Legittimazione processuale speciale dell'ANAC

Marco Lipari
04 Luglio 2017

L'art. 52-ter d.l. n. 50 del 2017, introdotto dalla legge di conversione l. 21 giugno 2017, n. 96 ha immesso nell'art. 211 d.lgs. n. 50 del 2016 del Codice una disciplina “sostitutiva” delle contestatissime raccomandazioni vincolanti, soppresse dal decreto correttivo n. 56 del 2017, che corrisponde a quella suggerita dal Consiglio di Stato.
Inquadramento

Contenuto in fase di aggiornamento autorale di prossima pubblicazione

L'art. 52-ter d.l. n. 50 del 2017, introdotto dalla legge di conversione l. 21 giugno 2017, n. 96 ha immesso nell'art. 211 d.lgs. n. 50 del 2016 del Codice una disciplina “sostitutiva” delle contestatissime raccomandazioni vincolanti, soppresse dal decreto correttivo n. 56 del 2017, che corrisponde a quella suggerita dal Consiglio di Stato.

Questa è ispirata dall'art. 21-bis l. n. 287 del 1990, incentrato sulla legittimazione “speciale” dell'Autorità Antitrust, in materia di provvedimenti amministrativi lesivi delle norme a tutela della concorrenza (per un'aggiornata e completa rassegna delle principali questioni applicative, si rinvia a DIMITRIO G. e FILICE M., I poteri di competition advocacy dell'AGCM ex art. 21 bis, l. n. 287 del 1990, in Giornale Dir. Amm., 2017, 2, 262).

Le regole sono basate sui seguenti capisaldi:

A) Attribuzione all'ANAC di una legittimazione processuale espressa, concernente la materia dei contratti pubblici, “di rilevante impatto”.

B) Previsione di un procedimento prodromico all'esercizio dell'azione, scandito in tre successive fasi, la prima delle quali si conclude con un parere motivato, indicante le violazioni del codice riscontrate dall'Autorità.

C) Sottoposizione del giudizio proposto dall'ANAC dinanzi al TAR al rito speciale di cui all'art. 120 c.p.a.

D) Rinvio ad un apposito regolamento attuativo dell'ANAC, inteso a individuare i casi in cui l'Autorità ha la facoltà (o il dovere) di esercitare il potere di azione.

L'opzione compiuta dal legislatore va ricondotta al potere di advocacy (per un'accurata analisi della nozione, si v. M. D'ALBERTI, I poteri di advocacy delle autorità di concorrenza in prospettiva comparata, in Concorrenza e mercato, 2013, 871): attribuzione ad un soggetto pubblico (generalmente un'Autorità indipendente) di una specifica funzione di impulso, proposta e sollecitazione.

La nuova disciplina ha capovolto il ruolo dell'ANAC. Al cospetto di un provvedimento illegittimo di una stazione appaltante, l'Autorità emana, semplicemente, un parere motivato: nel caso in cui la stazione appaltante scelga di non conformarsi a tale valutazione giuridica, l'unico effetto previsto consiste nel facoltizzare l'ANAC a proporre l'azione in giudizio. L'ANAC non è più il soggetto che difende in giudizio la propria determinazione, ma diventa la parte che attacca nel processo i provvedimenti illegittimi delle stazioni appaltanti.

Il confronto con l'art. 21-bis della legge n. 287 del 1990

Gli aspetti di immediata differenza tra l'art. 21-bis l. n. 287 del 1990 e la nuova disciplina dell'art. 211, commi 1-bis, 1-ter e 1-quater, d.lgs. n. 50 del 2016 sono numerosi.

Trattandosi di commi aggiuntivi, inseriti in un articolo dedicato al “precontenzioso”, le innovazioni di cui all'art. 211 d.lgs. n. 50 del 2016 omettono una specifica rubrica, come quella dell'art. 21-bis l. n. 287 del 1990 (anche il citato articolo 52-ter adotta la tecnica deprecabile della rubrica muta, che indica, cripticamente, le “modifiche al codice dei contratti pubblici”, senza nemmeno fare lo sforzo di indicare l'articolo oggetto di innovazione).

L'elenco degli atti impugnabili dall'ANAC comprende anche i bandi di gara, ma non menziona i regolamenti.

La legittimazione dell'ANAC è riferita all'impugnazione degli atti elencati e non alla proposizione del ricorso “contro” tali provvedimenti.

Nell'art. 211 si limita il potere di azione dell'ANAC, mediante il riferimento alla nozione dei “contratti di rilevante impatto”.

Sotto il profilo soggettivo, nell'art. 211 d.lgs. n. 50 del 2016 si fa riferimento alla locuzione “qualsiasi stazione appaltante”, anziché a quella di “qualsiasi amministrazione pubblica”.

Il parametro oggettivo è individuato nella violazione delle norme in materia di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture, anziché alle “norme a tutela della concorrenza e del mercato”. Manca il richiamo ad una nozione funzionale o finalistica.

Per l'art. 211, comma 1-ter,d.lgs. n. 50 del 2016 a differenza dell'art. 21-bis, l. n. 287 del 1990 si prevede che la violazione debba presentare il requisito della gravità.

Il riferimento alla violazione del codice dei contratti pubblici delimita l'ambito di operatività della norma e pone un problema di coordinamento con la più ampia dizione riguardante la disciplina dei contratti pubblici di cui al comma 1-bis.

Il termine di sessanta giorni per l'emanazione del parere motivato decorre dalla notizia della violazione. L'art. 21-bis, l. n. 287 del 1990 pur prevedendo lo stesso termine non ne definisce la decorrenza.

Nell'art. 211 è prevista la comunicazione del parere alla stazione appaltante.

Il termine per la conformazione al parere motivato è quello “assegnato dall'ANAC, comunque non superiore a sessanta giorni”. Nell'art. 21-bis, invece, il termine è stabilito rigidamente in sessanta giorni.

Nell'art. 211 non si prevede che il ricorso debba essere presentato “tramite l'Avvocatura dello Stato”, come stabilito, invece dall'art. 21-bis.

L'art. 211, comma 1-ter, d.lgs. n. 50 del 2016 prevede che «si applica l'articolo 120 del codice del processo amministrativo», mentre l'art. 21-bis, in modo più confuso, richiama la disciplina di cui al Libro IV, Titolo V, del decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104.

Si introduce, all'ultimo comma, una previsione che non trova riscontro nell'art. 21-bis: «l'ANAC con proprio regolamento può individuare i casi o le tipologie di provvedimenti in relazione ai quali esercitare i poteri di cui ai commi 1-bis e 1-ter».

L'unica differenza di specifico rilievo tra il testo proposto dalla Commissione Speciale e quello varato dal Parlamento consiste nella previsione di un regolamento attuativo dell'ANAC, in luogo delle linee guida ipotizzate dall'organo consultivo.

Il fondamento della legittimazione processuale dell'ANAC

Per chiarire la base giustificativa del potere di azione dell'ANAC è utile richiamare i risultati cui è pervenuta la giurisprudenza riguardo all'art. 21-bis. Per una prima tesi il riferimento alla “tutela della concorrenza”, rimanda a una giurisdizione di diritto oggettivo, correlata alla salvaguardia di un interesse generale, assegnando all'Autorità una legittimazione non solo speciale, ma straordinaria, o eccezionale, disancorata dalla protezione di una situazione giuridica soggettiva sostanziale (TAR Lazio, Roma, Sez. II, 6 maggio 2013, n. 4451).

In senso opposto, la dottrina (SANDULLI M.A., Il problema della legittimazione ad agire in giudizio da parte delle autorità indipendenti, in www.giustizia-amministrativa.it) chiarisce che il nuovo potere dell'AGCM deve essere visto, più che come potere di azione nell'interesse generale al rispetto della legge, come azione a tutela di una situazione giuridica differenziata e qualificata. La disposizione ha riconosciuto (o creato) in capo all'AGCM la titolarità di una posizione sostanziale di interesse legittimo, nominato e tipico, assistita da un peculiare potere di azione in giudizio (TAR Lazio, Roma, Sez. II, 6 maggio 2013, n. 4451; TAR Lazio, Roma, Sez. III, 15 marzo 2013, n. 2720; Cons. St., Sez. V, 30 aprile 2014, n. 2246; TAR Lombardia, Milano, Sez. I, 8 luglio 2016, n. 1356; TAR Calabria, Catanzaro, Sez. I, 29 giugno 2016, n. 1373). Tale speciale legittimazione costituisce il completamento del potere riconosciuto all'AGCM ai sensi dell'art. 15 del Reg. CE n. 3/2001 e la trasposizione interna della procedura di infrazione prevista dalla normativa dell'Unione ai sensi dell'art. 258 T.F.U.E.

Il sistema contempla altre ipotesi di ricorsi proposti da soggetti pubblici: per esempio la Banca d'Italia contro certe delibere delle banche (art. 24 del d.lgs. 1 settembre 1993, n. 385), oppure l'impugnazione, da parte del Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca degli statuti e dei regolamenti delle università, ai sensi dell'art. 6 l. n. 168 del 1989 e dellart. 2, comma 7, l. 20 dicembre 2010, n. 240. Nello stesso si pone la norma che attribuisce all'Autorità di regolazione dei trasporti un potere di ricorso al giudice amministrativo, in materia di provvedimenti concernenti il rilascio di licenze taxi (art. 37, comma 2, lett. n), d.l. 6 dicembre 2011, n. 201).

Il Consiglio di Stato ha spiegato la ratio dell'art. 21-bis anche in funzione della “particolare rilevanza dell'interesse pubblico in gioco”. Parte della dottrina (MATTARELLA B.G., I ricorsi dell'autorità antitrust al giudice amministrativo, in Giornale Dir. Amm., 2016, 3, 291) dubita i che l'interesse pubblico alla concorrenza sia necessariamente “più importante” di altri, e che esso goda di una tutela rafforzata. Piuttosto, si dice che «la disposizione può essere spiegata semplicemente facendo riferimento alla natura dell'interesse alla concorrenza: un interesse debole perché diffuso, di quelli che frequentemente il legislatore affida alle cure di un'autorità indipendente, o perfino “adespota”; spesso divergente da quello della singola amministrazione».

Queste considerazioni sono estensibili al settore dei contratti pubblici? In tale ambito è evidente la rilevanza delle posizioni individuali. È più difficile ipotizzare l'esistenza di interessi totalmente “adespoti”, non giustiziabili attraverso le vie ordinarie. Semmai, uno dei “mali” del settore dei contratti è costituito proprio dall'eccesso di contenzioso.

La legittimazione speciale dell'ANAC potrebbe determinare un fenomeno di “sostituzione processuale”, piuttosto che di personificazione di interessi diffusi. Spetterà all'Autorità verificare se restringere l'esercizio del proprio potere di azione, escludendolo nei casi in cui la proposizione del ricorso potrebbe apparire come una forma di “supplenza” alla inerzia delle iniziative spettanti ai soggetti direttamente interessati.

