11 Novembre 2024

Nella disciplina dei contratti in generale, i rimedi nei confronti dell’inadempimento di una delle parti sono individuati nella risoluzione (art.1453 ss c.c.) e nel risarcimento del danno (artt. 1218 ss. c.c.). Tuttavia, nel contesto del contratto di lavoro subordinato, l’art. 2106 c.c. attribuisce al datore di lavoro il potere disciplinare, il cui esercizio gli consente di sanzionare il lavoratore inadempiente e modificare immediatamente la sua sfera giuridica, senza la necessità di una preventiva domanda in giudizio. L’intervento giurisdizionale, in questo caso, è infatti previsto come successivo ed eventuale, a fronte, tendenzialmente, d’un’iniziativa del lavoratore tesa a contestare la decisione del datore di lavoro. L’attribuzione in capo al datore di lavoro di questo potere, implicante la titolarità d’un vero e proprio diritto potestativo, è stata bilanciata, a partire dall’intervento della legge n. 300 del 1970, con la previsione di adeguate garanzie in chiave procedimentale a favore del lavoratore. È in questo quadro che s’inserisce dunque la procedimentalizzazione dell’esercizio del potere disciplinare e la configurazione della “contestazione disciplinare”, presupposto per la legittima adozione d’ogni iniziativa sanzionatoria.

Inquadramento

Nella disciplina dei contratti in generale, i rimedi nei confronti dell'inadempimento di una delle parti sono individuati nella risoluzione (art.1453 ss. c.c.) e nel risarcimento del danno (artt. 1218 ss. c.c.). Tuttavia, nel contesto del contratto di lavoro subordinato, l'art. 2106 c.c. attribuisce al datore di lavoro il potere disciplinare, il cui esercizio gli consente di sanzionare il lavoratore inadempiente e modificare immediatamente la sua sfera giuridica, senza la necessità di una preventiva domanda in giudizio. L'intervento giurisdizionale, in questo caso, è infatti previsto come successivo ed eventuale, a fronte, tendenzialmente, d'un'iniziativa del lavoratore tesa a contestare la decisione del datore di lavoro.

L'attribuzione in capo al datore di lavoro di questo potere, implicante la titolarità d'un vero e proprio diritto potestativo, è stata bilanciata, a partire dall'intervento della legge n. 300 del 1970, con la previsione di adeguate garanzie in chiave procedimentale a favore del lavoratore, finalizzate a delimitare il potere unilaterale del datore di lavoro e comprimere ogni sua manifestazione arbitraria. È in questo quadro che s'inserisce dunque la procedimentalizzazione dell'esercizio del potere disciplinare e la configurazione della “contestazione disciplinare”, presupposto per la legittima adozione d'ogni iniziativa sanzionatoria.

Il procedimento disciplinare secondo l'art. 7 Stat. Lav.

La disciplina dell'iter sanzionatorio trova la propria collocazione nell'art. 7, legge n. 300 del 1970 (Statuto dei lavoratori).

Un primo riferimento alla contestazione disciplinare è contenuto già nel primo comma, a mente del quale «le norme disciplinari relative alle sanzioni, alle infrazioni in relazione alle quali ciascuna di esse può essere applicata ed alle procedure di contestazione delle stesse, devono essere portate a conoscenza dei lavoratori mediante affissione in luogo accessibile a tutti. Esse devono applicare quanto in materia è stabilito da accordi e contratti di lavoro ove esistano».

È in tal modo previsto l'obbligo di affissione del codice disciplinare[1], mediante il quale trova espressione il principio di tipicità degli illeciti disciplinari[2]. L'obbligo in questione garantisce del resto che la finalità punitiva, propria della sanzione, s'abbini alla preventiva conoscenza del lavoratore di quali siano i comportamenti vietati e sanzionabili. È tuttavia da chiarire che l'obbligo datoriale in questione si colloca al di fuori del procedimento disciplinare, rappresentando piuttosto una condizione preventiva d'ammissibilità dello stesso.

In evidenza

Secondo Cass., n. 33811/2022, l'obbligo di affissione è soddisfatto sia quando le norme disciplinari siano affisse come tali, avulse dal contratto che le contiene, sia quando sia affisso il contratto che contiene le stesse norme. Tuttavia, secondo la medesima pronuncia, nel caso in cui l'affissione abbia ad oggetto il codice di disciplina interno dell'azienda, esso è efficace è efficace solo se portato a conoscenza dei lavoratori mediante affissione in luogo accessibile a tutti, mentre resta esclusa la possibilità di considerare equipollenti i mezzi di comunicazione che abbiano come destinatari i singoli dipendenti individualmente considerati.

