Licenziamento disciplinare

12 Febbraio 2015

Scheda in fase di aggiornamento

La risoluzione del rapporto di lavoro a tempo indeterminato da parte del datore di lavoro, dopo l'originaria applicazione civilistica generalizzata dell'articolo 2118 c.c. - che consente alle parti di risolvere il rapporto di lavoro con preavviso - vede limitata l'applicabilità della libera recedibilità ad ipotesi residuali.La regola, infatti, è che il licenziamento possa essere intimato esclusivamente in presenza di una giusta causa o di un giustificato motivo. Nel primo caso, si applica l'articolo 2119 c.c., nel secondo, invece, l'articolo 3 della legge n. 604/1966.Per quanto concerne il licenziamento per cause imputabili al lavoratore, ci troviamo nell'ambito dei licenziamenti disciplinari. Un'area fortemente influenzata dalle interpretazioni fornite dalla giurisprudenza ed in ogni caso un quadro applicativo basato sulla impossibilità di procedere con immediatezza ad un licenziamento.Si tratta infatti di una ipotesi di sanzione disciplinare alla quale si applica la procedura prevista dall'art. 7 della Legge n. 300/1970.L'atto espulsivo, infatti, presuppone la necessità che il datore di lavoro proceda preliminarmente alla contestazione dell'addebito al lavoratore per consentirgli il diritto di difesa.Solo successivamente potrà assumere la decisione di recedere dal contratto di lavoro quale sanzione disciplinare di natura espulsiva.

Abstract

La risoluzione del rapporto di lavoro a tempo indeterminato da parte del datore di lavoro, dopo l'originaria applicazione civilistica generalizzata dell'art. 2118 c.c., che consente alle parti di risolvere il rapporto di lavoro con preavviso, vede limitata l'applicabilità della libera recedibilità ad ipotesi residuali.

La regola, infatti, è che il licenziamento possa essere intimato esclusivamente in presenza di una giusta causa o di un giustificato motivo. Nel primo caso, si applica l'art. 2119 c.c., nel secondo, invece, l'art. 3 della legge n. 604/1966.

Per quanto concerne il licenziamento per cause imputabili al lavoratore, ci troviamo nell'ambito dei licenziamenti disciplinari.

Un'area fortemente influenzata dalle interpretazioni fornite dalla giurisprudenza ed in ogni caso un quadro applicativo basato sulla impossibilità di procedere con immediatezza ad un licenziamento.

Si tratta infatti di una ipotesi di sanzione disciplinare per la quale si applica la procedura prevista dall'art. 7 della Legge n. 300/1970.

L'atto espulsivo, infatti, presuppone la necessità che il datore di lavoro proceda preliminarmente alla contestazione dell'addebito al lavoratore per consentirgli il diritto di difesa.

Solo successivamente potrà assumere la decisione di recedere dal contratto di lavoro quale sanzione disciplinare di natura espulsiva.

Il licenziamento di natura disciplinare

Ci troviamo di fronte ad un licenziamento di natura disciplinare in tutti i casi in cui il recesso sia determinato dalla condotta colposa del lavoratore.

Un colpa che può essere di minore gravità e quindi che può determinare un inadempimento contrattuale, ovvero di gravità maggiore tale da giustificare il recesso dal contratto per giusta causa da parte del datore di lavoro per il verificarsi di una causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto.

  1. Il primo caso è quello del licenziamento per giustificato motivo soggettivo ed è previsto dall'art. 3 della legge 15 luglio 1966, n. 604.
  2. Il secondo, invece, trova la sua regolamentazione nell'art. 2119 c.c..

La giusta causa è determinata dalla condotta che deve essere così grave da ledere irrimediabilmente l'elemento fiduciario del rapporto di lavoro.

Conseguenza della gravità è la risoluzione immediata e quindi senza preavviso (cd. licenziamento "in tronco").

Va, inoltre, considerato che la giusta causa viene considerata un'ipotesi legale di risoluzione del rapporto di lavoro, ovvero riconducibile ad una diretta conseguenza della violazione di una norma, l'art. 2119 c.c., che in astratto tipizza il licenziamento.