La riforma del 2017 sembra segnare un inedito passaggio dal precontenzioso ad una sorta di supercontenzioso, di pluscontenzioso o di extracontenzioso, perché, potenzialmente, si dilata notevolmente l'ambito entro cui potranno aprirsi controversie dinanzi al giudice, solo in parte arginabili attraverso il meccanismo preventivo del parere motivato.

I dubbi di legittimità costituzionale

Sono stati prospettati alcuni dubbi di legittimità costituzionale dell'art. 21-bis. Sulla compatibilità con l'art. 103 Cost. si è pronunciato il TAR Lazio, affermando che, l'intento della norma non sia quello di limitare l'introduzione di ipotesi di giurisdizione oggettiva, ma solo di definire uno standard di protezione minimo in virtù del quale sia assicurata una tutela davanti al giudice amministrativo (TAR Lazio, Roma, Sez. III, 15 marzo 2013, n. 2720). I dubbi diminuiscono ulteriormente se si accoglie la tesi della giurisdizione di tipo soggettivo.

La Corte costituzionale, poi, ha respinto le censure secondo cui l'art. 21-bis avrebbe introdotto nel processo amministrativo una figura assimilabile a quella del pubblico ministero, in asserita palese violazione dell'art. 113, comma 1, Cost. (Corte cost., 14 febbraio 2013, n. 20).

Un'ulteriore questione è legata al fatto che la previsione dell'art. 21-bis legittima l'AGCM ad impugnare anche gli atti adottati dagli enti territoriali e delle Regioni. Si tratterebbe, allora, di una funzione di controllo assai simile a quello previsto dall'abrogato art. 125, comma 1, della Cost., ora non più vigente, per effetto della riforma costituzionale del 2001 (Corte cost., 14 febbraio 2013, n. 20). La giurisprudenza ha però fermamente smentito che l'art. 21-bis possa aver introdotto un “nuovo e generalizzato controllo di legittimità”. (Corte cost., 14 febbraio 2013, n. 20; Cons. St., Sez. V, 30 aprile 2014, n. 2246).

Pur con diverse criticità, il modello previsto dall'art. 211, al pari di quello indicato delineato dall'art. 21-bis, risulta quindi compatibile con il quadro normativo di riferimento e con i principi costituzionali del sistema di tutela giurisdizionale.

L'ambito oggettivo e soggettivo di applicazione del nuovo istituto: l'intento limitativo del legislatore

Quali sono i casi in cui l'ANAC ha il potere (o il dovere) di agire dinanzi al giudice amministrativo? Nell'art. 211, emergono tre previsioni espresse, destinate a restringere i confini del potere dell'Autorità:

  • il rilevante impatto del contratto;
  • la gravità della violazione;
  • l'ulteriore possibilità di definire i margini di applicazione dell'istituto riservata alle determinazioni dell'ANAC.

Un aggiuntivo elemento di compressione del potere di azione dell'ANAC sembra rappresentato dal riferimento alle sole violazioni del codice. Nessuna di queste restrizioni è presente nell'art. 21-bis e non era contemplata dall'art. 211, comma 2, d.lgs. n. 50 del 2016 con riguardo alle raccomandazioni vincolanti.

L'effettivo indebolimento del ruolo dell'ANAC è duplice:

scompaiono le raccomandazioni vincolanti, sostituite dalla mera legittimazione al ricorso; il raggio di azione del potere è oggettivamente molto più contenuto, già nella disposizione legislativa.

La logica è quella di evitare un intervento concreto troppo invasivo dell'Autorità nelle singole procedure di gara, anche allo scopo di assicurare la “sostenibilità” gestionale e amministrativa del contenzioso. Probabilmente, l'obiettivo è quello di attivare non più di 20 ricorsi all'anno, in misura non troppo dissimile dalle cifre dei ricorsi ex art. 21-bis proposti dall'AGCM.

Sotto il profilo soggettivo, il riferimento compiuto dall'art. 211 d.lgs. n. 50 del 2016 ai provvedimenti di qualsiasi stazione appaltante non risulta in linea con la previsione dell'art. 21-bis, incentrato sulla dizione “qualsiasi amministrazione pubblica”. La formula è più ampia, anche se, in concreto, non sembra destinata a provocare particolari problemi applicativi. Occorre fare riferimento, infatti, all'ampia e complessa nozione di cui alla lett. o) del codice secondo cui si intende per «stazione appaltante», le amministrazioni aggiudicatrici di cui alla lett. a) gli enti aggiudicatori di cui alla lett. e), i soggetti aggiudicatori di cui alla lett. f) e gli altri soggetti aggiudicatori di cui alla lett. g). Le lettere richiamate, a loro volta, prevedono, analiticamente, le definizioni di «amministrazioni aggiudicatrici», «enti aggiudicatori», «soggetti aggiudicatori» e «altri soggetti aggiudicatori», i soggetti privati tenuti all'osservanza delle disposizioni del presente codice.

I contratti di rilevante impatto

Il comma 1-bis, fa riferimento ai soli contratti di rilevante impatto. La formula è generica e del tutto insolita nel nostro linguaggio giuridico: probabilmente, lo scopo del legislatore è quello di lasciare un ampio margine discrezionale all'ANAC, nel regolamento di cui al comma 1-quater e nella decisione concreta di qualificare un contratto come meritevole di particolare attenzione. Va evidenziato, però, il rischio che la previsione di questo ambiguo criterio selettivo possa generare incertezze applicative.

Non è chiaro se la locuzione “di rilevante impatto”, riguardi tutti i provvedimenti astrattamente censurabili, oppure si riferisca solo a quelli non aventi carattere generale. È preferibile ritenere che l'espressione riguardi tutti i provvedimenti, ancorché, per gli atti “generali”, la rilevanza di “impatto” potrebbe ritenersi spesso in re ipsa, considerata la maggiore influenza sulle dinamiche complessive del mercato.

L'assenza di un potere di azione relativo alla fase di esecuzione dei contratti

Poiché l'unica azione disciplinata da due commi è proponibile dinanzi al giudice amministrativo, l'ANAC non può intervenire per denunciare violazioni che incidono sulla fase di esecuzione del contratto.

La scelta del legislatore potrebbe apparire razionale, considerando le difficoltà di sindacare l'attuazione delle prestazioni contrattuali e l'affidamento delle parti che hanno stipulato l'accordo. Tuttavia, l'attenzione dell'ANAC per la fase esecutiva del rapporto è tutt'altro che marginale. L'interesse pubblico al contrasto alle illegittimità potrebbe emergere in modo più pressante, considerando l'assenza di soggetti interessati ad agire in giudizio. Si pensi al caso in cui, in corso di esecuzione dell'appalto, la stazione appaltante accordi una revisione del corrispettivo palesemente non dovuta o attribuisca altri vantaggi economici all'appaltatore.

L'elenco degli atti impugnabili: i bandi di gara; l'omessa previsione dei regolamenti

L'elencazione degli atti impugnabili dall'ANAC fa riferimento ai bandi di gara e agli altri atti generali, insieme ai provvedimenti “singolari”. Rispetto all'art. 21-bis, assume rilievo la menzione aggiuntiva dei bandi di gara e l'omissione dei regolamenti.

Il riferimento specifico ai bandi di gara potrebbe ritenersi superfluo, considerando che l'elenco indica già gli atti generali e i provvedimenti: i bandi appartengono necessariamente all'una o all'altra categoria. Tra gli atti generali dovrebbero rientrare, peraltro, a stretto rigore, anche i regolamenti adottati dalle stazioni appaltanti, indipendentemente dalla loro concreta attuazione. Ma la disposizione, a differenza dell'art. 21-bis, non li considera espressamente.

Non si vede perché la contestazione degli atti regolamentari sia invece consentita all'Antitrust dall'art. 21-bis. Risulta palese l'utilità di un intervento preventivo dell'ANAC, orientato all'annullamento immediato di atti suscettibili di reiterata applicazione e, per questo, più “pericolosi”.

Pertanto, pure i regolamenti illegittimi possono essere impugnati, anche prescindendo dalla esistenza di un atto applicativo. Si dovrebbe valorizzare, in tal senso, la ratio della disposizione e l'argomento secondo cui i regolamenti sono, in ultima analisi, tipi qualificati di atti generali.

Gli appalti e gli altri tipi contrattuali, le concessioni; i contratti esclusi dalla disciplina del codice. i contratti attivi

Il comma 1-bis, contempla i “contratti pubblici”, omettendo di considerare espressamente anche le “concessioni”. Si tratta di una carenza priva di conseguenze, perché non vi sono ragioni logiche per limitare il potere dell'ANAC in questa direzione.

Un problema di un certo interesse riguarda l'applicabilità del nuovo istituto ai “contratti esclusi”, aventi ad oggetto lavori, servizi e forniture, nonché ai contratti attivi. L'affidamento di tali contratti, ai sensi dell'art. 4 del codice avviene nel rispetto dei principi di economicità, efficacia, imparzialità, parità di trattamento, trasparenza, proporzionalità, pubblicità, tutela dell'ambiente ed efficienza energetica.

Il comma 1-bis fa riferimento a tutti i contratti relativi a lavori servizi o forniture, indipendentemente dall'assoggettamento al codice. Il comma 1-ter, poi, ha riguardo alle violazioni del codice, senza riferirsi ai soli contratti in materia di lavori servizi e forniture. L'aporia tra i due commi complica il quadro, poiché il comma 1-ter in parte restringe e in parte amplia il raggio di azione della norma. La soluzione più plausibile è che anche i contratti attivi e i contratti esclusi rientrino nell'ambito applicativo della nuova disciplina.

Il parametro di legittimità delle censure deducibili dall'ANAC

I commi 1-bis e 1-ter dell'art. 211, non ben coordinati, pongono alcune questioni interpretative in ordine alla individuazione del parametro su cui misurare l'illegittimità dei provvedimenti impugnabili.

Questa deve riguardare la disciplina dei contratti pubblici (comma 1-bis). Il comma 1-ter, invece, fa riferimento alle violazioni (gravi) “del presente codice”, ossia, in senso letterale, unicamente al contrasto con le sole disposizioni contenute nel corpus del codice. Tale formula avrebbe la conseguenza di escludere le violazioni:

  • di tutte le fonti, anche legislative - estranee al codice;
  • riferite a norme di livello diverso, ancorché richiamate, direttamente o indirettamente, dal codice;
  • concernenti il diritto UE o a norme costituzionali.

Un parametro di legittimità così circoscritto, poi, potrebbe condurre ad escludere la proponibilità di questioni di legittimità costituzionale od europea. Nel contrasto fra le dizioni dei due commi sembra preferibile, tuttavia, seguire un'interpretazione omogenea, che consideri complessivamente tutta la disciplina in materia di contratti pubblici, indipendentemente dalla sua collocazione formale all'interno del decreto legislativo n. 50 del 2016.

