Tra annullamento in autotutela e recesso unilaterale nelle procedure negoziate: l'onere motivo della stazione appaltante

27 Marzo 2017

Le clausole della disciplina di gara che prevedono la possibilità per la stazione appaltante di recedere ad nutum dalla procedura devono considerarsi illegittime in quanto violative degli artt. 1355 e 1229 c.c.
Massima

Le clausole della disciplina di gara che prevedono la possibilità per la stazione appaltante di recedere ad nutum dalla procedura devono considerarsi illegittime in quanto violative degli artt. 1355 e 1229 c.c.

A seguito dell'aggiudicazione in proprio favore, il concorrente risulta tributario di una posizione di affidamento particolarmente qualificata che impone una adeguata motivazione del suo eventuale sacrificio in caso di revoca in autotutela degli atti di gara.

È illegittima la revoca dell'aggiudicazione basata sulla non rispondenza originaria e conosciuta (o conoscibile) dell'incanto agli interessi tecnici o economici della P.A. La motivazione della revoca, infatti, deve tenere conto non solo dell'interesse pubblico, ma anche di quello dell'aggiudicatario, motivando adeguatamente le ragioni del sacrificio del secondo in favore del primo.

Il caso

La vicenda processuale riguarda una procedura aperta preordinata all'istituzione di un accordo quadro per la fornitura di convogli al servizio ferroviario regionale. Criterio di aggiudicazione era quello dell'offerta economicamente più vantaggiosa, con peso marginalmente preponderante all'offerta tecnica. La lex specialis prevedeva peraltro una fase di negoziazione successiva all'aggiudicazione con rilancio sul prezzo unitario offerto a gara al fine di consentire il maggior vantaggio economico della stazione appaltante nell'invarianza dell'offerta tecnica.

Unica partecipante era la società poi ricorrente in giudizio, che veniva dichiarata aggiudicataria accedendo alla fase negoziata della procedura.

Seguivano quindi due offerte al ribasso sul prezzo unitario a misura, che portavano ad un risparmio complessivo del 1,1% sulla base aggiudicata.

All'esito della seconda fase dell'incanto, tuttavia, la stazione appaltante procedeva alla revoca dell'aggiudicazione disposta in favore della ricorrente, sostenendo che l'offerta risultante all'esito della negoziazione non fosse in linea con le esigenze tecniche ed economiche che avevano determinato l'amministrazione ad indire la gara.

Le questioni

L'impresa, vistasi revocare l'aggiudicazione, interponeva ricorso innanzi il giudice amministrativo, facendo seguito con motivi aggiunti impropri (per la distinzione tra motivi aggiunti c.d. propri e impropri, Ad. plen. Cons. St., 27 aprile 2015, n. 5, nonché, per una panoramica tutt'oggi valida, N. SAITTA, Sette note sui motivi aggiunti, in Lexitalia.it. Ad inquadramento teorico, utile invece A. QUARANTA-V. LOPILATO (a cura di), Il processo amministrativo. Commentario al D.lgs. 104/2010, Torino, 2011, sub art. 43, 432 e ss.). A sostegno del gravame, si allegava la carenza motivazionale nella revoca dell'aggiudicazione e la contraddittorietà del contegno amministrativo, dal momento che la congruità – quantomeno tecnica – dell'offerta era già stata vagliata nella fase che aveva condotto all'aggiudicazione. Inoltre, veniva invocata la nullità ex art. 46, comma I d.lgs. n. 163 del 2006 della clausola della lex specialis che faceva espressa riserva alla S.A. di sospendere o interrompere la procedura di gara in maniera assolutamente discrezionale e senza obbligo di motivazione.

Proprio con riferimento a quest'ultima clausola, la resistente imperniava la propria difesa in rito, sostenendo vi fosse stata acquiescenza alla disciplina di gara che assegnava tali – ampi – poteri alla stazione appaltante, deducendo conseguentemente la carenza di interesse al gravame. Ulteriore inammissibilità sarebbe poi derivata dal fatto che, non essendo previsto alcun minimo garantito quanto agli ordinativi, non vi sarebbe stato comunque alcun interesse tutelabile a seguito dell'aggiudicazione.

