Qualifica, mansioni e categorie professionali
13 Gennaio 2025
Le mansioni L'art. 2103 c.c. stabilisce che «il lavoratore deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti all'inquadramento superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento delle ultime effettivamente svolte». Tale disposizione consente di identificare nelle mansioni l'oggetto dell'obbligazione del lavoratore, individuata nell'accordo originariamente raggiunto o in quello determinato da una successiva novazione oggettiva verificatasi, anche implicitamente, nel corso dell'esecuzione del rapporto. Detto altrimenti, le mansioni identificano la prestazione lavorativa, ossia l'insieme dei compiti che il lavoratore è chiamato a svolgere all'interno dell'impresa. Come si evince dalla formulazione della disposizione, la nozione di mansioni è utile tanto a stabilire la prestazione che il lavoratore ha diritto di svolgere, quanto la prestazione che il datore di lavoro, nell'esercizio del suo potere direttivo, ha diritto d'esigere, incontrando in ciò il limite del “livello e categoria legale” di pertinenza del dipendente. Nella prassi, le mansioni rappresentano un oggetto non già immediatamente determinato in seno al contratto, bensì determinabile, dal momento che in sede d'assunzione non viene generalmente stabilita la specifica e puntuale attività che verrà rimessa al lavoratore, ma, al fine di non ingessare il rapporto, vengono identificate, mediante rinvio alla contrattazione collettiva, le caratteristiche generali della prestazione, destinata ad essere via via precisata in modo da adeguarne il contenuto alle specifiche esigenze dell'organizzazione dell'impresa datrice di lavoro. La qualifica La nozione di qualifica è implicata dall'art. 96 disp. att. c.c.. Il primo comma stabilisce che «l'imprenditore deve far conoscere al prestatore di lavoro, al momento dell'assunzione, la categoria e la qualifica che gli sono state assegnate in relazione alle mansioni per cui è stato assunto». Il legame tra “mansioni” e “qualifica” trova ulteriore precisazione nel secondo comma, laddove è previsto che «le qualifiche dei prestatori di lavoro, nell'ambito di ciascuna delle categorie indicate dall'art. 2095 del codice, possono essere stabilite e raggruppate per gradi secondo la loro importanza nell'ordinamento dell'impresa. Il prestatore di lavoro assume il grado gerarchico corrispondente alla qualifica e alle mansioni». In ragione di queste indicazioni, può dirsi che le qualifiche corrispondono ad un gruppo di mansioni, il cui apprezzamento è utile a delineare una figura professionale e a determinare la posizione del lavoratore all'interno dell'impresa, oltre che a sancirne diritti e doveri e il trattamento economico, normativo e previdenziale. È da precisare che la nozione in esame allude a profili “oggettivi”, ossia al complesso di capacità e abilità effettivamente esercitate dal lavoratore o potenzialmente proprie delle attività che gli possono essere assegnate. Restano invece sullo sfondo, senza assumere immediato rilievo, le qualifiche “soggettive”, ossia i titoli di studio, la formazione personale e tutti quei profili che, benché eventualmente coessenziali o utili allo svolgimento della prestazione, non valgono di per sé a determinare la qualifica in seno all'impresa. Le categorie legali Se le mansioni identificano tendenzialmente l’attività concretamente svolta e se da esse può individuarsi la qualifica del lavoratore, è a partire dalle qualifiche medesime che è dato stabilire la categoria legale d’appartenenza del prestatore. Nell'ambito del lavoro subordinato, il codice civile, all'art. 2095, distingue quattro categorie - dirigenti, quadri, impiegati ed operai - e rinvia alla legge ed alla contrattazione collettiva la determinazione dei requisiti di appartenenza a ciascuna di esse. I dirigenti I dirigenti sono qualificati dal loro potere di iniziativa e coordinamento, dagli obiettivi di impresa e dalle funzioni direttive che svolgono, oltreché dalla posizione gerarchica nell'impresa, superiore a tutte le altre categorie. Secondo una definizione tradizionale, il dirigente è l'alter ego dell'imprenditore, in quanto preposto alla direzione dell'impresa o di un suo ramo e dotato di piena autonomia nell'ambito delle direttive generali impartite dallo stesso imprenditore. È proprio in funzione di questa sua posizione peculiare in seno all'impresa e della particolare intensità del rapporto fiduciario che lo lega all'imprenditore che la disciplina relativa al dirigente si connota per “specialità” rispetto a quella delle altre categorie di lavoratori. Questa specialità della disciplina si declina, innanzitutto, in termini “negativi”, dal momento che a questa categoria non si applicano le norme protettive in tema di orario di lavoro, in tema di limiti all'assunzione a tempo determinato o in materia di licenziamento. Con specifico riferimento a quest'ultimo, i dirigenti sono storicamente sottratti all'ambito d'applicazione della legge n. 604 del 1966 e dell'art. 18 St. Lav., nonché della disciplina di cui al d. lgs. n. 23 del 2015, con le uniche eccezioni che, anche nei confronti del dirigente, operano la necessaria forma scritta dell'atto di recesso ed il divieto di licenziamento discriminatorio.