In astratto in quanto trattasi di una clausola generale che è priva, volutamente, di previsioni specifiche e che quindi demanda al giudice la verifica, caso per caso, dell'applicabilità al caso concreto.

La seconda, invece, è anch'essa certamente di natura legale (cfr. art. 3, legge n. 604/1966), ma risulta maggiormente vincolata alle previsioni disciplinari contenute nei contenute nei contratti collettivi ovvero nelle sanzioni disciplinari richiamate nel regolamento aziendale che debbono dunque essere portate a conoscenza dei lavoratori mediante affissione ai fini pubblicitari secondo quanto previsto dallo Statuto dei lavoratori.

Parallelismi con il giustificato motivo oggettivo

L'art. 2119 c.c. prevede il recesso dal contratto prima della scadenza del termine, se il contratto è a tempo determinato, o senza preavviso, se il contratto è a tempo indeterminato, qualora si verifichi una causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto.

Come si può notare, la presenza di una giusta causa consente la risoluzione del contratto di lavoro anche a tempo determinato.

Le due tipologie di recesso (giusta causa è giustificato motivo soggettivo ) sono accomunate dall'iter procedurale previsto per il licenziamento regolato dall'art. 7 della legge n. 604/1966, nonché delle conseguenze in caso di licenziamento dichiarato illegittimo (v. infra).

Infatti, è sempre necessario per poter risolvere il rapporto di lavoro, seguire una procedura che si è ritenuto possa essere idonea a contemperare il diritto del datore di lavoro di poter recedere dal contratto in caso di inadempimento del lavoratore e dall'altro quello di difesa del lavoratore.

Più volte la giurisprudenza di legittimità ed anche l'intervento della Corte Costituzionale con la sentenza n. 204 del 30 novembre 1982, infatti, hanno sancito che anche il licenziamento per giusta causa può essere intimato solo al termine della procedura disciplinare che deve necessariamente essere attivata dal datore di lavoro.

In buona sostanza, anche il licenziamento per giusta causa si considera ontologicamente disciplinare.

La contestazione dell'addebito

Pertanto, se il datore di lavoro intende risolvere il rapporto di lavoro per ragioni determinate dalla condotta colposa del lavoratore, deve in tutti i casi preliminarmente contestare l'addebito quale avvio del procedimento disciplinare e solo all'esito di tale procedimento comminare la sanzione disciplinare del licenziamento.

Si applica, in particolare, la procedura prevista dall'art. 7 dello statuto dei lavoratori approvato con la legge 20 maggio 1970, n. 300.

Di conseguenza, il lavoratore ha cinque giorni di tempo per far valere le proprie ragioni, trascorsi i quali il datore di lavoro potrà decidere se risolvere il rapporto di lavoro.

Va ricordato che il citato articolo 7 prevede, tra le regole da osservare, anche la necessità che per l'applicazione delle sanzioni disciplinari e dunque anche della più grave di esse e cioè quella espulsiva qual è il licenziamento, occorre l'affissione del codice disciplinare.

Tuttavia, la giurisprudenza ha ritenuto che ciò non sia necessario in caso di licenziamento per giusta causa.

A tal proposito, la Corte di Cassazione con sentenza n. 8560/2018 ha ricordato che “ in più occasioni la stessa Corte ha chiarito che solo in ipotesi in cui le violazioni contestate non consistano in condotte contrarie ai doveri fondamentali del lavoratore, rientranti nel cd. minimo etico o di rilevanza penale, ma nella violazione di norme di azione derivanti da direttive aziendali, suscettibili di mutare nel tempo, in relazione a contingenze economiche e di mercato ed al grado di elasticità nell'applicazione, solo in questo caso le condotte devono essere previamente poste a conoscenza dei lavoratori, secondo le prescrizioni dell'art. 7 st. lav.( Cass. n. 54/2017; Cass. n. 22626/2013). Fuori da tale ambito, e dunque con riferimento a situazioni la cui gravità sia platealmente accettata, in quanto in contrasto al "minimo etico" , ovvero a quel nucleo di valori e comportamenti afferenti ad un comune sentire e ad un sistema di rispettosa convivenza civile, non è necessario far riferimento alle violazioni contenute nel codice disciplinare ed alla pubblicità delle stesse attraverso l'affissione. “.