Rinviando ad un'altra sede un'accurata del principio di tipicità e del principio di tassatività degli illeciti disciplinari, va qui precisato che nel contesto della disciplina lavoristica, essi hanno una connotazione flessibile e non assimilabile a quella proprio dell'illecito penale [cfr. Cass., n. 33811/2021]. Con particolare riferimento alle ipotesi di “giusta causa” di licenziamento previste dalla contrattazione collettiva, è stato affermato che «l'elencazione delle ipotesi di giusta causa di licenziamento contenuta nei contratti collettivi ha, al contrario che per le sanzioni disciplinari con effetto conservativo, valenza meramente esemplificativa, sicché non preclude un'autonoma valutazione del giudice di merito in ordine all'idoneità di un grave inadempimento, o di un grave comportamento del lavoratore contrario alle norme della comune etica o del comune vivere civile, a far venire meno il rapporto fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore» [Cass., n. 2830/2016. V. anche Cass., n. 19023/2019. In tema cfr. anche Cass., n. 17306/2024 e Cass., n. 36247/2024]

Il procedimento disciplinare inizia, invece, proprio con la formulazione della contestazione, cui è dedicato apertamente il secondo comma 2 dell'art. 7 St. Lav. Esso dispone che «i l datore di lavoro non può adottare alcun provvedimento disciplinare nei confronti del lavoratore senza avergli preventivamente contestato l'addebito e senza averlo sentito a sua difesa».

Dopo che il successivo comma 3 riconosce al lavoratore la facoltà di farsi assistere, per le proprie difese in sede disciplinare, da un'associazione sindacale, il quinto comma completa la disciplina del procedimento in parola chiarendo che «in ogni caso, i provvedimenti disciplinari più gravi del rimprovero verbale non possono essere applicati prima che siano trascorsi cinque giorni dalla contestazione per iscritto del fatto che vi ha dato causa».

Lo schema così predisposto è chiaro: qualora ritenga di adottare una sanzione, il datore di lavoro deve contestare in forma scritta l'illecito disciplinare al lavoratore, accordandogli un termine a difesa non inferiore a cinque giorni.

In evidenza

Sulla mancata audizione del lavoratore Cass., n. 7392/2022 e Cass., n. 18136/2020 hanno affermato che la fattispecie va sussunta entro lo schema di cui all'art. 18, comma 6, St. Lav., trattandosi d'un vizio procedimentale. In merito alla richiesta di audizione orale formulata dal lavoratore dopo le difese scritte ma entro il termine di cui all'art. 7, comma 5, St. Lav., Cass. n. 19846/2020 ha chiarito che il datore di lavoro è tenuto a provvedere all'audizione - con conseguente illegittimità della sanzione adottata in mancanza di tale adempimento - senza poter sindacare la necessità o opportunità della integrazione difensiva. Cass., n. 980/2020 ha invece precisato che una semplice certificazione medica, inespressiva di un effettivo ostacolo all'allontanamento da casa, è inidonea a giustificare l'impossibilità di presenziare all'audizione personale dallo stesso richiesta.

L'ambito d'applicazione del procedimento disciplinare

L'iter in commento è prodromico all'adozione dei provvedimenti disciplinari.

Questi tendono a distinguersi in provvedimenti di natura conservativa, tali in quanto non pongono in discussione la prosecuzione del rapporto di lavoro, e provvedimenti espulsivi, riconducibili alle figure del licenziamento per giustificato motivo soggettivo e al licenziamento per giusta causa.

Da una lettura panoramica dei contratti collettivi, le sanzioni conservative possono essere identificate nel rimprovero verbale, nel rimprovero scritto, nella multa e nella sospensione dal servizio. Che la preventiva contestazione sia condizione di legittimità per l'adozione di una di queste sanzioni è una circostanza del tutto scontata a fronte del chiaro dettato dell'art. 7 St. Lav..

Quanto invece alle sanzioni espulsive, la questione in passato è stata controversa.

Rispetto a queste ipotesi, s'impone preventivamente la distinzione tra licenziamento per giustificato motivo soggettivo, intimato con preavviso e in conseguenza del “notevole inadempimento” del lavoratore, secondo l'art. 3, legge n. 604 del 1966, e licenziamento per giusta causa, ossia intimato senza preavviso per quella causa che, ai sensi dell'art. 2119 c.c., non consente la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto. In mancanza d'ulteriori indicazioni in ordine al significato della locuzione “giusta causa”, la giurisprudenza e la dottrina hanno ricostruito tale presupposto in termini di “grave inadempimento”.

In entrambi i casi di licenziamento appena menzionati, e per quanto qui rileva, il recesso deriva da una condotta manchevole del lavoratore, o comunque da una sua condotta, anche extra-lavorativa, /in grado di incidere sulla prosecuzione del rapporto, tanto che, rispetto a queste due ipotesi di recesso, si parla di licenziamento ontologicamente disciplinare [Cass., n. 14326/2012].

Come accennato, tuttavia, la loro natura disciplinare non ha condotto immediatamente a ritenere applicabile, in vista della loro adozione, il procedimento di cui all'art. 7 St. Lav..

Invero, le Sezioni unite della Corte di cassazione, pur riconoscendo che le innovazioni contenute nell'art. 7 apprestavano in definitiva al lavoratore una tutela più efficace di quella predisposta per i licenziamenti individuali con la legge n. 604 del 1966, enunciarono il principio di diritto secondo cui «il licenziamento intimato per inadempimento o mancanza del lavoratore é assoggettato alla disciplina contenuta nell'art. 2119 cod. civ. e nella legge 15 luglio 1966 n. 604, a meno che non sia applicabile all'atto una diversa disciplina (legislativa, collettiva o validamente posta dallo stesso datore di lavoro) la quale, oltre ad includerlo fra le sanzioni disciplinari, lo sottoponga al regime giuridico per queste previsto dall'art. 7 legge 20 maggio 1970 n. 300 o da altra fonte equipollente» [Cass., SS.UU., n. 1781/1981].

