03 Giugno 2024

Nel corso degli ultimi 30 anni, il pubblico impiego è stato caratterizzato da molteplici interventi di riforma, tutti volti alla sua cd. privatizzazione, nell'ottica di una maggiore efficienza, efficacia e trasparenza dell'azione della pubblica amministrazione.

Ciononostante, il lavoro alle dipendenze della pubblica amministrazione è approdato ad una privatizzazione allo stato solo parziale: il mutevole rapporto intercorso nel tempo tra le diverse fonti – normative e negoziali – di disciplina ha portato all'attuale complessivo assetto giuridico del lavoro pubblico, nuovamente imperniato (a decorrere dall'entrata in vigore del D. Lgs. n. 75/2017) sulla centralità della contrattazione collettiva, ma tuttora connotato da una limitata applicabilità del regime privatistico e da una spiccata specialità degli istituti più rilevanti, quali la costituzione e l'estinzione del rapporto di lavoro, le mansioni, la retribuzione, la responsabilità disciplinare, la dirigenza.

Tale specialità appare ormai ineliminabile, giacché radicata nei principi costituzionali del buon andamento e dell'imparzialità dell'azione amministrativa (art. 97 Cost.), della parità di accesso ai pubblici uffici (art. 51 Cost.), dell'equilibrio tra le entrate e le spese del bilancio statale (art. 81 Cost.).

Inquadramento

L'evoluzione normativa del rapporto di lavoro dei dipendenti della pubblica amministrazione è stata caratterizzata, dopo una prima fase tendente ad avvicinare sempre di più la disciplina a quella dei rapporti di lavoro privati (c.d. “privatizzazione del pubblico impiego”), da una tendenza ad una maggiore separazione delle due discipline.

Nonostante le molteplici riforme susseguitesi negli ultimi decenni, il lavoro alle dipendenze della pubblica amministrazione è approdato ad una “privatizzazione” allo stato solo parziale: il mutevole rapporto intercorso nel tempo tra le diverse fonti – normative e negoziali – di disciplina ha portato all'attuale complessivo assetto giuridico del lavoro pubblico, connotato da una limitata applicabilità del regime privatistico e da una spiccata specialità degli istituti più rilevanti, quali la costituzione e l'estinzione del rapporto di lavoro, le mansioni, la retribuzione, la responsabilità disciplinare, la dirigenza.

Una specialità che, peraltro, si palesa ormai come ineliminabile, perché fondata su principi costituzionali posti a fondamento della pubblica amministrazione, quali il buon andamento e l'imparzialità dell'azione amministrativa (art. 97 Cost.), la parità di accesso ai pubblici uffici (art. 51 Cost.), l'equilibrio tra le entrate e le spese del bilancio statale (art. 81 Cost.).

Evoluzione normativa

Nel corso degli ultimi 30 anni, il pubblico impiego è stato caratterizzato da molteplici interventi di riforma, tutti volti alla sua cd. privatizzazione, nell'ottica di una maggiore efficienza, efficacia e trasparenza dell'azione della pubblica amministrazione.

Le riforme principali possono essere così riassunte:

  • Riforma Cassese: avviata con il D. Lgs. n. 29/1993 (in attuazione della delega conferita con L. n. 421/1992), ha portato ad una regolamentazione privatistica del rapporto individuale di lavoro, mediante applicazione della disciplina codicistica e della legislazione sul lavoro privato nell'impresa, anche attraverso il riconoscimento dell'efficacia diretta della contrattazione collettiva e l'istituzione dell'ARAN;
  • Riforma Bassanini: avviata con la L. n. 59/1997, ha esteso la privatizzazione anche ai dirigenti pubblici, devoluto la giurisdizione al giudice ordinario a decorrere dal 30.6.1998 con il D. Lgs. n. 80/1998, provveduto alla raccolta ed al coordinamento delle norme di settore nel cd. “Testo Unico del pubblico impiego” di cui al D. Lsg. n. 165/2001 (d'ora innanzi T.U.), nonché adottato norme volte alla semplificazione dell'azione amministrativa;
  • Riforma Brunetta: avviata con la L. n. 15/2009 e con il successivo D.Lgs. n. 150/2009, ha introdotto strumenti (quali il sistema di valutazione della performance) volti alla valorizzazione di meriti, capacità e risultati di lavoratori e dirigenti (rafforzando autonomia e responsabilità di questi ultimi), nonché ad un incremento dell'efficienza e della trasparenza ed all'ottimizzazione della produttività (D. Lgs. n. 141/2011);
  • Riforma Madia: avviata con la L. n. 124/2015, ha tentato una riorganizzazione delle PP.AA., mediante innovazione del regime di reclutamento, miglior allocazione delle risorse umane, introduzione di forme di lavoro flessibile, rafforzamento della separazione tra indirizzo politico e gestione amministrativa.

A dispetto del processo di privatizzazione, è tuttavia ormai pacificamente riconosciuto che tra lavoro pubblico e lavoro privato permangono differenze così numerose e sostanziali (in ordine, ad esempio, alla struttura stessa del rapporto, alla sua costituzione, alla sua cessazione), tali che la disciplina del rapporto di lavoro pubblico deve ritenersi tuttora connotata da caratteri di evidente specialità rispetto al lavoro privato. Come più volte evidenziato dalla Corte costituzionale, infatti, il datore di lavoro pubblico, a differenza di quello privato, non ha libertà di scegliere i lavoratori da assumere né di determinare la spesa da destinare alla retribuzione del personale né ancora di decidere l'assetto organizzativo da imprimere ai propri uffici.

Secondo giurisprudenza costante della Corte costituzionale, la facoltà del legislatore di introdurre deroghe al principio del concorso pubblico deve essere delimitata in modo rigoroso, potendo tali deroghe essere considerate legittime solo quando siano funzionali esse stesse al buon andamento dell'amministrazione e ove ricorrano peculiari e straordinarie esigenze di interesse pubblico idonee a giustificarle (Corte cost. 4 marzo 2018, n. 40, Corte cost. 12 maggio 2017, n. 110, Corte cost. 30 gennaio 2015, n. 7, Corte csot. 21 maggio 2014, n. 134) e, comunque, sempre che siano previsti “adeguati accorgimenti per assicurare [...] che il personale assunto abbia la professionalità necessaria allo svolgimento dell'incarico” (Corte cost. 21 giugno 2010, n. 225). Infatti, la necessità del concorso per le assunzioni a tempo indeterminato discende non solo dal rispetto del principio di buon andamento della pubblica amministrazione di cui all'art. 97 Cost., ma anche dalla necessità di consentire a tutti i cittadini l'accesso alle funzioni pubbliche, in base all'art. 51 Cost. (Corte cost. 28 gennaio 2010, n. 5).

Il lavoro pubblico e il lavoro privato “non possono essere in tutto e per tutto assimilati (sentenze n. 120 del 2012 e n. 146 del 2008) e le differenze, pur attenuate, permangono anche in séguito all'estensione della contrattazione collettiva a una vasta area del lavoro prestato alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni” (Corte cost. 23 luglio 2015, n. 178). Il lavoro pubblico rappresenta un aggregato rilevante della spesa di parte corrente, che, proprio per questo, incide sul generale equilibrio tra entrate e spese del bilancio statale (art. 81 Cost.). L'esigenza di esercitare un prudente controllo sulla spesa, connaturata all'intera disciplina del rapporto di lavoro pubblico ed estranea all'àmbito del lavoro privato, preclude il raffronto (Corte cost. 25 giugno 2019, n. 159).

