Tipologie contrattuali del Jobs Act e sicurezza sul lavoro: le collaborazioni organizzate dal committente

Aldo De Matteis
18 Luglio 2017

Il datore di lavoro, nell'effettuare la valutazione dei rischi, deve individuare anche quelli connessi alla specifica tipologia contrattuale attraverso cui viene resa la prestazione di lavoro. Pertanto, tutte le modifiche apportate dal Jobs Act alle tipologie contrattuali e alla disciplina del rapporto in generale rifluiscono sul tema della sicurezza sul lavoro e delle relative responsabilità. Esaminiamo partitamente le singole tipologie: in questo primo contributo, le collaborazioni organizzate dal committente. Seguirà un approfondimento su contratto di somministrazione, lavoro intermittente e apprendistato.
Premessa

La correlazione tra tipologie contrattuali e obblighi di sicurezza è istituita dall'art. 28 D.Lgs. 9 aprile 2008, n. 81, il quale specifica che il datore di lavoro, nell'effettuare la valutazione dei rischi, deve individuare anche quelli connessi alle differenze di genere, all'età, alla provenienza da altri paesi nonché (parte aggiunta dall'art. 18 D.Lgs. 3 agosto 2009 n. 106), quelli connessi alla specifica tipologia contrattuale attraverso cui viene resa la prestazione di lavoro.

In forza di questo dato normativo fondamentale, tutte le modifiche apportate dalla Legge Delega 10 dicembre 2014 n. 183 (c.d. Jobs Act) e dai Decreti delegati alle tipologie contrattuali e alla disciplina del rapporto in generale rifluiscono sul tema della sicurezza sul lavoro e delle relative responsabilità.

Esaminiamo partitamente le singole tipologie: in questo primo contributo, le collaborazioni organizzate dal committente. Seguirà un approfondimento su contratto di somministrazione, lavoro intermittente e apprendistato.

Le collaborazioni organizzate dal committente

In forza dell'art. 2 della D.Lgs. n. 81/2015, a partire dal 1° gennaio 2016 si applica la disciplina del rapporto di lavoro subordinato anche ai rapporti di collaborazione che si concretano in prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative e le cui modalità di esecuzione sono organizzate dal datore di lavoro committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro.

La norma ha dato luogo a diverse opzioni interpretative.

La giurisprudenza

Secondo l'orientamento più radicale, si tratta di una norma apparente, priva di efficacia propriamente normativa, che si limita a sostenere l'approccio pragmatico della giurisprudenza che desume la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato dagli indici della soggezione del lavoratore al potere organizzativo del datore di lavoro.

In effetti la giurisprudenza di legittimità è consolidata nel ritenere che il carattere personale ed apparentemente autonomo della prestazione, avvalorato da indici quali l'iscrizione all'albo delle imprese artigiane, l'emissione di fatture, ed altri elementi siffatti non sono ostativi alla configurazione di un rapporto di lavoro subordinato (Cass. sez. lav., 10 febbraio 2006, n. 2895; Cass. sez. lav., 15 novembre 2004, n. 21594; Cass. sez. lav., 15 maggio 2004, n. 9151), quando sussista l'elemento caratterizzante la subordinazione, generalmente individuato nella sottoposizione al potere direttivo e disciplinare del datore di lavoro. Si può ricordare anche come la giurisprudenza già individuava il criterio discretivo tra autonomia e subordinazione nella etero organizzazione, specie in fattispecie di lavoro a domicilio o di professioni intellettuali all'interno di una organizzazione datoriale (Cass. sez. lav., 14 febbraio 2011, n. 3594; Cass. sez. lav., 11 maggio 2005, n. 9894; Cass. sez. lav., 7 marzo 2003, n. 3471; Cass. sez. lav., 3 giugno 1994, n. 5389).

La dottrina: le diverse tesi

Allo stesso risultato perviene quella dottrina che, al contrario, assegna alla norma in questione un valore definitorio innovativo, in quanto ridisegnerebbe, allargandoli, i confini dell'art. 2094 c.c.; la norma estenderebbe l'ambito di applicazione della disciplina del rapporto di lavoro subordinato dalla etero-direzione alla etero-organizzazione.

Secondo opposta dottrina rimarrebbe la distinzione tipologica, salva l'applicazione della disciplina del rapporto di lavoro subordinato ad un rapporto che deve continuare ad essere qualificato autonomo.