Nel prendere il passo nella decisione del ricorso, il TAR esaminava per prima la questione di rito, disattendendola. Per il Collegio, infatti, una clausola che riservi potere di revoca o sospensione sostanzialmente insindacabile assomma diversi profili di nullità. Innanzitutto, essa si qualificherebbe come clausola meramente potestativa, nulla ex art. 1355 c.c. La scelta della stazione appaltante si appaleserebbe inoltre manifestamente contraria ai principi di buona fede, correttezza ed obbligo generalizzato di motivazione degli atti amministrativi. A rinsaldare il ragionamento, il Tribunale allega pure l'art. 1229 c.c. che dichiara nulla l'esenzione o limitazione preventiva della responsabilità del paciscente. Tale disposto, andrebbe infatti letto in armonia con quella giurisprudenza che stabilisce l'onere di motivazione stringente in caso di revoca successiva all'aggiudicazione definitiva, al fine di contemperare l'interesse pubblico con l'affidamento ormai ingenerato nel competitore. L'art. 1229 c.c. rileva per il decidente pure sotto un altro profilo. Infatti, l'abdicazione preventiva al diritto di tutela dell'offerente, limiterebbe ingiustificatamente la possibile responsabilità precontrattuale nella quale possa incorrere l'amministrazione, ponendosi vieppiù in aperto contrasto con gli artt. 28 e 97 Cost.

Alla declaratoria di nullità segue dunque l'ammissibilità del ricorso.

Ad esito non differente era destinata pure la seconda eccezione della stazione appaltante circa l'assenza di ordinativi minimi garantiti. In tal caso, infatti, sarebbe ancor più limpida la violazione dell'art. 1229 c.c. poiché l'esonero della responsabilità si protrarrebbe addirittura alla fase negoziale.

Passato all'esame del merito, il T.A.R. ritiene meritevoli di accoglimento le censure esposte, basandosi su una giurisprudenza ritenuta consolidata. La selezione di un'offerta, infatti, produce per il giudicante l'effetto di consolidare in capo all'aggiudicatario una posizione particolarmente qualificata e resistente, che impone alla P.A., nell'esercizio del potere di revoca, una ponderazione particolarmente rigorosa degli interessi coinvolti. Rilevante pure il dato temporale, poiché, pare intravedersi tra le pieghe della motivazione, le ragioni del revirement debbono emergere successivamente all'aggiudicazione, non potendole preesistere o, quantomeno, essere già note. La sentenza ha il pregio di dare indicazioni puntuali circa la costruzione logica del provvedimento di revoca che voglia andare esente da censure. Innanzitutto, debbono emergere le ragioni sottese al ripensamento dell'amministrazione. In seguito vi si devono raffrontare le ragioni dell'aggiudicatario. Infine si dovrà esplicitare il motivo per cui l'interesse amministrativo è ritenuto preponderante rispetto a quello privato. Per di più, la motivazione che faccia leva soltanto sulla non rispondenza economico-tecnica dell'offerta, si pone in contrasto con i principi di imparzialità e trasparenza degli incanti, poiché consente di fatto una seconda valutazione di merito della proposta dell'opportunità stessa di indire l'incanto.

Infine, il TAR non ritiene applicabili gli artt. 121 e 122 c.p.a. per consentire la stipula del contratto in favore della ricorrente, posto che i rimedi previsti nel codice di rito riguardano esclusivamente la situazione di subentro, laddove nel caso all'attenzione nessun contratto era stato stipulato. Acconsente invece alla richiesta risarcitoria per equivalente, dando disposizioni alla stazione appaltante per la formulazione di una proposta risarcitoria congrua, contestualmente imponendo la rinnovazione degli atti di gara a partire da quello annullato.