Fu la Corte costituzionale, in un proprio storico precedente, a stabilire che le garanzie di cui all'art. 7 St. Lav. trovano applicazione anche rispetto alle ipotesi di licenziamento, affermando che «una volta introdotta con i commi secondo e terzo l'osservanza del contraddittorio tra datore e lavoratore quale indefettibile regola di formazione delle misure disciplinari, l'escluderne il licenziamento disciplinare sol perché la sua normativa non richiama l'art. 7 suona offesa dell'art. 3 [Cost., n.d.r.] pur a prescindere dalla maggiore gravità del licenziamento rispetto alle altre misure disciplinari. Né ad attingere opposto avviso vale richiamare la tradizione legislativa o collettiva caratterizzata dalla posizione di distinti principi per il licenziamento e le altre misure disciplinari perché siffatta tradizione, se può essere di qualche peso sul piano dell'interpretazione, non è idonea a fare della l. 604/1966 (e dell'art. 18 comma primo l. 300/1970) una norma di grado superiore, che valga a porre in forse l'applicazione del canone di coerenza» [Corte cost., n. 204/1982].

In questo quadro, dunque, è oggi incontroverso che il procedimento disciplinare, ed in particolare l'obbligo di preventiva contestazione dell'addebito, trovi applicazione ogniqualvolta il datore di lavoro intenda esercitare il proprio potere disciplinare e ritenga di procedere adottando una sanzione conservativa o espulsiva [Cass., n. 2365/2020].

Scendendo nel dettaglio, quanto precede, vale anche per l'ipotesi in cui la sanzione di sostanzi in un rimprovero verbale formalizzato per iscritto [Cass., n. 17932/2002].

Inoltre, secondo un altro autorevole precedente dalla Corte costituzionale, le garanzie in discorso operano a prescindere dal numero di dipendenti in forza presso il datore di lavoro [Corte cost., n. 427/1989].

Infine, in quanto espressive di un principio di generale garanzia fondamentale, a tutela di tutte le ipotesi di licenziamento disciplinare, il procedimento va condotto anche nell'ipotesi del licenziamento del dirigente, a prescindere dalla sua specifica collocazione nell'impresa, qualora il datore di lavoro gli addebiti un comportamento negligente, o colpevole in senso lato, ovvero se a base del recesso siano poste condotte comunque suscettibili di pregiudicare il rapporto di fiducia tra le parti, sicché la loro violazione preclude le possibilità di valutare le condotte causative del recesso [Cass., n. 269/2024].

Va peraltro precisato che, all'opposto, la disciplina in commento non trova applicazione nel procedimento disciplinare degli autoferrotranvieri, per il quale l'art. 53, All. A., r.d. n. 148 del 1931, prevede una procedura maggiormente garantita, articolata in più fasi e tuttora vigente, sicché il ricorso alla normativa generale è possibile solo ove si riscontrino lacune non superabili neanche attraverso l'interpretazione estensiva o analogica [Cass. n. 6765/2023].

La contestazione disciplinare

Rispetto alle caratteristiche della contestazione disciplinare, l'art. 7 St. Lav. offre due sole indicazioni. Essa, innanzitutto, deve essere “preventiva” rispetto alla sanzione, ciò che è del tutto scontato in considerazione della sua funzione. In secondo luogo, secondo quanto disposto dal comma 5, la contestazione deve essere formulata «per iscritto».

Da un punto di vista tassonomico, la contestazione disciplinare è un atto ricettizio, in quanto tale soggetto alla disciplina di cui all'art. 1335 c.c.. Tuttavia, la Corte di cassazione ha precisato che, nell'ambito del procedimento di irrogazione delle sanzioni disciplinari, la presunzione di conoscenza ex art. 1335 c.c. non opera nell'ipotesi in cui il datore di lavoro sia a conoscenza dell'allontanamento del lavoratore dal domicilio e dunque dell'impedimento dello stesso a prendere conoscenza della contestazione inviata [Cass., n. 4795/2023].

Accanto a questi profili, riconducibili a requisiti formali dell'atto, la giurisprudenza ha individuato nel tempo ulteriori caratteristiche sostanziali della contestazione disciplinare, tutte ispirate dalla funzione fondamentale di quest'ultima, ossia garantire al lavoratore incolpato la possibilità di esercitare compiutamente, e già in sede disciplinare, il proprio diritto di difendersi dagli addebitati formulati a suo carico.

(Segue): il principio d'immediatezza della contestazione disciplinare

È circostanza intuitiva quella per cui la ricostruzione del fatto e la formulazione di puntuali difese nel merito in tanto saranno più semplici e accurate, in quanto si collochino ad una distanza temporale ravvicinata rispetto al momento in cui l'episodio controverso si è verificato. Al contempo, è pacifico che, in mancanza di contestazioni per un arco di tempo apprezzabile, il lavoratore, autore di una condotta di rilievo disciplinare, possa nutrire il legittimo affidamento che non sarà sanzionato per l'illecito.

