Licenziamento individuale

Marco Giardetti
02 Gennaio 2017

Scheda in fase di aggiornamento

Il licenziamento rappresenta la più comune causa di cessazione del rapporto di lavoro, quale conseguenza dell'esercizio, da parte del datore di lavoro, del diritto di recesso. L'odierno quadro normativo inerente i licenziamenti individuali è la sintesi di una serie di norme che si sono succedute nel tempo e che, nel corso degli anni, hanno apportato severe e radicali modifiche, sino alla più recente L. n. 183/2014, il c.d. Jobs Act. Tuttavia, resta fermo il fatto che, nonostante lo “stratificarsi” di diverse normative inerenti il regime sanzionatorio, l'illegittimità del licenziamento presupponga sempre la violazione di specifici requisiti sostanziali o formali.

Le novità del Decreto Dignità.

Per le novità sul lavoro introdotte dal d.l. 12 luglio 2018, n. 87, Misure urgenti per la dignità dei lavoratori e delle imprese, v. In vigore il c.d. decreto Dignità con le novità su contratti a termine e indennità di licenziamento ingiustificato.

Inquadramento

Il licenziamento rappresenta la più comune causa di cessazione del rapporto di lavoro, quale conseguenza dell'esercizio, da parte del datore di lavoro, del diritto di recesso.

L'odierno quadro normativo inerente i licenziamenti individuali è la sintesi di una serie di norme che si sono succedute nel tempo e che, nel corso degli anni, hanno apportato severe e radicali modifiche, sino alla più recente Legge 10 dicembre 2014, n. 183, il c.d. Jobs Act.

Tuttavia, resta fermo il fatto che, nonostante lo “stratificarsi” di diverse normative inerenti il regime sanzionatorio, l'illegittimità del licenziamento presupponga sempre la violazione di specifici requisiti sostanziali (come la sussistenza di una giusta causa o uno giustificato motivo) o formali (quali, ad esempio, il contenuto e la forma dell'atto di recesso, il mancato rispetto della procedura disciplinare di cui all'art. 7, L. n. 300/1970).

Ma procediamo con ordine, analizzando l'evoluzione della disciplina del licenziamento individuale alla luce dei numerosi interventi riformatori intervenuti negli ultimi anni.

La disciplina ante Riforma Fornero

La “tutela reale” del lavoratore

Il nostro ordinamento, in relazione al licenziamento senza giusta causa o giustificato motivo, ha da sempre distinto un'area nella quale si applica la c.d. "tutela reale" del lavoratore (prevista dall'articolo 18, Legge n. 300 del 1970) ed un'area nella quale si applica invece la c.d. "tutela obbligatoria" (di cui all'articolo 8, L. n. 604/1966).

Nel primo caso, una volta accertata l'illegittimità del licenziamento, il datore di lavoro era obbligato a reintegrare il lavoratore, salvo che lo stesso scegliesse di optare per una indennità sostitutiva della reintegrazione nel posto di lavoro pari a 15 mensilità di retribuzione globale di fatto; nel secondo caso invece tale scelta, ovvero tra la reintegrazione del lavoratore e la corresponsione di una indennità pecuniaria, era rimessa al datore.

Tale “tutela reale”, prevista dall'articolo 18, Legge n. 300/1970 si applicava nei confronti dei datori di lavoro che occupavano più di 15 dipendenti (ovvero 5 dipendenti per gli imprenditori agricoli) in ciascuna sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo nel quale ha avuto luogo il licenziamento.

Tale normativa prevedeva (come anche oggi) la tutela reale (e quindi la reintegrazione), indipendentemente dai limiti dimensionali del datore di lavoro, allorché il giudice avesse:

  • dichiarato il licenziamento inefficace per mancanza della forma scritta o della comunicazione, sempre per iscritto, dei motivi del licenziamento stesso (articolo 2 della Legge n. 604/1966);
  • dichiarato la nullità del licenziamento discriminatorio, in quanto determinato (a prescindere dalla motivazione addotta) da ragioni di credo politico o fede religiosa, dall'appartenenza ad un sindacato e dalla partecipazione ad attività sindacali, ovvero da ragioni di discriminazione razziale, di lingua o di sesso (articolo 4, Legge n. 604/1966 e articolo 15 della Legge n. 300/1970).

