Il licenziamento per scarso rendimento imputabile al lavoratore ha natura ontologicamente disciplinare

Maria Luisa Vallauri
21 Giugno 2016

Il licenziamento per scarso rendimento previsto dall'art. 27 R.D. n. 148/1931 ha natura disciplinare, là dove le condotte che ne determinano l'esistenza siano imputabili al lavoratore e, considerate nella loro dimensione collettiva, configurino il notevole inadempimento che rende legittimo il recesso del datore di lavoro.
Massima

Il licenziamento per scarso rendimento previsto dall'

art. 27 R.D. n. 148/1931

ha natura disciplinare, là dove le condotte che ne determinano l'esistenza siano imputabili al lavoratore e, considerate nella loro dimensione collettiva, configurino il notevole inadempimento che rende legittimo il recesso del datore di lavoro.

Quando lo scarso rendimento imputabile al lavoratore sia generato da illeciti disciplinari già contestati, il principio del ne bis in idem non è violato se tali fatti assumono nuova e diversa rilevanza nella loro dimensione collettiva, incidendo in modo negativo sull'utilità della prestazione resa dal lavoratore.

Il caso

Un lavoratore dipendente di una società di trasporti viene licenziato per “scarso rendimento”. Tale recesso si configura come misura definitiva assunta dal datore di lavoro nei confronti di un suo dipendente già destinatario di numerose contestazioni disciplinari. Secondo il datore di lavoro gli illeciti già sanzionati, considerati ex novo nella loro “dimensione collettiva”, hanno inciso negativamente non solo sul rendimento del lavoratore, ma anche sul regolare servizio di trasporto, perciò palesando uno “scarso rendimento”.

Il licenziamento è intimato in forma scritta, ma senza l'osservanza della procedura di contestazione disciplinare prevista dall'

art. 53 R.D. n. 148/1931

o di quella di cui all'

art. 7 l. n. 300/1970

, essendo inquadrato dal datore di lavoro nella categoria del recesso per giustificato motivo oggettivo.

Il lavoratore impugna il licenziamento contestandone la irritualità e l'ingiustificatezza. Il ricorso viene rigettato dal Tribunale di Roma, adito con rito Fornero, sia in prima istanza che in sede di opposizione.

La Corte di Appello, invece, in riforma della sentenza impugnata, accoglie parzialmente il reclamo: dichiara risolto il rapporto di lavoro giacché rileva il ricorrere di uno scarso rendimento imputabile al lavoratore, ma - riconoscendo al recesso natura disciplinare - condanna il datore di lavoro al pagamento di un'indennità commisurata in dodici mensilità per violazione delle garanzie procedimentali.

La questione

Sono due le questioni al centro della decisione: la natura, disciplinare o meno, del licenziamento per scarso rendimento e la portata del principio del ne bis in idem in relazione alla nozione di scarso rendimento.

Le soluzioni giuridiche

Con riguardo alla questione della natura, disciplinare o meno, del licenziamento per scarso rendimento, occorre ricordare che la fattispecie controversa ricade nell'ambito di applicazione del

R.D. n. 148/1931

, avente ad oggetto lo stato giuridico del personale delle ferrovie, tramvie e linee di navigazione interna in regime di concessione.

L'art. 27 di tale R.D. include fra le ipotesi di esonero definitivo dal servizio lo “scarso rendimento o (…) la palese insufficienza imputabile a colpa dell'agente nell'adempimento delle funzioni del proprio grado”.

La Corte d'Appello si interroga se – nel caso di specie – l'intimato licenziamento per “scarso rendimento”, giustificato dal disservizio generato da una significativa diminuzione dell'utilità della prestazione resa da lavoratore, abbia natura disciplinare o sia piuttosto da considerare come misura organizzativa, perciò riconducibile al giustificato motivo oggettivo.

La risposta offerta dai giudici muove dalla considerazione del dato letterale della disposizione: poiché l'art. 27 impiega la disgiuntiva “o” per separare lo “scarso rendimento” dalla “palese insufficienza”, esso consente di riferire ad entrambe le ipotesi il requisito della imputabilità all'agente delle relative condotte e, pertanto, di qualificare come disciplinare il recesso per scarso rendimento quando questo sia imputabile a colpa del lavoratore.

Questa interpretazione della disposizione si allinea a quella offerta dalla giurisprudenza prevalente, e richiamata nella decisione, secondo la quale quando la fattispecie dello scarso rendimento è integrata dalla colpa dell'agente, essa riveste natura disciplinare (la fattispecie “si configura sempre che (…) lo scarso rendimento sia imputabile a colpa del lavoratore”:

Cass. n. 11593/1993

; la fattispecie consiste in “diminuzioni di rendimento determinate da imperizia, incapacità, negligenza”:

Cass

. n. 16472/2015

e

n. 3210/1997

).

A conferma della bontà di questa ricostruzione la Corte invoca di nuovo l'

art. 27 R.D. n. 148/1931

che anche con riferimento al licenziamento per scarso rendimento affida al “consiglio di disciplina” il compito di vagliare la giustificatezza del recesso, così sottolineando l'apertura del legislatore alla possibilità che esso assuma veste disciplinare. Né è ritenuto argomento contrario a questa soluzione interpretativa la circostanza dell'intervenuta soppressione di tale organo, essendo rimasta immutata la procedura da seguire.