E' ammissibile una disciplina differenziata del rapporto di lavoro pubblico rispetto a quello privato, in quanto il processo di omogeneizzazione incontra il limite “della specialità del rapporto e delle esigenze del perseguimento degli interessi generali” (Corte cost. 23 luglio 2001, n. 275). La pubblica amministrazione, infatti, “conserva pur sempre - anche in presenza di un rapporto di lavoro ormai contrattualizzato - una connotazione peculiare”, essendo tenuta “al rispetto dei principi costituzionali di legalità, imparzialità e buon andamento cui è estranea ogni logica speculativa” (Corte cost. 27 marzo 2003, n. 82, Corte cost. 16 maggio 2008, n. 146).

Non è fondata la questione di legittimità costituzionale delle norme che fissano un limite massimo alle retribuzioni nel settore pubblico (art. 23 ter D.L. n. 201/2011, conv. in L. n. 214/2011, e art. 13, comma 1, D.L. n. 66/2014, conv. in L. n. 89/2014) e al cumulo tra retribuzioni e pensioni (art. 1, comma 489, L. n. 147/2013), individuandolo nella misura del trattamento economico del primo presidente della Corte di Cassazione. La disciplina del limite massimo si iscrive in un contesto di risorse limitate, che devono essere ripartite in maniera congrua e trasparente. Detta disciplina non confligge con i principi costituzionali evocati (artt. 3,4,36,38,100,101,104 e 108 Cost.), atteso che l'imposizione di un limite massimo alle retribuzioni pone rimedio alle differenziazioni fra i trattamenti retributivi delle figure di vertice dell'amministrazione, affiancandosi spesso ad obblighi penetranti di pubblicità degli incarichi, che mirano a rendere trasparente la gestione delle risorse pubbliche. La non irragionevolezza delle scelte del legislatore si combina anche con la valenza generale del limite retributivo, che si delinea come misura di razionalizzazione, suscettibile di imporsi a tutti gli apparati amministrativi. Infine, il limite, così previsto dal legislatore, non è inadeguato, in quanto si raccorda alle funzioni di una carica di rilievo e prestigio indiscussi. Proprio in virtù di tali caratteristiche, esso non vìola il diritto al lavoro e non svilisce l'apporto professionale delle figure più qualificate, ma garantisce che il nesso tra retribuzione e quantità e qualità del lavoro svolto sia salvaguardato anche con riguardo alle prestazioni

Fonti

Sotto il profilo delle fonti del rapporto di lavoro pubblico, le numerose riforme intervenute hanno portato:

- in una prima fase, alla tendenziale delegificazione, mediante applicazione della disciplina privatistica ed introduzione della diretta efficacia della contrattazione collettiva (senza necessità di atti normativi di recepimento), munita della capacità di prevalere anche su disposizioni speciali adottate dal legislatore, salva espressa previsione contraria;

- in una seconda fase, a decorrere dal 2009, al ritorno ad una prevalenza della regolamentazione legale (tendenzialmente inderogabile, salvo espressa previsione contraria) rispetto a quella di derivazione contrattuale, con conseguente specialità del lavoro pubblico rispetto al lavoro privato quanto alla disciplina relativa agli istituti più rilevanti;

- in una terza fase, a decorrere dal 2017 (v. D.Lgs. n. 75/2017), alla riaffermazione del ruolo centrale della contrattazione collettiva nazionale, capace di derogare norme di legge precedenti ove non dichiarate inderogabili.

Indicativa dell'evoluzione che nel tempo ha interessato il rapporto tra legge e contrattazione collettiva, è la vicenda dell'art. 2, comma 2, ult. periodo del T.U., il quale, nelle diverse versioni risultanti dalle riforme via via introdotte, ha disposto che la contrattazione collettiva, nelle materie ad essa affidate, possa derogare a disposizioni di legge regolamento o statuto, e che tali disposizioni, per la parte derogata, “non sono ulteriormente applicabili …”:

  • … salvo che la legge disponga espressamente in senso contrario” (testo originario);
  • … solo qualora ciò sia espressamente previsto dalla legge” (art. 1, comma 1, L. n. 15/2009);
  • senza alcuna ulteriore specificazione (l'art. 1, comma 1, D. Lgs. 75/2017 si è infatti limitato a sopprimere quanto inserito dalla L. n. 15/2009).