Alcune note sulla potestà escludente della stazione appaltante: tra disciplina civilistica e Codice degli appalti pubblici

Tra i numerosi profili di interesse che richiama la pronuncia in commento, spicca la lunga dissertazione circa il rapporto tra la previsione espressa del potere di recesso ad nutum dalle trattative e l'onere di impugnazione immediata del ricorso. In altre parole, la pronuncia ha il merito di chiarire che la riserva di discrezionalità amministrativa, per quanto ampia, non giustifica ex se il sacrificio immotivato della posizione del concorrente aggiudicatario. Anzi, una siffatta previsione, in quanto nulla, non determina la decadenza dall'impugnazione per acquiescenza.

Per arrivare a questo risultato, il TAR fa leva sulle norme del codice civile. Gli articoli di riferimento, sono il 1355 («è nulla l'alienazione di un diritto o l'assunzione di un obbligo subordinata a una condizione sospensiva che la faccia dipendere dalla mera volontà dell'alienante o, rispettivamente, da quella del debitore») ed il 1229 («È nullo qualsiasi patto che esclude o limita preventivamente la responsabilità del debitore per dolo o per colpa grave. È nullo altresì qualsiasi patto preventivo di esonero o di limitazione di responsabilità per i casi in cui il fatto del debitore e dei suoi ausiliari costituisca violazione di obblighi derivanti da norme di ordine pubblico»). Giurisprudenza e dottrina in tema di nullità delle clausole meramente potestative (E. Betti, Teoria del negozio giuridico, Napoli, 1955, specialmente 534 e ss., F. Pecennini, La condizione nei contratti, Padova, 1995, P. Rescigno, Condizione (diritto vigente), in Enciclopedia del diritto, VIII, 762 e ss., Cass. civ., 4 novembre 1994, n. 9062 e Cass. 19 aprile 1982, n. 2412) sono costanti nell'affermare come una potestà unilaterale dispositiva del rapporto negoziale debba sempre essere giustificata da un apprezzabile interesse della parte cui questa è riconosciuta. Non diverso è il pensiero del plesso amministrativo, che a più riprese ha rappresentato come le previsioni escludenti sono in linea generale legittime solo«quando si tratta di clausole poste a garanzia della par condicio o rispondenti ad un particolare interesse dell'amministrazione appaltante» (Cons. St., Sez. VI, 4 maggio 2015, n. 2220, cit., in termini, Cons. St.,Sez. V, 8 settembre 2008, n. 4252 e Cons. St., 28 febbraio 2011, n. 1245). Donde, declinando questo principio al caso in esame, più che alla previsione in sé e per sé, si deve guardare al combinato disposto della norma codicistica con l'art. 3, l. n. 241 del 1990 sull'onere di motivazione del provvedimento, che risulta ulteriormente rafforzato in materia di appalti dall'art. 46, comma I-bis, d.lgs. n. 163 del 2006 (ora sostanzialmente riprodotto all'art. 83, comma 8, d.lgs. n. 50 del 2016). E quindi l'illegittimità della revoca dell'aggiudicazione, più che nella previsione astratta della lex specialis, sta nel modo in cui detta potestà è stata declinata nel caso concreto dalla stazione appaltante. Solo così si può giustificare l'ammissibilità del ricorso. Se si ammettesse solamente, come fa invece il collegio, che la clausola è nulla secondo la norma civilistica, si arriverebbe ad un diverso risultato. Ossia all'applicabilità dell'art. 21-septies, l. n. 241 del 1990 sulla nullità dei provvedimenti amministrativi, cui si riferisce un ben preciso regime processuale ai sensi dell'art. 31, comma 4, c.p.a. (in sintesi: termine decadenziale marginalmente più ampio e rilevabilità officiosa ovvero a mezzo di eccezione senza limiti temporali). In altre parole, più che all'ammissibilità del ricorso per acquiescenza, pare più corretto dover guardare alla sua tempestività, accertando che la censura al bando sia elevata entro 180 giorni dalla relativa pubblicazione. È evidente, infatti, che la norma al vaglio del collegio non fosse autonomamente escludente, donde non generasse alcun interesse diretto all'impugnativa al tempo della pubblicazione; di contro, la lex specialis è diventata lesiva quando è stata esercitata illegittimamente la facoltà di recesso da parte della P.A. In altri termini, ad incardinare l'interesse al ricorso è stato l'uso distorto della clausola potestativa: questa interpretazione collima pure con l'interpretazione data dalla giurisprudenza civile, che afferma come pattuizioni consimili sarebbero legittime solo se rispondenti ad un interesse tutelabile della parta in favore della quale sono predisposte e, pure, se non vengono azionate in maniera abnorme o contraria alla buona fede (cfr. infra). In definitiva, il nodo nevralgico appare quindi quello dell'eventuale rispetto del termine di 180 giorni previsto per invocare la nullità dell'atto amministrativo a monte. Ciò, per vero, implica tuttavia di comprendere se detto termine “lungo” possa essere applicabile in materia di appalti. Pare a chi scrive che la specialità del rito non valga ad incidere sul regime sostanziale dell'atto. Infatti, non solo la l. n. 241 del 1990 distingue le fattispecie di nullità da quelle di annullabilità, ma pure il codice degli appalti definisce “comunque nulle” prescrizioni di gara come quella che ci occupa (art. 83, comma 8, cit.). Senza potersi in questa sede dilungare ulteriormente sul punto, sembra in definitiva che questi siano chiari indici di un regime a se stante – sostanziale quanto processuale – delle nullità amministrative e non alterabile semplicemente in via interpretativa: ove non sia espressamente disposto in senso diverso, il termine di 180 giorni dovrebbe trovare applicazione anche in caso di rito appalti.

