forma semplificata) in cui il giudice può motivare con riferimento al punto ritenuto risolutivo» (Cons. St., Ad. plen., 27 aprile 2015, n. 5).

In ogni caso, la disposizione sembra dar luogo a dubbi di costituzionalità, sotto plurimi profili.

In primo luogo, potrebbe comportare una gravissima compromissione del diritto di difesa non adeguatamente giustificata da altri e contrapposti diritti costituzionalmente garantiti: sotto questo profilo, oltre a non essere affatto certo che le misure di contingentamento dimensionale degli atti processuali contribuiscano ad assicurare la ragionevole durata del processo, parimenti non è affatto sicuro che, nel contemperamento fra diversi diritti tutelati dalla Carta costituzionale, la ragionevole durata del processo possa prevalere sul diritto di difesa, espressamente definito come inviolabile dall'art. 24 Cost.

In secondo luogo, profili di incostituzionalità potrebbero ravvisarsi nella circostanza che siffatto pregiudizio alle prerogative difensive derivi dalla violazione di parametri contenuti in una fonte di carattere secondario, anche se dalla legge delegata, e non in un atto avente valore legislativo, laddove viceversa sia il diritto di difesa che il giusto processo sono soggetti a riserva di legge assoluta.

In terzo luogo, non appare del tutto conforme ai precetti costituzionali il fatto che la compressione del diritto di difesa possa avvenire sulla base di un regime che, per espressa previsione legislativa, è applicato in via sperimentale ed è soggetto a monitoraggio.

In quarto luogo, appare assolutamente discriminatorio aver circoscritto l'operatività della nuova disciplina al rito speciale sulle controversie concernenti l'affidamento dei contratti pubblici, già soggetto a rilevantissime misure di deflazione del contenzioso: si pensi, per un verso, all'elevato importo del contributo unificato che rende fiscalmente molto gravoso l'accesso alla giustizia e, per altro, alla circostanza che in questi giudizi la condanna per lite temeraria – che in termini generali può comportare l'applicazione di una sanzione pecuniaria di misura non inferiore al doppio e non superiore al quintuplo del contributo unificato – può essere elevata sino all'uno per cento del valore del contratto conteso.

Il Decreto n. 40 del 25 maggio 2015 del Presidente del Consiglio di Stato

In ossequio al novellato art. 120, comma 6, cod. proc. amm., è stato adottato il Decreto del Presidente del Consiglio di Stato n. 40 del 25.5.2015, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale 5 giugno 2015, n. 128, che disciplina nel dettaglio i limiti dimensionali degli atti processuali di parte nel contenzioso relativo ai provvedimenti concernenti le procedure di affidamento di contratti pubblici e i connessi provvedimenti dell'Autorità Nazionale Anticorruzione.

Come disposto dall'art. 40, comma 2-bis, D.L. 24.6.2014, n. 90, le disposizioni relative al contenimento del numero delle pagine stabilite nel Decreto sono applicabili in via sperimentale per due anni dalla data di entrata in vigore della l. di conversione 11.8.2014, n. 114, e, al termine di un anno decorrente dalla medesima data, è previsto un monitoraggio del Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa degli esiti di tale sperimentazione alla luce del quale saranno possibili modifiche o integrazioni della disciplina.

Quanto alla decorrenza iniziale, i nuovi limiti trovano applicazione alle controversie il cui termine di proposizione inizi a decorrere, sia per i ricorsi di primo grado che per le impugnazioni, trascorsi trenta giorni dalla pubblicazione del Decreto del Presidente del Consiglio di Stato nella Gazzetta Ufficiale n. 128 del 5.6.2015. Come riportato nella Relazione illustrativa, non ne è apparsa possibile l'applicazione ai giudizi già in corso, perché ciò avrebbe significato una sperequazione tra le dimensioni (libere) degli atti depositati antecedentemente alla data predetta e quelle (limitate) degli atti successivi. In questa medesima ottica, ove il giudizio di primo grado si sia svolto sotto il regime dimensionale libero e quello di impugnazione debba invece svolgersi sotto il nuovo regime dimensionale limitato, l'art. 15 del decreto stabilisce che la pronuncia presidenziale di autorizzazione dei limiti ulteriori tenga anche conto delle dimensioni con cui sono stati redatti, di fatto, gli atti di primo grado.