In termini “positivi”, la contrattazione collettiva – che rispetto ai dirigenti si è storicamente connotata come contrattazione di mestiere e non, come per le altre categorie, per una contrattazione di settore – ha attribuito migliori condizioni economiche e normative (ad es. sotto il profilo retributivo, dei fringe benefits o del preavviso), circondando di garanzie questa categoria. Proprio la specialità della disciplina che riguarda i dirigenti, determina l'importanza sostanziale della loro distinzione dalle altre categorie. L'art. 2095 c.c. non fornisce criteri distintivi utili, rinviando in proposito alle leggi speciali e alla contrattazione collettiva. D'altra parte, la diffusa consapevolezza che la specialità della funzione dirigenziale trova forme di estrinsecazione molteplici e non sempre riassumibili a priori in termini compiuti, ed ancora l'estrema labilità dei confini tra la figura di dirigente e quella professionale di impiegato con funzioni direttive e quadro di livello più elevato (tra i quali è stabilito generalmente che vengano inquadrati i lavoratori che siano preposti ad attività di coordinamento di servizi, uffici, enti produttivi o che svolgono attività di alta specializzazione ed importanza ai fini dello sviluppo e della realizzazione degli obiettivi aziendali) inducono a ritenere che la categoria dei dirigenti possa essere ben essere identificata solo alla stregua di quanto stabilito dalla contrattazione collettiva, non solo - come detto - per quanto stabilito dall'art. 2095 c.c., ma anche per comprensibili ragioni logico-sistematiche ed economico-produttive. Ed invero, non può negarsi che attraverso le scelte classificatorie delle organizzazioni sindacali si pervenga all'utile risultato, in ragione della specificità delle diverse imprese e della loro variegata articolazione in settori produttivi differenziati, di determinare l'attribuzione della qualifica dirigenziale a quanti ad essi vengono preposti e, nello stesso tempo, si renda possibile modulare, pur nell'unitarietà della categoria, le tutele a seconda del grado di autonomia, indipendenza e responsabilità in concreto ricollegabile a ciascun tipo di preposizione.
Va peraltro precisato che un'adeguata ricognizione dei tratti distintivi della categoria dirigenziale è essenziale non solo per distinguerla dalle altre categorie di lavoratori, ma anche in vista di distinzioni interne alla categoria dei dirigenti, nient'affatto unitaria. Invero, i progressivi mutamenti organizzativi in seno all'impresa hanno fatto emergere l'inadeguatezza della definizione assoluta del dirigente alter ego dell'imprenditore, posto che si dà spesso il caso di lavoratori che, pur appartenenti alla categoria dirigenziale, non rivestono posizioni verticistiche e, piuttosto, vanno ricondotti entro gli schemi della “media” e “bassa” dirigenza. Accanto a questi lavoratori, genuinamente riconducibili alla figura del dirigente perché chiamati a svolgere prestazioni che, comunque, secondo la declaratoria del contratto collettivo applicabile, svolgono mansioni autenticamente dirigenziali, si affianca la diversa figura del “pseudo-dirigente”, ossia del soggetto che formalmente appartiene a questa categoria in ragione di una “qualifica convenzionale”, ma che in realtà non svolge mansioni concretamente dirigenziali, tanto che il suo inquadramento tende a configurarsi come un mezzo fraudolento per eludere la tutela legale altrimenti pertinente al lavoratore.
