Impresa familiare

Teresa Zappia
17 Giugno 2024

L'Impresa Familiare, è disciplinata dall'art. 230-bis del Codice civile, regolando i rapporti che nascono in seno ad una impresa ogni qualvolta un familiare dell'imprenditore presti la sua opera in maniera continuativa nella famiglia o nella stessa impresa. Per familiari si intendono il coniuge, i parenti entro il terzo grado e gli affini entro il secondo. La natura giuridica dell'impresa familiare è quella di ditta individuale, pertanto solo l'imprenditore sarà responsabile con il proprio patrimonio dell'adempimento delle obbligazioni assunte dall'impresa. Per gli aspetti fiscali occorre far riferimento all'art. 5, comma 4, TUIR, dove viene stabilito che la partecipazione complessiva agli utili da parte dei familiari non può eccedere il 49% del totale. Per essere sottoposti a tale regime è richiesto che: l'impresa familiare sia stata costituita mediante atto pubblico o scrittura privata autenticata almeno nell'anno precedente a quello della dichiarazione dei redditi; nella dichiarazione dei redditi dell'imprenditore vi sia l'indicazione delle quote di partecipazione agli utili spettanti ai familiari ed una attestazione del fatto che queste quote sono commisurate alla qualità e quantità del lavoro svolto; che ogni familiare attesti, nella propria dichiarazione dei redditi, di aver prestato la sua attività di lavoro nell'impresa in modo continuativo e prevalente. L'amministrazione finanziaria con la Risoluzione n. 176/E/2008 esamina il caso del recesso del collaboratore familiare dall'impresa, stabilendo che la somma liquidatagli, corrispondente a plusvalenze ed incremento del valore di avviamento tra l'inizio e la fine della sua collaborazione, non è tassabile in capo allo stesso e al contempo non può essere dedotta dal reddito imponibile dell'impresa. La Risoluzione n. 78/E/2015 precisa che nel caso di cessione di impresa familiare, la plusvalenza deve essere tassata interamente sul titolare dell'impresa familiare. A carico dei componenti dell'impresa familiare si applicano gli obblighi indicati nell'art. 21 d.lgs. n. 81/2008 in materia di sicurezza sul lavoro.

Inquadramento

La disciplina dell'impresa familiare (art. 230-bis c.c.) regola i rapporti nascenti in senso ad un'impresa ogni qualvolta un familiare dell'imprenditore presti la sua opera in maniera continuativa nella famiglia o nell'impresa stessa. L'istituto garantisce una tutela minima a quei rapporti che in passato sono stati ricondotti, in via presuntiva, ad una causa affectionis vel benevolentiae, con conseguente difetto di pretese giuridicamente azionabili collegate alla prestazione svolta a vantaggio del familiare imprenditore.

L'impresa familiare è stata introdotta nel nostro ordinamento con la riforma del diritto di famiglia del 1975 (legge n. 151/1975). Sia in giurisprudenza che in dottrina è consolidato l'orientamento sulla natura residuale della norma in questione, nel senso che l'impresa familiare sussiste solo quando i familiari non abbiano inteso dar vita ad un diverso rapporto negoziale (es. società; l'associazione in partecipazione; lavoro subordinato). Pertanto, titolo dei diritti del collaboratore è il lavoro prestato sulla base del rapporto familiare; ogni diverso titolo, di scambio od associativo, esclude la fattispecie di cui all'art. 230-bis cod. civ. (Cass., sez. lav., n. 11533/2020). Tuttavia, ove le parti non intendano costituire un differente rapporto, non potrebbero sottrarsi alla disciplina dell'impresa familiare, che si applicherebbe, quindi, ex lege.

Quadro normativo

L'art. 230-bis cod. civ. non detta condizioni di forma particolari, sebbene la costituzione dell'impresa familiare non sia automatica, ma debba pur sempre sussistere una manifestazione di volontà, espressa o tacita, da parte dei familiari interessati. La costituzione potrà conseguire, pertanto, anche da facta concludentia, dai quali si possa desumere l'esistenza della fattispecie. In tal senso, dunque, non viene richiesto necessariamente un formale atto negoziale, essendo sufficiente il concreto svolgimento di un'attività lavorativa in comune.

Il rapporto che si instaura tra l'imprenditore e i familiari che prestano il proprio lavoro nell'impresa ha natura individuale e non associativa; pertanto, assume la qualifica di imprenditore il solo titolare dell'impresa che la esercita, assumendo in proprio diritti ed obbligazioni.