Il licenziamento per giustificato motivo soggettivo previsto all'art. 3 della legge n. 604/1966 è quello determinato da un notevole inadempimento delle obbligazioni contrattuali da parte del lavoratore.

Come si può notare, entrambe le ipotesi di licenziamento disciplinare (giusta causa e giustificato motivo soggettivo ) costituiscono ipotesi di risoluzione del rapporto di lavoro che derivano dalla condotta colposa del lavoratore e quindi fanno parte della stessa specie.

La differenza del licenziamento per giustificato motivo soggettivo rispetto a quello per giusta causa è rappresentata dalla minore o maggiore gravità del comportamento del lavoratore che, conseguentemente, non giustifica un licenziamento in tronco e quindi determina l'obbligo di preavviso.

Peraltro, ove il giudice rileva che la giusta causa addotta dal datore di lavoro non sussiste in quanto il motivo non assume i connotati di gravità, ma nel contempo rileva che l'ipotesi costituisce un inadempimento notevole, lo stesso potrà riqualificare il licenziamento determinato da giustificato motivo.

Un'ipotesi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo è anche quello per scarso rendimento.

Comunicazione scritta

Passando alla forma, e quindi all'irrogazione della sanzione, il licenziamento deve essere comunicato per iscritto a pena di nullità.

A richiedere tale requisito di forma è l'art. 2, comma 1, della legge n.604/1966.

Circa le modalità per la comunicazione, valgono invece le regole generali.

Si potrà dunque far ricorso alla cd. raccomandata a mano, servizio postale, telegramma o altro mezzo che comunque consenta di provare la consegna all'interessato trattandosi di un atto unilaterale del datore di lavoro recettizio che si perfezione nel momento in cui il destinatario ne sia venuto a conoscenza.

Ricordiamo a tal proposito che l'art. 1335 c.c. prevede che le comunicazioni "si reputano conosciute nel momento in cui giungono all'indirizzo del destinatario, se questi non prova di essere stato, senza sua colpa, nell'impossibilità di averne notizia.”.

Il caso frequente è quello della raccomandata non ritirata e restituita al mittente per compiuta giacenza.

In tale ipotesi, la prova di non aver potuto ricevere la comunicazione senza sua colpa è del lavoratore (Cass. n. 23260/2017).

Più complicato, ma comunque possibile, ricorrere alla prova testimoniale di avvenuta consegna della lettera di licenziamento (Cass. n. 1024/1997).

Un altro aspetto da considerare in caso di licenziamento riguarda l'onere probatorio.

Sappiamo che la regola processualistica civile prevede che chi vuol far valere le proprie ragioni in giudizio deve provarne la fondatezza.

In caso di licenziamento, invece, l'onere di provare le motivazioni che hanno determinato il recesso è del datore di lavoro; un onere probatorio a fini processuali il lavoratore lo deve osservare, ma riguarda esclusivamente la sussistenza del rapporto di lavoro e la cessazione.

Una volta rispettate tali condizioni, l'onere ricade sul datore di lavoro.

Immodificabilità e proporzionalità

Il licenziamento - come abbiamo visto - rappresenta il culmine di una procedura disciplinare avviata su iniziativa del datore di lavoro.

A tal proposito, occorre tenere conto che dell'immodificabilità delle ragioni dal quale ha preso le mosse ed individuabili evidentemente nella contestazione dell'addebito.

Altro principio da considerare ai fini del licenziamento è quello di proporzionalità contenuto all'art. 2106 c.c. nel quale è previsto che l'inosservanza delle disposizioni contenute nei due articoli precedenti può dar luogo all'applicazione di sanzioni disciplinari, secondo la gravità dell'infrazione.

