Licenziamento economicoFonte: L. 15 luglio 1966 n. 604
03 Gennaio 2025
Inquadramento Il licenziamento dei lavoratori per motivi cd. economici è quello determinato da ragioni inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa. Per procedere alla cessazione del rapporto contrattuale per tale via esistono regole differenti a seconda che il licenziamento sia individuale o collettivo. Nella prima ipotesi, il licenziamento è regolato dalla L. n. 604/1966. Negli altri casi, invece, la disciplina è contenuta nella L. n. 223/1991. Si intende collettivo il licenziamento che è posto in esser da datori di lavoro che occupano più di quindici lavoratori e che intendano effettuare almeno cinque licenziamenti nell'arco di 120 giorni. Relativamente ai licenziamenti individuali, risulta fondamentale al fine di verificarne la legittimità, che vi sia un nesso di causalità dei motivi e la cessazione del rapporto contrattuale e, inoltre, che non vi sia possibilità di un utile reimpiego del lavoratore. Anche all'interno della tipologia di licenziamenti individuali, sono previste procedure e tutele differenti a seconda del numero dei lavoratori alle dipendenze del datore di lavoro. La disciplina peraltro è stata profondamente modificata dalla Legge Fornero e da ultimo dalla Legge delega cd. Jobs Act. e dal relativo decreto attuativo D.Lgs. n. 23/2015. Quest'ultimo introduce una tutela differente in caso di illegittimità del licenziamento, anche in relazione alla data di instaurazione del contratto di lavoro. In particolare, le regole sono diverse a seconda che le assunzioni risultino effettuate prima o dopo il 7 marzo 2015, l'entrata in vigore della nuova disciplina. Introduzione Nel caso in cui un datore di lavoro intenda procedere al recesso da un contratto di lavoro a tempo indeterminato per motivi di natura economica, sarà necessario seguire le regole in materia di licenziamenti individuali per giustificato motivo dettate della legge 15 luglio 1966, n.604. In particolare, l'articolo 3 della suddetta legge prevede che il licenziamento per giustificato motivo oggettivo con preavviso é determinato da ragioni inerenti
Occorre tuttavia che non ricorrano gli elementi perché il recesso venga ad inquadrarsi nell'ipotesi di licenziamento collettivo, che risulta invece regolato dalla legge n. 223/1991, la quale prevede una procedura molto differente, con coinvolgimento dei sindacati di categoria e degli uffici amministrativi con competenze in materia di lavoro. Andando ad approfondire il tema dei licenziamenti individuali, occorre pertanto ed in via preliminare verificare quando si deve escludere l'applicabilità della disciplina in materia di licenziamenti collettivi. Tale ultima ipotesi riguarda il datore di lavoro che abbia in forza un numero di lavoratori superiore a quindici e che, in conseguenza di una riduzione o trasformazione di attività o di lavoro, intenda effettuare almeno cinque licenziamenti nell'arco di centoventi giorni. Al di sotto di tale soglia, il licenziamento che riguardi più lavoratori, viene definito licenziamento individuale plurimo. Il limite di quindici dipendenti va determinato in relazione a ciascuna unità produttiva, o in più unità produttive nell'ambito del territorio di una stessa provincia. La giustificazione del licenziamento Per quanto riguarda i licenziamenti individuali, invece, la decisione del datore di lavoro di procedere al recesso dal contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato per motivi economici, può essere attuata a due condizioni. La prima, che è quella fondamentale, riguarda la necessità che vi siano le ragioni previste dalla legge per potervi ricorrere, e cioè quelle dettate dal già citato articolo 3 della legge n. 604 del 1966. A tal fine, va ricordato che l'art. 5 della stessa legge prevede, in generale, che l'onere della prova circa la sussistenza del motivo che ha determinato il licenziamento spetta al datore di lavoro. Sotto il profilo processuale, pertanto, il lavoratore che intenda agire in giudizio per far valere l'illegittimità del licenziamento deve provare l'esistenza