Questa opzione ci sembra più suggestiva ai fini della costruzione di un sistema complessivo della sicurezza sul lavoro, per le seguenti ragioni:

  • la disposizione in esame si pone in continuità lessicale, funzionale e cronologica con quella dell'art. 66 D.Lgs. 10 settembre 2003, n. 276, il quale disponeva che ai lavoratori a progetto (i quali sicuramente erano dei lavoratori autonomi, secondo la definizione dell'art. 61 dello stesso D.Lgs.), si applicano le disposizioni sulla sicurezza e igiene del lavoro proprie dei lavoratori subordinati, quando la prestazione lavorativa si svolga nei luoghi di lavoro del committente; il regime dell'art. 66 è rimasto in vigore fino al 31 dicembre 2015, quando è stato sostituito da quello dell'art. 2 in esame, in vigore dal giorno successivo, il 1° gennaio 2016;
  • ancora sul piano lessicale, la norma non interviene sulla definizione dell'art. 2094 c.c., come sarebbe stato consequenziale ad una ipotetica volontà legislativa di ridefinire i confini della subordinazione, ma continua ad utilizzare una terminologia propria del lavoro autonomo, come rapporti di collaborazione e datore di lavoro committente. Essa si limita a disporre “si applica”, con espressione che implica una staticità del precedente regime ed una sua applicazione, appunto, alla nuova fattispecie o situazione. Ricordiamo che quando il legislatore ha voluto stabilire una presunzione assoluta di subordinazione per il lavoro svolto nei suoi locali, lo ha detto espressamente (vedi art. 1 Legge 18 dicembre 1973 n. 877 sul lavoro a domicilio). Non così nel nostro caso. A contrario si deve ritenere che il legislatore non ha voluto terremotare gli equilibri dommatici così faticosamente raggiunti;
  • questa metodologia è conforme al metodo tradizionale seguito dal legislatore nell'affrontare i temi della sicurezza, prevenzione e assicurazione infortuni, con approccio composito: in alcuni casi ripetendo la formula codicistica (art. 4, n. 1 DPR n. 1124/1965), in altri dando una propria definizione diretta (es. art. 2, lett. b) sulla nozione di datore di lavoro ai fini delle leggi sulla sicurezza), ma il più delle volte descrivendo delle situazioni prestazionali di fatto, meritevoli di tutela (come nel caso di specie); questo approccio è quello più aderente all'art. 35 Cost. diretto a tutelare il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni. Tale prospettiva, da noi sostenuta in passato ha ricevuto il più autorevole avallo dalla giurisprudenza costituzionale (Corte cost., 13 marzo 2002, n.171), secondo cui l'esigenza di tutelare il lavoro attraverso l'estensione dell'assicurazione obbligatoria comporta la svalutazione del titolo o del regime giuridico in base al quale l'attività sia espletata, tanto da rendere irrilevante la questione circa la definizione della natura del rapporto in virtù del quale il lavoratore agisca, essendo sufficiente riscontrare il suo assoggettamento ad un rischio professionale identico a quello di categorie protette;
  • il distacco lessicale dalla definizione dell'art. 2094 c.c. (È prestatore di lavoro subordinato chi si obbliga mediante retribuzione a collaborare nell'impresa, prestando il proprio lavoro intellettuale o manuale alle dipendenze e sotto la direzione dell'imprenditore), con la sostituzione di “sotto la direzione” con “modalità di esecuzione organizzate” è chiaramente indicativa di una volontà di alleggerimento ed ampliamento del vincolo;
  • in definitiva l'opzione cui aderiamo risulta meno dirompente sul piano sistematico; più coerente al trend evolutivo di estensione delle tutele dal lavoro subordinato al lavoro autonomo, approdato alla recente Legge 22 maggio 2017, n. 81, che tutela, significamente in unico contesto legislativo, il lavoro autonomo non imprenditoriale ed il lavoro agile, e cioè quella modalità di esecuzione del lavoro subordinato con libertà di orari e di luogo della prestazione. Tale legge accentua insieme l'erosione dei confini tra autonomia e subordinazione e l'assimilazione delle tutele tra le due forme di attività lavorativa. Essa è coerente altresì all'approccio funzionale del Jobs Act (la ipotetica moltiplicazione delle fattispecie è contraria alla volontà semplificatrice di tale intervento legislativo); infine più utile a risolvere in modo organico, coerente al trend accennato, e progressivo i problemi applicativi della nuova disposizione.