Con la stessa sentenza con cui il giudice disponeva la reintegrazione ai sensi dell'articolo 18, comma 1, Legge n. 300/1970, era prevista la condanna del datore di lavoro al risarcimento, non inferiore a 5 mensilità di retribuzione globale di fatto del danno subito dal lavoratore, stabilendo un'indennità commisurata all'ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell'effettiva reintegrazione e al versamento dei contributi assistenziali e previdenziali per il medesimo periodo.

Fermo restando il diritto al risarcimento del danno quantificato come sopra, al prestatore di lavoro era riconosciuta la facoltà di chiedere, in luogo della reintegrazione, un'indennità pari a 15 mensilità di retribuzione globale di fatto (articolo 18, comma 5, Legge n. 300/1970).

La "tutela obbligatoria" del lavoratore

Nel caso in cui il licenziamento fosse stato irrogato a un lavoratore impiegato in un'impresa come meno di 15 dipendenti, e dunque al di fuori del campo di applicazione dell'articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, si applicava (e la disciplina è rimasta immutata) invece la c.d. tutela obbligatoria di cui all'articolo 8, Legge n. 604/1966.

Tale articolo dispone che, ove non ricorrano gli estremi della giusta causa o del giustificato motivo di licenziamento, "il datore di lavoro è tenuto a riassumere il prestatore di lavoro entro il termine di tre giorni o, in mancanza, a risarcire il danno versandogli un'indennità di importo compreso tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 6 mensilità dell'ultima retribuzione di fatto, avuto riguardo al numero dei dipendenti occupati, alle dimensioni dell'impresa, all'anzianità di servizio del prestatore di lavoro, al comportamento e alle condizioni delle parti. La misura massima della predetta indennità può essere maggiorata fino a 10 mensilità per il prestatore di lavoro con anzianità superiore a dieci anni e fino a 14 mensilità per il prestatore di lavoro con anzianità superiore a venti anni, se dipendenti da datore di lavoro che occupa più di quindici prestatori di lavoro".

Le modifiche dell'art. 18 St. Lav. alla luce della Riforma Fornero

Ferma restando la sussistenza di un regime sanzionatorio differenziato in relazione ai requisiti dimensionali dell'impresa, la Legge n. 92/2012 ha previsto un'importante distinzione in materia di tutela reale, tale da differenziarla rispetto al previgente regime che prevedeva in ogni caso l'obbligo di reintegrazione l'obbligo di reintegrazione del lavoratore nelle imprese con più di 15 dipendenti.

Mancanza di giusta causa o di giustificato motivo connessi a insussistenza del fatto contestato ovvero a fatto che rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base dei contratti o dei codici disciplinari applicabili

In questi casi continua a sussistere la tutela reintegratoria con l'ulteriore riconoscimento di un'indennità risarcitoria pari a un massimo di 12 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto di fatto, dunque, introducendo un tetto massimo rispetto al previgente limite minino di 5 mensilità.

A ciò andrà dedotto quanto percepito dal lavoratore, a seguito del licenziamento, per lo svolgimento di altre attività lavorative (c.d. alinde prerceptum) nonché quanto avrebbe potuto percepire se si fosse diligentemente adoperato per la ricerca di una nuova occupazione (c.d. aliunde percipiendum).

Il datore di lavoro è tenuto inoltre a garantire la regolarizzazione della posizione previdenziale e assistenziale del lavoratore per il periodo intercorrente tra il licenziamento e l'effettiva reintegrazione.

Qualora, a seguito dell'ordine di reintegrazione, il lavoratore non abbia ripreso servizio entro trenta giorni dall'invito del datore di lavoro, il rapporto di lavoro si intende definitivamente risolto.

Inoltre, a seguito della Riforma Fornero, il lavoratore non ha più la possibilità di optare per un'indennità pari a 15 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto percepita in alternativa alla reintegrazione del posto di lavoro.

Tale possibilità, infatti, è prevista solo nel caso in cui venga dichiarata la nullità del licenziamento, perché discriminatorio o adottato in presenza di un causa di divieto

Mancanza di giusta causa o di giustificato motivo in relazione a tutte le restanti ipotesi

In questi casi il Giudice, una volta riconosciuta l'illegittimità del licenziamento, non ordinerà più la reintegrazione nel posto di lavoro, bensì dichiarerà risolto il rapporto di lavoro riconoscendo inoltre un'indennità risarcitoria omnicomprensiva individuata tra un minimo di 12 e un massimo di 24 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto.

Ai fini della determinazione di tale indennità il Giudice dovrà tener conto di specifici parametri, quali l'anzianità del lavoratore, le dimensioni dell'attività economica, il numero dei dipendenti e la condotta tenuta dalle parti.