I quadri I quadri hanno ottenuto il riconoscimento legislativo, e sono stati inseriti fra le categorie dei lavoratori all'art. 2095, solo con la legge n. 190 del 1985. Questa, all'art. 2, comma 1, definisce la categoria dei quadri come quella «costituita dai prestatori di lavoro subordinato che, pur non appartenendo alla categoria dei dirigenti, svolgono funzioni con carattere continuativo di rilevante importanza ai fini dello sviluppo e dell'attuazione degli obiettivi dell'impresa». Si tratta, in sostanza, di lavoratori con funzioni simili a quelle dirigenziali, ma di livello minore o più ristretto; l'art. 2, comma 2, legge n. 190 del 1985 demanda l'individuazione dei requisiti di appartenenza alla categoria ai contratti collettivi. Peraltro, come precisato dal successivo comma 3, «salvo diversa espressa disposizione, ai lavoratori di cui al comma 1 si applicano le norme riguardanti la categoria degli impiegati». La contiguità di questa figura a quella degli impiegati è testimoniata anche dalla ridotta attività definitoria operata in sede contrattualcollettiva, laddove le distinzioni tra quadri e impiegati sono sempre state piuttosto limitate e, spesso, nemmeno necessariamente riconducibili alla figura del quadro, concentrandosi piuttosto sul peculiare contenuto dell'attività svolta, eventualmente propria anche degli impiegati. Del resto, all'indomani del riconoscimento legislativo della categoria, la Corte costituzionale ebbe modo di evidenziare che i quadri intermedi «rientrano pur sempre nell'ambito impiegatizio lato sensu inteso» [Corte cost., n. 198/1985]. La ratio dell'approvazione della legge che li riconosce rimonta d'altra parte ad una vivace azione della parte più elevata degli impiegati - principalmente addetti a nuove funzioni tecnologiche e tecnici di alto livello del settore informatico - ai quali è riconosciuto, per le mansioni cui sono addetti, molta autonomia di gestione del lavoro e la cui prestazione, spesso, consiste nel conseguimento di parziali risultati, piuttosto che in un'attività di mera esecuzione. L'autonoma lotta condotta da queste figure aveva, fra gli altri, l'obiettivo della tutela delle invenzioni, eventualmente raggiunte nell'attività; in questo senso, l'art. 4 della legge n. 190 del 1985 prevede che la contrattazione collettiva possa definire «le modalità tecniche di valutazione e l'entità del corrispettivo economico della utilizzazione, da parte dell'impresa, sia delle innovazioni di rilevante importanza nei metodi o nei processi di fabbricazione ovvero nell'organizzazione del lavoro, sia delle invenzioni fatte dai quadri, nei casi in cui le predette innovazioni o invenzioni non costituiscano oggetto della prestazione di lavoro dedotta in contratto». Gli impiegati e gli operai La categoria degli impiegati è stata la prima ad essere stata disciplinata dalla legge. Il r.d.l. n. 1825 del 1924 definisce l'impiegato come colui che svolge un'attività professionale «con funzioni di collaborazione tanto di concetto che di ordine, eccettuata, pertanto, ogni prestazione che sia semplicemente di mano d'opera». Stando a questa definizione, i tratti distintivi della categoria impiegatizia dovrebbero rintracciarsi nella “professionalità” e nella “non-manualità” dell'attività svolta, caratteristiche invece proprie, a contrario, della categoria degli operai. Tuttavia, la netta distinzione operabile sul piano astratto non ha trovato un'effettiva concretizzazione, posto che la differenziazione tra le due categorie è rimasta sfumata, anche in considerazione dell'inadeguatezza dei predetti criteri a descrivere il concreto operato dei lavoratori coinvolti. Invero, non può negarsi che la “professionalità” è attributo che può attenere tanto all'attività impiegatizia, quanto a quella di un operaio, specie se specializzato. Allo stesso modo, il contenuto intellettuale della prestazione, in particolare sotto il profilo della creatività, può riguardare entrambe le figure e, non di rado, il lavoro di un operaio specializzato può essere ben più creativo intellettualmente di quello d'un impiegato d'ordine, impegnato in attività meramente esecutive. Senz'altro più efficace è la constatazione che l'impiegato collabora all'organizzazione dell'impresa, mentre l'operaio collabora, più semplicemente, nell'impresa. In ogni caso, il criterio distintivo elaborato dal r.d.l. n. 1925 del 1924 è da ritenersi superato in presenza di indicazioni provenienti dalla contrattazione collettiva, le cui declaratorie sono da ritenersi il punto di riferimento dell'accertamento della categoria d'appartenenza del lavoratore.