Sulla base di queste considerazioni, è consolidato l'orientamento per cui la contestazione disciplinare deve rispondere al “principio d'immediatezza”, in base al quale il datore di lavoro deve procedere all'avvio del procedimento disciplinare tempestivamente, ossia non appena abbia avuto una conoscenza dei fatti idonea alla formulazione della contestazione.

L'apprezzamento della condotta datoriale va condotto considerando ogni peculiarità del caso concreto; il principio in questione, infatti, ha carattere relativo, dovendosi dare conto delle ragioni che possono cagionare il ritardo, quali il tempo necessario per l'accertamento dei fatti o la complessità della struttura organizzativa dell'impresa [Cass., n. 14726/2024].

In quest'ottica, deve dunque valorizzarsi la complessità del quadro da accertare, tenendo anche conto che la ponderata e responsabile valutazione dei fatti da parte del datore di lavoro può e deve precedere la contestazione anche nell'interesse del prestatore di lavoro, che altrimenti sarebbe palesemente colpito da incolpazioni avventate o comunque non sorrette da una sufficiente certezza [Cass., n. 109/2024]. Sotto questo profilo, spetta al giudice di merito verificare in concreto quando un potenziale illecito disciplinare sia stato scoperto nei suoi connotati sufficienti a consentirne la contestazione in via disciplinare, mentre costituisce questione di diritto, sindacabile in sede di legittimità, determinare se l'arco temporale intercorso tra la scoperta dell'illecito disciplinare e la sua contestazione dia luogo, o meno, a violazione del diritto di difesa del lavoratore [Cass., n. 23346/2018].

Nel procedere alla valutazione della tempestività del datore di lavoro, deve considerarsi che questi ha il potere, ma non l'obbligo, di controllare in modo continuo i propri dipendenti, contestando loro immediatamente qualsiasi infrazione al fine di evitarne un possibile aggravamento, atteso che un simile obbligo, non previsto dalla legge né desumibile dai principi di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c., negherebbe in radice il carattere fiduciario del lavoro subordinato. Per questo, la tempestività della contestazione disciplinare va valutata non in relazione al momento in cui il datore avrebbe potuto accorgersi dell'infrazione ove avesse controllato assiduamente l'operato del dipendente, ma con riguardo all'epoca in cui ne abbia acquisito piena conoscenza [Cass., n. 7467/2023].

Al contempo, il datore di lavoro non può giustificare il proprio ritardo in funzione di una propria organizzazione interna deficitaria. Infatti, il ritardo nella contestazione dell'addebito non può essere giustificato dal fatto che i diretti superiori gerarchici del lavoratore abbiano omesso di riferire tempestivamente agli organi titolari del potere disciplinare in ordine all'infrazione posta in essere dal dipendente, in quanto, in assenza di prova rigorosa della sussistenza di specifiche ragioni organizzative impeditive di una più celere definizione della procedura disciplinare, il ritardo in questione, pur con riguardo ad una organizzazione aziendale complessa e articolata sul territorio, deve essere ascritto alla cattiva organizzazione del datore di lavoro [Cass., n. 35664/2021].

Inoltre, dovrà comunque tenersi conto dell'effettiva necessità di procedere ad approfondimenti utili alla contestazione. Lede infatti il principio d'immediatezza, con pregiudizio al diritto di difesa del lavoratore e al suo legittimo affidamento, la condotta del datore di lavoro che, a fronte della sostanziale ammissione dei fatti da parte del lavoratore, glieli contesti a distanza di mesi dall'accertamento senza che sussista la necessità di ulteriore istruttoria, dovendo il datore procedere alla contestazione non appena abbia acquisito una compiuta e meditata conoscenza dei fatti oggetto di addebito [Cass., n. 29627/2018].

Peraltro, ove il fatto di valenza disciplinare abbia anche rilievo penale, il principio dell'immediatezza della contestazione non è violato qualora il datore abbia scelto di attendere l'esito degli accertamenti svolti in sede penale per giungere a contestare l'addebito solo quando i fatti a carico del lavoratore gli appaiano ragionevolmente sussistenti [Cass., n. 27069/2018].

(Segue): il principio di specificità della contestazione

Come si è avuto modo di notare, l'immediatezza della contestazione va calibrata in funzione del tempo occorrente per acquisire una piena conoscenza dei fatti, utile a consentire la loro compiuta contestazione.

L'immediata ricaduta di questa circostanza è che la stessa contestazione debba rispondere al “principio di specificità”, in base al quale l'addebito deve essere descritto con adeguata precisione, in modo tale da consentire al lavoratore una puntuale difesa.

 Il carattere della specificità, secondo la Corte di cassazione, è integrato quando sono fornite le indicazioni necessarie ed essenziali per individuare, nella sua materialità, il fatto o i fatti nei quali il datore di lavoro abbia ravvisato infrazioni disciplinari o comunque comportamenti in violazione dei doveri di cui agli artt. 2104 e 2105 c.c. [Cass., n. 9590/2018].