Presupposto essenziale è la presenza di un'impresa alla quale possono partecipare:

  • il coniuge
  • i parenti entro il terzo grado
  • gli affini entro il secondo grado

La giurisprudenza ha precisato che l'esistenza del vincolo familiare deve ritenersi irrilevante ogniqualvolta, nel caso specifico, tenuto conto delle concrete modalità della prestazione nel contesto aziendale, sussistano indici sintomatici della subordinazione (Cass., sez. lav., n. 14434/2015). Infatti, la disciplina dell'impresa familiare, la quale è finalizzata a regolare situazioni di apporto lavorativo all'impresa del familiare che, pur connotate dalla continuità, non siano riconducibili all'archetipo della subordinazione (Cass., sez. lav., n. 11533/2020) ha comunque carattere residuale, sicché, qualora in esito all'istruttoria svolta in base ad indici principali (es. poteri direttivi) e sussidiari (es. misura fissa della retribuzione) risulti sussistente un rapporto di lavoro subordinato, deve essere esclusa la configurabilità dell'impresa familiare (Cass., sez. lav., 33759/2022; Cass., sez. lav., n. 4535/2018).

La Corte di Cassazione ha precisato, altresì, che la continuità dell'apporto richiesto per la configurabilità della partecipazione all'impresa familiare non si traduce in un'imprescindibile continua presenza in azienda; in linea di principio, infatti, la continuità dell'apporto appare del tutto compatibile con altre occupazioni professionali e non, purché in concreto le modalità di svolgimento delle varie attività concorrenti risultino tra loro conciliabili, di modo che la contemporanea dedizione ad interessi di natura diversa non incide in maniera aprioristica nemmeno sulla misura dell'apporto qualitativo e quantitativo del singolo partecipante all'impresa familiare (Cass., sez. lav., n. 34699/2022; Cass., sez. lav., n. 11533/2020)

Diritti del collaboratore familiare

Al membro del gruppo familiare spetta il diritto al mantenimento, parametrato alla condizione patrimoniale della famiglia, nonché il diritto alla partecipazione agli utili, ai beni acquistati con essi, nonché agli incrementi dell'azienda, anche in ordine all'avviamento, in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato.

Il diritto di partecipazione è intrasferibile, salvo che il trasferimento avvenga a favore dei familiari con il consenso di tutti i partecipi, e può essere liquidato in denaro alla cessazione, per qualsiasi causa, della prestazione di lavoro ed in caso di alienazione dell'azienda.

Il familiare ha, altresì, diritto di partecipare alle decisioni che concernono l'impiego degli utili e degli incrementi, nonché quelle inerenti alla gestione straordinaria, agli indirizzi produttivi e alla cessazione dell'impresa, adottate a maggioranza, dovendosi precisare che, ai fini del calcolo della maggioranza, i voti dei partecipanti all'impresa hanno tutti lo stesso valore e non esistono quote (Trib. Roma, sez. lav. n. 1606/2019).

Il nuovo art. 230-ter del Codice Civile

La c.d. Legge Cirinnà (art. 13, L. n. 76/2016) richiama le disposizioni del codice civile sull'impresa familiare e ne amplia l'ambito soggettivo di applicazione anche alle parti di una unione civile (vd: INPS circ. n. 66/2017)

La legge prefata ha introdotto anche il nuovo art. 230-ter, in forza del quale: Al convivente di fatto che presti stabilmente la propria opera all'interno dell'impresa dell'altro convivente spetta una partecipazione agli utili dell'impresa familiare ed ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell'azienda, anche in ordine all'avviamento, commisurata al lavoro prestato. Il diritto di partecipazione non spetta qualora tra i conviventi esista un rapporto di società o di lavoro subordinato”

Il dato testuale evidenzia le differenze rispetto alla disciplina contenuta nell' art. 230-bis cod. civ.; in quest'ultima disposizione, infatti, si tutela il familiare che presta in modo continuativo la propria attività lavorativa nella famiglia o nell'impresa familiare. L'attività del familiare deve essere prestata con costanza e regolarità, sebbene non si richieda lo svolgimento di essa in termini di esclusività. Nell'art. 230-ter cod. civi, invece, il legislatore richiede che il convivente presti la propria "opera" con carattere di "stabilità", senza tuttavia precisarne la modalità o l'intensità. Tale attività deve essere prestata necessariamente all'interno dell'impresa dell'altro convivente, escludendo così rilievo al lavoro domestico o casalingo svolto all'interno della famiglia, anche ove finalizzato all'attività d'impresa.