I contratti collettivi hanno perpetuato la distinzione formale tra impiegati ed operai, elaborando «declaratorie» delle mansioni divise per categorie, ma le difficoltà legate ad una netta differenziazione sono emerse anche presso le parti sociali, posto che nella contrattazione è stata inserita una categoria speciale, detta anche degli intermedi, utile a descrivere “figure di confine”. Proprio per risolvere la questione, negli anni '60 - con l'evolvere della struttura dell'impresa, della sua organizzazione del lavoro e della diversa collocazione del personale - i contratti collettivi hanno adottato una classificazione nuova dei lavoratori, detta inquadramento unico. Con esso, non è più palese la distinzione fra categoria operaia, categoria impiegatizia e intermedi e si procede all'unificazione della scala classificatoria mediante la previsione di categorie professionali e livelli retributivi comuni ed identici per tutti i lavoratori, ad eccezione dei dirigenti. Quest'evoluzione, pur non eliminando la distinzione fra categorie, rilevante rispetto alle modalità d'applicazione di taluni istituti (ad es. il periodo di prova o il welfare aziendale), ne ha marginalizzato l'importanza, tanto ciò vero che, se i livelli più elevati, cui corrisponde una retribuzione superiore, sono impiegatizi e quelli più bassi operai, fra gli estremi la diversità di categoria sfuma, perdendo importanza. Profili controversi Rinviando alla pertinente trattazione le questioni relative all'esercizio dello ius variandi da parte del datore di lavoro, è qui il caso di analizzare la tematica relativa all'accertamento delle mansioni svolte, determinante rispetto all'applicazione della disciplina di cui all'art. 2103, comma 7, c.c., in base al quale «nel caso di assegnazione a mansioni superiori il lavoratore ha diritto al trattamento corrispondente all'attività svolta e l'assegnazione diviene definitiva, salva diversa volontà del lavoratore, ove la medesima non abbia avuto luogo per ragioni sostitutive di altro lavoratore in servizio, dopo il periodo fissato dai contratti collettivi o, in mancanza, dopo sei mesi continuativi». La disposizione determina, da un lato, il diritto del lavoratore assegnato a mansioni superiori a percepire un trattamento economico corrispondente all'attività svolta; dall'altro lato, il diritto alla c.d. promozione automatica quando l'adibizione a mansioni superiori avvenga non per ragioni sostitutive e per l'arco di tempo previsto dalla legge o dalla contrattazione collettiva. Il primo aspetto da analizzare riguarda le modalità con cui occorre determinare se le mansioni assegnate al lavoratore attengano ad un profilo superiore a quello per cui è assunto. Sul punto, la giurisprudenza è consolidata nel ritenere che «il procedimento logico-giuridico diretto alla determinazione dell'inquadramento di un lavoratore subordinato si sviluppa in tre fasi successive, consistenti nell'accertamento in fatto delle attività lavorative concretamente svolte, nell'individuazione delle qualifiche e gradi previsti dal contratto collettivo di categoria e nel raffronto tra i risultati di tali due indagini. Ai fini dell'osservanza di tale procedimento, è necessario che, pur senza rigide formalizzazioni, ciascuno dei suddetti momenti di ricognizione e valutazione trovi ingresso nel ragionamento decisorio» [Cass., n. 30580/2019]. Si tratta perciò di accertare le mansioni concretamente svolte, di valutare le diverse declaratorie contrattuali e di verificare entro quale di esse vada sussunta la vicenda concreta. Come accennato, lo svolgimento di mansioni superiori dà diritto ad un credito per differenze retributive e, al ricorrere di ulteriori requisiti, alla promozione automatica. Sotto il primo profilo, è da precisare che il “diritto al trattamento corrispondente all'attività svolta”, previsto dall'art. 2103 c.c., non implica, sic et simpliciter, la rigida ed automatica applicazione delle tabelle retributive previste per il livello superiore, posto che quella “corrispondenza” può essere integrata anche con riferimento ad un'altra fonte. Ciò che rileva, in base a questa disposizione, è che, nel rispetto dell'art. 36 Cost., il lavoratore che sia stato chiamato a svolgere mansioni superiori goda d'un compenso aggiuntivo atto a remunerare la speciale prestazione. Sotto il secondo profilo, va premesso che il diritto alla c.d. promozione automatica di cui all'art. 2103, comma 7, c.c., si verifica a fronte dello svolgimento “continuativo” di mansioni superiori per l'arco di tempo previsto dalla legge o dalla contrattazione collettiva. La “continuatività”, oggi positivizzata nella versione dell'art. 2103 c.c. riformato nel 2015, è connotazione che veniva richiesta per il perfezionamento della fattispecie anche in applicazione della disciplina previgente, sebbene questa, alla lettera, non la contemplasse. È invero da ricordare l'insegnamento consolidato per cui lo svolgimento “continuativo” postula che l'assegnazione sia “ininterrotta”, ossia che, nell'arco di tempo rilevante, il lavoratore sia stato costantemente chiamato a svolgere mansioni riconducibili al livello superiore [Cass., n. 13046/2006. Cass., n. 4891/1984].
