Licenziamento discriminatorio
17 Febbraio 2015
Inquadramento
Il licenziamento discriminatorio è quello dettato da condizioni particolari e personali del lavoratore, quali la religione professata, la razza, il sesso, la lingua, l'età.
Si differenzia pertanto in toto dal licenziamento ritorsivo ossia quello dettato da un intento di rappresaglia e da una reazione del datore all'esercizio di un diritto da parte del lavoratore.
Entrambe le figure sono oggi tipizzate a seguito dell'intervento della Legge Fornero che ha introdotto il licenziamento dettato da motivo illecito determinante tra le figure tipizzate cui deriva come conseguenza la reintegra del lavoratore nel posto di lavoro. Così come per le altre categorie di licenziamento, anche in questo il lavoratore avrà diritto ad esercitare il diritto di opzione entro 30 giorni dalla sentenza che sancisce il suo diritto.
L'onere della prova è interamente in capo al lavoratore, potendo fornire lo stesso anche una prova presuntiva in casi particolari come la discriminazione per sesso. Premessa
Il licenziamento discriminatorio è quella particolare categoria di licenziamento caratterizzato da una tutela forte e per così dire totale atteso che allo stesso è da sempre stata garantita una tutela reintegratoria, né mai è stata messa in dubbio la possibilità di affievolirla.
La giurisprudenza ha elaborato nel corso degli anni una serie di fattispecie nelle quali si può parlare di licenziamento discriminatorio. Tali sono quelle fondate sul genere, l'età, il sesso, la religione, la razza, le inclinazioni politiche e sindacali.
In buona sostanza può dirsi che ricorre un licenziamento discriminatorio ogniqualvolta il datore proceda a licenziare un proprio dipendente per motivazioni legate a proprie posizioni e connotati personali e del tutto slegati dalle motivazioni formalmente addotte (aziendali in caso di giustificato motivo oggettivo, disciplinari in caso di giusta causa o giustificato motivo soggettivo).
Elemento fondante e particolare del licenziamento discriminatorio è l'onere della prova che grava interamente e integralmente sul lavoratore, eccezion fatta per il licenziamento fondato sul sesso che, come si vedrà è soggetto ad un regime di prova presuntiva. La differenza è sostanziale e di peso, atteso che mentre la regola in caso di licenziamento è che sia il datore di lavoro a dover provare la legittimità dello stesso, nel caso che ci occupa c'è un radicale mutamento posto che sarà il lavoratore a dover dimostrare i fatti fondanti le proprie richieste.
Singolare oltre ad essere espressione di un orientamento diffuso è la posizione della giurisprudenza laddove ritiene che nel caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, laddove lo stesso non venga provato possa scattare in automatico, quasi a mo' di presunzione, una fattispecie di licenziamento discriminatorio. Ed infatti numerose sentenze statuiscono che: “La sanzione prevista dall'art. 3 l. 11 maggio 1990 n. 108 per l'ipotesi di licenziamento discriminatorio deve trovare applicazione anche ai licenziamenti che, pur non direttamente corrispondenti alle singole ipotesi contemplate nella suddetta norma, siano applicazione di tale principio, anche il licenziamento intimato per asserito giustificato motivo oggettivo un mese dopo il compimento di un anno di età del bambino deve, qualora il giustificato motivo non sussista e qualora vengano allegate ulteriori circostanze idonee, essere annullato (nella specie il Tribunale ha ritenuto circostanze idonee il fatto che il licenziamento fosse stato preannunciato poco dopo che la lavoratrice aveva comunicato lo stato di gravidanza e il fatto che la società avesse prospettato a tutti i dipendenti, salvo che alla ricorrente, la possibilità di evitare il licenziamento con una riduzione di orario di lavoro)"(ex multis Tribunale Lavoro di Lodi, sentenza del 19 aprile 2012).
Sulla tipizzazione del licenziamento ritorsivo accanto a quello discriminatorio
Il licenziamento ritorsivo è stato sempre considerata fattispecie distinta dal licenziamento discriminatorio.