Né a diverse conclusioni pare potersi arrivare passando dall'art. 1229 c.c., che porta a considerazioni analoghe in punto di diritto sostanziale, ma che è soggetto al medesimo rito processuale.

Tra revoca negoziale ed autotutela. Profili procedimentali e giurisdizionali

Appurato come non si possano dettare previsioni che giustifichino la revoca ad nutum della stazione appaltante , occorre quindi verificare quali siano gli assi cartesiani sui quali si deve muovere l'azione amministrativa nei casi in cui sia evidente che l'incanto non porterà ad esiti soddisfacenti sotto il profilo tecnico o economico.

La disciplina vigente ratione temporis, non dettava una specifica disciplina circa i casi in cui la P.A. decidesse di non procedere all'aggiudicazione. L'art. 78, comma 1, lett. h), d.lgs. n. 163 del 2006, si limitava, infatti, a stabilire che le ragioni del provvedimento dovessero essere esplicitate – a specificazione forse non necessaria dell'obbligo generalizzato di cui all'art. 3, l.n. 241 del 1990 – per poi essere tempestivamente rese note ai concorrenti ai sensi del successivo art. 79, comma 1. Come noto, invece, l'attuale normativa di riferimento (art. 94, comma II, d.lgs. n. 50 del 2016), consente espressamente di non aggiudicare l'appalto laddove l'offerta che risulterebbe vincitrice non soddisfi gli obblighi in materia ambientale, sociale e del lavoro stabiliti dalla normativa europea e nazionale, dai contratti collettivi o dalle disposizioni internazionali. Si deduce, ex inverso, come in casi in cui sussista un interesse diverso, la mancata aggiudicazione, così come la revoca degli atti di gara, dovrà essere congruamente motivata. In particolare, poi, la revoca sarà soggetta alla disciplina propria degli atti amministrativi di secondo grado. Giova rimarcare come l'art. 94, comma 2, sia pedissequa riproduzione dell'art. 56, par. II della Direttiva 2014/24/UE che, peraltro, lasciava agli Stati membri facoltà di escludere le aggiudicazioni basate sul solo criterio del costo più basso, dando chiara indicazione circa la preferenza del legislatore europeo per il criterio selettivo dell'offerta economicamente più vantaggiosa. Invero, in coerenza con la derivazione eurocomunitaria della disposizione, pare preferibile ritenere che il legislatore abbia inteso riferirsi alla possibilità che l'offerta in sé risulti complessivamente insoddisfacente degli obblighi di legge, a seguito del confronto competitivo (in senso parzialmente difforme si segnala F. GARELLA-M. MARIANI, Il codice dei contratti pubblici. Commento al decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50, Torino, 2016, 249).