La “grave” violazione del codice; i vizi di incompetenza e di eccesso di potere?

Non è agevole stabilire in che cosa consista la “grave violazione”. Il regolamento ANAC avrà certamente cura di chiarire molti degli aspetti problematici della nozione, riducendone l'elasticità. In prima approssimazione, si potrà fare riferimento alle gravi violazioni di cui all'art. 121 c.p.a. Ma potranno essere considerate, in una prospettiva più larga, tutte le violazioni di norme espressione di regole del diritto europeo e recepite nel codice.

L'indicazione letterale incentrata sulla “violazione del codice” potrebbe portare alla inammissibilità delle censure di eccesso di potere e di incompetenza. Questa soluzione, del resto risulta largamente accreditata nella ricostruzione interpretativa dell'art. 21-bis. Il punto merita di essere approfondito.

Nella materia dei contratti pubblici la rilevanza delle cause di annullabilità diverse dalla violazione di legge è sempre più netta. Il riparto delle competenze attiene all'ordinato svolgimento delle funzioni delle stazioni appaltanti: si pensi all'attenzione dell'ANAC per l'organizzazione delle amministrazioni stazioni appaltanti e dei compiti del responsabile, anche in chiave anticorruzione. Pertanto, l'incompetenza, per quanto circoscritta, dovrebbe assumere rilievo.

L'eccesso di potere, seppure ristretto nella disciplina dei contratti pubblici, continua ad avere uno spazio significativo nel contenzioso. L'ANAC, in più occasioni, ha sottolineato l'esigenza che le stazioni appaltanti procedano attraverso adeguate ponderazioni di interessi. Tutto il sistema delle linee guida, inoltre, è caratterizzato dalla discrezionalità delle stazioni appaltanti, subordinato, però, all'obbligo di adeguata e ragionevole motivazione della scelta compiuta.

Pertanto, pare preferibile ritenere che il potere di azione dell'ANAC non sia limitato alla “violazione di legge” in senso stretto. Resta però da verificare in concreto, se tali illegittimità possano effettivamente superare la soglia della gravità.

Il procedimento preliminare all'esercizio dell'azione

Il comma 1-ter ricalca la disciplina di cui al comma 2 dell'art. 21-bis l. n. 287 del 1990: nei casi in cui una pubblica amministrazione abbia adottato un atto reputato lesivo delle norme antitrust, l'AGCM emana, entro sessanta giorni, un parere in cui indica gli specifici profili delle violazioni riscontrate. Se l'amministrazione intimata non si conforma nei sessanta giorni successivi alla comunicazione del parere, l'Autorità può ricorrere in giudizio entro trenta giorni.

L'art. 211, comma 1-ter, d.lgs. n. 50 del 2016 contiene due importanti differenze:

- la decorrenza del termine per l'emissione del parere motivato è collegata espressamente alla “notizia della violazione”;

- il termine spettante alla stazione appaltante per conformarsi al parere in seguito alla sua comunicazione, non è rigidamente stabilito dalla norma, ma è quello “assegnato dall'ANAC, comunque non superiore a sessanta giorni”.

L'iter descritto dalla disposizione si sviluppa nelle seguenti tappe:

1. La notizia della grave violazione del codice acquisita dall'ANAC;

2. L'adozione e la successiva comunicazione alla stazione appaltante del parere motivato che “reca specificamente i vizi di legittimità riscontrati”;

3. La determinazione - anche tacita - con cui la stazione appaltante stabilisce di adeguarsi, o meno, al parere;

4. La decisione dell'ANAC di proporre ricorso al TAR, qualora sia accertata la mancata conformazione al parere.

La disciplina legislativa, a fronte della innegabile complessità della sequenza in esame, apre una pluralità di interrogativi.

A) L'iter descritto dal comma 1-ter va applicato in tutti i casi in cui l'ANAC intenda proporre ricorso, o costituisce una mera opzione di cui l'Autorità può liberamente avvalersi in alternativa al ricorso “diretto”?

B) Qual è la natura giuridica del procedimento?

C) L'ANAC è obbligata ad agire in giudizio, o, quanto meno, ad attivare il procedimento preliminare di cui al comma 1-ter?

D) Quali sono la natura giuridica, il contenuto e gli effetti del parere motivato?

E) Quali obblighi scaturiscono in capo alla stazione appaltante in seguito alla comunicazione del parere motivato?

La fase preliminare è condizione di ammissibilità del ricorso?

È dubbio se sia ammissibile un ricorso diretto contro il provvedimento adottato dall'amministrazione, non preceduto dall'adozione del parere motivato. Il testo dell'art. 211, così come l'art. 21-bis, non è univoco. La discrasia tra i commi 1-bis e 1-ter potrebbe giustificare la conclusione secondo cui la disposizione contempli un'ipotesi “generale” di legittimazione al ricorso, non subordinata a particolari regole procedurali (comma 1-bis), insieme ad una ipotesi speciale (le gravi violazioni del codice di cui al comma 1-ter), contrassegnata – essa sola – dalla previsione del passaggio prodromico attraverso il parere motivato.

La tesi sostenuta dall'AGCM, con riguardo all'art. 21-bis, è ancora più radicale: la norma consentirebbe all'Autorità di scegliere sempre, liberamente, tra l'azione ordinaria immediata e l'azione veicolata dalla particolare procedura preliminare conclusa con il parere motivato. Tuttavia, la soluzione ora prevalente in giurisprudenza ha qualificato il parere quale mero (ma indispensabile) presupposto per l'ammissibilità del ricorso (TAR Lazio, Roma, Sez. III, 15 marzo 2013, n. 2720; TAR Lazio, Roma, 27 maggio 2015, n. 7546; TAR Lazio, Roma, Sez. II, 6 maggio 2013, n. 4451; Cons. St., Sez. VI, 28 gennaio 2016, n. 323).

Il tenore letterale della norma instaurerebbe un rapporto di perfetta coincidenza oggettiva fra i suoi primi due commi. Inoltre, la ratio legis della norma è volta a favorire la dialettica fra amministrazioni fungendo da strumento deflattivo del contenzioso: la proposizione del ricorso è extrema ratio (Cons. St., Sez. V, 30 aprile 2014, n. 2246; TAR Lazio, Roma, Sez. II, 1 settembre 2014, n. 9264).

Il primo argomento – esegetico – non è estensibile alla previsione dell'art. 211, nel quale difetta proprio l'indicata coincidenza oggettiva e letterale tra i due commi.

Un ulteriore argomento, riferito all'art. 21-bis, deriva dalla circostanza che il termine ridotto di trenta giorni per la proposizione del ricorso, prevista dall'art. 21-bis, si giustifica in ragione del fatto che l'iniziativa giurisdizionale è preceduta da una fase procedimentale di interlocuzione fra l'Autorità e l'amministrazione (TAR Lazio, Roma, Sez. III, 27 maggio 2015, n. 7546; Cons. St., Sez. VI, 28 gennaio 2016, n. 323). Ma l'argomento non può estendersi all'art. 211, dal momento che il termine del ricorso di cui all'art. 120 c.p.a. è, in ogni caso, di 30 giorni.

Piuttosto, potrebbe risultare criticabile la scelta del legislatore, volta a differire sempre l'zione dell'ANAC all'esito del lungo procedimento preliminare, in un contesto, come quello dei contratti pubblici, caratterizzato da una evidente – e sempre crescente – esigenza di celerità. Nemmeno di fronte a gravissime illegittimità l'ANAC potrebbe iniziare immediatamente il processo giurisdizionale, ma dovrebbe attivare il previo procedimento di diffida.

Secondo la sequenza descritta dalla norma, tra la notizia della violazione e la proposizione del ricorso potrebbero decorrere ben 150 giorni (sessanta per la diffida, sessanta per l'adeguamento; trenta per la notifica del ricorso al TAR). Si tratta, quindi, di una vistosa deroga al termine ordinario per la proposizione del ricorso.

La natura del procedimento e la scelta dell'ANAC di attivare il procedimento di cui all'art. 211

Il procedimento, riguardato nel suo complesso, debba essere qualificato come:

- privato, perché riconducibile alla scelta – libera – dell'ANAC di esercitare, o meno, il proprio diritto di azione e difesa in giudizio;

- amministrativo (speciale), perché soggetto alla disciplina generale del procedimento di cui alla legge n. 241 del 1990, ancorché contrassegnato da regole pubblicistiche ad hoc.

La natura amministrativa, con la conseguente sottoposizione alla relativa disciplina, risulta più marcata nelle prime due fasi (parere motivato e atto di conformazione della stazione appaltante). Ma anche la terza fase, direttamente riferita alla decisione di proporre ricorso, scaturendo da una serie di tappe in cui i soggetti coinvolti manifestano i loro contrapposti interessi, deve essere attratta nell'ambito della sequenza amministrativa.

La disciplina dell'art. 211 non fornisce sufficienti elementi per stabilire quali siano i caratteri della scelta demandata all'Autorità. Si potrebbero ipotizzare 4 diverse soluzioni.

I) Per una prima tesi, si tratta di una scelta totalmente “libera”, perché riconducibile al generale potere che avrebbe ogni soggetto, pubblico o privato, di esercitare la facoltà di agire e difendersi in giudizio.

II) Per una seconda tesi, l'opzione di agire è pienamente “discrezionale”, nel senso che, come ogni decisione amministrativa, richiede una piena ponderazione di interessi e deve essere congruamente motivata. La disposizione, mediante il riferimento duplice al rilevante impatto del contratto e alla gravità della violazione, attribuisce all'ANAC (diversamente da quanto prevede l'art. 21-bis per l'Antitrust) un ampio potere valutativo.

III) Per una terza tesi, la decisione di agire in giudizio è vincolata (sempre) all'oggettivo accertamento dei presupposti indicati dalla legge.

IV) Una quarta opinione (MATTARELLA) ritiene che il potere in questione debba essere considerato strettamente vincolato, ma sulla sola base delle regole e dei criteri stabiliti preventivamente dalla stessa Autorità. Quest'ultima soluzione appare la più equilibrata e trova un preciso punto di appoggio, per l'ANAC, nel comma 1-quater. La disposizione, vista letteralmente, sembra considerare il regolamento attuativo come una mera “facoltà”. Inoltre, parrebbe orientata ad operare “unilateralmente”, assegnando al regolamento attuativo il compito di indicare i soli casi in cui è consentito (e, a contrario, le fattispecie in cui è precluso) il potere di intervento dell'ANAC, senza precisare, simmetricamente, le ipotesi in cui l'azione è invece doverosa.

Parrebbe più corretto, invece, affermare che il regolamento abbia il compito di chiarire, anche e soprattutto positivamente, i casi in cui il potere debba esplicarsi obbligatoriamente.