L'attuale assetto delle fonti del rapporto di lavoro pubblico può essere dunque così sintetizzato:

1. codice civile e leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell'impresa: si applicano in via generale, con due eccezioni (art. 2, comma 2 T.U.):

  • su di essi, prevalgono le disposizioni di carattere imperativo di cui al T.U.;
  • le disposizioni di legge regolamento o statuto possono essere derogate dalla contrattazione collettiva – attualmente solo di livello nazionale (art. 1, comma 1, D. Lgs. n. 75/2017) – nelle materie di cui all'art. 40, comma 1 T.U., fermo il rispetto dei principi di cui al medesimo T.U

2. contratti collettivi : si applicano nelle materie di cui agli artt. 40 e ss. T.U., con due eccezioni (art. 2, commi 3 e 3 bis T.U.):

  • ove violino norme imperative o travalichino i limiti imposti alla contrattazione collettiva, le clausole nulle sono sostituite di diritto da norme imperative (operano infatti gli artt. 1339 e 1419, co. 2 c.c.)
  • in materia di trattamento economico (materia tendenzialmente riservata alla contrattazione collettiva e individuale ex art. 2, comma 3, e art. 45, comma 1 T.U.), la contrattazione collettiva prevale su precedenti atti normativi o amministrativi più favorevoli, ferma la generale riassorbibilità dei trattamenti più favorevoli già in godimento;

Sono attualmente materie soggette a contrattazione collettiva (art. 40, comma 1, 3 e 4 ter, art. 45, commi 1 e 3, art. 50, comma 1 e art. 52 T.U.):

  1. la complessiva disciplina del rapporto di lavoro (prima del D. Lgs. n. 75/2017, limitata ai soli “diritti e … obblighi direttamente pertinenti al rapporto di lavoro”);
  2. la complessiva disciplina delle relazioni sindacali (prima del D. Lgs. n. 75/2017, limitata alle sole “materie relative alle relazioni sindacali”);
  3. le sanzioni disciplinari (nei limiti previsti dalle norme di legge);
  4. la valutazione delle prestazioni ai fini della corresponsione del trattamento accessorio (nei limiti previsti dalle norme di legge);
  5. la mobilità (nei limiti previsti dalle norme di legge);
  6. la struttura contrattuale, i rapporti tra i diversi livelli e la durata dei contratti collettivi nazionali ed integrativi;
  7. il riordino, la razionalizzazione e la semplificazione delle discipline in materia di dotazione e utilizzo dei fondi destinati alla contrattazione integrativa;
  8. i trattamenti economici fondamentali e accessori;
  9. i limiti massimi delle aspettative e dei permessi sindacali;
  10. le modalità delle progressioni economiche.

    Sono attualmente materie escluse dalla contrattazione collettiva (art. 40, comma 1 T.U.):