Licenziamento inefficace

Nel caso in cui il datore di lavoro licenzi un dipendente:

  • violando la procedura disciplinare di cui all'art. 7, St. Lav;
  • violando l'obbligo di motivazione di cui all'art. 2, comma 2, Legge n. 604/1966;
  • violando la procedura di preventiva conciliazione di cui all'art. 7, L. n. 604/1966,

e dunque in caso di licenziamento inefficace, non trova più applicazione la tutela reale e dunque la reintegrazione nel posto di lavoro, bensì il riconoscimento, adeguatamente motivato dal Giudice, in capo al lavoratore, di un'indennità risarcitoria omnicomprensiva determinata tra un minimo di 6 e un massimo di 12 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, ferme restando le ulteriori sanzioni di cui all'art. 18 nel caso in cui, su domanda del lavoratore, emerga l'insussistenza di un giustificato motivo o di una giusta causa del licenziamento.

Licenziamento illegittimo per mancanza del giustificato motivo oggettivo

Come noto, il licenziamento può essere intimato anche per fatti “inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa”, ex art. 3, Legge n. 604/1966.

Ad oggi, tuttavia, non è più prevista la reintegrazione nel posto di lavoro, come in precedenza avveniva in caso di tutela reale, bensì un'indennità risarcitoria pari a un massimo di 12 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto.

Qualora, però, si accerti in giudizio la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento in questione, il Giudice può ordinare la reintegrazione nel posto di lavoro, applicando dunque la tutela reale, e riconoscere un'indennità risarcitoria pari a un massimo di 12 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto senza, tuttavia, la possibilità di optare, in alternativa alla reintegrazione, a un'indennità pari a 15 mensilità poiché, come detto, tale ipotesi ad oggi è prevista solo in caso di licenziamento nullo.

Licenziamento nullo

La tutela reale di cui all'articolo 18, Statuto dei Lavoratori è applicabile nel caso di licenziamento sorretto da un motivo illecito determinante ai sensi dell'art. 1345 c.c. o in caso di licenziamento nullo ovvero:

  • determinato da motivi di credo politico o fede religiosa, da ragioni connesse alla etnia, alla lingua, all'orientamento sessuale e, dunque, nei casi in cui il provvedimento espulsivo risulti discriminatorio;
  • intimato in presenza di uno dei divieti di legge, come ad sempio durante il matrimonio della lavoratrice, durante lo stato di gravidanza o puerperio,durante la malattia o in caso di infortunio, o nel caso di richiamo alle armi del lavoratore;
  • intimato in forma orale.

In questi casi la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro avviene indipendentemente dal motivo formalmente addotto, e a prescindere dal numero di dipendenti occipiti dal datore di lavoro.

È, inoltre, prevista un'indennità, non inferiore a 15 mensilità, commisurata all'ultima retribuzione globale di fatto dal momento del licenziamento sino all'effettiva reintegrazione, dedotto, tuttavia, quanto eventualmente percepito da un'attività lavorativa espletata a seguito del licenziamento (c.d. aliunde perceptum)

Il datore di lavoro è tenuto, inoltre, a garantire la regolarizzazione della posizione contributiva e assistenziale del lavoratore.

Come già anticipato, in caso di riconosciuta nullità del licenziamento, è prevista la possibilità di optare, in alternativa alla reintegrazione, a un'indennità pari a 15 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, qualora la relativa richiesta avvenga entro il termine di trenta giorni dalla comunicazione dalla comunicazione della sentenza o dall'invito del datore di lavoro a riprendere la prestazione

Al riguardo parte della dottrina propendeva per una lettura dell'art. 18 che eliminasse, in virtù della riforma e nel caso della reintegra per illegittimità del licenziamento, il suindicato diritto di opzione del lavoratore.

Tale giudizio era stato espresso sulla base della lettura combinata del 2° e del 3° comma del nuovo art. 18, dalla quale si era dedotto che il legislatore avesse voluto limitare tale diritto di opzione solo per i licenziamenti discriminatori, illeciti o adottati in presenza di una causa di divieto.

Tuttavia, ad oggi, è stato chiarito (anche in sede AGI) come, da una più attenta analisi del nuovo testo dell'art. 18 - alla fine del successivo 4° comma che riguarda l'ipotesi del licenziamento disciplinare – il legislatore avesse specificato testualmente che: “A seguito dell'ordine di reintegrazione, il rapporto di lavoro si intende risolto quando il lavoratore non abbia ripreso servizio entro trenta giorni dall'invito del datore di lavoro, salvo il caso in cui abbia richiesto l'indennità sostitutiva della reintegrazione nel posto di lavoro ai sensi del terzo comma.