La responsabilità del datore in caso di organizzazione complesse

Abbiamo dunque:

  • il lavoro autonomo quale definito dall'art. 2222 c.c., quando una persona si obbliga a compiere un'opera o un servizio con lavoro prevalentemente proprio, dietro corrispettivo e senza vincolo di subordinazione;
  • il lavoro autonomo coordinato dell'art. 409 n. 3 c.p.c., quando la prestazione d'opera è ancora prevalentemente personale, ma continuativa e coordinata, con la importante precisazione aggiunta all'art. 409 dall'art. 15 della Legge 81/2017, che la collaborazione si intende coordinata quando il collaboratore organizza autonomamente l'attività lavorativa, nel rispetto delle modalità di coordinamento stabilite di comune accordo dalle parti;
  • il lavoro autonomo dell'art. 2 in esame, quando la prestazione è esclusivamente personale e le modalità di esecuzione sono organizzate dal committente, anche in relazione ai luoghi e tempi della prestazione;
  • il lavoro agile, e cioè quei lavoratori subordinati liberi di scegliere i tempi e i luoghi della prestazione, nei giorni concordati con il datore di lavoro.

La questione rilevante dunque, ai fini della interpretazione dell'art. 2 in esame, non è se i lavoratori da essa considerati siano subordinati o autonomi, ma se siano coordinati o organizzati, e per tale distinzione soccorre il criterio indicato dall'art. 15 Legge sul lavoro autonomo ricordato.

La norma integra e completa così il quadro delle responsabilità del datore di lavoro e del committente in tema di sicurezza nei confronti di tutti i soggetti che collaborano nel suo interesse ai suoi fini produttivi, pur con varie tipologie contrattuali, e dà fondamento normativo all'affermazione giurisprudenziale secondo cui il datore di lavoro è responsabile per la sicurezza di tutti coloro che operano all'interno del teatro lavorativo da lui predisposto.

La giustificazione sociologica-giuridica di tale assetto è costituita dalla parcellizzazione del processo produttivo, che impone la concentrazione della responsabilità per la sicurezza in capo all'imprenditore demiurgo, che realizza tale processo avvalendosi nel proprio interesse di diverse tipologie contrattuali, in una interpretazione costituzionalmente orientata ex art. 35 Cost. delle norme in esame (Cass. sez. lav., 28 ottobre 2016, n. 21894).

Qual è allora il valore aggiunto della nuova disposizione sul fronte della sicurezza, rispetto al quadro normativo precedente, già così pervasivo sugli obblighi di protezione del datore di lavoro?

Per rispondere a tale quesito il metodo migliore ci sembra quello di tracciare il perimetro degli obblighi di protezione preesistente, sui quali la nuova disposizione intende di riflesso intervenire in senso espansivo.

Si deve partire dalla bipartizione dell'art. 5 D.P.R. 27 aprile 1955, n. 547 (prima Legge organica per la prevenzione degli infortuni sul lavoro), che, al primo comma, affidava alla competenza del datore di lavoro i rischi ambientali, e, al secondo comma, riservava alla responsabilità del lavoratore autonomo i rischi propri dell'attività professionale o del mestiere che il lavoratore autonomo è incaricato di prestare.

Solo che la responsabilità di cui al primo comma si è enormemente allargata negli anni successivi.

L'art. 26 D.Lgs. 9 aprile 2008, n. 81, attualmente vigente, riprendendo analoga diposizione dell'art. 7 D.Lgs. 19 settembre 1994, n. 626 e dell'art. 3 D.Lgs. 14 agosto 1996, n. 494 (entrambi di attuazione di direttive dell'Unione sulla sicurezza), parifica gli obblighi del datore di lavoro, in caso di affidamento di lavori, servizi e forniture ad una impresa appaltatrice, o mediante contratto di somministrazione o a lavoratori autonomi nell'ambito del ciclo produttivo aziendale.

Tale disposizione si articola in due blocchi normativi principali.

Al primo comma individua, nei confronti dei lavoratori autonomi, che è il tema che a noi interessa, i seguenti obblighi di sicurezza:

  • preliminarmente, verifica la loro idoneità tecnico professionale in relazione ai lavori, ai servizi e alle forniture da affidare mediante contratto d'opera.

È quello che la giurisprudenza aveva da tempo individuato come culpa in eligendo.

Gli obblighi del datore di lavoro

Casi pratici

Per capire l'ampiezza di tale responsabilità, sono utili alcune fattispecie passate al vaglio della giurisprudenza (esse riguardano imprese appaltatrici, ma i principi enunciati si applicano, in forza dell'art. 26, anche in favore dei lavoratori autonomi).