  • l'organizzazione degli uffici;
  • le materie oggetto di partecipazione sindacale ex art. 9 T.U.;
  • le materie oggetto di prerogativa dirigenziale ex artt. 5, comma 2, 16 e 17 T.U.;
  • il conferimento e la revoca degli incarichi dirigenziali;
  • le materie che l'art. 2, comma 1, lett. c), L. n. 421/1992 riserva alla legge.
È costituzionalmente illegittimo il regime di sospensione della contrattazione collettiva sui trattamenti economici dei pubblici dipendenti, risultante dalle disposizioni adottate nell'ambito della manovra di finanza pubblica per gli anni 2011-2013 (art. 16 comma 1, lett. b) D.L. n. 98/2011), nonché della legge di stabilità 2014 e della legge di stabilità 2015, in riferimento all'art. 39, comma 1, Cost. Le norme censurate e le norme sopravvenute della legge di stabilità per il 2015, susseguitesi senza soluzione di continuità e accomunate da analoga direzione finalistica, violano la libertà sindacale garantita dall'art. 39, comma 1, Cost., in quanto l'estensione fino al 2015 delle misure che inibiscono la contrattazione economica e che, già per il 2013-2014, erano state definite eccezionali, svela un assetto durevole di proroghe e una vocazione che mira a rendere strutturale il regime del “blocco”, che è di per sé lesivo del principio di libertà sindacale, in un settore nel quale il contratto collettivo svolge un ruolo centrale, ponendosi, per un verso, come strumento di garanzia della parità di trattamento dei lavoratori, e, per altro verso, come fattore propulsivo della produttività e del merito (Corte cost. 23 luglio 2015, n. 78).
 

3. contratto individuale di lavoro : deve rispettare il principio di parità di trattamento e può derogare la contrattazione collettiva solo in melius (artt. 2, comma 3 e 45 comma 2 T.U.);

4. atti di macro-organizzazione : atti amministrativi con cui le PP.AA., nel rispetto dei principi generali di legge, definiscono le linee fondamentali di organizzazione degli uffici, individuano gli uffici più rilevanti e i modi di conferimento della titolarità dei medesimi, e determinano le dotazioni organiche complessive (art. 2, comma 1 T.U.);

In tema di pubblico impiego contrattualizzato, l'accertamento dello svolgimento di mansioni superiori deve essere operato avuto riguardo all'atto di macro-organizzazione, di portata generale (nella specie, classificazione ministeriale degli uffici giudiziari), con il quale l'amministrazione ha adattato alla propria struttura i profili professionali previsti dalla contrattazione collettiva, individuando i posti della pianta organica, dovendo escludersi che a tale compito possa provvedere il giudice, cui è devoluto il sindacato dei soli atti di organizzazione esecutiva, assunti con la capacità ed i poteri del datore di lavoro privato (Cass. 17 dicembre 2019, n. 33401).

L'art. 24 T.U., in tutte le versioni succedutesi nel tempo, delega alla contrattazione collettiva la determinazione del trattamento retributivo del personale con qualifica dirigenziale, da correlarsi quanto al trattamento accessorio alle funzioni attribuite. Con riferimento alla dirigenza medica, in particolare, il provvedimento di graduazione delle funzioni ha natura di atto di macro-organizzazione riconducibile all'art. 2, comma 1 T.U., ed integra un elemento costitutivo della parte variabile della retribuzione di posizione (Cass. 11 marzo 2020, n. 6946).

In relazione ai rapporti di lavoro pubblico privatizzato, spettano alla giurisdizione generale di legittimità del giudice amministrativo le controversie nelle quali, pur chiedendosi la rimozione del provvedimento di conferimento di un incarico dirigenziale previa disapplicazione degli atti presupposti, la contestazione investa direttamente il corretto esercizio del potere amministrativo, mediante la deduzione della non conformità a legge degli atti di macro-organizzazione attraverso i quali le amministrazioni pubbliche definiscono le linee fondamentali di organizzazione degli uffici ed i modi di conferimento della titolarità degli stessi; in tale ipotesi non può invero operare il potere di disapplicazione del giudice ordinario, il quale presuppone la deduzione di un diritto soggettivo su cui incide il provvedimento amministrativo e non una situazione giuridica suscettibile di assumere la consistenza di diritto soggettivo solo all'esito della rimozione del provvedimento di macro-organizzazione (Cass. s.u. 4 marzo 2020, n. 6076, Cass. s.u. 21 dicembre 2018, n. 33212).