del contratto di lavoro subordinato e la cessazione del rapporto; una volta assolto a tale onere, è il datore di lavoro che in giudizio sarà chiamato a dover dimostrare l'esistenza delle ragioni giustificatrici del licenziamento previste dalla legge. La seconda condizione riguarda invece la necessità di osservare talune procedure previste anch'esse dalla legge. Esaminando più a fondo la prima condizione, che è evidentemente quella fondamentale, si può dire che lo scopo di consentire il licenziamento solo per ragioni prefissate dal legislatore è quello di operare un bilanciamento di due interessi contrapposti di rilevanza costituzionale, ovvero quello del lavoratore a mantenere il proprio posto di lavoro, in vista delle esigenze fondamentali prese in considerazione dagli artt. 3, comma 2, 4 e 36 della Costituzione, e quello del datore di lavoro a beneficiare della libertà dell'iniziativa economica prevista dall'art. 41 Cost., e quindi di poter perseguire l'organizzazione e l'efficienza della propria attività modulando la forza lavoro alle sue dipendenze a seconda delle effettive necessità. Nel bilanciare i due interessi anzidetti il legislatore ha predisposto un sistema di tutela all'interno del quale non è consentito al giudice di sindacare nel merito la scelta datoriale in ordine alla decisione di procedere alla riduzione del personale, consentendogli però un controllo giudiziale teso a verificare la legittimità di tale scelta al fine di evitarne la strumentalità ovvero la pretestuosità. In una prospettiva siffatta il giudice pertanto non può entrare nel merito della proporzionalità del licenziamento rispetto alle motivazioni che lo hanno determinato, ma può e deve verificare che vi sia il nesso di causalità tra le ragioni del licenziamento e la soppressione del posto di lavoro. Se ad esempio il datore di lavoro procede al licenziamento perché decide di sopprimere una funzione, la verifica riguarderà il collegamento che esiste tra la funzione eliminata e l'attività lavorativa contrattualmente svolta dal lavoratore preposto a tale funzione. Il licenziamento potrà derivare, ad esempio, da ragioni quali il calo di fatturato, volontà di procedere alla riduzione dei costi aziendali, ad una ristrutturazione o ad un riassetto organizzativo dell'azienda o dell'attività svolta. Anche in questi casi, il datore di lavoro dovrà dimostrare il collegamento con l'attività lavorativa del dipendente licenziato, nel senso che dovrà evidenziare e, in caso di contestazione, dimostrare, che le ragioni giustificatrici anzidette impattano con i posti di lavoro ricoperti dai lavoratori interessati e con i profili professionali da essi posseduti. E' consolidato ormai in giurisprudenza l'orientamento secondo cui è sufficiente che le ragioni inerenti all'attività produttiva ed all'organizzazione del lavoro, comprese quelle dirette ad una migliore efficienza gestionale ovvero ad un incremento della redditività, determinino un effettivo mutamento dell'assetto organizzativo attraverso la soppressione di un'individuata posizione lavorativa , non essendo tale scelta imprenditoriale sindacabile nei suoi profili di congruità ed opportunità, in ossequio al disposto dell'art. 41 Cost.; tuttavia, se il giudice accerti, in concreto, l'inesistenza della ragione organizzativa o produttiva indicata, la cui prova grava sul datore di lavoro, il licenziamento risulterà ingiustificato per la mancanza di veridicità o la pretestuosità della causale addotta (di recente v. Cass., Sez. lav. n. 752 del 12/01/2023). Un altro elemento di verifica giudiziale riguarda il fatto che non vi sia possibilità di un reimpiego diverso del lavoratore licenziando. Tale verifica riguarda quello che in giurisprudenza è stato definito onere di repechage, o onere del datore di lavoro di dimostrare l'impossibilità di una ricollocazione del lavoratore all'interno della propria organizzazione, reimpiegandolo in un'altra posizione disponibile, o in mansioni diverse da quelle precedentemente svolte. Un onere che non deve essere inteso in modo rigido, ma che può essere assolto dal datore di