Il proprietario di un appartamento affida ad una impresa edile dei lavori sul tetto di casa; un dipendente dell'impresa appaltatrice sale sul tetto senza alcuna misura di protezione, perde l'equilibrio, cade da un'altezza di 8 metri, stramazza al suolo e muore.

Il proprietario è stato condannato in sede di merito e di legittimità per omicidio colposo per due titoli di responsabilità: culpa in eligendo ed ingerenza (V. Cass. sez. IV pen. 29 dicembre 2016, n. 55180). Sotto il primo profilo, viene imputato al committente di avere omesso, in sede di scelta dell'azienda esecutrice dei lavori, di controllare se questa avesse adottato le misure generali di tutela della sicurezza sui luoghi di lavoro. Sotto il secondo profilo, il proprietario committente, che si recava frequentemente sul luogo di esecuzione del lavoro, ben poteva verificare direttamente l'assenza di ponteggi o di altri dispositivi di sicurezza per lavori in quota.

È importante notare che il committente era una persona fisica non imprenditore. Pertanto la giurisprudenza estende le disposizioni dell'art. 26 a qualsiasi committente di lavori, e non solo al datore di lavoro menzionato nella norma, e definito dall'art. 2 come il titolare del rapporto di lavoro con il lavoratore protetto o, comunque, il soggetto che ha la responsabilità dell'organizzazione nel cui ambito il lavoratore presta l'attività.

Nella stessa ottica la giurisprudenza penale ha statuito che non è sufficiente ad esonerare il committente da responsabilità il fatto di affidare dei lavori sul tetto ad un artigiano dotato presumibilmente di una propria formazione ed esperienza professionale, ma il committente ha l'obbligo di verificare che questi sia dotato di una struttura organizzativa d'impresa che gli consenta di lavorare in sicurezza (V. Cass. sez. IV pen. 26 aprile 2016, n. 35185).

Significativa anche la seguente fattispecie (Cass. sez. lav., 19 aprile 2006, n. 9065, con nota di Toffoletto, Infortunio sul lavoro e contratto di subappalto; v. anche Cass. sez. lav., 23 marzo 1999, n. 2745). Si trattava della demolizione di un fabbricato con il tetto in eternit. Il committente affidava la demolizione ad una ditta specializzata, che a sua volta subappaltava ad una terza azienda, il cui dipendente subiva infortunio sul lavoro. L'appaltatore-subappaltante ammetteva di avere predisposto il piano di sicurezza per lo smantellamento del tetto in eternit, e di avere assunto la relativa responsabilità, ma sosteneva che l'infortunio del dipendente del subappaltatore rientrava nella responsabilità esclusiva di quest'ultimo, in quanto dotato di una propria struttura imprenditoriale, proprie attrezzature, gestione tecnica ed organizzativa autonoma, nella quale il subappaltante non aveva esercitato alcuna ingerenza, sicché il rischio era passato dall'appaltatore al subappaltatore. Questa tesi è stata disattesa dal giudice di merito e da quello di legittimità con una doppia motivazione: da una parte la responsabilità dello smantellamento del tetto con particolari modalità non era frazionabile o delegabile; dall'altra la predisposizione del cantiere integrava l'ingerenza. Il significato di questa pronuncia sembra il seguente: il committente, avendo scelto una ditta specializzata, aveva assolto al suo obbligo di diligenza ed era liberato dalla responsabilità dei lavori di bonifica dell'eternit; l'appaltatore, proprio in ragione di questa sua particolare specializzazione, non poteva delegare la responsabilità di un'operazione così delicata ad una qualsiasi impresa edile. La sua responsabilità va in definitiva ricondotta alla culpa in eligendo.

  • l'art. 26 ribadisce poi, al comma 1 lett. b), l'obbligo di fornire agli stessi soggetti dettagliate informazioni sui rischi specifici esistenti nell'ambiente in cui sono destinati ad operare e sulle misure di prevenzione e di emergenza adottate in relazione alla propria attività.

Si tratta dell'antica regola dell'art. 5 D.P.R. 547/1955.

Il D.Lgs. 19 settembre 1994, n. 626 (art. 7) ha esteso tale regola in favore dei dipendenti delle imprese appaltatrici, chiamati ad operare all'interno dell'azienda o comunque nell'unità produttiva, e l'art. 26 ai lavoratori autonomi.

Tale obbligo informativo è inteso dalla giurisprudenza più recente in senso molto ampio, fino a comprendere il controllo dell'avvenuta formazione rispetto alle mansioni da espletare (V. Cass. sez. lav., 13 gennaio 2017, n. 798, con nota di De Matteis, Responsabilità del committente per la sicurezza dei dipendenti dell'appaltatore).