E, infatti, la possibilità che il licenziamento per scarso rendimento si connoti come licenziamento disciplinare comporta che esso sia intimato nel rispetto di una procedura che garantisca il contraddittorio e assicuri il diritto di difesa del lavoratore (

Cass.

n. 10303/2005

). Tale procedura non deve necessariamente essere quella disciplinata dall'

art. 7

l. n. 300/1970

, a condizione – tuttavia - che quella eventualmente prevista da norma speciale (nel caso quella disciplinata dall'

art.

53

del R.D. n. 148/1931

) rispetti i principi stabiliti dalla norma statutaria, che oggi rappresenta la norma generale (

Cass. n. 5551/2013

).

Assodata la possibilità che il licenziamento per scarso rendimento assuma natura disciplinare se imputabile al lavoratore, la Corte d'Appello è sollecitata dalla vicenda sottoposta alla sua attenzione a riflettere sulla definizione di “scarso rendimento” e sulla portata del principio del ne bis in idem.

Nel caso di specie, infatti, lo scarso rendimento posto a base del licenziamento è risultato l'effetto di una fattispecie complessa, composta di più condotte imputabili al lavoratore, considerate non singolarmente bensì nel loro insieme, in relazione all'effetto negativo prodotto sull'utilità della prestazione lavorativa per il datore di lavoro.

L'aspetto singolare è dato dal fatto che tali condotte erano già state sanzionate disciplinarmente dal datore di lavoro (ad eccezione di un ultimo episodio non contestato singolarmente, ma presentato nella narrazione dei fatti come l'occasione per una riconsiderazione nel loro complesso dei comportamenti del prestatore), perciò prospettandosi la possibile violazione del principio in base al quale un fatto non può essere sanzionato più di una volta.

La Corte d'Appello, tuttavia, ha ritenuto nel caso di specie pienamente rispettato il suddetto principio, posto che lo scarso rendimento è stato sì generato dagli illeciti disciplinari passati, ma non singolarmente presi, bensì considerati nella loro dimensione collettiva, in quanto capace di generare ex novo un inadempimento imputabile al lavoratore.

Osservazioni

Nel fornire l'interpretazione all'

art. 27 R.D. n 148/1931

, la Corte d'Appello di Roma si allinea all'opinione dominante formatasi in dottrina e giurisprudenza in tema di recesso datoriale per scarso rendimento.

Secondo questo consolidato orientamento, lo scarso rendimento costituisce un giustificato motivo soggettivo di licenziamento, quando esso dipenda dalla violazione da parte del lavoratore dell'obbligo di diligenza nell'adempimento della prestazione e - perciò - sia a questi imputabile (fra le altre

Cass. n. 3876/2006

;

Cass. n. 13194/2003

). Viceversa non legittima l'esercizio del potere di recesso in siffatti termini quando discenda da una cattiva organizzazione dell'impresa o dall'improprio impiego delle energie lavorative (v. ancora

Cass. n. 13194/2003

e

Cass. n. 14605/2000

) o, ancora, quando il risultato produttivo complessivo sia ascrivibile al concorso di più fattori estranei alla volontà del lavoratore e non sia pertanto a questi imputabile in via esclusiva (Ichino, 2003, 266).

Lo scarso rendimento, in definitiva, ha natura disciplinare quando si configuri come un difetto di intensità della prestazione imputabile al lavoratore, che – al netto di tutte le circostanze del caso concreto (

Cass.

n.

3

250/2003

, Cass. n. 110001/2000) – impedisca al datore di lavoro di conseguire un risultato atteso ed oggettivamente esigibile (Diamanti, 2013, 915 ss.). Sebbene, infatti, il lavoratore subordinato sia “obbligato ad un facere e non ad un risultato” (di nuovo

C

ass. n. 14605/2000

), tuttavia è l'esatto adempimento della prestazione che consente al datore di lavoro di conseguire un'utilità “immediata” (Ichino, 2003, 268 che fa propria la tesi di Mengoni, 1954).

Seguendo questo ragionamento non sono riconducibili al giustificato motivo soggettivo di licenziamento, i casi di scarso rendimento in cui l'impossibilità per il lavoratore di adempiere alla prestazione in modo adeguato derivi da un fattore non imputabile alla sua volontà, come ad esempio il caso di una sopravvenuta parziale inidoneità fisica alla prestazione. In tale ipotesi, la ragione del licenziamento sarà eventualmente riconducibile alla fattispecie del giustificato motivo oggettivo, con ciò che ne consegue in termini di oneri probatori per il datore di lavoro (v., in proposito, la già ricordata

Cass. n 3250/2003

, avente ad oggetto il famoso caso della cameriera che per un'ernia lombosacrale era divenuta inidonea a svolgere la prestazione lavorativa in modo da garantire il risultato atteso, parametrato alla prestazione media degli altri lavoratori).