I due articoli precedenti fanno riferimento alle obbligazioni contrattuali del lavoratore di diligenza e di fedeltà.

In buona sostanza da un lato i doveri del lavoratore, dall'altro il potere disciplinare del datore di lavoro.

La valutazione circa la sussistenza del requisito di proporzionalità è ancora una volta demandata al giudice.

Se alcune ipotesi di estrema gravità quali il furto, ad esempio, ma anche una grave insubordinazione o danneggiamenti volontari, appaiono far sussistere tale requisito (ma non mancano casi che la negano ad es. se una condotta fosse stata in passato tollerata o sanzionata ad altri lavoratori diversamente ), molte altre si prestano ad interpretazioni di difficile valutazione preventiva.

Su tali aspetti è interessante evidenziare cosa ha avuto modo di affermare la giurisprudenza.

La sentenza 21 maggio 2009, n. 11846 della cassazione, ha precisato che "il fondamentale principio di proporzionalità della sanzione rispetto alla gravità della infrazione deve essere rispettato sia in sede di irrogazione della sanzione da parte del datore di lavoro nell'esercizio del suo potere disciplinare, sia in sede di controllo che, della legittimità e della congruità della sanzione applicata, il giudice sia chiamato a fare; a tale riguardo, ha carattere indispensabile la valutazione, ad opera del giudice del merito, investito del giudizio circa la legittimità di tali provvedimenti, della sussistenza o meno del rapporto di proporzionalità tra l'infrazione del lavoratore e la sanzione irrogatagli, per cui il giudice deve tenere conto non solo delle circostanze oggettive, ma anche delle modalità soggettive della condotta del lavoratore in quanto anche esse incidono sulla determinazione della gravità della trasgressione e, quindi della legittimità della sanzione stessa: con la conclusione - ribadita dalla giurisprudenza consolidata - che l'apprezzamento di merito delle proporzionalità tra infrazione e sanzione sfugge a censura in sede di legittimità se la valutazione del giudice di merito è sorretto da adeguata e logica motivazione (ex plurimis, Cass. n. 8679/2006). ".

Immediatezza della contestazione

Altro elemento determinante è quello relativo l'immediatezza della contestazione.

È evidente che un lasso temporale significativo rispetto al momento nel quale si è verificata la condotta alla base del licenziamento, incide nella valutazione in sede giudiziale, della legittimità del licenziamento.

Naturalmente occorre tenere conto, tuttavia, sia di quando il datore di lavoro sia venuto a conoscenza dell'inadempimento che delle ragioni che possono giustificare il ritardo.

In definitiva nessuna scadenza per l'irrogazione del provvedimento disciplinare, anche se vanno tenute in debita considerazione le previsioni della contrattazione collettiva, ma una rilevanza in sede giudiziale della verifica circa la legittimità del licenziamento.

Sulla decorrenza del licenziamento, invece, un'importante innovazione rispetto alla storica disciplina in materia è stata introdotta dalla

legge 28 giugno 2012, n. 92

ed in particolare dall'

art. 1 comma 41

nel quale è previsto che la risoluzione produce effetto dalla data di avvio della procedura disciplinare e quindi dalla data in cui il datore di lavoro ha contestato l'addebito al lavoratore.

La stessa norma prevede che gli effetti rimangono sospesi in caso di impedimento derivante dalle norme del testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela della maternità e della paternità, di cui al

D.Lgs. 26 marzo 2001, n. 151

nonché nel caso di infortunio sul lavoro.

Inoltre, che il periodo di eventuale lavoro svolto in costanza della procedura si considera come preavviso lavorato.

Va considerato che la comunicazione ha natura recettizia e quindi assume gli effetti giuridici quando entra nella sfera di conoscenza del destinatario. Tale effetto si produce nel momento in cui viene ricevuta dal lavoratore.

Illegittimità ed applicazione dell'articolo 18

Venendo alle conseguenze dall'eventuale licenziamento dichiarato Illegittimo, occorre preliminarmente tenere conto del regime di tutela applicabile in relazione al numero dei lavoratori occupati dal datore di lavoro, nonché dal 7 marzo 2015, dalla data di assunzione del lavoratore.

