Licenziamento economico

Giuseppe Buscema
04 Febbraio 2015

Scheda in fase di aggiornamento

Il licenziamento dei lavoratori per motivi economici è quello determinato da ragioni inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa.Per procedere alla risoluzione contrattuale risultano peraltro regole differenti a seconda che il licenziamento sia individuale o collettivo.Nella prima ipotesi, il licenziamento individuale è regolato dalla L. n. 604/1966.Negli altri casi, invece, la disciplina è contenuta nella L. n. 223/1991.

Inquadramento

Il licenziamento dei lavoratori per motivi economici è quello determinato da ragioni inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa.

Per procedere alla risoluzione contrattuale risultano peraltro regole differenti a seconda che il licenziamento sia individuale o collettivo.

Nella prima ipotesi, il licenziamento individuale è regolato dalla L. n. 604/1966.

Negli altri casi, invece, la disciplina è contenuta nella L. n. 223/1991.

Si intende collettivo il licenziamento che riguarda i datori di lavoro che occupano più di quindici lavoratori e che intendano effettuare almeno cinque licenziamenti nell'arco di 120 giorni.

Relativamente ai licenziamenti individuali, risulta fondamentale al fine di verificarne la legittimità, che vi sia un nesso di causalità dei motivi e la risoluzione contrattuale, ed inoltre che non vi sia possibilità di un utile reimpiego del lavoratore.

Anche all'interno della tipologia di licenziamenti individuali, sono previste procedure e tutele differenti a seconda della forza aziendale del datore di lavoro.

La disciplina peraltro è stata profondamente modificata dalla Legge Fornero e da ultimo dalla Legge delega cd. Jobs Act. e dal relativo decreto attuativo D.Lgs. n. 23/2015.

Quest'ultimo introduce una tutela differente in caso di illegittimità del licenziamento, anche in relazione alla data di instaurazione del contratto di lavoro. In particolare, le regole sono diverse a seconda che le assunzioni risultino effettuate prima o dopo il 7 marzo 2015, l'entrata in vigore della nuova disciplina.

Introduzione

Nel caso un datore di lavoro intenda procedere alla risoluzione di un contratto di lavoro a tempo indeterminato per motivi di natura economica, sarà necessario seguire le regole in materia di licenziamenti individuali per giustificato motivo previste della legge 15 luglio 1966, n.604.

In particolare, l'articolo 3 della suddetta legge prevede che il licenziamento per giustificato motivo oggettivo con preavviso é determinato da ragioni inerenti

  • all'attività produttiva,
  • all'organizzazione del lavoro
  • e al regolare funzionamento di essa.

Occorre tuttavia che non ricorrano gli elementi perché la risoluzione non possa configurare l'ipotesi di licenziamento collettivo che risulta invece regolato dalla legge n. 223/1991, la quale prevede una procedura molto differente, con coinvolgimento dei sindacati di categoria e degli uffici amministrativi con competenze in materia di lavoro.

Andando ad approfondire il tema dei licenziamenti individuali, occorre pertanto ed in via preliminare verificare quando occorre escludere che a questi si renda applicabile la disciplina normativa in materia di licenziamenti collettivi.

Tale ultima ipotesi riguarda il datore di lavoro che abbia in forza un numero di lavoratori superiore a quindici e che, in conseguenza di una riduzione o trasformazione di attività o di lavoro, intenda effettuare almeno cinque licenziamenti nell'arco di centoventi giorni. Il limite di quindici dipendenti va determinato in relazione a ciascuna unità produttiva, o in più unità produttive nell'ambito del territorio di una stessa provincia.

La giustificazione del licenziamento

Tornando ai licenziamenti individuali, invece, la decisione del datore di lavoro di procedere alla risoluzione del contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato per motivi economici, determina due conseguenze.

La prima che è quella fondamentale riguarda la necessità che vi siano le ragioni per potervi ricorrere.