Il secondo blocco normativo dell'art. 26, contenuto nel co. 2, disciplina i c.d. rischi interferenziali, derivanti cioè dalla compresenza sul medesimo teatro lavorativo di più lavoratori dipendenti da diversi appaltatori o subappaltatori e lavoratori autonomi. In questo caso tutti i rispettivi datori di lavoro di cui al comma 1, compresi i subappaltatori (e, si deve intendere per ragioni sistematiche, i lavoratori autonomi):

  • cooperano all'attuazione delle misure di prevenzione e protezione dai rischi sul lavoro incidenti sull'attività lavorativa oggetto dell'appalto;
  • coordinano gli interventi di protezione e prevenzione dai rischi cui sono esposti i lavoratori, informandosi reciprocamente anche al fine di eliminare rischi dovuti alle interferenze tra i lavori delle diverse imprese coinvolte nell'esecuzione dell'opera complessiva.

È bene avvertire che in forza di tale obbligo di informazione reciproca e di informazione dei lavoratori, la responsabilità del datore di lavoro può travalicare il territorio sotto il suo diretto dominio.

La giurisprudenza di legittimità ha esaminato il caso di tre distinti soggetti operanti sul medesimo teatro lavorativo: una società petrolifera che aveva predisposto le modalità tecniche di svuotamento di un suo oleodotto intasato, mediante iniezioni di azoto; la ditta appaltatrice che eseguiva l'operazione di svuotamento; una terza azienda di trasporto con autocisterne le riempiva del liquido di svuotamento. Un dipendente della terza azienda era sul tetto dell'autocisterna, munito di casco, per controllare le operazioni di riempimento, quando la manichetta di riempimento si staccava, per la pressione dell'azoto, e lo sciabolava violentemente riducendolo invalido al 93%. La Cassazione ha affermato la responsabilità civile del datore di lavoro del lavoratore infortunato, per difetto di informazione sui rischi altrui, richiamando numerose sentenze a conforto, ed enunciando il seguente principio di diritto: “ove lavoratori dipendenti da più imprese siano presenti sul medesimo teatro lavorativo, i cui rischi interferiscano con l'opera o con il risultato dell'opera di altri soggetti (lavoratori dipendenti o autonomi), tali rischi concorrono a configurare l'ambiente di lavoro ai sensi degli artt. 4 e 5 del D.P.R. n. 547 del 1955, sicché ciascun datore di lavoro è obbligato, ex art. 2087 c.c., ad informarsi sui rischi derivanti dall'opera o dal risultato dell'opera degli altri attori sul medesimo teatro lavorativo e a dare le conseguenti informazioni ed istruzioni ai propri dipendenti (Cass. sez. lav., 7 gennaio 2009, n. 45).

Si deve avvertire anche che il carattere circolare e reciproco di questi obblighi di informazione impone pure al lavoratore autonomo di informare gli altri soggetti dei rischi particolari della sua arte o mestiere, come ad es. l'uso di sostanze nocive.

Per rendere tutte queste cautele effettive, l'art. 26, co. 3, impone al datore di lavoro committente di elaborare un unico documento di valutazione dei rischi che indichi le misure adottate per eliminare o, ove ciò non sia possibile, ridurre al minimo i rischi da interferenze. Tale documento è allegato al contratto di appalto o di opera e va adeguato in funzione dell'evoluzione dei lavori, servizi e forniture.

Inoltre, nel caso in cui nel cantiere sia prevista la presenza, anche non contemporanea, di più imprese esecutrici, il datore di lavoro committente deve nominare un coordinatore in fase di progettazione, ed uno in fase di esecuzione, il cui nominativo deve essere portato a conoscenza del lavoratore autonomo (art. 90 D.Lgs. n. 81/2008).

Tutto ciò implica, oltre il carattere totalizzante e circolare dell'obbligo di informazioni cennato, anche una ingerenza del committente nell'attività dell'impresa o del lavoratore autonomo esecutori dei lavori.

Ci sono vari gradi di ingerenza.

Vi è la ingerenza pervasiva, tale da sconfinare nella intermediazione vietata di manodopera (V. Cass. 16 dicembre 2015 n. 25305; Cass. 10 dicembre 2015 n. 24935), quando il datore di lavoro interponente abbia ordinato al lavoratore di porre le proprie energie lavorative a disposizione dell'interposto, senza formarlo alle mansioni che avrebbe dovuto svolgere, e senza controllare la corrispondenza delle mansioni effettivamente assegnate.