Fino a tale data, infatti, la differenza di tutela era determinata dalla soglia dimensionale del datore di lavoro calcolata sulla base del numero di dipendenti occupati, con una peculiarità per le cd. organizzazioni di tendenza e trovava le sue fonti regolatrici esclusivamente nella Legge n. 300/1970 e nella Legge n. 604/1966.

Successivamente, invece, l'entrata in vigore del D.Lgs. n. 23/2015 ha creato un doppio binario con discipline applicabili differenti in relazione alla data di assunzione del lavoratore (dal 7 marzo 2015 o precedentemente).

Prima di approfondire gli aspetti relativi alle specifiche e differenti tutele in caso di licenziamento illegittimo è necessario ricordare che l'articolo 18 della Legge n. 300/1970 prevede i casi in cui si rendono applicabili pienamente le tutele previste dal medesimo articolo (cd. tutela reale).

In particolare, è previsto che tale regime si applica ai datori di lavoro, imprenditori e non, che occupano più di quindici lavoratori (cinque se imprese agricole) nella singola unità produttiva o nello stesso comune, ovvero a prescindere dal numero di lavoratori in forza nel singolo luogo di lavoro, qualora vengano occupati più di sessanta lavoratori.

Diversamente, si applicano le tutele previste dall'articolo 8 della Legge n. 604/1966.

  • LA DISCIPLINA APPLICABILE PER GLI ASSUNTI FINO AL 6 MARZO 2015

Per gli assunti fino al 6 marzo 2015, si applica la tutela prevista dall'articolo 18 della legge n.300/1970, profondamente cambiata dal 18 luglio 2012, data in cui è entrata in vigore la legge n. 92/2012 – cd. Legge Fornero, se il datore di lavoro si trova in regime di tutela reale.

In caso contrario si applica il regime di tutela previsto dalla legge n. 604/1966.

La legge n. 92/2012, attraverso le modifiche all'art. 18 della Legge n. 300/1970 ha superato il vecchio criterio che prevedeva esclusivamente la reintegra, prevedendo due ipotesi a seconda la gravità della illegittimità del licenziamento.

Di regola, in caso di illegittimità, il rapporto viene comunque dichiarato risolto dal giudice ed il datore di lavoro viene condannato a risarcire il lavoratore con un'indennità da 12 a 24 mensilità.

Nel caso invece in cui il giudice accerta la mancanza della giusta causa o del giustificato motivo soggettivo per l'insussistenza dei fatti contestati al lavoratore, ovvero gli stessi siano puniti dalla contrattazione collettiva con una sanzione conservativa, viene ordinato al datore il reintegro.

Inoltre, è previsto un risarcimento fino ad un massimo di 12 mensilità, dedotto quanto percepito (cd. aliunde perceptum) e quanto poteva essere percepito dedicandosi con diligenza alla ricerca di una nuova occupazione (cd. aliunde percipiendum).

Sono altresì dovuti i contributi previdenziali dalla data di licenziamento e fino alla data di effettivo reintegro, maggiorati degli interessi legali ma senza l'applicazione di sanzioni contributive per omessa o ritardata contribuzione. Anche nella determinazione dei contributi occorrerà tenere conto di quanto accreditato al lavoratore per effetto di altre attività lavorative svolte.

La stessa legge Fornero ha previsto la possibilità di revoca del licenziamento, purché effettuata entro il termine di quindici giorni dalla comunicazione al datore di lavoro dell'impugnazione del medesimo. In tal caso, il rapporto di lavoro si intende ripristinato senza soluzione di continuità, con diritto del lavoratore alla retribuzione maturata nel periodo precedente alla revoca.