A tal fine, va ricordato che l'art. 5 della legge n.604/1966 prevede che l'onere della probatorio circa la sussistenza del motivo che ha determinato il licenziamento spetta al datore di lavoro.

Sotto il profilo processuale, infatti, il lavoratore, quale attore della causa che decidesse di intraprendere nei confronti del datore di lavoro, deve provare l'esistenza del contratto di lavoro subordinato e la cessazione del rapporto, ma rispettato tale onere, è il datore di lavoro che in giudizio sarà chiamato a giustificare le ragioni del licenziamento.

La seconda conseguenza riguarda invece le procedure da seguire per il recesso dal contratto da parte del datore di lavoro.

Partendo dal primo aspetto, che è evidentemente quello fondamentale, lo scopo è quello di contemperare il bilanciamento di due interessi contrapposti di tutela costituzionale, ovvero quello del lavoratore e quello del datore di lavoro.

La prova in giudizio deve garantire al datore di lavoro la tutela costituzionale prevista dall'art. 41 in materia di libertà dell'iniziativa economica. Ciò non consente al giudice di sindacare la scelta in ordine alla decisione di procedere alla riduzione del personale, ma dall'altro deve consentire un controllo giudiziale teso a verificare la legittimità della scelta datoriale allo scopo di evitarne la strumentalità ovvero la pretestuosità.

Certamente, non potrà il giudice entrare nel merito della proporzionalità del licenziamento rispetto alle motivazioni che lo hanno determinato.

Gli elementi che il giudice è chiamato a verificare riguardano innanzitutto che vi sia il nesso di causalità tra le ragioni del licenziamento e la soppressione del posto di lavoro.

La finalità è quella di evitare la possibile pretestuosità del licenziamento che invece deve trovare tangibile evidenza attraverso la verifica preliminare se quanto addotto dal datore di lavoro abbia in effetti una correlazione con le mansioni svolte dal lavoratore.

Se ad esempio il datore di lavoro procede al licenziamento perché decide di sopprimere una funzione, la verifica riguarderà il collegamento che esiste tra la funzione eliminata e l'attività lavorativa contrattualmente svolta dal lavoratore.

Il licenziamento potrà derivare ad esempio dal calo di fatturato, volontà di procedere alla riduzione dei costi aziendali, ristrutturazione, riassetto organizzativo.

Anche in questi casi, il datore di lavoro dovrà dimostrare il collegamento con l'attività lavorativa del dipendente licenziato.

Rientrano in tali casi anche quelli relativi ai lavoratori che abbiano perduto i requisiti per lo svolgimento delle mansioni oggetto del contratto di lavoro.

Si pensi al lavoratore addetto alla vigilanza al quale viene ritirato il porto d'armi.

Un altro elemento di verifica giudiziale prende le mosse dal fatto che il licenziamento rappresenta l'extrema ratio; di conseguenza, è necessario che non vi sia possibilità di un reimpiego del lavoratore.

É quello che in giurisprudenza è stato definito onere di repechage.

Tornando all'esempio del lavoratore addetto alla vigilanza, il datore di lavoro potrà dimostrare che il licenziamento può essere legittimo in quanto incide sull'organizzazione del lavoro ed esiste il nesso di causalità (Cass. sent. 22 maggio 2012, n. 8050), ma dovrà anche dimostrare l'impossibilità di una ricollocazione del lavoratore.

Un onere che può essere superato dal datore di lavoro anche con presunzioni semplici.

La giurisprudenza sotto il profilo probatorio a tal fine richiede che il datore di lavoro ha l'onere di provare, anche mediante elementi presuntivi ed indiziari, l'impossibilità di una differente utilizzazione del lavoratore in mansioni diverse da quelle precedentemente svolte (Cass. sent. 11 ottobre 2016, n. 20436).