lavoro anche mediante presunzioni semplici (Cass. sent. 11 ottobre 2016, n. 20436). L'orientamento più recente della giurisprudenza tende ad escludere che il lavoratore licenziato debba collaborare all'individuazione dei posti disponibili in cui essere ricollocato, avendo affermato che spetta al datore di lavoro l'allegazione e la prova dell'impossibilità di suo "repechage", senza che sul lavoratore incomba un onere di allegazione dei posti assegnabili (Cass., Sez. Lav. n. 2739 del 30 gennaio 2024). L'impossibilità di reimpiego del lavoratore licenziato per giustificato motivo oggettivo in altra posizione disponibile costituisce un presupposto di legittimità di tale tipo di licenziamento, al pari delle ragioni organizzative e produttive ed inerenti il regolare funzionamento dell'azienda, sicché la sua sussistenza deve essere verificata al pari di queste ultime (Cass. 11 novembre 2019, n. 29102). L'insussistenza del fatto posto a fondamento del giustificato motivo oggettivo comporta l'applicazione della tutela prevista dal quarto comma dell'art. 18 della l. n. 300 del 1970, come modificato dalla legge Fornero, e cioè della tutela reintegratoria attenuata (V. scheda sulle tutele applicabili per il licenziamento illegittimo); a seguito della sentenza della Corte costituzionale 1 aprile 2021, n. 59, l'applicazione della tutela anzidetta non costituisce più una facoltà del giudice, ma una conseguenza ordinaria della insussistenza del giustificato motivo oggettivo. Un'altra sentenza della Corte costituzionale, la n. 125 del 2022, dichiarativa dell'illegittimità costituzionale dell'art.18 della legge n. 300/1970, come modificato dall'art. 1, comma 42, lettera b) della legge n. 92/2012 (Legge Fornero), limitatamente alla parola «manifesta», ha reso ininfluente ogni problematica sulla necessità, da parte dei giudici di merito, di delineare e, conseguentemente, di motivare sul concetto di “manifesta insussistenza” del fatto posto a base del licenziamento, essendo ormai sufficiente, per disporre la tutela reintegratoria, l'accertamento di una semplice insussistenza del fatto e non anche di una inesistenza prima facie dei presupposti di legittimità del recesso tali da renderlo pretestuoso (Cass. 1° luglio 2024, n. 18075). L'onere di provare l'inesistenza di alcuna posizione di lavoro analoga a quella soppressa è stato ritenuto esistente non soltanto con riferimento ad una posizione che richiede l'espletamento di mansioni equivalenti a quelle possedute dal lavoratore licenziato, ma, in attuazione del principio di correttezza e buona fede, anche con riferimento a mansioni inferiori, dovendo il predetto onere ricomprendere anche la prospettazione al dipendente, senza averne ottenuto il consenso, della possibilità di un reimpiego in mansioni inferiori rientranti nel suo bagaglio professionale o con esso compatibili (Cass. 8 marzo 2016, n. 4509 e Cass. 11 novembre 2019, n. 29099). In tale prospettiva è stato affermato che al licenziamento deve rappresentare l'extrema ratio, soprattutto a seguito della modifica, ad opera del d.lgs. n. 81 del 2015, apportata alla disciplina, dettata dall'art. 2103 c.c., del potere del datore di lavoro di variare le mansioni assegnate al lavoratore; al riguardo è stato infatti previsto che “In caso di modifica degli assetti organizzativi aziendali che incide sulla posizione del lavoratore, lo stesso può essere assegnato a mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore purché rientranti nella medesima categoria legale”. Nel caso di soppressione di un posto di lavoro in presenza di più posizioni fungibili perché occupate da lavoratori con professionalità sostanzialmente omogenee, non essendo utilizzabile il criterio dell'impossibilità di repéchage, il datore di lavoro deve individuare il soggetto da licenziare secondo i principi di correttezza e buona fede; in questo contesto l'art. 5 della legge n. 223/1991 offre uno standard idoneo ad assicurare una scelta conforme a tale canone, ma non può escludersi l'utilizzabilità di altri criteri, purché non arbitrari, improntati a razionalità e graduazione