5. atti di micro-organizzazione : determinazioni assunte in via esclusiva dagli organi delle PP.AA. preposti alla gestione, con la capacità e i poteri del privato datore di lavoro, nonché nel rispetto di leggi ed atti di macro-organizzazione, al fine di organizzare gli uffici, gestire i rapporti di lavoro, dirigere e organizzare il lavoro nell'ambito degli uffici (art. 5, comma 2 T.U.).

Ambito soggettivo di applicazione

Il T.U. chiarisce, con l'art. 1, il proprio ambito soggettivo di applicazione, così individuando i lavoratori pubblici contrattualizzati (art. 2, comma 3 T.U.) in coloro che hanno un rapporto di impiego alle dipendenze di:

  1. amministrazioni dello Stato, aziende ed amministrazioni dello Stato ad ordinamento autonomo;
  2. istituzioni e scuole di ogni ordine e grado, istituzioni educative, istituzioni universitarie;
  3. Regioni, Province, Comuni, Comunità montane e loro consorzi o associazioni;
  4. Istituti autonomi case popolari;
  5. Camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura, e loro associazioni;
  6. enti pubblici non economici nazionali, regionali e locali;
  7. amministrazioni, aziende ed enti del Servizio sanitario nazionale;
  8. Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni (ARAN);
  9. Agenzie di cui al D. Lgs. n. 300/1999.

E' invece assoggettato alla disciplina privatistica il rapporto di lavoro alle dipendenze delle società a partecipazione pubblica il quale tuttavia, con riguardo al profilo del reclutamento, ha subito nel tempo alcune modifiche sotto il profilo della parziale applicabilità dell'art. 35 T.U.:

  • fino al 2008, non vi era alcun vincolo di assunzione mediante pubblico concorso (Cass. 1° agosto 2019, n. 20782, Cass. 29 maggio 13480/2018);

  • l'art. 18, D. L. n. 112/2008, conv. dalla L. n. 133/2008, ha invece imposto, per le società che gestiscono servizi pubblici locali a totale partecipazione pubblica, il rispetto dei principi stabiliti dall'art. 35, comma 3 T.U., non solo per il reclutamento del personale ma anche per il conferimento degli incarichi, e, per le altre società a partecipazione pubblica totale o di controllo, l'adozione – con propri provvedimenti – di criteri e modalità per il reclutamento del personale e per il conferimento degli incarichi “nel rispetto dei principi, anche di derivazione comunitaria, di trasparenza, pubblicità e imparzialità”;

  • l'art. 19, D. Lgs. n. 175/2016, pur ribadendo in via generale che ai rapporti di lavoro alle dipendenze delle società a controllo pubblico si applica la disciplina del rapporto di lavoro privato, salvo deroghe, ha abrogato l'art. 18 cit., prevedendo invece che tutte “le società a controllo pubblico stabiliscono, con propri provvedimenti, criteri e modalità per il reclutamento del personale nel rispetto dei principi di trasparenza, pubblicità e imparzialità e dei principi di cui all'art. 35, comma 3, D. Lgs. n. 165/2001”, principi comunque direttamente applicabili anche in caso di mancata adozione dei suddetti provvedimenti; ha inoltre definitivamente chiarito che resta ferma la giurisdizione del giudice ordinario sulle relative procedure di reclutamento.

La partecipazione pubblica non muta la natura di soggetto privato della società la quale resta assoggettata al regime giuridico proprio dello strumento privatistico adoperato, salve specifiche disposizioni di segno contrario o ragioni ostative di sistema che portino ad attribuire rilievo alla natura pubblica del capitale impiegato e del soggetto che possiede le azioni della persona giuridica (Cass. s.u. 1° dicembre 2016, n. 24591, Cass. s.u. 27 marzo 2017, n. 7759).