Nell'apprezzare la sussistenza del requisito della specificità della contestazione il giudice di merito deve verificare, al di fuori di schemi rigidi e prestabiliti, se la contestazione offre le indicazioni necessarie ed essenziali per individuare, nella sua materialità, il fatto o i fatti addebitati tenuto conto del loro contesto e verificare altresì se la mancata precisazione di alcuni elementi di fatto abbia determinato un'insuperabile incertezza nell'individuazione dei comportamenti imputati, tale da pregiudicare in concreto il diritto di difesa [Cass., n. 6889/2018]. In quest'ottica, la difesa esercitata in sede di giustificazioni è un elemento concretamente valutabile per ritenere provata la non genericità della contestazione [Cass., n. 9590/2018]. 

Inoltre, ove la contestazione sia stata formulata in maniera generica per una parte dell'addebito, è corretto l'operato del giudice di merito che abbia valutato, ai fini della verifica circa la legittimità, o meno, della sanzione, solo i fatti specificamente contestati, senza tener conto dei fatti genericamente indicati [Cass., n. 19632/2018].

La valorizzazione del principio in questione deve essere compiuta senza riguardo a profili squisitamente formali, ma considerandone la portata in funzione del diritto di difesa. In tal senso, per esempio, è stata affermata la piena ammissibilità della contestazione per relationem, mediante il richiamo agli atti del procedimento penale instaurato a carico del lavoratore, per fatti e comportamenti rilevanti anche ai fini disciplinari, ove le accuse formulate in sede penale siano a conoscenza dell'interessato, risultando rispettati, anche in tale ipotesi, i principi di correttezza e garanzia del contraddittorio [Cass., n. 10662/2014. Nello stesso senso, v. Cass., n. 29240/2017].

Proprio per questo, poiché la contestazione degli addebiti e il relativo grado di precisione risponde all'esigenza di consentire concretamente all'incolpato di approntare la propria difesa, spetta al lavoratore, che si dolga della genericità della contestazione e della violazione del principio di sua immodificabilità, chiarire in che modo ne sia risultato leso il suo diritto di difesa [Cass., n. 30271/2022].

Va inoltre chiarito che la specificità si riferisce ai fatti contestati. Essa non implica, in capo al datore di lavoro, alcun onere d'ostensione del materiale probatorio raccolto per procedere alla contestazione. Infatti, la contestazione dell'addebito ha la funzione di indicare il fatto contestato al fine di consentire la difesa del lavoratore, mentre non ha per oggetto le relative prove, soprattutto per i fatti che, svolgendosi fuori dall'azienda, sfuggono alla diretta cognizione del datore di lavoro; conseguentemente, è sufficiente che quest'ultimo indichi la fonte della sua conoscenza [Cass., n. 3820/2022].

Del resto, l'art. 7 St. Lav. non prevede, nell'ambito del procedimento disciplinare, l'obbligo per il datore di lavoro di mettere a disposizione del lavoratore, nei cui confronti sia stata elevata una contestazione di addebiti di natura disciplinare, la documentazione aziendale relativa ai fatti contestati, restando salva la possibilità per il lavoratore medesimo di ottenere, nel corso del giudizio ordinario di impugnazione del licenziamento irrogato all'esito del procedimento suddetto, l'ordine di esibizione della documentazione stessa. Il datore di lavoro è tenuto, tuttavia, ad offrire in consultazione all'incolpato i documenti aziendali solo in quanto e nei limiti in cui l'esame degli stessi sia necessario al fine di una contestazione dell'addebito idonea a permettere alla controparte un'adeguata difesa; ne consegue che, in tale ultima ipotesi, il lavoratore che lamenti la violazione di tale obbligo ha l'onere di specificare i documenti la cui messa a disposizione sarebbe stata necessaria al predetto fine [Cass., n. 27093/2018].

Infine, poiché la contestazione è destinata ad ospitare ogni profilo di fatto rilevante in vista dell'adozione del successivo provvedimento disciplinare, la Cassazione ha chiarito che la preventiva contestazione dell'addebito al lavoratore incolpato deve riguardare anche la recidiva (o comunque i precedenti disciplinari che la integrano), ove questa rappresenti elemento costitutivo della mancanza addebitata [Cass., n. 23924/2010. In termini, v. Cass., n. 1909/2018]. Peraltro, la contestazione di precedenti provvedimenti sanzionatori del datore di lavoro non richiede che gli stessi siano divenuti definitivi (ossia che siano stati confermati con sentenza passata in giudicato), atteso che la recidiva a fini disciplinari presenta caratteri autonomi rispetto all'omologo istituto regolato dal diritto penale, costituendo espressione di autonomia privata del datore di lavoro, in relazione alla quale l'impugnazione da parte del lavoratore sanzionato è solo eventuale e, in ogni caso, non è causa di sospensione della sua efficacia [Cass., n. 17685/2018].

(Segue): il principio d'immodificabilità del fatto. La corrispondenza tra contestazione e sanzione disciplinare

Nel rapporto tra contestazione e sanzione va considerato, per un verso, che, nel procedimento disciplinare a carico del lavoratore, l'essenziale elemento di garanzia in suo favore è dato dalla contestazione dell'addebito, mentre la successiva comunicazione del recesso ben può limitarsi a richiamare quanto in precedenza contestato, non essendo tenuto il datore di lavoro a descrivere nuovamente i fatti in contestazione per rendere puntualmente esplicitate le motivazioni del recesso e per manifestare come gli stessi non possano ritenersi abbandonati o superati [Cass., n. 28471/2018].