Gli strumenti di reazione alla violazione del dovere di procedere dell'ANAC

Il soggetto autore della segnalazione, o intervenuto legittimamente nel procedimento preliminare, potrebbe contestare il silenzio o la determinazione negativa dell'ANAC, mediante ricorso al TAR (contro il diniego espresso, o contro il silenzio inadempimento).

La questione più complessa riguarda l'ipotesi in cui l'ANAC, dopo avere emesso il parere motivato, stabilisca di non procedere al giudizio: si dovrebbe ammettere l'impugnabilità della determinazione espressa di non attivare il giudizio o del silenzio inadempimento. Per questa ragione, sembra opportuno che l'Autorità, dopo l'emissione del parere, formalizzi la determinazione di agire o di non agire in giudizio.

però dubbio che il giudice possa “annullare” la determinazione dell'ANAC, riaprendo il termine per la proposizione del ricorso, con una pronuncia conformativa recante l'ordine di esercitare l'azione. In tal caso, infatti, l'illegittimità della condotta dell'ANAC non parrebbe idonea a superare l'intervenuta decadenza dal potere di azione. Resterebbe ferma, allora, almeno teoricamente, la responsabilità dell'ANAC, per violazione dei doveri da essa stessa fissati.

La fase preliminare finalizzata all'adozione del parere motivato. L'attuazione del Considerando n. 122 della Direttiva 2014/24/UE

La prima fase del procedimento è finalizzata alla adozione del parere motivato. Pur trattandosi di un procedimento a iniziativa di ufficio, chiunque può sollecitare l'emanazione del parere motivato (TAR Lazio, Roma, Sez. II, 6 maggio 2013, n. 4451; TAR Sicilia, Catania, Sez. IV, 7 aprile 2015, n. 947). Le segnalazioni non sono considerate produttive di alcun vincolo di esame e istruttoria da parte dell'Autorità. Nella prassi, tuttavia, l'AGCM procede alla “archiviazione” formale delle segnalazioni non ritenute meritevoli di ulteriore seguito.

Di solito, il privato terzo il quale abbia interesse sostanziale a sollecitare l'intervento dell'Autorità, è un soggetto il quale potrebbe essere già leso dal provvedimento e ha la possibilità di agire in giudizio impugnando direttamente l'atto in questione. Nei casi in cui gli esposti provengano da operatori economici direttamente coinvolti nella vicenda sostanziale, questo ben potrebbero reagire proponendo essi stessi un'azione davanti al giudice. La possibilità di contestare la decisione negativa dell'Autorità si tradurrebbe in una sostanziale elusione dei termini di ricorso. Sulla base di queste premesse, allora, sembra ragionevole escludere che il terzo possa farsi “rimettere in termini” mediante l'attivazione – del tutto strumentale – del procedimento di cui al comma 1-ter.

Questa soluzione non sembra applicabile alla diversa ipotesi in cui l'unico strumento riconosciuto dall'ordinamento al “terzo”, mero cittadino contribuente, consista nella sola possibilità di attivare il procedimento amministrativo dinanzi all'Autorità.

In tal caso emerge la necessità di offrire protezione ai cittadini titolari di interessi legittimi, secondo il disposto del Considerando n. 122, quanto meno nell'ambito di una procedura svolta dinanzi ad una Autorità indipendente. Il veicolo della legittimazione processuale speciale dell'ANAC è certamente inidoneo a realizzare il risultato voluto dal diritto europeo, sia per la inadeguatezza dello strumento (non decisorio), sia per le numerose limitazioni previste dall'art. 211, non consentite dalla normativa UE.

Una possibile via d'uscita potrebbe essere quella di definire, attraverso un'integrazione legislativa del codice, un apposito nuovo procedimento precontenzioso dinanzi all'ANAC o ad “arbitri” imparziali da questa vigilati e supportati logisticamente, attivato dal cittadino-contribuente che lamenti la violazione della normativa di derivazione UE (o anche di altre norme nazionali di particolare “spessore”, quali la disciplina antimafia o le regole finalizzate alla prevenzione della corruzione), in relazione ai contratti di rilevanza europea e, se del caso, anche per affidamenti di minore valore, individuati dal legislatore o da decisioni generali dell'ANAC.

La decisione finale – purché impugnabile davanti al giudice amministrativo – dovrebbe avere efficacia vincolante per tutte le parti e per la stazione appaltante. Il procedimento, in conformità con la normativa europea, dovrebbe essere caratterizzato da rapidi – ma ragionevoli – termini decadenziali di proposizione, correlati ad una adeguata pubblicità legale (anche informatica) degli atti di gara, in modo da scongiurare, strumentalmente, iniziative volte a riaprire vicende ormai consolidate. In ogni caso, la decisione finale dovrebbe tenere conto dello sviluppo concreto del rapporto contrattuale, secondo i principi dell'autotutela (e dei canoni di cui agli artt. 121 e ss. c.p.a. in tema di inefficacia del contratto), tutelando gli affidamenti incolpevoli delle parti e gli interessi generali correlati ad esigenze imperative qualificate.

Il procedimento in esame, poi, non dovrebbe in alcune modo consentire ai soggetti autonomamente legittimati al ricorso giurisdizionale o di precontenzioso, ai sensi dell'art. 211, comma 1, di ottenere una duplicazione di tutela: pertanto, l'attuazione del Considerando n. 122 andrebbe riservata unicamente ai soggetti privi di altri strumenti di protezione processuale.

La struttura “precontenziosa” dello speciale procedimento, in linea con il Considerando n. 122, poi, dovrebbe esigere il massimo rigore nella specificità e chiarezza dei motivi di censura proponibili dai cittadini: saranno quindi radicalmente inammissibili iniziative meramente esplorative ed emulative.

La decisione finale dell'ANAC, caratterizzata dalla massima semplificazione motivazionale, ovviamente, sarebbe poi censurabile dinanzi al giudice amministrativo, ai sensi dell'art. 120 c.p.a., con tutte le opportune conseguenze sulle spese, in caso di rigetto del ricorso giurisdizionale. Andrebbe previsto, poi, un meccanismo sanzionatorio, che richiami le regole della lite temeraria, secondo quanto previsto dall'art. 211, comma 1.

In attesa di questa necessaria disciplina (la cui mancanza potrebbe esporre lo Stato italiano a censure della Commissione) le iniziative del cittadino intese a stimolare l'esercizio dei poteri di cui al comma 1-ter devono essere tutelate in modo adeguato, generando, in capo all'ANAC un dovere di provvedere, il cui inadempimento è sindacabile con ricorso al giudice amministrativo.

Le segnalazioni provenienti da soggetti pubblici qualificati

La doverosità dell'intervento dell'ANAC potrebbe collegarsi alle iniziative di denuncia di illegittimità, derivanti da alcuni soggetti pubblici “qualificati”? La risposta dovrebbe essere positiva e si collega proprio alla logica complessiva del potere di advocacy in cui si inquadra la legittimazione straordinaria dell'ANAC.

In questo senso, si dovrebbero indicare, anzitutto, le segnalazioni provenienti dal giudice amministrativo, ai sensi della legge Severino, che l'ANAC aveva opportunamente valorizzato nel regolamento sulle raccomandazioni vincolanti. Ma si potrebbero aggiungere anche gli eventuali rapporti svolti dal giudice ordinario, penale o civile, e dal collegio arbitrale.

Un potere di sollecitazione – parimenti qualificato – dovrebbe essere riconosciuto in capo al Governo e agli enti regionali e locali, venuti a conoscenza di possibili illegittimità nelle procedure contrattuali. Sembra poi possibile che, in sede di spontanea regolamentazione della materia, l'ANAC possa attribuire rilievo specifico agli esposti di associazioni di consumatori e di utenti.

Le sovrapposizioni con il potere di azione dell'AGCM

Un punto delicato riguarda il rapporto con l'Antitrust. L'interferenza tra le due legittimazioni, previste, rispettivamente, dall'art. 21-bis e dall'art. 211, è evidente. Secondo una possibile ricostruzione, esiste una tendenziale sovrapposizione tra le due sfere di attribuzioni, dal momento che il potere dell'ANAC, quanto meno nella parte in cui mira a contestare i provvedimenti di Regioni ed enti locali, dovrebbe trovare fondamento proprio nella disciplina della concorrenza, ai sensi dell'art. 117, comma 1, Cost.

Allo stato, pertanto, potrebbe ipotizzarsi questa situazione:

- le due legittimazioni, dell'ANAC e dell'ANTITRUST, sono parzialmente concorrenti, perché esiste un'area molto ampia di illegittimità “plurioffensive”;

- in tali ipotesi, entrambe le Autorità potrebbero legittimamente proporre l'azione giurisdizionale, attivando i preventivi procedimenti di loro competenza;

- per evidenti finalità di leale collaborazione, ciascuna di esse è tenuta a cooperare con l'altra, notiziandola delle possibili illegittimità riscontrate e, presumibilmente, stipulando un apposito protocollo destinato a chiarire i rapporti tra le due azioni;

Un'ulteriore questione, poi, riguarda la possibilità che le illegittimità emergano nel corso di un precontenzioso avviato ai sensi dell'art. 211, comma 1. In tali eventualità sembrerebbe opportuno prevedere efficaci strumenti di coordinamento tra i due procedimenti, utilizzando il meccanismo già previsto nel regolamento sulle raccomandazioni vincolanti, opportunamente suggerito dal Consiglio di Stato.

Gli eventuali atti di preiniziativa adottati da soggetti privati o pubblici possono costituire un obbligo di procedere in capo all'Autorità?

Esiste, un obbligo dell'Autorità di valutare la segnalazione e di adottare, quanto meno, una determinazione conclusiva del procedimento, nella forma del “parere negativo” o dell'archiviazione, più o meno semplificata? Con riferimento alla disciplina di cui all'art. 21-bis, la giurisprudenza ha affermato che, una volta ricevuta la richiesta o la segnalazione provenienti da soggetti privati, spetta all'Autorità decidere liberamente se avviare o meno il procedimento, a seconda dell'individuazione dei presupposti minimi per agire. Secondo la dottrina (R. GIOVAGNOLI, Atti amministrativi e tutela della concorrenza. Il potere di legittimazione a ricorrere dell'AGCM nell'art. 21-bis legge n. 287 del 1990, relazione al convegno tenutosi presso l'Università degli studi di Milano il 27 settembre 2012, 4), «appare dirimente la considerazione che la norma in esame attribuisce all'AGCM non un potere amministrativo in senso stretto, ma il diverso potere di agire in giudizio, cioè un vero e proprio diritto di azione. Ora, il diritto di azione implica anche la libertà di non agire in giudizio, essendo l'esercizio della facoltà processuale rimessa esclusivamente al titolare della stessa».