In sede istruttoria, come previsto dall'art. 120, comma 6, cod. proc. amm., sono stati acquisiti i pareri dell'Avvocato generale dello Stato e degli organismi espressivi della categoria degli avvocati amministrativisti anche se tale coinvolgimento non ha scongiurato la posizione particolarmente critica assunta dal Consiglio Nazionale Forense sullo schema di decreto; inoltre, sono state svolte indagini a campione presso il Consiglio di Stato e i TAR del Lazio e della Lombardia, al fine di verificare le dimensioni medie dei ricorsi depositati; da ultimo, sempre in sede istruttoria, si è tenuto conto dei provvedimenti di matrice europea e internazionale, quali ad esempio quelli che disciplinano le dimensioni degli atti difensivi dinanzi agli organi giudiziari operanti nell'ambito dell'Unione europea (Corte di Giustizia e Tribunale di primo grado) e della Convenzione europea dei diritti dell'uomo.

Come risulta dalla citata Relazione illustrativa, «nella formulazione del decreto si è mirato a comporre le esigenze di particolare sinteticità degli atti sottese alla norma, con quella del rispetto del principio di effettività della tutela giurisdizionale».

In concreto, l'impianto previsto dal Decreto prevede, nel rispetto delle prescrizioni legislative, un sistema ordinario su cui si innestano diverse possibilità di deroga.

I limiti dimensionali previsti nel Decreto appaiono congrui avuto riguardo alla media delle controversie, potendo consentire un fisiologico svolgimento dell'attività difensiva. È indubbio che essi potranno comportare un ripensamento di talune discutibili tecniche redazionali di riportare negli atti defensionali ampi stralci di documentazione, precedenti giurisprudenziali e approfondimenti dottrinali che, forse in modo più efficace peraltro, potranno trovare ingresso nel fascicolo attraverso apposite appendici allegate all'atto.

Potrebbe forse apparire troppo contenuto il limite di dieci pagine previsto per la memoria di replica che, spesso, costituisce il principale terreno di svolgimento del contraddittorio processuale; si pensi, ad esempio, alla posizione della parte ricorrente che, nei (pur limitati) casi in cui sia mancata la fase cautelare, nella memoria di merito conclusionale solitamente ha poco da aggiungere rispetto a quanto già illustrato nel ricorso, avendo invece necessità di maggiore “spazio” per replicare alle difese avversarie.

Per quanto riguarda l'atto di motivi aggiunti (da contenere, come si è visto, in massimo trenta pagine), l'art. 6 del decreto prevede che esso sia autonomamente computabile solo qualora venga proposto in relazione ad atti o fatti la cui conoscenza sia intervenuta successivamente alla proposizione dell'atto introduttivo: tale previsione è evidentemente preordinata ad evitare che, attraverso la concomitante proposizione dell'impugnazione principale e di motivi aggiunti, entrambi basati sui medesimi elementi, vengano elusi i limiti dimensionali del ricorso fissati dal decreto stesso.

Inoltre, in conformità alla previsione di cui all'art. 40, d.l. n. 90 del 2014, l'art. 7 del decreto enumera i vari elementi costituenti le indicazioni formali dell'atto che non vanno computati ai fini del raggiungimento del numero massimo di pagine.

Per consentire un'applicazione uniforme dei limiti dimensionali, il Decreto stabilisce altresì le modalità redazionali degli atti, sullo schema della previsione già operante presso la Corte di giustizia dell'Unione europea (Istruzioni pratiche alle parti, pubblicate in GUUE 31 gennaio 2014, L 31, punto 35, secondo alinea).

Come si è visto, il novellato art. 120, comma 6, cod.proc.amm. delega al Decreto anche l'individuazione delle ipotesi in cui, per specifiche ragioni, può essere consentito superare i limiti ordinari.