Per altro verso, la specificità della contestazione, su cui s'è appuntata la difesa del lavoratore, sarebbe integralmente frustrata se il datore di lavoro modificasse il fatto e procedesse ad elevare la sanzione sulla base d'un fatto diverso da quello indicato al momento dell'avvio del procedimento disciplinare.

Sussiste dunque il principio d'immodificabilità del fatto, espressivo della necessaria corrispondenza tra fatto contestato e fatto posto alla base della sanzione disciplinare, nonché corollario dell'obbligo di motivazione del recesso di cui all'art. 2, comma 2, legge n. 604 del 1966.

Il principio in commento va apprezzato rispetto ai fatti concreti addebitati al lavoratore. Infatti, il principio di immutabilità della contestazione attiene al complesso degli elementi materiali connessi all'azione del dipendente e può dirsi violato solo ove venga adottato un provvedimento sanzionatorio che presupponga circostanze di fatto nuove o diverse rispetto a quelle contestate, così da determinare una concreta menomazione del diritto di difesa dell'incolpato, e non quando il datore di lavoro proceda a un diverso apprezzamento o a una diversa qualificazione del medesimo fatto, come accade nell'ipotesi di modifica dell'elemento soggettivo dell'illecito [Cass., n. 11540/2020].

Va tuttavia chiarito che il principio di necessaria corrispondenza tra addebito contestato e addebito posto a fondamento della sanzione disciplinare non va inteso in modo rigido e contrario alla dialettica destinata a svilupparsi nel corso dell'iter sanzionatorio. Esso non può ritenersi violato qualora, contestati atti idonei ad integrare un'astratta previsione legale, il datore di lavoro alleghi, nel corso del procedimento disciplinare, circostanze confermative o ulteriori prove, in relazione alle quali il lavoratore possa agevolmente controdedurre [Cass., n. 19023/2018].

Questa dialettica intorno alla ricostruzione del fatto da porre alla base della sanzione deve però esaurirsi nella fase stragiudiziale. In sede giudiziale, infatti, al fine di tutelare in modo effettivo il diritto di difesa del lavoratore, le condotte sulle quali è incentrato l'esame del giudice di merito non devono, nella sostanza fattuale, differire da quelle poste a fondamento della sanzione espulsiva, pena lo sconfinamento dei poteri del giudice in ambito riservato alla scelta del datore di lavoro [Cass., n. 3079/2020]. È proprio in quest'ottica che la giurisprudenza suole affermare che il principio di necessaria corrispondenza tra addebito contestato e addebito posto a fondamento della sanzione disciplinare può ritenersi violato qualora il datore di lavoro alleghi, nel corso del giudizio, circostanze nuove che, in violazione del diritto di difesa, implicano una diversa valutazione dei fatti addebitati, salvo si tratti di circostanze confermative, in relazione alle quali il lavoratore possa agevolmente controdedurre, ovvero che non modifichino il quadro generale della contestazione [Cass., n. 8293/2019].

Peraltro, la contestazione dell'addebito nel procedimento disciplinare è corretta se ha ad oggetto i dati e gli aspetti essenziali del fatto materiale posto a fondamento del provvedimento sanzionatorio, così da garantire un'adeguata difesa dell'incolpato; l'immodificabilità della causa di licenziamento riguarda, quindi, solo gli elementi di fatto e non già la qualificazione dei medesimi, attività valutativa che appartiene in via esclusiva al giudice [Cass., n. 16190/2002].

Le conseguenze della violazione delle regole e principi in tema di contestazione disciplinare

Il superamento della tradizionale dicotomia tra tutela reale e tutela obbligatoria in caso di licenziamenti illegittimi avvenuta a seguito della riforma dell'art. 18 St. Lav, introdotta dalla legge n. 92 del 2012, ha segnato anche uno spartiacque tra vizi sostanziali e vizi procedurali del licenziamento. I confini tra le due ipotesi sono stati tratteggiati dal “nuovo” comma 6 dell'art. 18 St. Lav., cui fa eco l'art. 4, d. lgs. n. 23 del 2015.

La prima disposizione, infatti, ha previsto una tutela prettamente indennitaria, che ha carattere residuale, in quanto si applica soltanto quando il giudice non accerti anche il difetto di giustificazione del licenziamento. Il giudice, in tale fattispecie, dichiara risolto il rapporto di lavoro e attribuisce al lavoratore «un'indennità risarcitoria onnicomprensiva determinata, in relazione alla gravità della violazione formale o procedurale commessa dal datore di lavoro, tra un minimo di sei e un massimo di dodici mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, con onere di specifica motivazione a tale riguardo».

Anche la tutela di cui all'art. 4 ha carattere residuale e non si applica quando il giudice ravvisi i presupposti del licenziamento discriminatorio, nullo, intimato in forma orale o carente di giusta causa o di giustificato motivo oggettivo o soggettivo. La previsione regola la sola ipotesi del licenziamento «intimato con violazione del requisito di motivazione di cui all'articolo 2, comma 2, della legge n. 604 del 1966 o della procedura di cui all'articolo 7 della legge n. 300 del 1970». Ove riscontri i vizi indicati, il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro e condanna «il datore di lavoro al pagamento di un'indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale di importo pari a una mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a due e non superiore a dodici mensilità».