Solo sulla base di autovincoli spontaneamente stabiliti dalla stessa Autorità, potrebbero essere fissati i casi in cui la preiniziativa sia idonea ad imporre una formale decisione. Nel suo complesso, la soluzione proposta è ragionevole, perché, altrimenti, l'Autorità rischierebbe di essere travolta da innumerevoli esposti provenienti da soggetti sprovvisti di interessi differenziati.

Resta salva, però, la possibilità per l'ANAC di individuare casi di doverosità della risposta. Tra queste ipotesi si potrebbero indicare le segnalazioni “circostanziate”, così come potrebbe essere valorizzata la lesione di un interesse concreto del segnalante, almeno nei casi in cui questi proponga l'istanza entro il termine di proposizione del ricorso giurisdizionale. In tal modo, infatti, la parte dimostrerebbe il proprio interesse a “contestare” tempestivamente la procedura di gara, attraverso il rapido intervento dell'ANAC.

Il termine di conclusione del procedimento preliminare

L'ANAC, dal momento in cui ottiene la conoscenza della violazione, fruisce di un termine complessivo massimo di centocinquanta giorni per la notificazione del ricorso, derivante dalla sommatoria dei diversi termini “intermedi”.

Si tratta di stabilire:

- la natura perentoria, ordinatoria, o dilatoria dei termini;

- l'esatta data di decorrenza del primo termine, essenziale, costituita dalla notizia della illegittimità;

- la rilevanza e il calcolo preciso dei termini intermedi scanditi nella fase prodromica (sessanta giorni per la pronuncia del parere motivato; sessanta giorni per l'eventuale conformazione della stazione appaltante; trenta giorni per la proposizione del ricorso).

La tesi del carattere perentorio di tutti i termini previsti dal comma 1-ter (non diversamente da quelli contemplati dall'art. 21-bis) risulta nettamente preferibile, benché non sia espressamente stabilita. La violazione del termine per l'adozione del parere motivato incide sulla successiva sequenza strettamente processuale, ma non impedisce che l'atto possa produrre gli effetti di una “raccomandazione non vincolante”. La violazione del termine di conformazione, poi, non rende di per sé illegittimo il provvedimento tardivo adottato dalla PA, quanto meno nei casi in cui esso sia conforme al parere.

Si tratta di stabilire, in primo luogo, quale sia la decorrenza del termine per la conclusione della fase diretta a sfociare nel “parere motivato”. Il comma 1-ter dell'art. 211, diversamente dall'art. 21-bis, chiarisce che esso decorre dalla “notizia” della violazione, superando i numerosi problemi interpretativi suscitati dalla normativa antitrust.

Con riguardo all'art. 21-bis, tale momento può essere individuato nella comunicazione (di qualsiasi provenienza) all'AGCM (TAR Veneto, Venezia, Sez. I, 26 giugno 2015, n. 737; TAR Calabria, Catanzaro, Sez. I, 29 giugno 2016, n. 1373). Ma il decorso del termine non può essere collegato alla mera pubblicazione legale del provvedimento. In senso contrario, l'AGCM sarebbe costretta a un continuo e gravoso monitoraggio di tutti gli atti amministrativi adottati da qualsiasi amministrazione pubblica (Sez. V, 9 marzo 2015, n. 1171): Il termine concerne un'attività amministrativa, con la conseguenza che non sussistono le condizioni per estendere a essa i principi processuali dettati dal c.p.a. per l'esercizio dell'azione in giudizio.

La dottrina, al riguardo, aveva espresso una posizione diversa (GIOVAGNOLI) – «È vero che la norma, purtroppo, non indica da quando decorrono i sessanta giorni, ma sul punto, trattandosi di un parere che ha una marcata funzione “processuale” (essendo il preludio del ricorso giurisdizionale: tanto che deve già contenere gli specifici profili di violazione che l'AGCM intenderà portare in sede giurisdizionale), sembra debbano soccorrere i principi generali in materia di termine di decadenza per l'impugnazione degli atti amministrativi».

Occorre, allora, stabilire esattamente quando si possa ritenere sussistente una “notizia” avente per oggetto la ipotizzata violazione. Si dovrebbe ritenere che la “notizia” non possa collegarsi al mero perfezionamento della fase di gara e alla sua prescritta pubblicità: perché questo significherebbe gravare l'ANAC di un compito di lettura di tutti gli atti della procedura evidentemente impossibile. Pertanto, la notizia deve consistere nella puntuale deduzione, da parte di un terzo, pubblico o provato, di possibili concrete violazioni.

Con riguardo alla disciplina dell'art. 21-bis, secondo un primo orientamento (TAR Lazio, Roma, Sez. III, 15 marzo 2013, n. 2720), il termine di sessanta giorni previsto dalla legge per l'emanazione del parere ha natura ordinatoria. Per un secondo orientamento, occorre distinguere a seconda che l'emanazione del parere sia volta o meno ad attivare la fase contenziosa (TAR Lazio, Roma, Sez. II, 1° settembre 2014, n. 9264). Laddove l'Autorità voglia solo limitarsi a sollecitare una nuova valutazione dell'amministrazione, non vi sarebbe alcun motivo per ritenere perentorio il termine di sessanta giorni. Al contrario, nel caso in cui il parere costituisca il presupposto la proposizione del ricorso giurisdizionale, il termine deve considerarsi perentorio. Ma la giurisprudenza sembra attestarsi sulla tesi della natura perentoria del termine (TAR Veneto, Venezia, Sez. I, 26 giugno 2015, n. 737; TAR Calabria, Catanzaro, Sez. I, 29 giugno 2016, n. 1373).

Sul punto è poi intervenuto, ma non ancora risolutivamente, il Consiglio di Stato (Sez. V, 9 marzo 2015, n. 1171) che, pur non definendo la questione, ha affermato la non sostenibilità della tesi che configura la natura ordinatoria o perentoria del termine in base alla finalizzazione o meno della proposizione del ricorso, posto che un termine “o è perentorio, o non lo è”.

Le regole dell'art. 21-nonies l. n. 241 del 1990

La norma non stabilisce espressamente se il potere dell'ANAC sia soggetto alle regole previste dall'art. 21-nonies, concernenti l'annullamento di ufficio. In senso negativo, si potrebbe osservare che la disposizione regola l'esercizio di un potere di azione processuale, per cui non potrebbero trovare applicazione disposizioni riguardanti l'attività amministrativa sostanziale. In direzione opposta, invece, proprio la tesi della natura amministrativa del procedimento dovrebbe condurre alla piena applicazione delle regole generali di cui alla legge n. 241 del 1990.

Il decorso di un lungo lasso di tempo, d'altro canto, potrebbe avere rilievo per valutare la sussistenza dell'interesse al ricorso, anche se la legittimazione speciale dell'Autorità, risulta sganciata da una verifica troppo stretta della attualità e concretezza dell'interesse.

Il parere motivato sembra destinato ad evidenziare l'oggettiva presenza della violazione, senza alcun rilievo delle ragioni di interesse pubblico all'eventuale annullamento d'ufficio. Tale valutazione, semmai, spetta alla stazione appaltante. Questa potrebbe stabilire di non annullare il provvedimento indicato nel parere motivato unicamente per la presenza di un interesse pubblico prevalente. In tale eventualità, però, non è chiaro se l'ANAC possa proporre, a sua volta, un ricorso contro questo secondo provvedimento (unitamente al primo), allo scopo di ottenere una pronuncia che annulli gli atti ritenuti violativi del codice. La soluzione più ragionevole è nel senso di ritenere che, almeno con riferimento alla questione “liquida” del termine dei diciotto mesi, l'art. 21-nonies si applichi direttamente all'ANAC, in occasione del parere vincolante. Un opportuno coinvolgimento procedimentale, poi, permetterebbe di vagliare immediatamente la ragionevolezza del termine di autotutela (anche se già contenuto nel limite dei diciotto mesi).

La questione, comunque, sembra suscettibile di una soluzione in sede di regolamento attuativo ANAC, ai sensi del comma 1-quater. L'auspicio è che il regolamento preveda, già nella fase precedente il parere motivato, un rapido coinvolgimento, per quanto sommario, della stazione appaltante e dell'aggiudicatario, finalizzato anche e soprattutto, a delibare gli interessi pubblici e privati coinvolti nella vicenda.

La partecipazione della stazione appaltante e dei terzi al procedimento

La legge nulla dice in ordine all'osservanza delle regole partecipative di cui alla legge n. 241 del 1990, già nella prima fase precedente l'adozione del parere motivato. La tesi prevalente, riferita all'analoga previsione dell'art. 21-bis, è nel senso della superfluità di un coinvolgimento dell'amministrazione e dei terzi controinteressati. Non è però molto evidente la ragione di questa deroga ai principi della legge n. 241 del 1990, che contraddice l'affermata natura amministrativa del procedimento.

Gli argomenti a sostegno di questa tesi sono i seguenti:

A) La ristrettezza del termine di sessanta giorni renderebbe defatigante il contraddittorio.

B) Il parere motivato non avrebbe alcuna portata lesiva.

C) Non vi sarebbe violazione rilevante di regole procedimentali, in assenza di un diretto pregiudizio, in conformità all'art. 21-octies l. n. 241 del 1990;

D) La dialettica tra l'ANAC e gli altri soggetti si aprirebbe solo dopo l'adozione del parere, che svolge la funzione di comunicazione di avvio del procedimento.

E) La determinazione dell'Autorità riguarda il solo riscontro oggettivo di illegittimità, senza alcuna ponderazione discrezionale di interessi.

F) Il procedimento descritto dalla norma si conclude solo quando l'Autorità propone effettivamente il ricorso giurisdizionale.

Si deve replicare che:

AA) la breve durata dei termini procedimentali non impedisce un contraddittorio snello ed efficace;

BB) il parere motivato, anche se non immediatamente lesivo, costituisce un presupposto processuale;

CC) L'art. 21-octies, comma 2 non impedisce che, in linea di principio, debbano sempre operare gli obblighi partecipativi ex art. 7;

DD) Il parere motivato è atto conclusivo della prima fase del procedimento preliminare;

EE) Il giudizio dell'ANAC presenta profili di opinabilità significativi, che attengono al “rilevante impatto del contratto” e alla gravità della violazione;

FF) Non sembra molto persuasiva la tesi secondo cui la proposizione del ricorso costituirebbe, nella sostanza, anche la conclusione del procedimento amministrativo avviato dall'Autorità.

Sarebbe allora preferibile ritenere che il procedimento preliminare debba essere svolto con l'osservanza dei principi partecipativi, opportunamente adeguati alla brevità dell'iter.

Il comma 1-ter dell'art. 211, diversamente dall'art. 21-bis, sottolinea l'autonomia del momento della comunicazione del parere motivato, senza, peraltro, indicarne tempi e modalità.