Pertanto, da quanto detto si deduce come in definitiva l'assetto attuale del codice dei contratti pubblici non consenta clausole meramente potestative di ripensamento per la stazione appaltante. Il discrimine temporale appare così fondamentale. Prima della stipulazione (ovvero dell'aggiudicazione con inizio di esecuzione, cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, 13 settembre 2016 n. 3865, Corte di Cassazione, Sezioni Unite, 14 maggio 2015 n. 9861, nonché, in senso parzialmente difforme, Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, 20 giugno 2014, n. 14, per la quale, stipulato il contratto, l'unico recesso ammissibile è quello previsto dall'art. 134 d.lgs. n. 163 del 2006, assunto poi successivamente specificato da Consiglio di Stato, Sez. V, 21 aprile 2015, n. 2013) l'amministrazione potrà annullare gli atti di gara o recedere dalla negoziazione solo attraverso provvedimenti amministrativi di secondo grado, adeguatamente motivati. E ciò pure a fronte dell'interesse qualificato dei concorrenti, specie a seguito dell'aggiudicazione, a veder correttamente ponderato l'interesse pubblico rispetto all'affidamento maturato (sul contenuto della motivazione sia tuttavia consentito il rinvio infra). Viceversa, una volta entrati nella fase privatistica (con la stipula o l'abbrivio anticipato dell'esecuzione), i poteri potestativi della stazione appaltante si estinguono perfezionando una situazione giuridica soggettiva perfetta in capo al contraente (ex multis,Consiglio di Stato, Sez. VI, 17 marzo 2010, n. 1554 e Consiglio di Stato, 27 novembre 2013, n. 5993). Ne consegue che i mezzi per veicolare il ripensamento della S.A. saranno solamente quelli civilistici e la cognizione di ogni possibile controversia verrà devoluta al plesso giurisdizionale ordinario.

Di qui le possibili perplessità, nel leggere la pronuncia in commento, circa la possibilità di invocare la disciplina civilistica già per valutare una lex specialis che forse poteva autonomamente essere vagliata con le lenti del diritto amministrativo. Diversa questione, infatti, è quella afferente la violazione del principio generale di buona fede e la correlata responsabilità precontrattuale per la fase negoziata della procedura (cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, 1 febbraio 2013, n. 633). Ad essa certamente si applicano invece tralaticiamente le norme del codice civile.

L'onere motivo specifico in tema di autotutela post aggiudicazione

Il merito principale della sentenza all'attenzione è forse costituito dalla chiarezza concettuale con cui fissa le regole della motivazione in caso di autotutela amministrativa susseguente all'aggiudicazione dell'appalto.

I dati di riferimento rilevanti sono essenzialmente due: interessi in gioco e fattore temporale.

Quanto ai primi, è specificamente prescritta la ponderazione comparativa dell'interesse pubblico rispetto all'affidamento privato. Soppesato il primo ed il secondo, la motivazione deve dare conto delle ragioni di prevalenza di uno rispetto all'altro. Pare potersi dedurre, peraltro, che l'aggiudicatario, quale soggetto individuato cui il provvedimento andrebbe a detrimento, debba necessariamente essere informato e sentito in relazione all'adottando atto. Ciò in ragione del disposto degli artt. 7, 21-quinquiese 21-octies l. n . 241 del 1990 [in termini, F. G. Scoca (a cura di), Diritto amministrativo, Torino, 2014, 343 e ss.]. Il T.A.R. romano ha però cura di specificare come l'interesse del concorrente risulti particolarmente solido, donde ne deduce un onere motivo particolarmente puntuale ed articolato, che si converte nella possibilità di un sindacato piuttosto rigoroso da parte del giudice.