Per i datori di lavoro ai quali non si applica il regime di tutela reale ma la tutela obbligatoria, le conseguenze del licenziamento dichiarato illegittimo previste dalla legge 604/1966 sono la reintegra ovvero la possibilità per il datore di lavoro di corrispondere al lavoratore un'indennità risarcitoria da due mensilità e mezzo a sei mensilità dell'ultima retribuzione di fatto percepita dal lavoratore. Tale indennità peraltro viene elevata a dieci mensilità nel caso di lavoratore con anzianità di servizio superiore a dieci anni e quattordici mensilità se l'anzianità e maggiore a venti anni.

Nel caso di vizi del licenziamento dovuti al requisito di motivazione (specificazione dei motivi che lo hanno determinato) o della procedura di cui all'articolo 7 della legge n. 300/1970) il licenziamento non sarà necessariamente dichiarato inefficace ed il giudice potrà andare a verificare la legittimità dello stesso con le regole ordinarie (v. supra) ma con attribuzione al lavoratore di un'indennità risarcitoria onnicomprensiva determinata, in relazione alla gravità della violazione formale o procedurale commessa dal datore di lavoro, tra un minimo di sei e un massimo di dodici mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto.

Di conseguenza, qualora lo stesso licenziamento sia dichiarato legittimo, il lavoratore avrà comunque diritto alla predetta indennità risarcitoria, in caso contrario si applicherà il regime di tutela previsto per i licenziamenti illegittimi.

Sull'interpretazione relativa all'applicabilità di tale previsione, alla luce dei diversi orientamenti formatisi, sono intervenute le sezioni unite della Cassazione con la sentenza n. 30985 del 27 dicembre 2017 alla quale si rinvia.

  • LE TUTELE CRESCENTI

Dal 7 marzo 2015 è entrato in vigore il Decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23, che in attuazione di una delle deleghe previste dalla Legge 10 dicembre 2014, n. 183 – Cd. Jobs Act, che ha riformato la disciplina relativa alla tutela in caso di licenziamento illegittimo individuando quale spartiacque la data di assunzione del lavoratore.

Tale regime si applica, anche se in maniera differente, ai datori di lavoro in regime di tutela reale nonché a quelli in tutela obbligatorio.

Le medesime regole si applicano ai datori di lavoro non imprenditori che svolgono senza fine di lucro attività di natura politica, sindacale, culturale, di istruzione ovvero di religione o di culto.

Il regime di tutele crescenti prevede che per gli assunti con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato dal 7 marzo 2015 con qualifica di operaio, impiegato o quadro, qualora il giudice accerta l'illegittimità del licenziamento ovvero l'inefficacia dello stesso, il regime di tutela applicabile è quello del decreto legislativo del 4 marzo 2015 e non invece quello contenuto all'articolo 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300 se il datore di lavoro si trova nell'ambito della tutela reale, ovvero quello dell'articolo 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604 per quelli in tutela obbligatoria.

Le nuove disposizioni, per espressa previsione contenuta all'articolo 1 del decreto, si applicano anche nei casi di conversione, successiva all'entrata in vigore del decreto, di un contratto a tempo determinato o di apprendistato in contratto a tempo indeterminato.

Inoltre, il regime delle tutele crescenti si applica anche ai lavoratori occupati precedentemente al 6 marzo 2015 da datori di lavoro che alla medesima data risultavano in regime di tutela obbligatoria e che siano passati al regime di tutela reale successivamente.

Tale regime prevede che nei casi di licenziamenti per i quali il giudice accerta l'illegittimità la tutela sarà di regola quella indennitaria da calcolarsi in relazione all'anzianità di servizio del lavoratore.

Le regole sono differenti a seconda del regime di tutela applicabile in relazione alla soglia dimensionale del datore di lavoro calcolata ai sensi dell'art. 18 della Legge n. 300/1970 (v. supra).

Per i datori di lavoro in regime di tutela reale, l'indennità è pari a due mensilità per ogni anno di servizio da calcolarsi sulla base dell'ultima retribuzione utile ai fini del calcolo del trattamento di fine rapporto.

In ogni caso, l'indennità non può essere inferiore a 6 mensilità e superare 36.

Tali limiti sono stati così modificati dall'art. 3 del D. L. n. 87/2018, convertito dalla Legge n. 96/2018, in vigore dal 14 luglio 2018.