In tema di società a partecipazione pubblica, il reclutamento di personale effettuato nel periodo antecedente all'entrata in vigore dell'art. 18, D.L. n. 112/2008 - che ha esteso alle predette società, nella ricorrenza di determinate condizioni, i divieti o le limitazioni alle assunzioni previsti per le P.A. - è regolato dal regime giuridico proprio dello strumento privatistico adoperato. È pertanto ammissibile la conversione di un rapporto a termine illegittimo, stipulato prima della novella legislativa da una società a partecipazione pubblica, in un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato (Cass. 1° agosto 2019, n. 20782).

In tema di disciplina delle mansioni, i dipendenti delle società a partecipazione pubblica sono sottoposti al vigore della disciplina codicistica per i lavoratori di aziende private, sussistendo pertanto, al ricorrere delle peculiari condizioni ex lege, il diritto alla c.d. promozione automatica ai sensi dell'art. 2103, comma 7, c.c. (Cass. 1° gennaio 2022, n. 35422).

Il procedimento di reclutamento previsto dal D.L. n. 112 del 2008, art. 18, conv. dalla L. n. 133 del 2008, non è equiparabile a quello del concorso pubblico: rappresenta invece un procedimento intermedio che rispetta i principi ma non l'intera disciplina del concorso pubblico (Cass. s.u. 1° dicembre 2016, n. 24591). La Corte costituzionale ha infatti definito come “paraconcorsuale” la procedura di cui all'art. 18 cit. (Corte cost. 21 maggio 2013, n. 227), escludendo che il personale assunto da società partecipate nel rispetto dell'art. 18 cit. possa passare alle dipendenze della P.A., proprio in quanto l'art. 18 non garantisce il pieno rispetto delle procedure concorsuali (Corte cost. 1° luglio 2013, n. 167).

Nel pubblico impiego privatizzato, l'atto di conferimento di incarichi dirigenziali integra una determinazione negoziale di natura privatistica, per la cui adozione l'amministrazione datrice non è assoggettata al rispetto della regola del concorso pubblico ma è tenuta ad osservare le norme di cui all'art. 19, comma 1 T.U.; ciò non valeva nell'ambito delle società a partecipazione pubblica in vigenza dell'art. 18, D.L. n. 112/2008, che ha esteso alle predette società le procedure concorsuali e selettive delle amministrazioni pubbliche, imponendo espressamente il rispetto dei principi stabiliti dall'art. 35, comma 3 T.U., non solo per il reclutamento del personale ma anche per il conferimento degli incarichi (Cass. 14 settembre 2022, n. 27126).

In tema di società cd. in house providing, le procedure seguite per l'assunzione del personale dipendente devono ritenersi assoggettate – sia durante la vigenza dell'art. all'art. 18, D.L. n. 112/2008, conv. dalla L. n. 133/2008, sia in forza del TU sulle società a partecipazione pubblica di cui al D. Lgs. n. 175/2016 – alla giurisdizione del giudice ordinario, e non del giudice amministrativo, in quanto alla scelta del modello privatistico per il perseguimento delle finalità di tali società consegue l'esclusione dell'obbligo di adottare il regime del pubblico concorso per il reclutamento dei dipendenti (Cass. s.u. 3 luglio 2023, n. 18749, Cass. s.u. 27 marzo 2017, n. 7759).

Sono invece esclusi dalla contrattualizzazione e restano disciplinati – in regime di diritto pubblico – dai rispettivi ordinamenti (art. 3 T.U.):

  1. i magistrati ordinari, amministrativi e contabili;
  2. gli avvocati e procuratori dello Stato;
  3. il personale militare e delle forze di polizia;
  4. il personale della carriera diplomatica e prefettizia;
  5. i dipendenti degli enti che svolgono le loro attività nelle materie contemplate dall'art. 1, D. Lgs. n. 691/1947 (funzione creditizia, valutaria e di risparmio) e dalle L. n. 281/1985 e L. n. 287/1990 (borsa e mercato);
  6. il corpo nazionale dei vigili del fuoco e il personale volontario di leva;
  7. il personale della carriera dirigenziale penitenziaria;
  8. i professori e i ricercatori universitari (ai quali, tuttavia, trovano specifica applicazione alcune disposizioni del T.U., quali l'art. 24, comma 6, in tema di incentivazione dell'impegno didattico dei docenti universitari e l'art. 53, comma 7, in tema di incompatibilità).