Il secondo dato di rilievo, invece, è quello temporale, che detta lo specifico contenuto della motivazione di cui trattasi. Invero, il presupposto del sillogismo giuridico del giudicante è costituito dal fatto che, con l'aggiudicazione, la stazione appaltante si espone circa l'ammissibilità e la rispondenza alle esigenze quali-quantitative dell'offerta. Genera, in altre parole, affidamento circa la stipula del contratto in capo al competitore. Dunque, a suffragio del provvedimento caducatorio potranno allegarsi soltanto nuovi fatti o l'emersione di interessi pubblici non prima ponderabili ovvero, ancora, una nuova valutazione dell'interesse originario. Su quest'ultimo caso occorre tuttavia appuntare l'attenzione. Infatti, il giudice, aderendo ad una precedente sentenza del Consiglio di Stato (Sez. V, 19 maggio 2016, n. 2095), afferma la radicale impossibilità di un differente e/o sopravvenuto apprezzamento della prestazione messa a gara sulla base di una valutazione ora per allora. In caso, infatti, contrario verrebbe lesa la par condicio e l'affidamento in ordine alla stabilità della procedura nel suo complesso.

In definitiva, dunque, la pronuncia in commento sembra ammettere la possibilità di revoca basata su una nuova ponderazione dell'offerta presentata, ma non una che si fondi sulla rivalutazione della convenienza della gara nel suo complesso.

V'è tuttavia da chiedersi quanto questo assunto possa essere compatibile con la disciplina attualmente vigente, sopra richiamata, che consente la mancata aggiudicazione, una volta indetta la gara, solo per ben specifiche ragioni. In altre parole, pare che alla luce del rimaneggiamento legislativo, possa sostenersi che nemmeno la rivalutazione della singola offerta sia ammissibile con la stessa facilità con cui lo era nel regime previgente. Sarebbe, infatti, maggiormente coerente ammettere la revoca per gli stessi casi nei quali è possibile non addivenire all'aggiudicazione. Ciò ovviamente, a patto di ritenere tassativa l'elencazione codicistica di cui all'art. 94, comma II, d.lgs. n. 50/2016, concludendo non sia ammissibile omettere l'aggiudicazione se non nei casi specificamente indicati. Ove la si considerasse, invece, quale semplice catalogazione ex lege di interessi qualificati che giustificano la mancata conclusione dell'incanto senza necessità di giustificazioni ulteriori, ne si dedurrebbe un semplice onere motivo aggravato nei casi non espressamente contemplati. Ma, sicuramente più in linea con lo spirito che ha animato il legislatore – europeo prima che nazionale – è ritenere tendenzialmente tassativa l'elencazione dell'art. 94. Infatti, pure l'art. 56, par. II, Direttiva 2014/24/UE da cui la norma interna deriva, elenca in maniera analitica gli interessi meritevoli di tutela in sede di aggiudicazione, attraverso il richiamo interno all'art. 18, comma II. E ciò collima con la peculiare resistenza che, alla luce della giurisprudenza europea, si deve assegnare all'affidamento privato nelle procedure di gara (il legittimo affidamento è, infatti, ritenuto principio supremo dell'ordinamento eurocomunitario, cfr. ex multis,Tribunale dell'Unione europea, sentenza 20 novembre 2002, causa T-251/00, Lagardère v. Commissione, nonché Tribunale dell'Unione europea, sentenza 26 gennaio 1995, cause riunite T-90/91 e T-62/92, De Compte; per l'inquadramento sistematico, è sempre valido invece A. Damato, Revoca di decisione illegittima e legittimo affidamento nel diritto comunitario, in Il Diritto dell'Unione Europea, n. II, 1999).