Tutt'oggi la giurisprudenza li distingue a livello sostanziale.
Di recente infatti il Tribunale Lavoro di Arezzo ha statuito che: “In tema di licenziamento, tra l'atto di recesso discriminatorio e quello ritorsivo sussiste una sostanziale differenza ontologica e giuridica: infatti il primo prescinde dalla situazione personale del lavoratore, o per lo meno ne considera rilevante solo l'appartenenza ad un “genus”, sicché il licenziamento viene intimato con riguardo al sesso, razza, religione, motivi politici etc.; mentre il licenziamento nullo per illiceità dei motivi ha consistenza soggettiva e personale (come nella specie), nel senso che risulta determinato da ragioni vendicative, ossia è il frutto di tensioni ed ostilità nei confronti del singolo e deve risultare di portata eziologica esclusiva.” (Tribunale Lavoro di Arezzo, sentenza n. 378/2014).
Nonostante questa distinzione il legislatore, sino alla riforma Fornero del 2012, ha tipizzato il solo licenziamento discriminatorio, “relegando” il licenziamento ritorsivo (nella prassi molto più frequente del primo) ad una species del genus discriminatorio.
Ed infatti prima dell'entrata in vigore della Legge n. 92/2012 il nostro ordinamento prevedeva due figure particolari di licenziamento nullo, una tipizzata e l'altra no (al contrario di ora, dove al novellato art. 18 lo sono entrambe).
In particolare:
Pertanto nelle ipotesi di licenziamento ritorsivo ante – riforma Fornero, non era applicabile l'art. 18 Statuto dei Lavoratori, non essendoci alcuna norma (come per il licenziamento discriminatorio) che espressamente lo prevedesse (a differenza di oggi), ma le relative conseguenze.
A tale conclusione la giurisprudenza vi è arrivata ricollegandovi e applicandovi le comuni regole civilistiche in tema di patologia del negozio giuridico per poi da queste far discendere (per analogia con quanto previsto in tema di licenziamento discriminatorio) le conseguenze ripristinatorie e risarcitorie.
Ed infatti così si legge in una recente pronuncia sul tema: “è un licenziamento nullo, quando il motivo ritorsivo, come tale illecito, sia stato l'unico determinante dello stesso, ai sensi del combinato disposto dell'art. 1418 c.c., comma 2, art. 1345 e 1324 c.c. Esso costituisce ingiusta ed arbitraria reazione ad un comportamento legittimo del lavoratore colpito (diretto) o di altra persona ad esso legata e pertanto accomunata nella reazione (indiretto), che attribuisce al licenziamento il connotato della ingiustificata vendetta. Siffatto tipo di licenziamento è stato ricondotto, data l'analogia di struttura, alla fattispecie di licenziamento discriminatorio, vietato dagli art. 4 l. n. 300 del 1970, e 3 l. n. 108 del 1990 - interpretati in maniera estensiva - che ad esso riconnettono le conseguenze ripristinatorie e risarcitorie di cui all'art. 18 dello statuto dei lavoratori” (Cass. Lavoro sentenza n. 17987/2011).
In particolare l'art. 1345 c.c., applicabile, ai sensi dell'art. 1324 c.c., agli atti unilaterali qual è il recesso, colpisce l'atto viziato da motivo illecito determinante ed esclusivo, sancendone la nullità ex art. 1418 c.c.
Ebbene, con la legge 92/2012 il testo dell'art. 18 Legge n. 300/1970 ha previsto ed inserito proprio l'art. 1345 c.c. tra i motivi di nullità del licenziamento equiparando di fatto licenziamento discriminatorio e ritorsivo. Così oggi si legge: “Il giudice, con la sentenza con la quale dichiara la nullità del licenziamento perche' discriminatorio ai sensi dell'articolo 3 della legge 11 maggio 1990, n. 108, ovvero intimato in concomitanza col matrimonio ai sensi dell'articolo 35 del codice delle pari opportunità tra uomo e donna, di cui al decreto legislativo 11 aprile 2006, n. 198, o in violazione dei divieti di licenziamento di cui all'articolo 54, commi 1, 6, 7 e 9, del testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, di cui al decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151, e successive modificazioni, ovvero perché riconducibile ad altri casi di nullita' previsti dalla legge o determinato da un motivo illecito determinante ai sensi dell'articolo 1345 del codice civile, ordina al datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, indipendentemente dal motivo formalmente addotto e quale che sia il numero dei dipendenti occupati dal datore di lavoro”.