Vi è quella diretta, quando il fatto lesivo sia stato commesso dall'appaltatore in esecuzione di un ordine impartitogli dal direttore dei lavori o da altro rappresentante del committente (V. Cass. 27 maggio 2011, n. 11757); lo stesso principio si applica al subappaltatore, che abbia agito in esecuzione di un ordine impartitogli dall'appaltatore (V. Cass. civ., sez. II, 13 febbraio 2009, n. 3659).

Vi è poi la ingerenza indiretta, quando il committente abbia apprestato l'ambiente lavorativo nel quale è chiamato ad operare l'appaltatore, il subappaltatore o il lavoratore autonomo (V. Cass. sez. trib., 19 aprile 2006, n. 906); o quando questo sia rimasto nella sua disponibilità (V. Cass. n. 21694/2011), o egli stesso si sia reso garante della vigilanza relativa alle misure da adottare in concreto, riservandosi i poteri tecnico — organizzativi dell'opera da eseguire (V. Cass. sez. lav., 8 ottobre 2012, n. 17092; Cass. sez. lav., 28 ottobre 2009, n. 22818).

Lo stesso principio è stato affermato quando i dipendenti dell'appaltatore utilizzino, per contratto o per consuetudine o per tolleranza, strutture di supporto, opere provvisionali, strumentazioni appartenenti al committente (Cass. sez. lav., 2 marzo 2005, n. 4361; Cass. civ., sez. III, 15 novembre 2013, n. 25758).

Se il quadro è così pervasivo, cosa aggiunge la norma in esame?

A nostro avviso, i suoi effetti principali, per quanto riguarda la sicurezza sul lavoro, sono almeno tre:

  • mentre l'art. 26 estende la responsabilità per la sicurezza propria del datore di lavoro anche al committente, sempre che abbia la disponibilità giuridica dei luoghi in cui si svolge la prestazione dei lavoratori autonomi, l'art. 2 in esame supera questa limitazione territoriale, e si applica a tutte le prestazioni svolte nei tempi e luoghi stabiliti dal datore di lavoro, anche al di fuori del proprio dominio diretto, come nelle fattispecie esaminate;
  • inoltre la norma in esame estende la responsabilità del datore di lavoro dai rischi ambientali, già ampiamente affermata dalla legislazione e dalla giurisprudenza, anche ai rischi specifici dell'arte o professione del collaboratore personale che lavori nei tempi e luoghi stabiliti dal datore, nel senso che quest'ultimo deve interpellare il lavoratore autonomo sui rischi propri, verificarli e ricondurli alla generale azione di coordinamento a norma dell'art. 26, comma 2, lett. b) del D.Lgs. 81/2008, nonché, come vedremo, a norma dell'art. 2087 c.c.

È difficile sfuggire alla suggestione delle norme sul lavoro agile contenute nella stessa Legge 81/2017, dove il datore di lavoro deve individuare i rischi generali e specifici (art. 22), per modalità di esecuzione della prestazione ancora più libere di quelle dei lavoratori autonomi organizzati.

In forza di queste norme, si deve ora affermare un generale dovere di controllo del datore di lavoro sulla sicurezza del lavoratore autonomo organizzato, (nel senso che nel contratto d'opera non è ipotizzabile un generale dovere di controllo del committente, in ordine all'attitudine del prestatore, all'efficienza o adeguatezza dell'organizzazione da lui predisposta e delle concrete modalità di svolgimento dell'opera: v. Cass. civ., sez. III, 26 gennaio 1995, n. 933), con superamento dei compartimenti stagni dell'art. 5 D.P.R. n. 547/1955. Ad es. la responsabilità del datore di lavoro si estenderebbe anche al rischio delle sostanze nocive usate dall'artigiano che lavori con modalità esecutive organizzate nei tempi e luoghi dal datore medesimo;

  • infine la norma in esame rende applicabili ai lavoratori autonomi organizzati tutte le disposizioni di carattere amministrativo relative ai subordinati, come ad es. i controlli medici iniziali e periodici.

Un'affermazione così netta va motivata, anche perché di segno contrario ad autorevole dottrina, la quale ritiene sufficiente che il lavoratore organizzato sia munito di uno strumento proprio, quale un computer, per escludere la configurazione della fattispecie di cui alla norma in esame.

Riteniamo invece, in primo luogo, che intento del legislatore fosse proprio quello di recidere queste figure borderline e così facili all'elusione, secondo l'approccio proprio del Jobs Act, che ha eliminato il lavoro a progetto e l'associazione in partecipazione con apporto lavorativo, tipologie lavorative con le quali si era sbizzarrita la prassi nella ricerca di vie di fuga dalla subordinazione. Cosa c'è di più facile e di più elusivo che dire al lavoratore organizzato di portarsi il computer o il giravite da casa?