Di conseguenza si è affermata, anche in questo secondo regime reintegratorio, la sussistenza e la piena operatività del diritto di opzione, in virtù dell'espresso richiamo all'indennità sostitutiva della reintegrazione prevista al 3° comma del medesimo artt. 18 per l'ipotesi del licenziamento discriminatorio.

La disciplina alla luce del Jobs Act

Il Jobs Act ha introdotto ulteriori e significative modifiche in materia di licenziamento per i nuovi assunti con contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti.

In particolare, tali sono state quelle relative al licenziamento per giustificato motivo oggettivo, essendo stata eliminata la reintegrazione in caso di licenziamento illegittimo.

In questo caso, infatti, il lavoratore avrà diritto esclusivamente a un'indennità di tipo risarcitorio crescente in funzione dell'anzianità di servizio, ovvero due mensilità per ogni anno di servizio, con un minimo di quattro e un massimo di 24 mensilità.

La stessa disciplina è applicabile in caso di licenziamento per giusta causa o giustificato motivo soggettivo salva, tuttavia, l'ipotesi di reintegra del lavoratore esclusivamente nel caso in cui “sia dimostrata direttamente in giudizio l'insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento”

Ulteriori modifiche sono state apportate alle sanzioni indennitarie previste dalla Riforma Fornero in caso di licenziamento intimato senza motivazione o non rispettando la procedura in materia disciplinare prevista dall'art.7, Statuto dei Lavoratori.

Anche in questi casi, infatti, il datore di lavorò sarà tenuto alla corresponsione di una indennità crescente di importo pari a una mensilità per ogni anno di anzianità di servizio, con un minimo di due e un massimo di 12 mensilità.

Rimane invece invariato il regime di tutela previsto nei casi di licenziamento discriminatori, nullo o intimato in forma orale.

In queste ipotesi la tutela prevista è quella dell'articolo 18, St. Lav., ovvero la reintegrazione e la corresponsione di un indennizzo, commisurato all'ultime retribuzione globale di fatto maturata tra il giorno del licenziamento e quello della reintegrazione e comunque non inferiore a 5 mensilità, dedotto l'aliunde perceptum nel periodo di estromissione.

Permane, inoltre, in capo al datore di lavoro, l'obbligo di garantire la regolarizzazione della posizione contributiva e assistenziale del lavoratore.

Le tutele indennitarie previste dal Jobs Act in caso di licenziamento illegittimo per come modificate da Decreto Dignità

Il Decreto legge 87/2018, c.d. “decreto Dignità”, entrato in vigore il 13 luglio 2018 e convertito, con modifiche, con Legge n. 96 del 9 agosto 2018, entrata in vigore il 12 agosto 2018, ha modificato gli artt. 3 e 6 del decreto legislativo n. 23/2015, riferiti rispettivamente all'indennità risarcitoria conseguente al licenziamento per giustificato motivo o giusta causa illegittimi e all'indennità conseguente all'accettazione dell'offerta di conciliazione.

La modifica dell'art. 3 ha, nella sostanza, introdotto una tutela indennitaria maggiore di quella precedente nell'ipotesi in cui il licenziamento per giustificato motivo (oggettivo o soggettivo) o per giusta causa sia carente dei presupposti richiesti dalla legge, lasciando invariata la misura delle indennità nell'ipotesi di violazione della procedura.

In particolare qualora il giudice ravvisi la carenza dei presupposti di legge del licenziamento (diversi dalle ipotesi di nullità e dai vizi procedurali, disciplinati dagli art. 2 e 4) il datore di lavoro è condannato ad una indennità risarcitoria pari a 2 mensilità per ogni anno di servizio che va da un minimo di 6 ad un massimo di 36 mensilità.