Tale prova non deve essere intesa in modo rigido, dovendosi esigere dallo stesso lavoratore che impugni il licenziamento una collaborazione nell'accertamento di un possibile repechage, mediante l'allegazione dell'esistenza di altri posti di lavoro nei quali egli poteva essere utilmente ricollocato, e conseguendo a tale allegazione l'onere del datore di lavoro di provare la non utilizzabilità del posto di lavoro (Cass. sent. 8 novembre 2013, n.25197; 18 marzo 2010, n.6559).

Tale controllo giudiziale cerca di contemperare l'esigenza di verificare l'effettiva impossibilità di reimpiego del lavoratore, ma anche evitare di chiedere al datore di lavoro una prova assoluta e inconfutabile. La concreta possibilità di diverso impiego del dipendente può emergere solo dal contraddittorio tra le parti (Cass. sent. n.3224/2014).

Le procedure per il licenziamento

Le regole da seguire per poter procedere al licenziamento sono differenti a seconda che il datore di lavoro si trovi in regime di tutela reale o in regime di tutela obbligatoria.

Il regime di tutela reale riguarda i datori di lavoro che occupano un numero di lavoratori nell'unità produttiva superiore a quindici lavoratori (cinque se imprenditori agricoli), ovvero superano tale limite nello stesso comune anche tenendo conto delle diverse unità produttive; in ogni caso, tale regime si rende applicabile in ogni caso qualora il numero dei dipendenti sia superiore a sessanta in ambito nazionale.

Per tali datori di lavoro si rendono applicabili preventivamente le procedure previste dall'art. 7 della legge n.604/1966 nonché, nel caso di illegittimità, le conseguenze previste dall'art. 18 della legge 20 maggio 1970, n.300.

In particolare, dopo le modifiche apportate dalla legge 28 giugno 2012, n.92 cd. Legge Fornero, è stata introdotta una procedura che i datori di lavoro devono preventivamente attivare qualora intendano procedere al licenziamento.

È necessaria una comunicazione all'Ispettorato Territoriale del Lavoro la Direzione territoriale del lavoro ai sensi dell'art. 410 c.p.c., e per conoscenza al lavoratore.

Nella comunicazione scritta andrà indicata la volontà di procedere al licenziamento per motivo oggettivo, i motivi alla base della decisione, nonché le eventuali misure di assistenza alla ricollocazione del lavoratore interessato.

L'ispettorato territoriale del lavoro competente è da individuarsi in relazione al luogo di svolgimento dell'attività del lavoratore.

La comunicazione si considera validamente effettuata quando è recapitata al domicilio del lavoratore indicato nel contratto di lavoro o ad altro domicilio formalmente comunicato dal lavoratore al datore di lavoro, ovvero è consegnata direttamente al lavoratore al quale il datore di lavoro avrà cura di far firmare copia per ricevuta.

L'ispettorato territoriale del lavoro trasmette la convocazione al datore di lavoro e al lavoratore nel termine perentorio di sette giorni dalla ricezione della richiesta: l'incontro si svolge dinanzi alla commissione provinciale di conciliazione di cui all'art. 410 c.p.c. e si conclude entro il termine di 20 giorni dalla data in cui la commissione ha trasmesso la comunicazione alle parti la convocazione per l'incontro.

Se la conciliazione si conclude positivamente e conduce comunque alla risoluzione del contratto di lavoro ma non in forma unilaterale ma consensuale, il lavoratore avrà diritto alle prestazioni in materia di Assicurazione sociale per l'impiego e può essere previsto, al fine di favorirne la ricollocazione professionale, l'affidamento del lavoratore ad un'agenzia per il lavoro.

In caso contrario, il licenziamento decorre dalla data in cui il datore di lavoro ha effettuato la comunicazione iniziale all'Ispettorato Territoriale del Lavoro ed il periodo successivo si intende preavviso lavorato.

Ai fini della individuazione del momento di avvio della procedura, considerando che la comunicazione è inviata anche al lavoratore, assume valore la data di ricezione da parte dell'Ispettorato Territoriale del Lavoro (Circolare Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali n. 3 del 16 gennaio 2013).