In quest'ottica, è stato introdotto un duplice regime derogatorio in base al quale – ove la controversia presenti questioni tecniche, giuridiche o di fatto particolarmente complesse ovvero attenga ad interessi sostanziali di particolare rilievo, anche dal punto di vista economico – il Presidente della Sezione cui è assegnato il giudizio o un magistrato da lui delegato può autorizzare, a fronte di un'apposita istanza e al ricorrere di specifici presupposti, che le difese siano articolate in uno spazio più ampio. In tal caso, al fine di agevolarne l'esame da parte del Collegio, l'atto deve comunque prevedere un riassunto preliminare dei motivi proposti (art. 10, decreto); come riportato nella Relazione illustrativa del Decreto, non è prevista una particolare sanzione in ipotesi di mancato assolvimento di tale onere, rimettendosi al Collegio di decidere se imporlo, con conseguente rinvio della causa, o se pronunciarsi indipendentemente da esso, fatta salva la sua valutazione ai fini delle spese del giudizio.

I criteri che possono giustificare la deroga al regime ordinario sono: il valore della causa, comunque non inferiore a € 50.000.000, determinato secondo i criteri relativi al contributo unificato; il numero e l'ampiezza dei provvedimento impugnati; la dimensione della sentenza appellata; l'esigenza di riproposizione di motivi dichiarati assorbiti ovvero di domande o eccezioni non esaminate; la necessità di dedurre distintamente motivi rescindenti e motivi rescissori; la rilevanza della controversia in relazione allo stato economico dell'impresa; l'attinenza del contenzioso alle cd. infrastrutture strategiche di cu all'art. 125 cod. proc. amm. e l'avvenuto riconoscimento della presenza di siffatti presupposti derogatori nell'ambito del precedente grado di giudizio.

Il sistema è tutto incentrato sul potere “pre-processuale” del Presidente della Sezione, chiamato sia a valutare la sussistenza dei presupposti derogatori sia a quantificare lo spazio aggiuntivo che può essere concesso per l'estrinsecazione dell'attività difensiva; infatti, la circostanza che l'art. 8 del decreto preveda la possibilità di autorizzare «limiti dimensionali non superiori, nel massimo» a cinquanta e a quindici pagine porta ad escludere che la semplice ricorrenza dei citati motivi comporti necessariamente la possibilità di utilizzare il limite massimo individuato, essendo riservato invece in capo al Presidente un potere di gradazione.

La valenza espressamente esemplificativa dei presupposti indicati nel decreto conferma la particolare ampiezza del margine di apprezzamento presidenziale, inducendo a ritenere, nel silenzio della disposizione, che il Presidente possa autorizzare la deroga anche al ricorrere di uno soltanto dei criteri ivi elencati o al ricorrere anche di presupposti diversi, laddove comunque evidenzino l'inidoneità dello spazio ordinario al completo svolgimento del diritto di difesa.

È sicuramente auspicabile che, nella valutazione ai fini dell'autorizzazione derogatoria, un ruolo determinante sia riconosciuto alla complessità giuridica delle questioni trattate più che alla rilevanza economica della controversia; da questo punto di vista, particolare attenzione dovrà essere riservata all'applicazione del presupposto concernente «il valore della causa, comunque non inferiore a € 50.000.000» con cui il decreto ha inteso individuare una soglia oggettiva di rilevanza economica della causa per cui, anche a prescindere dalla sussistenza di altre ragioni che potrebbero giustificare la deroga, l'elemento del valore della controversia può essere considerato a tal fine soltanto ove non inferiore a € 50.000.000.

Poiché, in alcune ipotesi assolutamente eccezionali, neanche il regime appena tratteggiato potrebbe consentire un pieno svolgimento delle prerogative difensive, il decreto ha previsto un ulteriore sistema derogatorio; benché, vista l'eccezionalità di tali ipotesi, in sede normativa non sia contemplato uno spazio massimo da riconoscere, si ritiene che il decreto presidenziale di autorizzazione debba comunque prevedere un limite – ritenuto congruo dal Presidente – entro cui le difese debbano concretamente essere contenute.