In definitiva, pertanto, la combinazione dei fattori tempo-aggiudicazione, pare essenziale nel consolidare una posizione estremamente rafforzata in capo al concorrente vincitore e, di converso, vincola in maniera stringente le possibilità di revisione della propria posizione da parte della stazione appaltante. La quale dovrà essere ben consapevole – anche qui motivando adeguatamente – delle conseguenze nell'indizione di una procedura di incanto. I fattori tecnico-economici che originariamente hanno indotto alla gara, infatti, non possono essere soggetti a revisione se non nel caso sopravvengano circostanze o interessi pubblici anteriormente non prefigurabili.

Affidamento giudiziale e risarcimento per equivalente: i problemi di bis in idem

L'ultima porzione della pronuncia all'esame che concorre a disegnare un quadro complessivo nelle vicende di revoca dell'aggiudicazione è quella riferita al risarcimento dei danni per equivalente.

Il nodo nevralgico della sentenza, quanto a questo profilo, concerne l'impossibilità di far conseguire la stipula contrattuale al ricorrente. Diversamente da quanto avviene in caso di subentro, infatti, il giudice non ritiene di poter concedere all'impresa il bene della vita cui ambisce. Ciò fa, tuttavia, principalmente sulla base del fatto che la ricorrente non ha steso una specifica richiesta in punto.

In una ottica de iure condendo, tuttavia, v'è da domandarsi cosa avverrebbe nel caso tale istanza fosse stata formulata. Invero, non paiono potersi invocare, come correttamente rappresentato dal collegio giudicante, gli artt. 121, 122 e 124 c.p.a., che disciplinano diversa fattispecie. Verrebbe allora da chiedersi se possa trovare spazio una pronuncia ex art. 31, comma 3, c.p.a. Si potrebbe infatti sostenere, proprio sulla scorta delle argomentazioni emerse quanto alla necessità di motivazione degli atti di secondo grado, come la P.A. si sia in buona sostanza autovincolata esaurendo le possibili valutazioni di merito e gli accertamenti tecnici una volta determinatasi nell'aggiudicazione. Prefigurare una tale attività surrogatoria del giudice, cionondimeno, pare oltremodo arduo. In primo luogo, poiché il legislatore, quando ha voluto prevedere la possibilità che il G.A. determini la stipula del contratto in luogo dell'amministrazione, lo ha fatto espressamente proprio negli articoli sopra richiamati. In secundis, potrebbero residuare ulteriori valutazioni successive all'aggiudicazione e non ancora espresse dalla stazione appaltante. Infine, non è affatto sicuro – quantomeno in linea generale – che la rivalutazione delle ragioni di esercizio dell'autotutela non porti al medesimo risultato censurato processualmente attraverso l'estrinsecazione legittima della motivazione.