La natura giuridica del parere motivato e dei suoi effetti

L'atto conclusivo della prima fase del procedimento preliminare è costituito da un parere motivato. La formula scelta dal legislatore intende sottolineare che l'atto ha la struttura di un mero giudizio, privo di effetti costitutivi od obbligatori, volto a definire i soli profili di illegittimità dell'atto;

Ma è preferibile ritenere che il provvedimento debba racchiudere anche gli elementi tipici dell'autotutela, di cui all'art. 21-nonies. Questa opinione si riannoda alle ampie considerazioni svolte dal Consiglio di Stato, con riferimento ai limiti sistematici delle raccomandazioni vincolanti, opportunamente ricondotte nel quadro dell'autotutela decisoria. La circostanza che la determinazione dell'ANAC consista nella decisione di proporre un ricorso non attenua l'esigenza di ponderare i diversi interessi in gioco. D'altro canto, il comma 1-ter prescrive che il parere sia motivato, senza alcuna limitazione al solo profilo riguardante le violazioni riscontrate.

Sebbene il dato testuale faccia propendere per il carattere meramente consultivo (come affermato, sia pure incidentalmente da Corte cost., 14 febbraio 2013, n. 20; TAR Lazio, Roma, Sez. II, 1° settembre 2014, n. 9264), una seconda lettura tende a definirlo come una particolare forma di diffida. Al riguardo, sono ipotizzabili due tesi:

A) la prima configura il parere-diffida come un vero e proprio “ordine” di attivare il riesame del provvedimento affetto da illegittimità (quasi una raccomandazione semivincolante; o, una raccomandazione minore);

B) la seconda opinione sostiene che la diffida sia del tutto “privata” e vada inquadrata nell'ambito delle dichiarazioni non provvedimentali della PA. La formula dell'art. 211, secondo cui l'ANAC “assegna” un termine sembra effettivamente in maggiore sintonia con la tesi di una vera e propria “diffida”, produttiva di un obbligo di provvedere in ordine alla richiesta di autotutela.

Con riguardo all'art. 21-bis la Corte costituzionale e il Consiglio di Stato hanno qualificato la conformazione dell'amministrazione al parere motivato come esercizio del potere di autotutela. Il punto centrale consiste nello stabilire se il destinatario del parere sia tenuto alla conformazione e se la determinazione sia soggetta, o meno, alla disciplina dell'annullamento d'ufficio di cui all'art. 21-nonies (motivazione, partecipazione procedimentale, termine ragionevole) e agli altri principi generali dell'autotutela.

Secondo MATTARELLA, «l'obbligo di conformarsi sussiste: l'amministrazione non può decidere di confermare un provvedimento emanato in violazione di norme a tutela della concorrenza; se lo facesse, sarebbe il giudice amministrativo ad annullarlo, su ricorso dell'Autorità». Ma se la “sanzione” della asserita doverosità consistesse unicamente nel “rischio” di un ricorso al giudice amministrativo, la portata dell'obbligo diventerebbe davvero molto esigua.

Se, invece, si ritiene che il parere vincolante crei, in capo alla stazione appaltante, un vero e proprio obbligo di provvedere, qualsiasi interessato dovrebbe considerarsi abilitato ad agire in giudizio, per far valere l'attuazione dell'obbligo giuridico.

Non è chiaro se ci si trovi in presenza di un'ipotesi di autotutela doverosa. Vi sarebbero, in tale direzione, alcuni argomenti testuali:

A) la “conformazione” generalmente indica l'attuazione di un obbligo;

B) il “parere motivato” assume caratteristiche molto simili a quelle del “parere vincolante” di cui all'art. 211 comma 1;

C) la circostanza che, ora, nell'art. 211, comma 1-ter, l'ANAC “assegni” alla stazione appaltante un termine per l'adeguamento fa ragionevolmente pensare alla costituzione di un obbligo giuridico.

Sembra allora preferibile la tesi secondo cui la stazione appaltante, se intende conformarsi al parere, perché concorda con la valutazione giuridica espressa dall'ANAC in ordine all'accertamento della violazione, debba pur sempre esercitare il potere discrezionale riguardante tale procedimento, con riferimento alla ponderazione di tutti gli interessi coinvolti (a cominciare, ovviamente, da quello espresso dall'Autorità procedente). Ma, contrariamente a quanto ritenuto finora dalla giurisprudenza, in caso di motivato rifiuto di conformazione, l'Autorità avrà l'onere di impugnare anche tale secondo atto.

Il parere motivato è autonomamente e immediatamente impugnabile?

Secondo la dottrina (GIOVAGNOLI), appare preferibile la tesi che esclude l'immediata impugnabilità del parere di cui all'art. 21-bis, essendo ancora meramente eventuale la circostanza che l'Amministrazione si conformi ad esso, modificando o ritirando il provvedimento contestato. Se l'amministrazione segue il parere modificando l'atto, il ricorso potrà indirizzarsi contro l'atto modificato (o contro l'atto con cui si dispone l'annullamento del precedente), e contro il parere dell'AGCM, considerato atto meramente presupposto

Secondo MATTARELLA; op. cit., «l'amministrazione che ha emanato il provvedimento censurato non ha bisogno di impugnare il parere, essendo in capo all'Autorità l'onere di adire il giudice amministrativo. Gli eventuali interessati non hanno interesse a farlo, potendo impugnare il provvedimento di conformazione eventualmente adottato dall'amministrazione».

Nell'art. 211, l'espressa impugnabilità è prevista solo con riguardo ai pareri vincolanti di precontenzioso e alle (abrogate) raccomandazioni vincolanti. In base all'argomento “a contrario”, si dovrebbe allora ritenere la non impugnabilità dei pareri di cui al comma 1-ter. Tuttavia, tale conclusione potrebbe essere a sua volta smentita dalla previsione dell'art. 213, che stabilisce, in modo generalizzato, l'impugnabilità di tutti gli atti dell'ANAC, nella comprensibile preoccupazione di bilanciare gli ampi poteri assegnati a tale soggetto.

La stazione appaltante destinataria del parere potrebbe decidere di non aderire alle indicazioni dell'Autorità, sia perché ritiene il provvedimento esente dai vizi denunciati, sia perché afferma che non sussistano i presupposti richiesti dall'art. 21-nonies, l. n. 241 del 1990, con particolare riguardo alla valutazione dei diversi interessi, pubblici e privati, in gioco.

L'eventuale ricorso dell'ANAC dovrebbe contenere, oltre ai motivi inerenti la violazione delle norme concorrenziali, anche le valutazioni relative al rifiuto dell'annullamento d'ufficio, quali l'interesse pubblico o l'affidamento. Secondo la giurisprudenza, riferita all'art. 21-bis, (TAR Lazio, Roma, Sez. III, 15 marzo 2013, n. 2720), la tesi è in contrasto con il dato letterale e con la stessa ratio della norma: l'attività dell'amministrazione, sia nel senso di conformazione al parere che di conferma della soluzione originaria, non costituisce l'estrinsecazione di un potere di autotutela strictu sensu inteso, non implicando alcun apprezzamento discrezionale.

Ma è preferibile ritenere che il ritiro del provvedimento censurato a seguito del parere dell'ANAC può rientrare a pieno titolo nel fenomeno dell'autotutela

La giurisprudenza si è interrogata sul dies a quo e sulla natura dilatoria o acceleratoria del termine per la conformazione al parere. Secondo il TAR Sicilia, Catania, Sez. IV, 3 marzo 2014, n. 676, il termine entro cui la pubblica amministrazione può conformarsi al parere decorre dalla sua comunicazione e non dalla mera notifica, rilevando a tal fine il momento di formazione e comunicazione effettiva dell'atto e non anche quello in cui l'amministrazione lo abbia ricevuto. Ma è preferibile ritenere che vada tenuta ferma una fondamentale distinzione: per l'Autorità il termine di sessanta giorni per la pronuncia del parere è rispettato se, entro tale data, l'atto è formato ed è avviato il procedimento di comunicazione. Per la stazione appaltante, invece, il termine per la conformazione inizia a decorrere dal momento in cui risulta perfezionato il procedimento di notifica o comunicazione.

In alcune pronunce si è affermata la natura dilatoria del temine, posto che i successivi trenta giorni per la proposizione del ricorso decorrono dalla data in cui si esaurisce interamente il termine preventivo di sessanta giorni a disposizione dell'amministrazione (TAR Lazio, Roma, Sez. III, 15 marzo 2013, n. 2720; TAR Sicilia, Catania, Sez. IV, 3 marzo 2014, n. 676; TAR Lazio, Roma, Sez. III, 27 maggio 2015, n. 7546; TAR Veneto, Venezia, Sez. I, 26 giugno 2015, n. 737).

In senso contrario, il Consiglio di Stato (Cons. St., Sez. IV, 28 gennaio 2016, n. 323) ha affermato che il termine di trenta giorni per la proposizione del ricorso inizia a decorrere già dall'atto definitivo di non conformazione o, in caso di inerzia, dal silenzio serbato della pubblica amministrazione di fronte al parere. Del medesimo avviso una successiva pronuncia (TAR Lazio, Roma, Sez. III, 6 maggio 2016, n. 5335).

Infine, rispetto all'ultimo termine di trenta giorni per la proposizione del ricorso, la giurisprudenza ne ha dichiarato la perentorietà (TAR Sicilia, Catania, Sez. IV, 3 marzo 2014, n. 676; TAR Veneto, Venezia, Sez. I, 26 giugno 2015, n. 737).

Sembra comunque opportuno chiarire quali conseguenze derivino dalla adozione di un espresso provvedimento di rifiuto di conformazione al parere, in una data precedente alla scadenza del termine assegnato dall'Autorità. l'ANAC dovrebbe avere non solo la facoltà, ma anche l'onere di impugnare il provvedimento adottato dalla stazione appaltante entro trenta giorni dalla conoscenza di tale determinazione.

Dal parere motivato alla proposizione del ricorso. L'oggetto del giudizio nel caso di determinazione espressa

Verificata la mancata conformazione della stazione appaltante al parere motivato, l'ANAC può attivare il giudizio.

La legge non prevede un “atto” formale con cui si esterni la decisione finale dell'Autorità. Questo potrebbe essere individuato nello stesso atto di autorizzazione a stare in giudizio. Ma, per l'ANAC, la previsione del patrocinio dell'Avvocatura dello Stato sembra escludere la necessità di siffatta determinazione. Il regolamento di cui al comma 1-quater potrà chiarire questo profilo. Pare invece indispensabile una decisione espressa nel caso in cui, dopo l'emanazione del parere vincolante, l'ANAC stabilisca di non agire in giudizio.

Una volta scaduto il termine per il ricorso, comunque, l'inerzia deve considerarsi pienamente equivalente ad una determinazione negativa, poiché comporta lo stesso effetto giuridico della decadenza dal potere di azione.