  • Tale modifica si applica a tutti i licenziamenti intimati dopo l'entrata in vigore del decreto dignità e, quindi, a tutti i licenziamenti intimati successivamente al 12 agosto 2018 e, in particolare, ai sensi dell'art. 1 del decreto legislativo 23/2015 sono interessati dalla modifica normativa:i licenziamenti intimati ai lavoratori che rivestono la qualifica di operai, impiegati o quadri assunti con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato dopo il 7 marzo 2015 ovvero dopo l'entrata in vigore del decreto legislativo 23/2015;

  • nei casi di conversione, successiva all'entrata in vigore del decreto legislativo 23/2015, di contratto a tempo determinato o di apprendistato in contratto a tempo indeterminato;

  • ai licenziamenti dei lavoratori, anche se assunti con contratti precedenti all'entrata in vigore del decreto legislativo 23/2015, quando l'impresa ha raggiunto il requisito dimensionale di cui all'art. 18 commi 8 e 9 mediante assunzioni successive all'entrata in vigore del decreto legislativo 23/2015.
L'intervento della Corte costituzionale

Con la recente sentenza n. 194/2018 la Corte costituzionale ha parzialmente accolto in riferimento agli art. 3 (in relazione sia al principio di eguaglianza, sotto il profilo dell'ingiustificata omologazione di situazioni diverse, sia al principio di ragionevolezza), art. 4, comma 1, art. 35, comma 1, e artt. 76 e 117, comma 1, Cost. (questi ultimi due articoli in relazione all'art. 24 della Carta sociale europea), il vizio di incostituzionalità riguardo all'art. 3 comma 1 del Decreto Dignità in tema di indennità da licenziamento illegittimo limitatamente alle parole “di importo pari a due mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio”.

In particolare la Corte, ha disatteso il sistema rigido e meccanico previsto prima dal Jobs Act e poi dal Decreto Dignità relativamente al quantum dell'indennità di licenziamento stabilendo come la stessa potrà discostarsi dal parametro precedentemente indicato e, nella forbice fissata, il Giudice potrà disporre un quantum risarcitorio applicando il numero di mensilità ritenuto maggiormente adeguato alla fattispecie in relazione ai parametri dell'anzianità di servizio nonché di altri criteri quali il numero dei dipendenti occupati, dimensioni dell'attività economica, comportamento e condizioni delle parti.

Orientamenti a confronto

ORIENTAMENTI A CONFRONTO

Obbligo di repechage: l'onere della prova in ordine alla soppressione del posto e alla impossibilità di collocare diversamente il lavoratore candidato al licenziamento grava sul datore di lavoro, a condizione che il lavoratore indichi altri posti di lavoro da lui occupabili.

Obbligo di repechage: l'onere della prova grava esclusivamente sul datore di lavoro.

In caso di licenziamento per sopravvenuta inidoneità fisica del lavoratore, questi è tenuto ad allegare l'esistenza di altri posti di lavoro presso cui poter essere ricollocato, inclusi quelli determinanti una dequalificazione, e a manifestare la disponibilità a ricoprire le mansioni di livello inferiore, anche in altre unità produttive; sul datore grava, invece, l'onere di provare, solo nei limiti delle allegazioni della controparte, l'impossibilità di assegnarlo a mansioni diverse. (Cass. sez. lav., n. 10018/2016)

In tema di inidoneità fisica al lavoro, l'impossibilità di utilizzazione di un apprendista in mansioni equivalenti, in ambiente compatibile con il suo stato di salute e con disponibilità di personale che possa fornire la necessaria formazione, deve essere provata dal datore di lavoro, sul quale incombe anche l'onere di contrastare eventuali allegazioni del prestatore di lavoro, nei cui confronti è esigibile una collaborazione nell'accertamento di un possibile "repechage" in ordine all'esistenza di altri posti di lavoro nei quali possa essere ricollocato (Cass. sez. lav., n. 4929/2014).

Nel giudizio di impugnazione del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, la "causa petendi" è data dall'inesistenza dei fatti giustificativi del potere spettante al datore di lavoro, gravando su quest'ultimo l'onere di provare la concreta sussistenza delle ragioni inerenti all'attività produttiva e l'impossibilità di utilizzare il lavoratore licenziato in altre mansioni compatibili con la qualifica rivestita, senza che l'indicazione - da parte del lavoratore che si sia fatto parte diligente - di un posto di lavoro alternativo a lui assegnabile, o l'allegazione di circostanze idonee a comprovare l'insussistenza del motivo oggettivo di licenziamento, comporti l'inversione dell'onere della prova (Cass. sez. lav., n. 4460/2015)

"In materia di illegittimo licenziamento per giustificato motivo oggettivo, spetta al datore di lavoro l'allegazione e la prova dell'impossibilità di repechage del lavoratore licenziato, in quanto requisito del giustificato motivo di licenziamento, con esclusione di un onere di allegazione al riguardo del secondo, essendo contraria agli ordinari principi processuali una divaricazione tra i due suddetti oneri, entrambi spettanti alla parte deducente" (Cass. sez. lav., n. 5592/2016).