Dunque, presupposto per la promozione automatica è l'assegnazione continuativa di mansioni superiori, nel senso testé precisato. Deve inoltre evidenziarsi la peculiare vicenda dello svolgimento di “mansioni promiscue”. Con tale locuzione si fa riferimento al fatto di chi sia chiamato a svolgere, congiuntamente, attività diverse e riconducibili a livelli contrattuali differenti. In questi casi, proprio per la giustapposizione d'attività differenti, si pone il problema di stabilire quali siano, tra le diverse attività svolte, quelle “prevalenti” e quindi utili alla verifica del livello d'inquadramento pertinente. È un problema che la giurisprudenza della Corte di cassazione risolve affermando che «in caso di mansioni promiscue, ove la contrattazione collettiva non preveda una regola specifica per l'individuazione della categoria di appartenenza del lavoratore, la prevalenza - a questo fine - non va determinata sulla base di una mera contrapposizione quantitativa delle mansioni svolte, bensì tenendo conto, in base alla reciproca analisi qualitativa, della mansione maggiormente significativa sul piano professionale, purché non espletata in via sporadica od occasionale [Cass., n. 2969/2021]. Ne deriva che, in questi casi, l'accertamento non dovrà appiattirsi sulla mera dimensione quantitativa, tale da determinare l'insorgenza del diritto solo quando il lavoratore, per la maggior parte del tempo della sua giornata lavorativa, sia impegnato in mansioni superiori. Dovrà invece verificarsi, sotto il profilo qualitativo, se lo svolgimento di una certa mansione, eventualmente anche per un tempo ridotto nel corso della giornata, assuma dei contorni caratterizzanti tali da renderla comunque prevalente sulle altre assegnate, con conseguente identificazione, al ricorrere della sua assegnazione continuativa, del diritto alla c.d. promozione automatica. Va infine ricordato che l'azione promossa dal lavoratore subordinato per il riconoscimento della qualifica superiore si prescrive nell'ordinario termine decennale di cui all'art. 2946 c.c., mentre le azioni dirette ad ottenere le differenze retributive derivanti dal suddetto riconoscimento si prescrivono nel termine quinquennale previsto dall'art. 2948 c.c. [cfr., tra le altre, Cass., n. 21645/2016]. Indice cronologico delle decisioni citate Cass., n. 4891/1984; Cass., n. 10969/1999; Cass., n. 12809/1999; Cass., n. 13046/2006; Cass., n. 17870/2014; Cass., n. 21645/2016; Cass., n. 27129/2018; Cass., n. 30580/2019; Cass., n. 2969/2021. Riferimenti
Normativa: D.Lgs. 15 giugno 2015, n. 81 Legge 13 maggio 1985, n. 190 Art. 2095 c.c. Art. 2103 c.c. R.D. 13 novembre 1924, n. 1825
Giurisprudenza:
Cass. civ., 27 settembre 2010, n. 20272 Cass. civ., 30 luglio 1997, n. 7129 Cass. civ., 9 dicembre 1991, n. 13232 Bussole di inquadramento |