Precedentemente, era previsto l'indennità non poteva essere inferiore a 4 mensilità e superare 24.

Ciò significa che per i lavoratori assunti dal 7 marzo 2015, se il licenziamento verrà dichiarato illegittimo, il rapporto di lavoro verrà comunque dichiarato estinto alla data del licenziamento ed al lavoratore verrà riconosciuta una indennità nella misura prevista da calcolarsi sulla base dell'ultima retribuzione utile ai fini del calcolo del trattamento di fine rapporto.

E' prevista comunque una ipotesi eccezionale di reintegrazione nel luogo di lavoro qualora causa che ha determinato il licenziamento sia costituita da un fatto materiale che il giudice accerta inesistente.

Il questo caso il datore di lavoro viene condannato altresì al pagamento di un'indennità risarcitoria dalla data di licenziamento e fino alla effettiva reintegra comunque entro il limite massimo di dodici mensilità da calcolarsi sulla base dell'ultima retribuzione utile ai fini del trattamento di fine rapporto, con decurtazione di quanto percepito dal lavoratore per lo svolgimento di altre attività lavorative (cd. aliunde perceptum) e di quanto egli avrebbe potuto percepire accettando una congrua offerta di lavoro (cd. aliunde percipiendum).

Ai fini della reintegrazione, non assume rilevanza la proporzionalità del provvedimento espulsivo che peraltro potrà comunque determinare una valutazione circa l'eventuale illegittimità del licenziamento ma con tutela a favore del lavoratore esclusivamente di natura indennitaria.

Sono altresì dovuti i contributi previdenziali per tutto il periodo intercorrente dalla data di licenziamento e fino alla effettiva reintegrazione, senza l'applicazione di sanzioni per omissione.

Per i datori di lavoro in regime di tutela obbligatoria, la tutela è esclusivamente quella indennitaria e calcolata in misura pari ad una mensilità per ogni anno di servizio.

In ogni caso, l'indennità non può essere inferiore a 3 mensilità e superare 6.

Tali limiti sono stati così modificati dall'art. 3 del D. L. n. 87/2018, convertito dalla Legge n. 96/2018, in vigore dal 14 luglio 2018.

Precedentemente, invece, era previsto l'indennità non poteva essere inferiore a 2 mensilità, mentre quella massima era sempre di 6 mensilità.

Anche in regime di tutele crescenti sono regolamentate le ipotesi di vizi formali e procedurali del licenziamento.

L'art. 4 del D.Lgs. n. 23/2015 prevede, infatti, che nell'ipotesi in cui il licenziamento sia intimato con violazione del requisito di motivazione di cui all'articolo 2, comma 2, della legge n. 604 del 1966 (specificazione dei motivi che lo hanno determinato) o della procedura di cui all'articolo 7 della legge n. 300 del 1970 (procedimento disciplinare), il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un'indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale di importo pari a una mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a due e non superiore a dodici mensilità, a meno che il giudice, sulla base della domanda del lavoratore, accerti la sussistenza dei presupposti per l'applicazione delle tutele previste per i licenziamenti illegittimi.

E' altresì prevista la possibilità per il datore di lavoro di revocare il licenziamento entro il termine di quindici giorni dalla comunicazione del lavoratore dell'impugnazione del medesimo.

Il D.Lgs. n. 23/2015, infine, nell'ottica di prevenzione del contenzioso, ha introdotto con l'articolo 6 un nuovo istituto: l'offerta di conciliazione .

Si tratta della possibilità per i datori di lavoro di offrire al lavoratore licenziato, assunto in regime di tutele crescenti, una somma variabile in relazione all'anzianità di servizio.

L'offerta può essere formulata entro i termini di impugnazione stragiudiziale del licenziamento (sessanta giorni dalla data della comunicazione del recesso) e potrà essere conclusa presso un delle sedi protette di cui all'articolo 2113, comma 4, c.c. e all'articolo 76 del D. Lgs. 10 settembre 2003, n. 276.