delle posizioni dei lavoratori interessati (Cass. 7 dicembre 2016, n. 25192). Di norma, vengono considerate ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, in quanto attinenti a ragioni organizzative e produttive, anche i casi relativi ai lavoratori che abbiano perduto i requisiti necessari per lo svolgimento delle mansioni oggetto del contratto di lavoro. Si pensi al lavoratore addetto alla vigilanza armata al quale viene ritirato il porto d'armi dall'autorità amministrativa, o al lavoratore addetto a mansioni per le quali è necessaria una particolare abilitazione o qualificazione amministrativa che venga meno in corso di rapporto. Le procedure per il licenziamento Le regole da seguire per poter procedere al licenziamento sono differenti a seconda che il datore di lavoro si trovi in regime di tutela reale o in regime di tutela obbligatoria (v. scheda sulle tutele applicabili). In caso di regime di tutela reale, i datori di lavoro sono tenuti ad osservare le procedure previste dall'art. 7 della legge n.604/1966, come modificato dalla legge 28 giugno 2012, n.92 (cd. Legge Fornero), la quale ha introdotto la necessità di alcuni adempimenti preventivi all'adozione del licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Un tale obbligo non sussiste per i lavoratori assunti a far data dall'entrata in vigore del d. lgs. n. 23 del 2015 (7 marzo 2015), per espressa previsione dell'art. 3, comma 3, di tale d. lgs. Il primo adempimento procedurale che è stato previsto è quello di inviare una comunicazione dell'intenzione di procedere al licenziamento all'Ispettorato Territoriale del Lavoro della Direzione territoriale del lavoro affinché questo esplichi il tentativo di conciliazione ai sensi dell'art. 410 c.p.c. In tale comunicazione scritta, da inviarsi anche al lavoratore, devono indicarsi, oltre alla volontà di procedere al licenziamento per motivo oggettivo, i motivi alla base della decisione, nonché le eventuali misure di assistenza alla ricollocazione del lavoratore interessato. L'ispettorato territoriale del lavoro trasmette la convocazione per il tentativo di conciliazione al datore di lavoro e al lavoratore nel termine perentorio di sette giorni dalla ricezione della richiesta: l'incontro si svolge dinanzi alla commissione provinciale di conciliazione di cui all'art. 410 c.p.c. e si conclude entro il termine di 20 giorni dalla data in cui la commissione ha trasmesso la comunicazione alle parti la convocazione per l'incontro. Se la conciliazione si conclude positivamente e conduce comunque alla risoluzione consensuale del contratto di lavoro, il lavoratore avrà diritto alle prestazioni in materia di Assicurazione sociale per l'impiego e può essere previsto, al fine di favorirne la ricollocazione professionale, l'affidamento del lavoratore ad un'agenzia per il lavoro. In caso contrario, il licenziamento decorre dalla data in cui il datore di lavoro ha effettuato la comunicazione iniziale all'Ispettorato Territoriale del Lavoro ed il periodo successivo si intende preavviso lavorato. Va peraltro rilevato che in caso di mancato raggiungimento di una conciliazione, il comportamento complessivo delle parti nel corso della procedura descritta, è valutato dal giudice per la determinazione dell'indennità risarcitoria nel caso in cui il licenziamento, all'esito del giudizio promosso per impugnarlo, venisse dichiarato illegittimo. La mancata comunicazione all'Ispettorato Territoriale del Lavoro determina l'inefficacia del licenziamento intimato, ed il datore di lavoro è tenuto a risarcire il lavoratore con una indennità risarcitoria omnicomprensiva tra un minimo di 6 ed un massimo di 12 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, in relazione all'anzianità di servizio e tenuto conto del numero dei dipendenti occupati, delle dimensioni dell'attività economica, del comportamento e delle condizioni delle parti, con onere di specifica motivazione a tale riguardo (cfr. art.18, comma 6, L. n. 300/1970, come modificato dalla Legge n. 92 del 2012). Riferimenti Normativa
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