Chiari i formali perimetri applicativi di queste disposizioni, la giurisprudenza si è tuttavia a lungo esercitata nell'enucleazione di vizi che, all'apparenza formali, hanno tuttavia una portata sostanziale e che, in quanto tali, devono condurre alla tutela tipicamente prevista per i vizi “sostanziali”. Ciò perché come ribadito ancora di recente dalla Corte costituzionale [Corte cost., n. 150/2020], le prescrizioni formali, la cui violazione il legislatore ha inteso sanzionare con la tutela indennitaria, rivestono una essenziale funzione di garanzia, ispirata a valori di civiltà giuridica. Nell'àmbito della disciplina dei licenziamenti, il rispetto della forma e delle procedure assume un rilievo ancora più pregnante, poiché segna le tappe di un lungo cammino nella progressiva attuazione dei princìpi costituzionali. In particolare, è stato evidenziato che le previsioni dell'art. 7 St. Lav. assegnano un ruolo centrale al principio del contraddittorio, più che mai cruciale nell'esercizio di un potere privato che si spinge fino a irrogare la sanzione espulsiva. La conoscibilità delle norme disciplinari, la preventiva contestazione dell'addebito, il diritto del lavoratore di essere sentito, non sono vuote prescrizioni formali, ma concorrono a tutelare la dignità del lavoratore e impongono alle parti di esternare le contrapposte ragioni, al fine di chiarire i punti controversi e favorire, ove possibile, composizioni stragiudiziali. Tali garanzie preludono ad un esercizio più efficace del diritto di difesa nel corso della fase giudiziale che il lavoratore può scegliere di instaurare successivamente. La violazione delle prescrizioni formali e procedurali, all'origine di un possibile e più ampio contenzioso riferito al recesso del datore di lavoro, rischia di disperdere gli elementi di prova che si possono acquisire nell'immediatezza dei fatti e attraverso un sollecito contraddittorio e incide, pertanto, sull'effettività del diritto di difesa del lavoratore.

Per questa via, il radicale difetto della contestazione disciplinare non viene etichettato come una mera omissione procedurale; esso, secondo la Cassazione, determina l'inesistenza dell'intero procedimento, e non solo l'inosservanza delle norme che lo disciplinano, con conseguente applicazione della tutela reintegratoria, di cui al comma 4 dell'art. 18 della l. n. 300 del 1970, come modificato dalla legge n. 92 del 2012, richiamata dal comma 6 del predetto articolo per il caso di difetto assoluto di giustificazione del provvedimento espulsivo [Cass., n. 4879/2020]. Il pilastro su cui si fonda questa valutazione è che l'art. 18 pone al centro della valutazione del giudice proprio il “fatto contestato”, sicché, qualora non sia stato contestato alcun fatto, non vi è alcun elemento fattuale posto alla base del licenziamento e, pertanto, deve accordarsi la tutela ripristinatoria. Si tratta di soluzione valida anche nei casi di recesso sottoposti alla disciplina di cui al d. lgs. n. 23 del 2015, posto che anche l'art. 3 del d. lgs. cit. pone il “fatto contestato” al centro della valutazione giudiziale.

Lo stesso è a dirsi nel caso in cui ad essere violato sia il principio d'immutabilità del fatto contestato, posto che, anche in questo caso, lo scrutinio verrebbe a concentrarsi su un fatto, a ben vedere, mai effettivamente contestato.

Argomentazioni analoghe sono state impiegate anche in presenza del difetto di specificità della contestazione disciplinare. Poiché la contestazione disciplinare deve delineare l'addebito, come individuato dal datore di lavoro, e quindi la condotta ritenuta disciplinarmente rilevante, in modo da tracciare il perimetro dell'immediata attività difensiva del lavoratore, laddove la contestazione dell'infrazione non sia sufficientemente specifica, al punto da impedire una compiuta difesa del lavoratore, il licenziamento non può fondarsi su tali fatti ed è quindi giocoforza che si applichino le medesime conseguenze in cui venga accertata l'insussistenza del fatto contestato [Cass., n. 19632/2018].

Maggiormente discussa, anche per le ipotesi regolate ancora dall'art. 18 St. Lav., è invece l'eventualità che il vizio attenga al difetto di tempestività della contestazione disciplinare.