La tutela del convivente nell'impresa di famiglia è essenzialmente economica, in quanto la legge si limita a riconoscergli la partecipazione agli utili, ai beni, agli incrementi, computando anche l'avviamento, il tutto in proporzione al lavoro prestato. Diversamente da quanto disposto all'art. 23bis cod. civ., pertanto, al convivente di fatto non spetta il mantenimento in linea con la condizione patrimoniale della famiglia. Il convivente di fatto, inoltre, non prende parte alle decisioni dell'impresa.

Recentemente le Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione hanno riconosciuto la rilevanza e la non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell'art. 230-bis (con riferimento agli artt. 2,3,4,35 e 36 Cost., all'art. 9 della Carta dei diritti fondamentali dell'U.E. ed all'art. 117, 1° co., Cost. in riferimento agli artt. 8 e 12 della CEDU) laddove non include nel novero dei familiari anche il convivente more uxorio. Le censure di incostituzionalità, peraltro, si riflettono, in termini di illegittimità derivata, anche sull'art. 230-ter, che non riconosce al convivente di fatto la stessa tutela del coniuge/familiare ma una tutela differenziata ed inferiore (Cass., S.U., n. 1900/2024).

Aspetti fiscali

Ai fini fiscali le imprese familiari sono soggette all'IRAP.

In base all'art. 5, co. 4, d.P.R. n. 917/1986, i redditi delle imprese familiari di cui all'art. 230-bis cod. civ., limitatamente al 49% dell'ammontare risultante dalla dichiarazione dei redditi dell'imprenditore, sono imputati a ciascun familiare, che abbia prestato in modo continuativo e prevalente la sua attività di lavoro nell'impresa, proporzionalmente alla sua quota di partecipazione agli utili.

Nonostante l'art. 230-bis cod. civ. non impongo alcun obbligo di forma, presupposto indefettibile del rilievo ai fini fiscali è la formalizzazione della fattispecie attraverso la redazione di un atto pubblico o di una scrittura privata autenticata, dal quale risultino nominativamente i familiari partecipanti, con la indicazione del rapporto di parentela o di affinità con l'imprenditore. (Cass., sez. V., n. 10777/2013). La predeterminazione delle quote di partecipazione agli utili può essere idonea, in difetto di prova contraria da parte dell'imprenditore, ad assolvere, mediante presunzioni, all'onere di dimostrare la fattispecie costitutiva dell'impresa stessa (Cass., sez. lav., n. 5224/2016).

Si evidenzia che il familiare, il quale agisce per ottenere la propria quota di utili, avendo l'onere di provare la consistenza del patrimonio aziendale e la quota astratta della propria partecipazione, può a tal fine ricorrere anche a presunzioni semplici, tra cui la predeterminazione delle quote operata a fini fiscali. Sul familiare-imprenditore grava, invece, l'onere di fornire la prova contraria (Cass., sez. II, n. 12965/2023; Corte d'App. Roma, sez. lav., n. 4293/2022; Cass., sez. lav., n. 1401/2021; Cass., sez. lav., n. 27966/2018).

Adempimenti formali - art. 5, comma 4, d.P.R. n. 917/1986

La presente disposizione si applica a condizione:

a) che i familiari partecipanti all'impresa risultino nominativamente, con l'indicazione del rapporto di parentela o di affinità con l'imprenditore, da atto pubblico o da scrittura privata autenticata anteriore all'inizio del periodo di imposta, recante la sottoscrizione dell'imprenditore e dei familiari partecipanti;

b) che la dichiarazione dei redditi dell'imprenditore rechi l'indicazione delle quote di partecipazione agli utili spettanti ai familiari e l'attestazione che le quote stesse sono proporzionate alla qualità e quantità del lavoro effettivamente prestato nell'impresa, in modo continuativo e prevalente, nel periodo di imposta;

c) che ciascun familiare attesti, nella propria dichiarazione dei redditi, di aver prestato la sua attività di lavoro nell'impresa in modo continuativo e prevalente.

È necessario, inoltre, che il lavoro prestato dal collaboratore, all'interno dell'impresa familiare, sia prevalente rispetto alle altre attività eventualmente svolte (Cass., sez. V., n. 40934/2021).