Casistica

CASISTICA

Nullità del licenziamento del lavoratore non vedente

Il licenziamento intimato al lavoratore non vedente in assenza di alcun accertamento sanitario a norma dell'art. 5, St. Lav., e sulla base della contestazione che il datore di lavoro ha appreso in ritardo, rispetto all'accertamento, il riconoscimento dello status di invalido civile (da cui discenderebbero, alternativamente le conseguenze dell'occultamento di tale condizioni da parte del dipendente o la sua inidoneità alla mansione) è nullo e non illegittimo, posto che la condizione di cecità del lavoratore costituisce ragione esclusiva del recesso e non mero presupposto di fatto della non proficuità della prestazione lavorativa (Cass. sez. lav., n. 8248/2016).

Trauma da rapina – Illegittimità del licenziamento per superamento del periodo di comporto

È illegittimo il licenziamento intimato nei confronti di un lavoratore del comparto sanità per superamento del periodo di comporto qualora le assenze per malattia siano riconducibili ai postumi traumatici sofferti dal dipendente a seguito di una rapina subita nei locali della struttura ospedaliera dove era tenuto a prestare sorveglianza. A precisarlo è la Cassazione, per la quale, in caso di lavoratori esposti a rischio di azioni criminose da parte di terzi (come la rapina) l'articolo 2087 c.c. impone al datore di lavoro di adottare misure dirette a evitare l'esposizione del personale ad episodi di aggressione. Nel caso di specie, poi, la responsabilità del datore è ancor più evidente poiché la struttura in questione è stata esposta in passato ad altri episodi simili (Cass. sez. lav., n. 21901/2016).

Licenziamento per giusta causa anche se i beni sottratti dall'addetto del negozio valgono pochi euro

In tema di licenziamento per giusta causa, la modesta entità del fatto può essere ritenuta non tanto con riferimento alla tenuità del danno patrimoniale, quanto in relazione all'eventuale tenuità del fatto oggettivo, sotto il profilo del valore sintomatico che lo stesso può assumere rispetto ai futuri comportamenti del lavoratore e, quindi, alla fiducia che nello stesso può nutrire l'azienda, essendo necessario al riguardo che i fatti addebitati rivestano il carattere di grave negazione degli elementi del rapporto di lavoro e, specialmente, dell'elemento essenziale della fiducia, cosicché la condotta del dipendente sia idonea a porre in dubbio la futura correttezza del suo adempimento (Cass. sez. lav., n. 24014/2017).

La comunicazione del licenziamento può considerarsi valida nel caso di rifiuto del destinatario di ricevere l'atto

In tema di consegna dell'atto di licenziamento nell'ambito del luogo di lavoro, il rifiuto del destinatario di riceverlo non esclude che la comunicazione debba ritenersi regolarmente avvenuta, trattandosi di un atto unilaterale recettizio, che non sfugge al principio generale per cui il rifiuto della prestazione da parte del destinatario non può risolversi a danno dell'obbligato e alla regola della presunzione di conoscenza dell'atto desumibile dall'art. 1335 c.c. (Cass. sez. lav., n. 18661/2017).

La denuncia di fatti di potenziale rilievo penale accaduti in azienda non giustifica sempre il licenziamento

La denuncia di fatti di potenziale rilievo penale accaduti in azienda non integra giusta causa o giustificato motivo soggettivo di licenziamento, a condizione che non emerga il carattere calunnioso della denuncia medesima, che richiede la consapevolezza da parte del lavoratore della non veridicità di quanto denunciato e, quindi, la volontà di accusare il datore di lavoro di fatti mai accaduti o dallo stesso non commessi (Cass. sez. lav., n. 17735/2017).

Riferimenti

Normativi

  • Legge 10 dicembre 2014, n. 183
  • Legge 28 giugno 2012, n. 92
  • Legge 20 maggio 1970, n. 300
  • Legge 15 luglio 1966, n. 604
  • Legge 9 agosto 2018, n. 96

Giurisprudenziali

  • Cass. sez. lav., n. 21901/2016
  • Cass. sez. lav., n. 10018/2016
  • Cass. sez. lav., n. 8248/2016
  • Cass. sez. lav., n. 5592/2016
  • Cass. sez. lav., n. 4460/2015
  • Cass. sez. lav., n. 4929/2014
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