La finalità è quella di evitare il giudizio, ferma restando peraltro la possibilità per le parti di addivenire a ogni altra modalità di conciliazione prevista dalla legge.

L'ammontare dell'offerta è calcolata in misura pari ad una mensilità della retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio ed è esente sia ai fini fiscali che contributivi.

La misura minima dell'offerta non può comunque essere inferiore a 3 mensilità ne superiore a 27 mensilità.

Tali limiti sono stati così modificati dall'art. 3 del D. L. n. 87/2018, convertito dalla Legge n. 96/2018, in vigore dal 14 luglio 2018.

Precedentemente, era previsto l'indennità non poteva essere inferiore a 2 mensilità ne superiore a 18 mensilità.

La corresponsione dell'indennità deve avvenire consegna al lavoratore di un assegno circolare al momento del perfezionamento dell'accordo presso le sedi previste.

L'accettazione dell'assegno da parte del lavoratore comporta l'estinzione del rapporto alla data del licenziamento e la rinuncia alla impugnazione del licenziamento anche qualora il lavoratore l'abbia già proposta.

Nell'ambito delle procedure previste per il perfezionamento dell'offerta conciliativa le parti possono pattuire ulteriori somme per la chiusura di ogni altra pendenza derivante dal rapporto di lavoro ma in tal caso si applica il regime fiscale ordinario.

Sentenza della Corte Costituzionale

La Corte Costituzionale, con Sentenza n. 194 dell'8 novembre 2018, pubblicata nella G.U. della Corte Costituzionale 14 novembre 2018, n. 45, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 3, comma 1, del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23 limitatamente alle parole «di importo pari a due mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio».

In particolare – si legge nella sentenza – che “nel rispetto dei limiti, minimo e massimo, dell'intervallo in cui va quantificata l'indennità spettante al lavoratore illegittimamente licenziato, il giudice terrà conto innanzi tutto dell'anzianità di servizio - criterio che è prescritto dall'art. 1, comma 7, lett. c) della legge n. 184 del 2013 e che ispira il disegno riformatore del d.lgs. n. 23 del 2015 - nonché degli altri criteri già prima richiamati, desumibili in chiave sistematica dalla evoluzione della disciplina limitativa dei licenziamenti (numero dei dipendenti occupati, dimensioni dell'attività economica, comportamento e condizioni delle parti).”.

Di conseguenza, il Giudice partirà comunque applicando il criterio delle tutele crescenti previsto dall'articolo 3, comma 1 del D. Lgs. n. 23/2015 e quindi dell'anzianità di servizio ma terrà anche conto degli altri criteri contenuti nelle disposizioni in materia di tutela in caso di licenziamenti dichiarati illegittimi.

Dunque, l'articolo 18 della Legge n. 300/1970 in caso di datori di lavoro in regime di tutela reale e l'articolo 8 della Legge n. 604/1966 in caso di tutela obbligatoria, già trattati in precedenza.

Riferimenti

Normativi

  • D.L. n. 87/2018 conv. dalla Legge n. 96/2018
  • D.Lgs. 10 settembre 2003, n. 276
  • D.Lgs. 4 marzo 2015, n. 23
  • Legge 10 dicembre 2014, n. 183
  • Legge 28 giugno 2012, n. 92
  • D.Lgs. 26 marzo 2001, n. 151
  • Legge 20 maggio 1970, n.300
  • Legge 15 luglio 1966, n. 604
  • art. 2113, 2118 e 2119 c.c.

Giurisprudenza

  • Corte Costituzionale, sentenza 8 novembre 2018, n. 194
  • Cass. civ. n. 8560/2018
  • Cass. civ. n. 54/2017
  • Cass. civ. n. 22626/2013
  • Cass. civ. n. 23260/2017
  • Cass. civ. n. 30985/2017
  • Cass. Civ. n. 11846/2009
  • Cass. Civ. n. 8679/2006
  • Cass. Civ. n. 1024/1997
  • Corte Costituzionale, sentenza 30 novembre 1982, n. 204

Sommario