Il licenziamento intimato per motivo illecito e/o ritorsivo
Species del più ampio genus del licenziamento discriminatorio è per l'appunto il licenziamento ritorsivo, ossia il licenziamento costituente una ingiusta ed arbitraria reazione datoriale legata all'esercizio di un diritto, di una prerogativa o di un dovere da parte del lavoratore (ad esempio un'azione stragiudiziale o giudiziale, una testimonianza resa in tribunale, ecc.) o ad una qualsiasi attività del lavoratore diretta ad ottenere il rispetto di norme e principi (quali la parità di trattamento, la legalità, la sicurezza sul lavoro, ecc.).
L'onere della prova come sopra esposto è estremamente rigido e deve mirare a dimostrare come il licenziamento sia dettato da una volontà di rappresaglia o di vendetta del datore nei termini indicati sopra.
A tal fine sarà essenziale l'allegazione di fatti che dimostrino con gravità, precisione e concordanza quanto dedotto in ossequio al disposto dell'art. 2729 c.c. tra cui rilievo preminente può assumere lo strettissimo lasso temporale che intercorre tra un atto del lavoratore ed il licenziamento irrogato.
Così come per il licenziamento discriminatorio, anche per quello ritorsivo il riconoscimento giudiziale dello stesso porterà all'applicazione dell'art. 18, comma 1 Legge n. 300/1970 con conseguente diritto alla reintegra nel posto di lavoro a prescindere dal numero dei dipendenti dell'impresa. Licenziamento discriminatorio e onere della prova
In caso di licenziamento discriminatorio l'onere della prova circa la sussistenza del motivo discriminatorio grava sul lavoratore licenziato e ciò coerentemente alle regole generali, secondo le quali l'onere di fornire la prova del fatto affermato grava sul soggetto che agisce in giudizio, trattandosi di dimostrare la sussistenza del fatto costitutivo della domanda.
L'onere della prova può dirsi così ripartito secondo la Suprema Corte di Cassazione:
In particolare, per dimostrare la sussistenza del motivo discriminatorio del licenziamento“non è sufficiente la generica allegazione di circostanze solo in astratto rilevanti, quali la carica sindacale o l'attività sindacale svolta, occorrendo in ogni caso l'indicazione e la dimostrazione di elementi idonei a dimostrare la sussistenza di un rapporto di causalità fra le circostanze dedotte e l'asserito intento di rappresaglia, in difetto del quale deve escludersi il carattere discriminatorio del licenziamento. ... Da tempo la giurisprudenza ammette che in simili fattispecie l'indagine istruttoria del giudice utilizzi pienamente i poteri conferitigli dall'art. 421 c.p.c., facendo ampio ricorso alla prova per presunzioni di cui agli articoli 2727-2729 c.c.. In base all'art. 421 c.p.c., nel processo del lavoro il giudice può disporre d'ufficio in qualsiasi momento l'ammissione di ogni mezzo di prova, anche fuori dai limiti stabiliti dal codice civile. Le presunzioni sono la conseguenza che il giudice trae da un fatto noto per risalire ad un fatto ignoto.” (Cassazione Sezione Lavoro n. 6366 del 16 maggio 2000). Tra le ipotesi di discriminazione più frequenti vi è certamente quella per sesso in cui va ricompresa quella collegata allo stato di gravidanza/maternità della lavoratrice.
A tal riguardo, con la legge 10 aprile 1991, n. 125 il Legislatore ha previsto azioni positive per la realizzazione della parità uomo – donna nei rapporti di lavoro.