In ogni caso, la comunicazione ha effetto recettizio, quindi rileva la data di ricezione del destinatario.

Va peraltro rilevato che il comportamento complessivo delle parti nel corso della procedura descritta, è valutato dal giudice per la determinazione dell'indennità risarcitoria nel caso in cui il licenziamento venisse dichiarato illegittimo.

Per i datori di lavoro che ricadono nel regime di tutela obbligatoria, invece, che sono tutti i datori di lavoro che non rientrano nel regime di tutela reale, le procedure da seguire per la risoluzione del contratto di lavoro sono quelle previste per le altre ipotesi di risoluzione.

È quindi necessaria la forma scritta così come prescrive l'art. 2 della L. n. 604/1966.

La comunicazione del licenziamento al lavoratore (dunque senza alcun passaggio dalla commissione. presso l'Ispettorato Territoriale del Lavoro) deve indicare i motivi che lo hanno determinato.

La carenza dei motivi determina l'inefficacia della risoluzione; analoga conseguenza deriva peraltro dalla mancata comunicazione all'Ispettorato Territoriale del Lavoro per i datori di lavoro in regime di tutela reale.

In tal caso, se comunque il licenziamento risulta legittimo e dunque i vizi erano esclusivamente quelli della procedura, ovvero relativi ai contenuti della lettera di licenziamento, il datore di lavoro è chiamato a risarcire il lavoratore con una indennità risarcitoria omnicomprensiva tra un minimo di 6 ed un massimo di 12 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, in relazione all'anzianità del lavoratore e tenuto conto del numero dei dipendenti occupati, delle dimensioni dell'attività economica, del comportamento e delle condizioni delle parti, con onere di specifica motivazione a tale riguardo (cfr. art.18, comma 6, L. n. 300/1970).

Conseguenza del licenziamento illegittimo

Nel caso invece di illegittimità del licenziamento, le conseguenze sono differenti a seconda che il datore di lavoro si trovi in regime di tutela reale ovvero di tutela obbligatoria.

Regime di tutela obbligatoria

Per quanto concerne le conseguenze derivanti dall'eventuale illegittimità del licenziamento per i datori di lavoro che ricadono nel regime di tutela obbligatoria, l'art. 8 della L. n.604/1966 prevede che quando risulti accertata l'illegittimità o che non ricorrono gli estremi del licenziamento per giusta causa o giustificato motivo, il datore di lavoro é tenuto a riassumere il prestatore di lavoro entro il termine di tre giorni o, in mancanza, al risarcimento mediante la corresponsione di un'indennità di importo compreso tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 6 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo al numero dei dipendenti occupati, alle dimensioni dell'impresa, all'anzianità di servizio del prestatore di lavoro, al comportamento e alle condizioni delle parti. La misura massima della predetta indennità può essere maggiorata fino a 10 mensilità per il prestatore di lavoro con anzianità superiore ai dieci anni e fino a 14 mensilità per il prestatore di lavoro con anzianità superiore ai venti anni, se dipendenti da datore di lavoro che occupa più di quindici prestatori di lavoro.

La legge n.183/2010 ha inoltre aggiunto tra gli elementi oggetto di valutazione da parte del giudice nella determinazione dell'indennità considera: le dimensioni e le condizioni dell'attività esercitata dal datore di lavoro, la situazione del mercato del lavoro locale, l'anzianità e le condizioni del lavoratore, nonché il comportamento delle parti anche prima del licenziamento (art. 30, comma 3).

Analoga disciplina si applica ai datori di lavoro non imprenditori che svolgono senza fini di lucro attività di natura politica, sindacale, culturale, di istruzione ovvero di religione o di culto (cd. organizzazioni di tendenza).

Regime di tutela reale

Per i datori di lavoro che ricadono nel regime di tutela reale, le conseguenze del licenziamento illegittimo sono contenute nell'art. 18 della L. n. 300/1970.