Invero, le Sezioni unite della Corte di cassazione [Cass., SS.UU., n. 30985/2017] hanno riconosciuto, in presenza di questo vizio, la tutela indennitaria forte di cui all'art. 18, comma 5, St. Lav., escludendo che il grave ed immotivato ritardo datoriale nella contestazione dell'addebito giustificativo del licenziamento possa essere fatto rientrare nell'alveo della disciplina di cui al comma 6 dell'art. 18; secondo la Corte, il principio della tempestività della contestazione può risiedere anche in esigenze più importanti del semplice rispetto delle regole, pur esse essenziali, di natura procedimentale, vale a dire nella necessità di garantire al lavoratore una difesa effettiva e di sottrarlo al rischio di un arbitrario differimento dell'inizio del procedimento disciplinare. In tal modo, viene riconosciuto che il fondamento logico-giuridico della regola generale della tempestività della contestazione disciplinare non soddisfa solo l'esigenza di assicurare al lavoratore incolpato l'agevole esercizio del diritto di difesa, ma appaga anche l'esigenza di impedire che l'indugio del datore di lavoro possa avere effetti intimidatori, nonché quella di tutelare l'affidamento che il dipendente deve poter fare sulla rinuncia dello stesso datore di lavoro a sanzionare una mancanza disciplinare allorquando questi manifesti, attraverso la propria inerzia protratta nel tempo, un comportamento in tal senso concludente.  Tuttavia, le Sezioni Unite hanno escluso che tale violazione possa essere fatta coincidere, sic et simpliciter, con la mancanza degli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa, per insussistenza del fatto contestato. Detto che nella fattispecie esaminata dalla Suprema Corte il fatto contestato era stato accertato, le Sezioni Unite hanno affermato che alla mancanza disciplinare va senz'altro riconosciuto il dovuto rilievo, ma, al contempo, hanno additato come incongrua una soluzione che sanzioni il contegno datoriale alla stregua d'una mera violazione degli obblighi di forma, posto che il ritardo non solo viola il diritto di difesa del lavoratore, ma lo sottomette ad una indeterminata condizione di assoggettamento alla reazione disciplinare del datore di lavoro.

Questa soluzione, tuttavia, è stata posta in discussione in modo acuto dalla giurisprudenza di merito [Trib. Ravenna, ord. 12.01.2022], che ha ricondotto l'ipotesi entro lo schema dell'art. 18, comma 4, St. Lav. proprio sulla base di talune argomentazioni contenute nel precedente delle Sezioni unite. Invero, se la tempestività è posta anche a tutela dell'affidamento del lavoratore, e se il trascorrere del tempo, abbinato all'inerzia datoriale, può legittimamente indurre a ritenere che il potere disciplinare non sarà esercitato, dovrebbe ritenersi che «un fatto ‘perdonato' (divenuto quindi disciplinarmente irrilevante) non può ritornare ad essere un fatto disciplinarmente rilevante e giustificare un licenziamento tardivo”; al contrario, esso non potrà che “essere considerato giuridicamente insussistente laddove posto a fondamento di un licenziamento tardivo, con conseguente applicazione del 4° comma dell'art. 18».

Nondimeno, nei suoi successivi arresti, la Corte di cassazione ha consolidato l'orientamento espresso in precedenza nella sua massima composizione [cfr., tra le altre, Cass., n. 18070/2023]. In questo senso, scartato comunque il mero rilievo formale del vizio, e nella misura in cui la vicenda è stata attratta tra le ipotesi di cui al comma 5 dell'art. 18 St. Lav., ossia tra le altre ipotesi in cui il giudice accerta che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro, è da ritenere che, per i casi regolati dal d. lgs. n. 23 del 2015, debba trovare applicazione l'art. 3, comma 1, dedicato ai casi in cui risulta accertato che non ricorrono gli estremi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo o per giustificato motivo soggettivo o giusta causa.

Riferimenti

Normativi

Legge 20 maggio 1970, n. 300 (Statuto dei lavoratori)

Legge 15 luglio 1966, n. 604

D.Lgs. 23/2015 

art. 2094 c.c.

art . 2104 c.c.

art. 2105 c.c.

art. 2106  c.c.

Indice cronologico delle decisioni citate:

Corte cost., n. 204/1982;

Corte cost., n. 427/1989;

Corte cost., n. 150/2020.

Cass., SS.UU., n. 1781/1981;

Cass., n. 16190/2002;

Cass., n. 17932/2002;

Cass., n. 23924/2010;

Cass., n. 14326/2012;

Cass., n. 10662/2014;

Cass., n. 2830/2016;

Cass., n. 29240/2017;

Cass., SS.UU., n. 30985/2017;

Cass., n. 1909/2018;

Cass., n. 6889/2018;

Cass., n. 9590/2018;

Cass., n. 17685/2018;

Cass., n. 19023/2018;

Cass., n. 19632/2018;

Cass., n. 23346/2018;

Cass., n. 27069/2018;

Cass., n. 27093/2018;

Cass., n. 28471/2018;

Cass., n. 29627/2018;

Cass., n. 8293/2019;

Cass., n. 19023/2019;

Cass., n. 980/2020;

Cass., n. 2365/2020;

Cass., n. 3079/2020;

Cass., n. 4879/2020;

Cass., n. 11540/2020;

Cass., n. 18136/2020;

Cass., n. 35664/2021;

Cass., n. 3820/2022;

Cass., n. 7392/2022;

Cass., n. 30271/2022;

Cass., n. 33811/2022;

Cass., n. 4795/2023;

Cass. n. 6765/2023;

Cass., n. 7467/2023;

Cass., n. 18070/2023;

Cass., n. 109/2024;

Cass., n. 269/2024;

Cass., n. 14726/2024;

Cass., n. 17306/2024;

Cass., n. 36247/2024.

Trib. Ravenna, ord. 12.01.2022.

Approfondimenti dottrinali:

R. Sanlorenzo, Licenziamenti e vizi procedurali: disarmonie nel sistema di tutele,  in Lav. dir. Europa, 2, 2023;

F. Grillo Pasquarelli, V. Ricchezza, L'esaurimento del potere disciplinare: tempestività e ne bis in idem, in Lav. dir. Europa, 2, 2023.

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