Si precisa che il reddito percepito dal familiare-titolare costituisce un reddito d'impresa, diversamente dalle quote spettanti ai collaboratori, che non sono contitolari dell'impresa familiare, le quali costituiscono redditi di puro lavoro; ne consegue, dal punto di vista fiscale, che in caso di accertamento di un maggior reddito imprenditoriale, lo stesso deve essere riferito soltanto al titolare dell'impresa, e non attribuito, pro quota, agli altri familiari-collaboratori, aventi diritto alla partecipazione agli utili d'impresa (Cass., sez. V., n. 9198/2022; Cass., sez. V, n. 7637/2021).

Il lavoro prestato dai collaboratori familiari non costituisce un costo d'impresa, ma la parte degli utili ad essi riconosciuti determinerà una riduzione della base imponibile denunciata dall'imprenditore.

I contributi per il titolare e per i collaboratori debbono essere calcolati tenendo conto della quota di reddito attribuita a ciascuno di essi ex art. 1, comma 5, L. n. 233/1990 (INPS circ. n. 22/2022.

Tutela del familiare-collaboratore

L'art. 4, comma 1, n. 6), del D.P.R. n. 1124/1965 elenca tra i soggetti da assicurare contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali anche “il coniuge, i figli, anche naturali o adottivi, gli altri parenti, gli affini, gli affidati del datore di lavoro che prestino con o senza retribuzione alle di lui dipendenze opera manuale, ed anche non manuale”.

L'interpretazione rigorosa di tale norma portava ad escludere l'assicurabilità dei collaboratori ex art. 230-bis c.c., presumendo un vero e proprio rapporto di lavoro subordinato.

Con la sentenza della Corte Costituzionale n. 476 del 10 dicembre 1987, è stata dichiarata l'incostituzionalità, per contrasto con gli artt. 3 e 38, dell'art. 4, comma 1, n. 6, del d.P.R. prefato nella parte in cui non ricomprendeva, tra le persone assicurate, i familiari partecipanti all'impresa familiare indicati nell'art. 230-bis c.c. che prestano opera manuale od opera a questa assimilata.

In seguito, l'INAIL con la circolare n. 67/70 del 1.12.1988 ha stabilito che i collaboratori di cui all'art. 230-bis, che prestino la loro attività lavorativa manuale o di sovraintendenza ad opera manuale altrui nell'ambito dell'impresa familiare, devono essere assicurati anche in assenza del requisito della subordinazione o di un vincolo societario tra essi e il datore di lavoro.

L'art. 3, co. 12, D.lgs. n. 81/2008 prevede che nei confronti dei componenti dell'impresa familiare di cui all'articolo 230-bis cod. civ. si applicano le disposizioni di cui all'art. 21 del medesimo decreto legislativo. L'articolo da ultimo citato dispone che i componenti dell'impresa familiare devono:

  • utilizzare attrezzature di lavoro in conformità alle disposizioni di cui al titolo III (del D.lgs. n. 81/2008), nonché idonee opere provvisionali in conformità alle disposizioni di cui al titolo IV (del D.lgs. n. 81/2008);
  • munirsi di dispositivi di protezione individuale ed utilizzarli conformemente alle disposizioni di cui al titolo III;
  • munirsi di apposita tessera di riconoscimento corredata di fotografia, contenente le proprie generalità, qualora effettuino la loro prestazione in un luogo di lavoro nel quale si svolgano attività in regime di appalto o subappalto.

Relativamente ai rischi propri delle attività svolte e con oneri a proprio carico, i componenti dell'impresa familiare hanno facoltà di:

  • beneficiare della sorveglianza sanitaria secondo le previsioni di cui all'articolo 41, fermi restando gli obblighi previsti da norme speciali;
  • partecipare a corsi di formazione specifici in materia di salute e sicurezza sul lavoro, incentrati sui rischi propri delle attività svolte, secondo le previsioni di cui all'articolo 37, fermi restando gli obblighi previsti da norme speciali.

Con riferimento alla tutela previdenziale, nell'impresa familiare i soggetti che svolgono abitualmente la propria attività devono provvedere al versamento dei contributi previdenziali. È il titolare dell'impresa il responsabile del versamento dei contributi dei propri collaboratori. I contributi per i collaboratori familiari non sono dovuti qualora questi prestino l'attività in modo occasionale e non prevalente. L'occasionalità è da intendersi anche in via presuntiva (vd. Ministero del Lavoro circ. n.10478/2013  e n. 14184/2013).

Cessazione della partecipazione

I collaboratori possono determinare soltanto la cessazione della propria partecipazione all'impresa, essendo il diritto correlato intrasferibile (salvo che il trasferimento avvenga a favore di familiari indicati al comma terzo dell'art. 230-bis cod. civ. e vi sia il consenso di tutti i partecipi).