Proprio in relazione a quest'ultimo profilo, emerge tuttavia un aspetto non specificamente trattato nella pronuncia, ossia l'interferenza tra attività amministrativa consequenziale l'annullamento ed il risarcimento per equivalente disposto dal giudice a seguito dell'impossibilità di far conseguire il contratto alla ditta. L'espresso ordine del TAR, infatti, è quello di rinnovare e proseguire la procedura di incanto a partire dall'atto annullato. Ne consegue che la stazione appaltante ben potrebbe addivenire alla stipula del contratto, una volta che, res melius perpensa, ritenesse confacente l'offerta di gara sotto il profilo tecnico ed economico (magari perché nelle more è mutata la contingenza fattuale). Nel frattempo, cionondimeno, si sarebbe vista costretta al pagamento del risarcimento. O, cosa peggiore, potrebbe preferire forme opache di equità che facciano conseguire l'affidamento pure laddove questo non sarebbe auspicabile onde evitare di incorrere nel risarcimento stesso e, conseguentemente, in responsabilità erariale dei funzionari coinvolti. In altre parole, quindi, la comminatoria del risarcimento per equivalente pure laddove l'annullamento dell'atto e la conseguente – necessaria – prosecuzione della procedura potrebbe far conseguire il bene della vita ambito dal privato, rischia di ingenerare pericolose interferenze tra gli strumenti. Pericolose tanto dal punto di vista eminentemente giuridico, poiché potrebbero veicolare un bis in idem sostanziale con indebita duplice locupletazione da parte del privato, quanto da quello della tutela dell'interesse pubblico sotteso alla procedura, non necessariamente garantito. La soluzione prospettabile è, tuttavia, altrettanto difficile. La previsione in sentenza di una subordinazione del mezzo risarcitorio pecuniario rispetto al mancato affidamento finale, se da un lato evita duplicazioni indebite del ristoro, non mitiga del tutto la possibilità che la condanna pendente risulti un facile grimaldello per deviare l'amministrazione dall'interesse pubblico primario. Questo è, tuttavia, il prezzo minore da pagare, posto che innanzi l'atto illegittimo la conseguenza necessitata è il suo annullamento – che determina giocoforza la prosecuzione della procedura – e, sussistendone i presupposti da accertare caso per caso, pure il risarcimento del danno.

Forse, in definitiva, eventuali pericoli di indebite locupletazioni potrebbero essere fugati attraverso l'azione di ottemperanza al giudicato: una volta conseguito il bene della vita primario, l'eventuale azione del privato per la somma pecuniaria sarebbe rigettata a' mente dell'art. 34, comma V, c.p.a. Nel caso contrario – qualora il privato richieda la somma prima della stipula del contratto – non resterebbe all'amministrazione che sospendere il pagamento sino alla propria determinazione definitiva in ordine all'incanto.

In conclusione

La pronuncia in commento offre numerosi spunti di riflessione e rende risposte chiare a diversi quesiti di rilievo. Innanzitutto, chiarisce quale sia il potere dell'amministrazione nel redigere clausole della lex specialis afferenti la potestà di revoca degli atti di gara. Non deve, infatti, ritenersi legittima alcuna previsione che consenta ripensamenti immotivati della parte pubblica.

Un ulteriore elemento su cui appuntare l'attenzione è quindi il regime processuale di clausole siffatte: affette da nullità ma, proprio per questo, da impugnarsi nel termine lungo di cui all'art. 31, comma 4, c.p.a. Fermo restando come l'interesse al ricorso risulti incardinato al momento dell'esercizio della clausola e non, direttamente, al momento della relativa pubblicazione nel bando o comunicazione nella lettera d'invito.

Se quindi è necessaria la motivazione per ogni revoca, questa deve seguire le regole proprie degli atti di secondo grado. Dunque saggiare le posizioni di interesse contrapposte ed argomentare puntualmente per quali ragioni deve essere ritenuta preponderante la posizione dell'amministrazione. Con ciò garantendo però il contraddittorio procedimentale ed avendo attenzione alla posizione dell'aggiudicatario, che risulta particolarmente rafforzata.

Infine, non appare del tutto convincente la soluzione offerta quanto alla questione del risarcimento per equivalente. Occorre invero avere rammentare come la possibilità che a seguito della rinnovazione/prosecuzione della procedura il ricorrente ottenga il bene della vita crei il rischio di generare indebitamente una duplice utilità per il privato, assommando il risarcimento in forma specifica a quello per equivalente. Al di là dei mezzi di tutela prospettabili a posteriori, è in definitiva auspicabile una maggiore puntualizzazione delle pronunce giurisdizionali in punto. Ciò aiuterebbe, in primis, le amministrazioni, guidandole sul da farsi e prevenendo possibili pressioni esterne nella prosecuzione della procedura d'incanto.

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