Sono previste due forme di tutela, una piena che prevede la reintegra nel posto di lavoro ed una indennità risarcitoria, un'altra attenuata in quanto è prevista la sola indennità in forma più elevata.

In particolare, l'ottavo comma prevede che nel caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo dichiarato illegittimo, il giudice dichiara di regola risolto il rapporto di lavoro e condanna il datore di lavoro ad un'indennità risarcitoria omnicomprensiva determinata da un minimo di dodici ed un massimo di ventiquattro mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, in relazione all'anzianità del lavoratore e tenuto conto del numero dei dipendenti occupati, delle dimensioni dell'attività economica, del comportamento e delle condizioni delle parti.

Nel caso in cui il giudice accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento, invece, ne consegue l'annullamento del recesso e la condanna del datore di lavoro alla reintegrazione nel posto di lavoro, nonché al pagamento di un'indennità risarcitoria determinata in relazione all'ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento fino al momento della reintegra.

Tale indennità non potrà superare 12 mensilità, con decurtazione di quanto il lavoratore ha percepito per lo svolgimento di altre attività lavorative (cd. aliunde perceptum), nonché quanto avrebbe potuto percepire dedicandosi con diligenza alla ricerca di una nuova occupazione (cd. aliunde percipiendum).

Sono inoltre dovuti i contributi previdenziali per l'intero periodo dalla data del licenziamento fino a quella dell'effettiva reintegra.

Contratti di lavoro a tutele crescenti

La legge 10 dicembre 2014, n. 183 cd. Jobs Act tra le deleghe al governo in materia di lavoro, ha previsto l'introduzione di una nuova forma di tutela conseguente all'accertamento giudiziale dell'illegittimità del licenziamento.

E' stato di conseguenza approvato il Decreto Legislativo 4 marzo 2015, n. 23, pubblicato nella G.U. 6 marzo 2015, n. 54 ed in vigore dal 7 marzo 2015.

Riguarda i contratti di lavoro a tempo indeterminato che verranno stipulati successivamente all'entrata in vigore del decreto legislativo attuativo della delega.

Pertanto, i contratti stipulati dal 7 marzo 2015 sono sottoposti alle nuove tutele in caso di illegittimità previste dal citato decreto che prevedono un'indennità crescenti in relazione all'anzianità lavorativa del dipendente presso il datore di lavoro che lo ha licenziato.

Proprio per tale motivo, il contratto è stato definito a tutele crescenti.

In buona sostanza, viene superata l'autonomia da parte del giudice di determinare l'indennità sulla base dei parametri previsti dalle diverse discipline.

Le novità riguardano tutti i datori anche se con differenze per i datori di lavoro che ricadono nel regime di tutela reale rispetto a quelli che invece si trovano nel regime di tutela obbligatoria.

TUTELA REALE

Nel caso in cui il giudice accerta che il licenziamento è illegittimo, condanna il datore di lavoro al pagamento di un'indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale pari a 2 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a 4 e non superiore a 24 mensilità.

Per i licenziamenti dal 14 luglio 2018, data di entrata in vigore del decreto legge 12 luglio 2018, n. 87, convertito con modificazioni dalla Legge 9 agosto 2018, n. 96, tali limiti sono stati modificati.

In particolare, l'articolo 3 del citato decreto ha modificato l'articolo 3 del D. Lgs. n. 23/2015 prevedendo che l'indennità non può essere inferiore a 3 mensilità e superiore a 36 mensilità.

Per il computo dell'indennità, le frazioni di anno d'anzianità di servizio sono riproporzionati e le frazioni di mese uguali o superiori a quindici giorni si computano come mese intero.

TUTELA OBBLIGATORIA

Si applicano le stesse regole previste per i datori di lavoro in regime di tutela reale ma le indennità sono dimezzate.