L'art. 4 di tale legge introduce una nozione di discriminazione che prescinde dalla derivazione della stessa estendendo la sanzione sia ai casi di discriminazione diretta che indiretta ed a prescindere dall'intento soggettivo del datore di lavoro. Ed infatti ivi si legge che “costituisce discriminazione ai sensi della legge 9 dicembre 1977 n. 903 qualsiasi atto o comportamento che produca un effetto pregiudizievole discriminando anche in via indiretta i lavoratori in ragione del sesso”.
Il Tribunale Lavoro di Roma ha affrontato un caso molto particolare nel quale un licenziamento di una lavoratrice madre anziché discriminatorio è stato qualificato come ritorsivo in quanto dettato non dallo stato e/o dal sesso della lavoratrice ma da motivo illecito determinante ossia dalla reazione del datore ad un comportamento lecito e legittimo del lavoratore. Si legge nella pronuncia: “Risulta dalla lettera di licenziamento che la ricorrente è stata di fatto licenziata per essersi assentata per un lungo periodo, ma tali assenze erano consentite dalla legge, per cui appare lecito individuare nel comportamento della società un licenziamento ritorsivo più che discriminatorio. Infatti è vero che l'art. 3 D.Lgs. 151 del 2001 asserisce […], ma nel caso in esame non si è allegato tanto il profilo discriminatorio tra il trattamento riservato alla ricorrente e quello offerto ad altri lavoratori, quanto più un licenziamento sorretto da motivo illecito determinante consistito nella illegittima reazione del datore di lavoro a diritti riconosciuti dall'ordinamento alla lavoratrice madre” (Tribunale Lavoro di Roma, ordinanza del 13 marzo 2014).
Quanto all'onere della prova, il quinto comma dell'art. 4 dispone che il datore di lavoro deve provare l'insussistenza della discriminazione per sesso qualora il ricorrente fornisca la prova presuntiva di tale discriminazione, cioè quando il ricorrente abbia allegato elementi di fatto “idonei a fondare, in termini precisi e concordanti, la presunzione dell'esistenza di atti o comportamenti discriminatori in ragione del sesso”
In buona sostanza in tale ipotesi c'è un alleggerimento dell'onere della prova atteso che, a differenza delle ulteriori ipotesi di discriminatorietà in cui l'onere è totalmente in capo al lavoratore, in questo caso è ammessa una prova presuntiva per quest'ultimo che dovrà esser sconfitta dal datore di lavoro.
Infine l'art. 4, quinto comma, contiene una elencazione esemplificativa degli elementi presuntivi che la lavoratrice può richiamare nell'adempiere all'onere della prova quali ad esempio la statistica in tema di assunzioni e licenziamenti, la differenza di retribuzioni mansioni e qualifiche.
Orientamenti a confronto
Casistica
Conclusioni
È indubbio che il licenziamento discriminatorio rappresenti una fattispecie che, sebbene potenzialmente molto frequente, all'atto pratico sia scarsamente riconosciuta in sede giudiziale attesa la difficoltà di raggiungere la prova in relazione a quanto dedotto.
Tuttavia è un istituto fondamentale nel nostro ordinamento tanto vero che non ne è mai stata messa in dubbio il mantenimento o la modifica se non in melius, tipizzando come detto anche il licenziamento per ritorsione o rappresaglia.
Certamente l'unico profilo che potrebbe suscitare un tale dubbio è l'inversione dell'onere della prova rispetto a quanto previsto in tema di licenziamento per giusta causa e giustificato motivo oggettivo, dove a dover provare la legittimità del provvedimento è il datore.
Ciò non vuol dire che si dovrebbe derogare ai fondamentali principi in tema di onere della prova ma quantomeno temperarli per estendere a tutte le ipotesi di licenziamento discriminatorio il regime della prova presuntiva che dovrà poi esser vinta dal datore di lavoro. Riferimenti
Normativi:
Art. 3, Legge 11 maggio 1990, n. 108 Art. 18, comma 1, Legge 20 maggio 1970, n. 300 Art. 4, Legge 10 aprile 1991, n. 125 |