Con riguardo all'art. 21-bis, la giurisprudenza si è chiesta se l'atto da impugnare sia il rifiuto – espresso o tacito – del ritiro oppure di modifica del provvedimento, oppure quello originario reputato distorsivo della concorrenza. I giudici amministrativi (TAR Lazio, Roma, Sez. III, 15 marzo 2013, n. 2720; Cons. St., Sez. VI, 28 gennaio 2016, n. 323) hanno affermato che oggetto del ricorso è l'atto originariamente emanato dalla pubblica amministrazione. A conferma di ciò, è stato sostenuto che il comma 2 dell'art. 21-bis non ha individuato l'oggetto del giudizio, ma si è limitato a dettare le regole procedimentali per il ricorso in sede giurisdizionale.

Ne deriverebbe, che l'eventuale annullamento del provvedimento originariamente adottato dall'amministrazione determinerà un effetto automaticamente caducante del successivo atto di rifiuto adottato. La soluzione prospettata dai TAR dovrebbe valere senz'altro nei casi in cui il rifiuto di autotutela espresso dall'amministrazione sia motivato con riferimento alla violazione della procedura prodromica: la contestazione di tale atto diventa pregiudiziale ad ogni altra questione riguardante la legittimità dell'atto originario.

Il giudice adito dall'ANAC dovrà verificare preliminarmente questo aspetto. Tuttavia, il veicolo necessario non sembra costituito dalla rituale impugnazione, da parte dell'Autorità, dell'atto adottato dall'amministrazione. Parimenti, nel caso in cui il rifiuto di conformazione sia motivato mediante la confutazione degli argomenti giuridici espressi dal parere motivato, tali deduzioni difensive riemergeranno nell'ambito del giudizio proposto dall'ANAC.

Più delicato è il caso in cui la stazione appaltante rifiuti l'autotutela richiamando, nella motivazione, le regole di cui all'art. 21-nonies (affidamento, interesse pubblico) o degli artt. 121 e 122, nel caso in cui il contratto sia stato stipulato. Sotto il profilo sostanziale non sembra affatto plausibile la tesi secondo cui i principi dell'autotutela restino completamente fuori gioco nella fase preliminare. La stazione appaltante non può non tenere conto delle circostanze di fatto entro cui si collocherebbe l'annullamento dei provvedimenti censurati dall'ANAC con il parere.

Semmai, è dubbio che anche l'Autorità, già all'atto di emissione del parere, debba compia una delibazione, “allo stato degli atti”, della situazione di fatto. Pertanto, il nuovo provvedimento motivato di rifiuto dell'autotutela non potrà essere caducato “automaticamente”, per effetto dell'accertata illegittimità dell'originario affidamento.

L'ANAC deve dimostrare la sussistenza di un concreto diretto e attuale interesse al ricorso?

Con riguardo all'art. 21-bis, si è sostenuto che il giudizio prescinderebbe sempre dalla verifica dell'interesse ad agire dell'AGCM (TAR Lazio, Roma, Sez. II, 6 maggio 2013, n. 4451). Questa prospettiva è analizzata in modo approfondito da CINTIOLI, op. cit., 16, «sfuma nel rapporto processuale che contraddistingue questo peculiare diritto di azione di AGCM anche l'interesse ad agire. L'interesse ad agire è personale, attuale e concreto. Sono, questi, caratteri che non si addicono all'azione di un ente pubblico che sia chiamato all'attuazione della legge (le norme a tutela della concorrenza) anziché alla realizzazione di propri interessi. AGCM agisce, appunto, come una sorta di p.m. e per la realizzazione dell'interesse generale alla concorrenza».

D'altro canto, però, in alcune pronunce del giudice amministrativo è stato osservato che nelle ipotesi di ricorso ex art. 21-bis l'AGCM agisce per la tutela in sé della concorrenza, presupponendo il relativo interesse (TAR Lazio, Roma, Sez. II, 1° settembre 2014, n. 9264; Cons. St., Sez. V, 9 marzo 2015, n. 1171).

Così identificato il requisito dell'interesse al ricorso è necessario verificarne la effettiva sussistenza e la permanenza nel corso del giudizio. il problema riguarda i casi del ritiro dell'atto da parte dell'amministrazione a giudizio in corso, o di annullamento da parte del giudice all'esito di un diverso e giudizio avviato da un terzo direttamente leso dal medesimo provvedimento.

In concreto, secondo il TAR Lazio, Roma, Sez. III, 15 marzo 2013, n. 2720; TAR Lazio, Roma, Sez. III, 20 febbraio 2015, n. 2896, anche in questi casi permane l'interesse del ricorrente all'annullamento degli atti pregressi, giacché questi ultimi continuano a trovare applicazione in tutti quei rapporti intercorsi dalla sua emanazione fino al momento della nuova delibera di revoca e sostituzione. Inoltre, nel caso di norme regolamentari, la dottrina ha affermato che l'adozione di nuovi atti consequenziali non fa venir meno l'interesse a eliminare l'atto presupposto, passibile di altre applicazioni.

In caso di intervenuta “conformazione” tardiva sembra corretta la pronuncia di sopravvenuta carenza di interesse, fermo restando l'onere delle spese processuali in capo alla stazione appaltante.

Più complesso, invece, è il caso degli atti amministrativi generali, come ad es. i bandi di gara, il cui semplice l'annullamento, senza l'impugnazione dell'aggiudicazione, sarebbe privo di utilità, posto che l'effetto lesivo si è ormai perpetrato e l'atto ha esaurito la sua applicazione.

Si tratta di stabilire, allora, se la legittimazione speciale dell'ANAC possa giustificare un'azione di carattere meramente accertativa, sin dall'origine o “trasformata” in corso del giudizio, in seguito al ritiro o alla modifica del provvedimento impugnato.

Con riferimento all'azione dell'AGCM, si può affermare che lo scopo dell'azione sia sempre quello di rimediare agli “effetti distorsivi della concorrenza”, determinati da un provvedimento. Pertanto, una volta eliminato il pregiudizio, con un atto pienamente ripristinatorio, l'interesse al ricorso (pur in origine notevolmente ampliato) risulta effettivamente venuto meno.

Per l'art. 211, invece, la legittimazione dell'ANAC non è ancorata ad una nozione “funzionale”. Per cui, si potrebbe sostenere che la privazione di effetti del provvedimento impugnato non determini la sopravvenuta carenza di interesse. In senso contrario, tuttavia, occorre evidenziare che la legittimazione è ancorata ad una azione di impugnazione: per cui, una volta venuto meno il suo oggetto, il ricorso dovrebbe essere improcedibile.

La competenza territoriale e il rito applicabile

Un particolare quesito ha riguardato l'individuazione del giudice territorialmente competente per le controversi di cui all'art. 21-bis. La giurisprudenza, applicando i criteri dettati dall'Ad. Plen. nella pronuncia 26 luglio 2012, n. 29, ha dichiarato che in questi casi non opera la competenza funzionale del TAR Lazio ex art. 135, comma 1, lett. b) c.p.a. (TAR Sicilia, Catania, Sez. IV, 3 marzo 2014, n. 676).

Ciò in quanto tale previsione si riferisce esclusivamente alle controversie aventi a oggetto i “provvedimenti dell'Autorità” e non anche a quelle da quest'ultima promosse contro gli atti emanati da altre amministrazioni (TAR Veneto, Venezia, Sez. I, 26 giugno 2015, n. 737; TAR Calabria, Catanzaro, Sez. I, 29 giugno 2016, n. 1373). Questo esito interpretativo sembra estensibile anche alle nuove previsioni dell'art. 211 d.lgs. n. 50 del 2016.

La nuova disciplina dell'art. 211 è univoca nello stabilire che l'azione dell'ANAC resti sempre soggetta al rito di cui all'art. 120 c.p.a. Apparirebbe, allora, del tutto superflua l'esplicita previsione di un termine di trenta giorni per la proposizione del ricorso. Tale indicazione, infatti, era importante nell'ambito della previsione dell'art. 21-bis, poiché, attraverso il rinvio in blocco agli articoli 119 e ss. sarebbe era incerta l'applicazione del termine ordinario o, in alternativa, di quello abbreviato.

Restano aperti, tuttavia, alcuni dubbi applicativi. Anzitutto, il riferimento al solo art. 120, nel suo complesso, potrebbe determinare l'insorgere di una delicata questione riguardante l'impugnazione delle ammissioni e delle esclusioni e il rito applicabile.

Si potrebbe immaginare – in linea di ipotesi – che l'ANAC ottenga un'immediata conoscenza dell'ammissione e della sua probabile illegittimità. In tal caso, il giudizio dovrebbe svolgersi secondo il rito superspeciale di cui all'articolo 2-bis. È più probabile, però, che l'Autorità ne abbia conoscenza solo dopo un lasso di tempo successivo all'aggiudicazione. La “logica” acceleratoria del rito superspeciale potrebbe entrare in conflitto con la legittimazione straordinaria dell'ANAC.

Una possibile soluzione potrebbe essere nel senso di assecondare la tendenza al consolidamento della fase di ammissioni ed esclusioni, con la correlata preclusione del potere di intervento dell'Autorità. Ma si deve obiettare che l'esigenza di verificare la legittimità dell'affidamento, anche in relazione alla sussistenza dei prescritti requisiti soggettivi dell'appaltatore, costituisce uno dei valori portanti del sistema.

Pertanto, anche in tal caso, non pare che la normativa impedisca all'ANAC di intervenire con i poteri di advocacy, attraverso l'impugnazione congiunta dell'aggiudicazione e del provvedimento di ammissione o di esclusione.

Il giudizio cautelare e i motivi aggiunti

Si possono prospettate incertezze in ordine alla possibilità dell'ANAC di attivare il giudizio cautelare. Un primo dubbio è procedimentale. L'azione davanti al TAR deve essere preceduta, di regola, dalla fase procedimentale diretta all'adozione del parere motivato. Tale dilatazione dei tempi sembrerebbe inconciliabile con la ratio della tutela cautelare.

Nel nuovo disegno dell'art. 211, tuttavia, l'ANAC ben potrebbe “bruciare” i tempi, imponendo alla stazione appaltante di “conformarsi” al parere entro un termine di pochi giorni. In tal caso, quindi, lo spazio “tecnico” per la tutela cautelare sarebbe sostanzialmente assicurato, anche nelle forme dell'istanza di misure urgenti ante causam e del giudizio monocratico.

Una seconda obiezione, più radicale, si connette alla controversa natura della legittimazione dell'Antitrust, disancorata da una effettiva lesione di un interesse sostanziale concreto: appare difficile ipotizzare un pregiudizio grave e irreparabile, necessitante la tutela processuale d'urgenza (CINTIOLI, op. cit., 17).

Tuttavia, seppure non frequente in concreto, l'esigenza cautelare dell'ANAC potrebbe emergere e giustificare l'attivazione degli appositi strumenti di tutela. Si può osservare, poi, che l'art. 120, richiamato dall'art. 211, contempla la tutela cautelare, sicché non dovrebbero esserci ostacoli testuali per ammetterla anche nell'ipotesi del ricorso proposto dall'ANAC.