Per ottenere l'autorizzazione, il ricorrente formula in calce al ricorso un'istanza motivata, sulla quale il Presidente o il magistrato delegato si pronuncia con decreto entro i tre giorni successivi, decorsi i quali inutilmente, l'istanza si considera accolta. Il decreto favorevole ovvero l'attestazione di segreteria o l'autodichiarazione del difensore circa l'avvenuto decorso del termine in assenza dell'adozione del decreto sono notificati alle controparti unitamente al ricorso e i successivi atti difensivi di tutte le parti seguono il medesimo regime dimensionale.

Il procedimento per ottenere l'autorizzazione – pur condivisibilmente strutturato con il meccanismo del silenzio-assenso – potrebbe comunque dar luogo a distorsioni ed incertezze applicative.

Innanzitutto, si ritiene possa essere sgombrato il campo da eventuali dubbi sul momento di presentazione dell'istanza e, in particolare, se essa debba precedere o seguire la notifica e il deposito del ricorso atteso che la formulazione letterale dell'art. 11 del decreto – secondo cui il decreto favorevole ovvero le equipollenti dichiarazioni di segreteria o del difensore «sono notificati alle controparti unitamente al ricorso» – porta a preferire la prima delle divisate soluzioni.

Di certo, però, oltre a comportare un indubbio appesantimento dell'operatività degli uffici giudiziari, siffatta configurazione del procedimento autorizzatorio potrebbe incidere notevolmente sul termine di decadenza previsto per l'impugnazione che sarà di fatto ridotto di un numero di giorni pari a quelli necessari ad ottenere l'autorizzazione; ciò in quanto l'istanza – che, ai sensi dell'art. 11 del decreto, va presentata in calce al ricorso – postula necessariamente la previa redazione dell'atto defensionale.

Da questo punto di vista, la disposizione appare particolarmente problematica, rischiando di comprimere in modo rilevante l'operatività del diritto di difesa, in distonia con i principi costituzionali e sovranazionali che, come noto, riservano estrema attenzione al tema dell'effettiva azionabilità delle posizioni giuridiche da parte degli interessati.

Inoltre, né la legge né il decreto prevedono un rimedio avverso l'eventuale diniego dell'autorizzazione e, in particolare, se esso possa essere oggetto di reclamo. Pur essendo difficile escludere la possibilità per la parte di contestare il diniego di autorizzazione, il problema potrebbe forse apparire più teorico che pratico, essendo un'eventuale fase di impugnazione poco compatibile con i già ristretti tempi per la proposizione – soprattutto in primo grado – del ricorso. In ogni caso, trattandosi di una pronuncia che si inserisce nella tipica fase pre-processuale, potrebbe forse essere equiparata alle ordinanze che, nell'ambito delle indagini della Procura della Corte dei Conti preordinate all'esercizio dell'azione amministrativo-contabile, consentono o negano la proroga ex art. 5, comma 1, d.l. 15 novembre 1993, n. 453, e che sono reclamabili, ai sensi degli artt. 739, 742-bis, c.p.c. e dell'art. 26, R.d. 13 agosto 1933, n. 1038 (da ultimo, Corte dei Conti, Sezioni Riunite, 21 aprile 2010, n. 5).

Come la legge, neanche il decreto specifica quali siano le conseguenze della violazione o dell'elusione della disciplina sul contingentamento dei limiti dimensionali degli atti processuali: per quanto si tratti di un profilo che accresca lo stato di incertezza, si tratta di una scelta che difficilmente può essere censurata essendo quanto mai dubbio che, nel silenzio della legge, il potere regolamentare possa autonomamente individuare l'apparato sanzionatorio che, peraltro, in questo caso avrebbe indubbi riflessi sul diritto costituzionale di difesa; come riportato nella stessa Relazione illustrativa, «non si è ritenuto di fissare una prescrizione circa la sorte delle censure contenute nelle pagine del ricorso che siano eventualmente presentate in numero eccedente quello consentito con il decreto. Si tratta, infatti, di questione attinente all'interpretazione dell'art. 40 d.l. n. 90 del 2014, che può trovare soluzione soltanto in via giurisprudenziale».