Lo scioglimento del rapporto di impresa familiare relativamente al singolo collaboratore può avvenire anche per altre cause quali: morte; impossibilità alla prestazione; alla perdita della qualità di familiare; decisione del familiare-imprenditore. Con riferimento a tale ultima causale, si precisa si ritiene inapplicabile la disciplina sui licenziamenti (Oppo, Impresa familiare, in Comm. Cian, Oppo, Trabucchi, III, Padova, 1992, 463). Il titolare dell'impresa ha comunque l'onere del preavviso, durante il quale, tra l'altro, continuerebbe a maturare il diritto agli utili e agli incrementi.

La cessazione dell'impresa familiare comporta la maturazione in capo al collaboratore di un diritto di credito verso l'imprenditore, non solo per gli utili non ancora distribuiti, ma anche per i beni dell'impresa acquistati e per gli incrementi aziendali, compreso l'avviamento.

Cessione dell'impresa

In caso di divisione ereditaria o di trasferimento dell'azienda, il familiare partecipe dell'impresa ha diritto di prelazione sull'azienda.

La prelazione consente il riscatto nei confronti del terzo acquirente, mirando il legislatore a predisporre una più intensa protezione per il lavoro familiare, favorendo nell'acquisto dell'azienda coloro che hanno dato un contributo attivo all'impresa nell'ambito della comunità familiare. A fondamento dell'istituto sono pertanto rinvenibili giustificazioni ispirate alla tutela del lavoro cui partecipa la comunità familiare. Trattandosi di valori espressivi di principi di rilievo costituzionale, la giurisprudenza ha individuato un ambito quanto più possibile esteso dell'istituto, giungendo alla conclusione che la prelazione prevista dalla norma in favore del familiare è una prelazione legale, che consente il riscatto nei confronti del terzo acquirente, senza che all'applicazione di tale istituto possa essere d'ostacolo la mancanza di un sistema legale di pubblicità dell'impresa familiare (Cass., sez. lav., n. 10147/2017)

Tenuto conto del rinvio all'art. 732 cod. civ., ai fini dell'individuazione del limite temporale del perdurare del diritto di prelazione e riscatto, deve aversi riguardo al momento della liquidazione della quota, il quale coincide con il consolidarsi, alla cessazione del rapporto con l'impresa familiare, del diritto di credito del partecipe a percepire la quota di utili e di incrementi patrimoniali riferibili alla sua posizione, restando irrilevante la data del passaggio in giudicato della sentenza che su quel diritto ha statuito (Cass., sez. lav., n. 17639/2016).

Riferimenti

Per i recenti orientamenti sul tema: Cass. Civ. sez. lav., 25 agosto 2017, n. 20406, con commento di A. De Matteis, Impresa familiare, obblighi di sicurezza e azione di regresso; Cass. Civ. sez. un., 6 novembre 2014, n. 23676, con commento di B. Mastrorilli, Inapplicabilità della disciplina di cui all'art. 230 bis c.c. all'impresa gestita in forma societaria

Normativi

  • L. 20 maggio 2016, n. 76
  • Art. 230-ter  c.c.
  • Art. 230- bis c.c.
  • Art. 3, co. 12, D.lgs. n. 81/2008
  • art. 5, comma 4, d.P.R. n. 917/1986
  • Art. 4, comma 1, n. 6), del D.P.R. n. 1124/1965

Giurisprudenza

  • Cass., S.U., n. 1900/2024
  • Cass., sez. II, n. 12965/2023
  • Cass., sez. lav., n. 34699/2022
  • Cass., sez. lav., 33759/2022
  • Cass., sez. V., n. 9198/2022
  • Corte d'App. Roma, sez. lav., n. 4293/2022
  • Cass., sez. lav., n. 1401/2021
  • Cass., sez. V, n. 7637/2021
  • Cass., sez. V., n. 40934/2021
  • Cass., sez. lav., n. 11533/2020
  • Cass., sez. lav., n. 11533/2020
  • Cass., sez. lav., n. 11533/2020

Prassi

  • INPS circ. n. 22/2022
  • Approfondimento della Fondazione Nazionale dei CdL del 7 maggio 2018
  • Agenzia delle Entrate, Risoluzione 26 ottobre 2017, n. 134
  • INPS circ. n. 66/2017
  • Ministero del Lavoro circ. n.10478/2013
  • Ministero del Lavoro circ.  e n. 14184/2013

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