Dunque le conseguenze consistono nel risarcimento con un'indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale pari a una mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a 2 e non superiore a 12 mensilità.

Per i licenziamenti dal 14 luglio 2018, per effetto delle modifiche previste dal citato D. L. n. 87/2018, l'indennità minima sale da 2 a 3 mensilità, mentre rimane di 6 mesi l'indennità massima.

Organizzazioni di tendenza

Per i datori di lavoro non imprenditori che svolgono senza fini di lucro attività di natura politica, sindacale, culturale, di istruzione ovvero di religione o di culto (cd. organizzazioni di tendenza) non sono più previste differenze rispetto agli altri datori di lavoro.

Pertanto, per i contratti di lavoro a tempo indeterminato stipulati dal 7 marzo 2015 data di all'entrata in vigore del Decreto, si applicano le tutele previste in relazione al numero dei lavoratori occupati.

Licenziamenti inefficaci

Per i licenziamenti privi dei requisiti di motivazione ovvero della procedura amministrativa (v. supra), è prevista una indennità pari a una mensilità dell'ultima retribuzione per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a 2 e non superiore a 12.

Fermo restando, naturalmente, che il licenziamento sia comunque legittimo.

In caso contrario si applicheranno le normali tutele previste in caso di licenziamento illegittimo.

Sentenza della Corte Costituzionale

La Corte Costituzionale, con Sentenza n. 194 dell'8 novembre 2018, pubblicata nella G.U. della Corte Costituzionale 14 novembre 2018, n. 45, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 3, comma 1, del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23 limitatamente alle parole «di importo pari a due mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio».

In particolare – si legge nella sentenza – che “nel rispetto dei limiti, minimo e massimo, dell'intervallo in cui va quantificata l'indennità spettante al lavoratore illegittimamente licenziato, il giudice terrà conto innanzi tutto dell'anzianità di servizio - criterio che è prescritto dall'art. 1, comma 7, lett. c) della legge n. 184 del 2013 e che ispira il disegno riformatore del d.lgs. n. 23 del 2015 - nonché degli altri criteri già prima richiamati, desumibili in chiave sistematica dalla evoluzione della disciplina limitativa dei licenziamenti (numero dei dipendenti occupati, dimensioni dell'attività economica, comportamento e condizioni delle parti).”.

Di conseguenza, il Giudice partirà comunque applicando il criterio delle tutele crescenti previsto dall'articolo 3, comma 1 del D. Lgs. n. 23/2015 e quindi dell'anzianità di servizio ma terrà anche conto degli altri criteri contenuti nelle disposizioni in materia di tutela in caso di licenziamenti dichiarati illegittimi.

Dunque, l'articolo 18 della Legge n. 300/1970 in caso di datori di lavoro in regime di tutela reale e l'articolo 8 della Legge n. 604/1966 in caso di tutela obbligatoria, già trattati in precedenza.

Riferimenti

Normativa

  • Decreto Legislativo 4 marzo 2015, n. 23
  • D.L. 12 luglio 2017, n. 87 convertito dalla Legge 9 agosto 2018, n. 96
  • Legge 10 dicembre 2014, n. 183
  • Legge 28 giugno 2012, n. 92
  • Legge 4 novembre 2010, n. 183
  • Legge 23 luglio 1991, n. 223
  • Legge 20 maggio 1970, n. 300
  • Legge 15 luglio 1966, n. 604
  • Art. 410, Codice di procedura civile
  • Art. 41, Costituzione della Repubblica Italiana

Prassi

  • Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali, Circolare 16 gennaio 2013, n. 3

Giurisprudenza

  • Corte Costituzionale, sentenza 8 novembre 2018, n. 194
  • Cass. civ. sez. lav. 11 ottobre 2016, n. 20436
  • Cass. civ. sez. lav. 8 novembre 2013, n. 25197
  • Cass. civ. sez. lav. 18 marzo 2010, n. 6559