In secondo luogo la Legge 183 è intervenuta sulla nozione di prestazione personale, passando da “prestazioni d'opera prevalentemente personali” di cui all'art. 409 a “prestazioni di lavoro esclusivamente personali”. Tutto ciò è riferito, appunto, alla persona del collaboratore, e vale ad escludere la possibilità di collaboratori del collaboratore, ma non attiene agli strumenti di cui il lavoratore autonomo si possa avvalere.

Infatti, ed in terzo luogo, quando il legislatore ha voluto sancire la rilevanza tipologica delle attrezzature proprie lo ha detto espressamente (vedi art. 1 L. n. 877/1973 sul lavoro a domicilio).

Naturalmente si deve trattare di attrezzature modeste, secondo un giudizio quantitativo-qualitativo, altrimenti si cadrebbe in una organizzazione di impresa.

In conclusione, nel territorio che ricade sotto il controllo del datore di lavoro, egli deve avere il pieno dominio delle condizioni di sicurezza, in misura identica per dipendenti ed organizzati; al di fuori di questi confini, vi è un obbligo di informazione reciproca e di protezione, anch'esso identico per dipendenti ed organizzati.

Una conseguenza sicura della nuova norma sulle collaborazioni organizzate è costituita dall'applicabilità diretta dell'art. 2087 c.c. il quale, secondo la giurisprudenza di legittimità prevalente, era riservato al rapporto di lavoro subordinato, con esclusione del lavoro autonomo (V. Cass. civ., sez. III, 21 marzo 2013, n. 7128). Si deve però registrare che la giurisprudenza di legittimità più recente (V. Cass., sez. lav. 2 dicembre 2015, n. 24538; Cass. sez. IV pen. 14 maggio 2015, n. 35534) ha esteso il contenuto precettivo dell'art. 2087 alle collaborazioni che si svolgano nei luoghi di lavoro del committente, in una visione unitaria della sicurezza che correla l'art. 2087 c.c. all'art. 32 Cost. e ai principi dell'Unione Europea (vedi in particolare la Raccomandazione del Consiglio dell'Unione Europea 18 febbraio 2003 sul miglioramento della protezione della salute e della sicurezza dei lavoratori autonomi).

L'applicazione diretta dell'art. 2087 c.c. alle collaborazioni di cui all'art. 2, su cui concordano diversi Autori, è necessitato proprio dalla motivazione addotta dalle sentenze che la escludevano, e cioè il mancato inserimento del lavoratore autonomo nell'organizzazione d'impresa, affermato ora invece dall'art. 2 in esame.

Conclusioni

L'art. 2087 c.c. costituisce una vera e propria norma di prevenzione, avente carattere generale e sussidiario (di "chiusura") rispetto alla speciale normativa antinfortunistica, talché anche l'inosservanza delle misure di sicurezza suggerite dalla esperienza e dalla tecnica, anche se non codificate, è idonea ad integrare, ex art. 2087 c.c., l'aggravante del terzo comma degli artt. 589 e 590 c.p. (Cass. sez. lav., 19 agosto 1996, n. 7636; Cass. sez. lav., 23 settembre 2010, n. 20142).

La giurisprudenza della sezione lavoro, e quella penale, è molto severa nell'individuare il contenuto precettivo dell'art. 2087 c.c. La possiamo riassumere nei seguenti termini massimatori: la responsabilità dell'imprenditore ex art. 2087 c.c. non configura un'ipotesi di responsabilità oggettiva (Cass. sez. lav., 17 dicembre 2015, n. 25395), ma, configurando una responsabilità contrattuale, comporta l'inversione dell'onere della prova, ai sensi dell'art. 1218 c.c. (Cass. sez. lav., 19 aprile 2017, n. 9870; Cass. sez. lav., 11 aprile 2013, n. 8855.), che grava quindi sul datore di lavoro. Essa non è circoscritta alla violazione delle norme di prevenzione o alle regole d'esperienza o di regole tecniche preesistenti e collaudate; essa sanziona anche l'omessa predisposizione di tutte le misure e cautele atte a preservare l'integrità psicofisica del lavoratore nel luogo di lavoro, tenuto conto della concreta realtà aziendale e della maggiore o minore possibilità di indagare sull'esistenza di fattori di rischio in un determinato momento storico (Cass. civ., sez. VI, 3 agosto 2012, n. 13956; Cass. sez. lav., 5 febbraio 2014, n. 2626; Cass. sez. lav., 14 febbraio 2006, n. 3209).