In conclusione

Nel perimetro tracciato dal novellato art. 120, comma 6, cod.proc.amm., il Decreto del Presidente del Consiglio di Stato ha compiuto un'opera meritevole nella misura in cui, quanto alla determinazione delle dimensioni degli atti, si è attestato sui livelli medi rinvenuti nell'applicazione empirica e nelle prassi sovranazionali, e, soprattutto, ha dedicato particolare attenzione alle cause che possono giustificare il superamento dei limiti.

Come si è visto, permangono pericolose aporie nel meccanismo dell'autorizzazione, fra i cui profili più problematici vi è quello concernente l'incidenza che l'iter autorizzatorio può avere sul termine di decadenza dall'impugnazione.

Ciò posto, rimane sicuramente discutibile in radice la scelta legislativa di imbrigliare l'attività difensiva delle parti entro limiti predeterminati.

Vi sono sicuramente dei costumi da guarire: lo sviluppo incessante dell'informatica consente ormai il confezionamento di atti dalle lunghezze prima inimmaginabili che non sempre sono giustificate dalla reale complessità della controversia; per non parlare della chiarezza, assistendosi sovente ad atti confusi ed oscuri nella loro formulazione.

A ben vedere, però, in ambito giuridico il valore della sintesi rientra tra quelle formule di carattere generale che si caratterizzano per la loro formulazione vaga ed elastica che permette agli operatori – e, in particolare, al giudice – di valutarne il contenuto in relazione alla specifica ipotesi oggetto di esame; non a caso, del resto, la sinteticità è stata declinata dall'art. 3, comma 2, cod.proc.amm. in termini di principio generale quale parte di un'endiadi con la chiarezza, con la conseguenza che è difficile ipotizzare una qualche forma di rimproverabilità nella (sola) violazione del canone di brevità.

Va anche considerato, inoltre, che vieppiù nell'ambito del processo amministrativo in materia di affidamento di contratti pubblici, le dimensioni degli atti difensivi sono solitamente correlate alla complessità del rapporto sostanziale dedotto in giudizio e dello stesso provvedimento impugnato, alla sempre più frequente scarsa chiarezza del quadro normativo e alle notevoli oscillazioni giurisprudenziali – spesso interne alla medesima Sezione o nonostante l'autorevole intervento dell'Adunanza Plenaria in funzione nomofilattica – che impongono al ricorrente, oltre che di sviluppare la propria tesi difensiva, anche di difendere gli orientamenti a lui favorevoli.

In tale quadro, dovrà essere utilizzato con particolare saggezza lo strumento dell'autorizzazione derogatoria al fine di consentire lo svolgimento delle prerogative difensive entro spazi opportuni, evitando ulteriori compromissioni del diritto di difesa.

Il profilo certamente più preoccupante è l'assenza di una precisa disciplina legislativa delle conseguenze della violazione dei limiti dimensionali degli atti: il che darà luogo a gravissimi dubbi interpretativi e ad ulteriori occasioni di contenzioso.

Guida all'approfondimento

Fra i primi approfondimenti, si segnalano: M. LIPARI, L'efficienza della P.A. e le nuove norme per il processo amministrativo, in giustamm.it, 7/2014; R. DE NICTOLIS, Il rito degli appalti pubblici dopo il D.L. 90/2014, in giustizia-amministrativa.it, 2015; M. NUNZIATA, La sinteticità degli atti processuali di parte nel processo amministrativo: fra valore retorico e regola processuale, in Dir. proc. amm., 4/2015, 1327 ss., N. PAOLANTONIO, Linee evolutive della figura dell'abuso processuale in diritto amministrativo, in giustamm.it, 10/2014; F. SAITTA, Rito appalti e dovere di sinteticità: gli atti difensivi «obesi» esistono, ma la… dieta è sbagliata, in lexitalia.it, n. 7/2015; M.A. SANDULLI, Il tempo del processo come bene della vita, in federalismi.it, 8/2014; M. SANINO, La sinteticità degli atti nel processo amministrativo: è davvero una novità, in Foro it., 2015; C. VOLPE, Dovere di motivazione della sentenza e sinteticità degli atti delle parti processuali, in giustamm.it, 3/2015; C. VOLPE, Processo amministrativo: sintesi, ottemperanza e opposizione di terzo: tre temi caldi per i contratti pubblici, in giustamm.it, 7/2015.

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