Fatta questa distinzione, resta la difficoltà di individuare quel grado di negligenza nell'adempimento della prestazione utile a consentire di imputare al lavoratore lo scarso rendimento.

Una volta chiarite le condizioni al ricorrere delle quali il licenziamento per scarso rendimento assume natura disciplinare, la Corte d'Appello definisce tale fattispecie giustificativa come quel comportamento del singolo prestatore capace di incidere negativamente sull'attività produttiva condotta dal datore di lavoro.

Nel caso concreto, l'organo giudicante ha ritenuto di qualificare come scarso rendimento il risultato negativo complessivamente prodotto sull'attività di impresa dagli illeciti disciplinari passati e già sanzionati, imputati al lavoratore poi licenziato.

Il prestatore, infatti, dapprima era stato sanzionato dal datore di lavoro (ben) ventotto volte nell'arco di tre anni (per assenza ingiustificata, violazione di disposizioni aziendali e altre inosservanze del regole inerenti al servizio) accumulando trentacinque ore di multa e ventisette giorni di sospensione, dipoi era stato licenziato per “scarso rendimento”, dunque – a detta del datore di lavoro - per un fatto nuovo, consistente nel risultato negativo dell'attività di impresa riconducibile alla ridotta utilità della prestazione del lavoratore dovuta, per l'appunto, all'insieme di illeciti disciplinari, considerati in questa fase nella loro dimensione collettiva.

Per poter giungere a questa conclusione, tuttavia, la Corte ha dovuto superare l'obiezione circa la supposta violazione del principio del ne bis in idem, posto che – a detta del lavoratore – lo scarso rendimento si componeva di illeciti già sanzionati disciplinarmente e dunque non sanzionabili nuovamente.

Il suddetto principio – com'è noto – ha matrice penalistica, ma è ritenuto dalla dottrina e dalla giurisprudenza principio generale comune a tutti i rami del diritto (dunque anche al diritto del lavoro in riferimento all'esercizio del potere datoriale di irrogare sanzioni disciplinari), in quanto funzionale a garantire che una stessa condotta non sia sanzionata due o più volte a seguito di una diversa valutazione o configurazione giuridica (v.

Cass. n. 3871/1986

, GC, 1986, I, 3141 ove si legge: «in forza del generale principio ne bis in idem, comune a tutti i rami del diritto, il potere di provocare una modificazione nel mondo giuridico dopo che sia stato efficacemente esercitato, dando luogo a quel mutamento, viene a mancare del suo oggetto e quindi si estingue per consunzione. In particolare, il datore di lavoro, una volta esercitato validamente il potere disciplinare nei confronti del prestatore di lavoro in relazione a determinati fatti costituenti infrazioni disciplinari, non può esercitare una seconda volta, per quegli stessi fatti, il detto potere ormai consumato, essendogli consentito soltanto, a norma dell'ultimo comma del cit.

art. 7 legge n. 300 del 1970

, di tener conto della sanzione eventualmente applicata, entro il biennio, ai fini della recidiva”; v. fra le altre anche

Cass. n. 3039/1996

, NGL, 1996, 557;

Cass.

n. 7523

/2009

, Guida lav., 2009, 23, 60; più di recente

Cass

. n. 22388/2014

; cfr. anche Grande Stevens e altri contro Italia - Corte EDU ric. 18640/10, 18647/10, 18663/10, 18668/10 e 18698/10, 4 marzo 2014. Di Paola L., 2010, 47 e ss.).

La Corte d'Appello, tuttavia, ha (correttamente, ad avviso di chi scrive) ritenuto non violato il principio del ne bis in idem, in ragione della circostanza che l'illecito posto a base del licenziamento è consistito in un fatto nuovo rispetto agli illeciti disciplinari già sanzionati, ed esattamente nella scarsa utilità della prestazione del lavoratore per l'attività svolta dal datore di lavoro, avendo le modalità della sua esecuzione, pienamente imputabili al lavoratore, impedito il conseguimento del risultato produttivo atteso.

La fattispecie così delineata corre parallela a quella della recidiva, consentendo - ai fini di legittimare un licenziamento - di attribuire rilevanza a fatti ai quali sia già stata riconosciuta rilevanza disciplinare. Da essa, tuttavia, si differenzia per il fatto che nel caso dello scarso rendimento non è la somma di più illeciti ad essere rilevante, quanto la loro dimensione collettiva in quanto capace di generare un effetto negativo ulteriore sull'attività di impresa.

Guida all'approfondimento

Di Paola L., Il potere disciplinare nel lavoro privato e nel pubblico impiego privatizzato, Milano, Giuffrè, 2010

Diamanti R., Sub

art. 3 legge n. 604/1966

, in De Luca Tamajo, Mazzotta (diretto da) Commentario breve alle leggi del lavoro, Padova, 2013

Ichino P., Il contratto di lavoro vol. II, in Cicu, Messineo, Mengoni (diretto da), Trattato di diritto civile e commerciale, Milano, Giuffrè, 2003

Mengoni L., Obbligazioni “di risultato” e obbligazioni “di mezzi”, Riv. dir. comm., 1954, 190

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