Tale responsabilità è esclusa solo dal rischio elettivo e dal correlato comportamento abnorme.

A questo riguardo occorre precisare che la qualificazione di una condotta del lavoratore come abnorme è diversa al fine di escludere la responsabilità penale del datore di lavoro, ed al fine di configurare il rischio elettivo che esclude la tutela infortunistica.

Con formula ormai consolidata e tralaticia, la giurisprudenza di legittimità individua il rischio elettivo attraverso il concorso simultaneo dei seguenti elementi caratterizzanti:

  • vi deve essere non solo un atto volontario, ma altresì arbitrario, nel senso di illogico ed estraneo alle finalità produttive;
  • diretto a soddisfare impulsi meramente personali (il che esclude le iniziative, pur incongrue, motivate da finalità produttive);
  • che affronti un rischio diverso da quello cui sarebbe assoggettato, sicché l'evento non abbia alcun nesso di derivazione con lo svolgimento dell'attività lavorativa (Cass. sez. lav., 20 marzo 2017, n. 7125; Cass. sez. lav., 5 settembre 2014, n. 18786; Cass. sez. lav., 18 maggio 2009, n. 11417; Cass. sez. lav., 4 luglio 2007, n. 15047).

Anche l'Istituto assicuratore lo circoscrive a due soli casi:

  • quando l'evento si verifichi nel corso dello svolgimento di un'attività che non ha alcun legame funzionale con la prestazione lavorativa o con le esigenze lavorative dettate dal datore di lavoro;
  • o l'evento sia riconducibile a scelte personali del lavoratore, irragionevoli e prive di alcun collegamento con la prestazione lavorativa tali da esporlo a un rischio determinato esclusivamente da tali scelte (Circolare Inail n. 52/2013).

Nella giurisprudenza di legittimità più recente, esso viene configurato come l'unico limite che esclude la occasione di lavoro (Cass. sez. lav., 6/2015; Cass. sez. lav., 2 giugno 1999, n. 5419; Cass. sez. lav., 9 ottobre 2000, n. 13447; Cass. sez. lav., 8 marzo 2001 n. 3363; Cass. sez. lav., 9 gennaio 2002, n. 190; Cass. sez. lav., 13 aprile 2002, n. 5354; Cass. sez. lav., 22 aprile 2002, n. 5841; Cass. sez. lav., 3 agosto 2005, n. 16282).

Viceversa in sede penale il comportamento abnorme del lavoratore che esclude la responsabilità del datore può risiedere nella semplice contrarietà alle istruzioni ricevute: ad es. la manovra inappropriata per far ripartire un macchinario inceppato, con introduzione della mano negli organi in movimento, può escludere la responsabilità penale del datore di lavoro (Cass. pen., sez. IV, 2 febbraio 2015, n. 4890), anche se non esclude la tutela infortunistica.

L'eventuale colpa del lavoratore non esclude la responsabilità dell'imprenditore, sul quale grava l'onere di provare di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno, almeno che non assuma il carattere dell'abnormità ed imprevedibilità (Cass. sez. lav., 13 settembre 2006, n. 19559; Cass. sez. lav., 14 febbraio 2005, n. 2930; Cass. sez. lav., 8 marzo 2006, n. 4980).

In questi termini l'art. 2087 c.c. si deve ritenere applicabile ora anche al lavoro autonomo organizzato di cui all'art. 2 in esame.

Guida all'approfondimento

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DE MATTEIS, L'assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, Torino, 1996; attualmente in, dello stesso A., Infortuni sul lavoro e malattie professionali, Milano, 2016, 206.

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FRAIOLI, L'art. 2087 c.c. è più forte dell'appalto, in Mass. giur. lav. 2009, 7, 543.

BERTOCCO, Una pesante estensione dell'obbligo di sicurezza del datore di lavoro appaltatore nel caso di interferenza tra più imprese nel luogo di lavoro del committente, in Nuova giur. civ. comm., 2009, 6, 603.

GARLATTI, La responsabilità del committente e dell'appaltatore nell'infortunio sul lavoro: il nuovo quadro normativo e giurisprudenziale, in Riv. crit. dir. lav., 2009, 4, 1061.

SANTORO PASSARELLI, I rapporti di collaborazione organizzati dal committente e le collaborazioni continuative e coordinate ex art. 409 n. 3 c.p.c., in ADL 2015, 6.

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