Peraltro, non vi sarebbe nessun motivo per non ammettere, ricorrendone i presupposti, la richiesta da parte dell'AGCM di misure cautelari ante causam. (Cons. St., Sez. V, 30 aprile 2014, n. 2246).

L'ANAC dovrebbe essere astrattamente titolare del potere di proporre motivi aggiunti, sia per prospettare ulteriori vizi del provvedimento impugnato, sia per contestare nuovi provvedimenti. La giurisprudenza ha riconosciuto all'AGCM il potere di proporre motivi aggiunti (TAR Lazio, Roma, Sez. III, 15 marzo 2013, n. 2720): in tali casi l'Autorità non è obbligata a emanare un nuovo parere (TAR Lazio, Roma, Sez. III, 15 marzo 2013, n. 2720; TAR Lombardia, Milano, Sez. I, 8 luglio 2016, n. 1356).

Il patrocino dell'Avvocatura dello Stato

La nuova disciplina non ripete la previsione del comma 2 dell'art. 21-bis, l. n. 287 del 1990, riguardante il patrocinio dell'Avvocatura dello Stato. La norma era apparsa superflua, giacché l'art. 1, R.d. 30 ottobre 1933, n. 1611 prescrive il patrocinio obbligatorio dell'Avvocatura dello Stato per tutte le Amministrazioni dello Stato, in cui ormai possono essere pacificamente annoverate le Autorità amministrative indipendenti.

Si era osservato che la norma potesse conservare un limitato rilievo nelle ipotesi in cui il ricorso sia proposto contro un'altra Amministrazione dello Stato (TAR Lazio, Roma, Sez. III, 15 marzo 2013, n. 2720). In simili casi, come osservato dalla stessa Avvocatura in un suo parere reso in data 1° ottobre 2013, l'AGCM potrà senz'altro avvalersi del patrocinio di un avvocato appartenente al libero foro, derogando alla regola generale che implicherebbe invece la soluzione del conflitto a favore dell'amministrazione attrice (TAR Lazio, Roma, Sez. III, 27 maggio 2015, n. 7546; Cons. St., Sez. IV, 28 gennaio 2016, n. 323; TAR Calabria, Catanzaro, Sez. I, 29 giugno 2016, n. 1373).

Infatti, in questo caso, verificandosi un'ipotesi di conflitto di interessi tra due Amministrazioni dello Stato, si verifica uno di questi “casi eccezionali” che, ai sensi dell'art. 5 R.d. n. 1611 del 1933, consentono (anzi, in questo caso impongono) ad una delle due Amministrazioni in conflitto di avvalersi del patrocinio di un avvocato del libero foro. In quest'ottica, il fatto che l'art. 21-bis specifichi che il ricorso in esame è proposto dall'AGCM sempre con il patrocinio dell'Avvocatura dello Stato porta alla conclusione che ad avvalersi dell'avvocato del libero foro, con le modalità indicate dal citato art. 5 R.d. n. 1611 del 1933, sarà l'Amministrazione resistente.

Molto opportunamente, allora, l'art. 211 omette il riferimento all'Avvocatura dello Stato: pertanto, il patrocinio sarà regolato dalla disciplina generale.

Le domande proponibili al giudice amministrativo

La nuova disciplina dell'advocacy dell'ANAC, al pari dell'art. 21-bis, non evidenzia quali siano le azioni proponibili dall'Autorità. Si prospetta allora il dubbio che l'unica domanda coerente con la funzione attribuita all'ANAC sia quella di annullamento dell'atto di cui si afferma l'illegittimità. Sotto il profilo letterale, infatti, l'art. 211 fa riferimento al potere di «agire in giudizio per l'impugnazione…».

Ciò non dovrebbe impedire la proposizione di altre domande strettamente connesse. In questo senso, si dovrebbe ammettere la richiesta di dichiarazione della inefficacia del contratto e l'azione di “adempimento”, impropria, diretta ad individuare, già in sede di cognizione, gli effetti conformativi della pronuncia. In questo ambito, poi, si dovrebbe ammettere la domanda diretta all'accertamento dei presupposti per l'applicazione delle sanzioni alternative di cui agli artt. 121 e 123 c.p.a. Non pare incompatibile con il dettato e la ratio della disposizione, poi, l'esercizio dell'azione di ottemperanza, necessaria, per concretizzare l'annullamento dell'atto impugnato.

Più problematico è stabilire se l'ANAC possa agire contro l'inerzia della stazione appaltante, inadempiente ad obblighi scaturiti dal codice. La concezione “attizia” del silenzio potrebbe condurre ad una risposta affermativa. Ma, in ogni caso, anche prescindendo da ulteriori approfondimenti del rito in materia di silenzio, risulta preferibile seguire una tesi “estensiva”.

Un'ultima questione riguarda la possibilità di proporre l'azione di accertamento, tesa alla declaratoria di illegittimità del provvedimento contestato. L'interrogativo riguarda anzitutto, il caso in cui, in corso di causa, il provvedimento impugnato risulti avere già completamente esaurito i suoi effetti. Ma il dubbio dovrebbe estendersi anche alle ipotesi in cui, sin dall'origine, il ricorso appare riferirsi a procedure di affidamento già completamente eseguite. In linea di massima, l'azione di mero accertamento della illegittimità di un provvedimento che abbia esaurito i propri effetti non risulta ammessa dal nostro ordinamento processuale, ad eccezione dei casi in cui vi sia spazio potenziale per la (futura) domanda di risarcimento del danno.

Ma, nel quadro della speciale legittimazione attribuita all'ANAC, potrebbe ritenersi giustificata un'azione rivolta all'accertamento della corretta applicazione del diritto oggettivo. Del resto, se si ammette l'impugnazione di atti generali indipendentemente dalla loro attuazione, sembra possibile compiere un ulteriore passo e riconoscere la proponibilità di azioni dirette all'accertamento della illegittimità di provvedimenti che hanno completamente esaurito i loro effetti.

Ci si deve domandare se, all'interno del giudizio azionato dall'ANAC, si possa richiedere al giudice a quo di sollevare questioni di legittimità costituzionale o comunitaria. Con riferimento all'art. 21-bis, la risposta positiva sembra prevalente. Del resto è già accaduto che il TAR (TAR Lazio, Roma, Sez. III, 15 marzo 2013, n. 2720; TAR Lazio, Roma, Sez. III, 20 febbraio 2015, n. 2896), accogliendo la richiesta contenuta nel ricorso dell'Autorità, abbia posto una questione pregiudiziale alla Corte di Giustizia UE. Si osserva che, nell'esperienza pratica, non è raro che la violazione della concorrenza derivi proprio dalla legge, poi attuata dalle singole amministrazioni.

Non vi è ragione di escludere l'estensione di questi principi anche al giudizio di cui all'art. 211. L'ostacolo formale maggiore rimane costituito dalla infelice formulazione del comma 1-ter, che prende in considerazione le sole violazioni del codice. Si è però già prospettata la più corretta lettura interpretativa, in forza della quale il “codice” riguarda il complesso delle norme su cui esso si basa, costituite, in termini fondamentali, dalle regole di derivazione europea e dai vincoli costituzionali.

peraltro ragionevole ipotizzare che l'ANAC, prima di adottare tale pesante iniziativa processuale, si avvarrà dei poteri di segnalazione per invitare il Parlamento e il Governo ad assumere le opportune iniziative finalizzate a correggere la normativa nazionale, mediante i poteri di segnalazione di cui all'art. 213.

L'appello e le altre impugnazioni

La dottrina (CINTIOLI) ha giustamente osservato che si potrebbe anche ipotizzare un giudizio impugnatorio promosso dall'ANAC. Ciò è senz'altro ammissibile nei casi di rigetto della domanda proposta dalla stessa ANAC.

Ci si potrebbe chiedere, però, se sia ammissibile anche l'impugnazione, da parte dell'ANAC di una sentenza di rigetto del ricorso proposto da un altro soggetto interessato. La risposta potrebbe essere affermativa, nonostante il silenzio della legge. In tal caso, la vicenda processuale in atto condurrebbe a ritenere superflua l'attivazione del procedimento preliminare di cui al comma 1-ter.

Ma si potrebbe anche ipotizzare il caso limite di una sentenza di accoglimento, che, annullando la determinazione di una stazione appaltante, abbia determinato, nella sostanza, una “violazione” del diritto degli appalti. Letteralmente, l'art. 211 non contempla nemmeno questa fattispecie e si potrebbe anche osservare che sarebbe inapplicabile la particolare procedura prodromica di cui al comma 1-ter, posto che, evidentemente, la stazione appaltante sarebbe cointeressata all'azione ANAC.

La fase transitoria e il regolamento attuativo di cui al comma 1-quater

La complessità della materia trattata rende opportuna una disciplina attuativa, che l'ANAC potrà introdurre mediante il regolamento di cui al comma 1-quater.

Nella fase transitoria, comunque, potranno porsi i seguenti problemi.

A) L'inserimento formale della nuova disciplina nel corpus del codice dei contratti pubblici rende evidente che la legittimazione speciale ANAC potrà riferirsi solo alle violazioni riguardanti procedure di gara bandite dopo la sua entrata in vigore (aprile 2016).

B) Fermo restando tale limite, la nuova normativa deve essere qualificata come essenzialmente processuale e, quindi, risulta suscettibile di immediata applicazione, in base al principio tempus regit actum. È vero che il comma 1-ter descrive anche una disciplina di carattere sostanziale, ma appare prevalente la sua proiezione verso l'eventuale svolgimento del processo. D'altro canto, anche la qualificazione sostanziale non sembrerebbe impedire l'immediata applicazione della disciplina.

C) Diventa determinante, allora, la data in cui l'ANAC ottiene la notizia della violazione, indipendentemente dalla diversa epoca, eventualmente precedente, in cui l'illegittimità si è realizzata. In quest'ottica, dunque, sussiste la legittimazione speciale dell'ANAC in ordine alle notizie intervenute dopo l'entrata in vigore della nuova normativa, ancorché riferite a violazioni concretizzatesi in epoca precedente.

D) È incerta invece la legittimazione dell'ANAC in ordine alle notizie già acquisite prima dell'entrata in vigore del nuovo comma 1-bis. La soluzione più lineare dovrebbe essere nel senso che, a partire dalla data di entrata in vigore del nuovo istituto, inizia a decorrere il termine di sessanta giorni, previsto dal comma 1-ter, in relazione a tutte le notizie di violazioni gravi già acquisite dall'ANAC.

Potrebbe essere ragionevole seguire, allora, l'interpretazione secondo cui i procedimenti ancora in corso alla data di entrata in vigore della legge di conversione potranno riqualificarsi come procedimenti ex art. 211, commi 1-bis e ss.

Sommario