Sono inoltre soggetti ai rispettivi ordinamenti interni i dipendenti di Corte costituzionale, Camera e Senato.

Giurisdizione

L'art. 63 T.U. devolve alla giurisdizione del giudice ordinario, in funzione di giudice del lavoro, tutte le controversie relative ai rapporti di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni di cui all'art. 1, comma 2 T.U. (v. supra, par. 4).

Sono devolute altresì alla giurisdizione del giudice ordinario le controversie concernenti:

  1. l'assunzione al lavoro e la cessazione del rapporto di lavoro;
  2. il conferimento e la revoca degli incarichi dirigenziali, nonché la responsabilità dirigenziale;
  3. l'indennità di fine rapporto, comunque denominata e corrisposta;
  4. i comportamenti antisindacali delle pubbliche amministrazioni ai sensi dell'art. 28, L. n. 300/1970;
  5. le procedure di contrattazione collettiva di cui all'art. 40 e ss. T.U., promosse dall'ARAN, da organizzazioni sindacali o da pubbliche amministrazioni;

Nella materia del conferimento e della revoca degli incarichi dirigenziali, rientrano nella giurisdizione generale di legittimità del giudice amministrativo le controversie nelle quali, pur chiedendosi la rimozione del provvedimento di conferimento (o di revoca) di un incarico dirigenziale, previa disapplicazione degli atti presupposti, la contestazione operata dal ricorrente investa direttamente il corretto esercizio del potere amministrativo, assunto come non conforme a legge, che si sia estrinsecato nell'adozione dei cosiddetti atti di macro organizzazione (Cass. s.u. 15 gennaio 2021, n. 616).

In tema di nomina dei direttori dei musei archeologici nazionali, la procedura d'interpello per il conferimento dei detti incarichi dirigenziali, sebbene aperta a soggetti esterni e caratterizzata da una pluralità articolata di fasi (la prima, riservata alla selezione dei curricula; la seconda, caratterizzata da colloqui, e non da esami orali, per l'individuazione dei candidati dell'ultima fase; quella finale, sfociante nella formazione delle terne di nominativi, nell'ambito delle quali operare la nomina di un solo aspirante all'esito di una scelta conclusiva e fiduciaria del ministro o del direttore generale), ha natura sostanzialmente non concorsuale, avendo la fase finale carattere dominante rispetto all'intero percorso della selezione, sicché, per il principio di concentrazione delle tutele, le relative controversie sono attribuite al giudice ordinario, non potendo frazionarsi la giurisdizione con riferimento alle singole fasi del procedimento (Cass. s.u. 18 gennaio 2019, n. 1413).

Restano invece alla giurisdizione del giudice amministrativo le controversie:

  1. in materia di procedure concorsuali per l'assunzione dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni;
  2. relative ai rapporti di pubblico impiego non privatizzato (art. 3 T.U.), ivi incluse quelle attinenti ai diritti patrimoniali connessi (giurisdizione esclusiva).

L'art. 63, comma 4 T.U. si interpreta, alla stregua dei principi enucleati ex art. 97 Cost. dal giudice delle leggi, nel senso che per "procedure concorsuali per l'assunzione", ascritte al diritto pubblico e all'attività autoritativa dell'amministrazione, si intendono non soltanto quelle preordinate alla costituzione ex novo dei rapporti di lavoro (come le procedure aperte a candidati esterni, ancorché vi partecipino soggetti già dipendenti pubblici), ma anche i procedimenti concorsuali interni, destinati, cioè, a consentire l'inquadramento dei dipendenti in aree funzionali o categorie più elevate, profilandosi in tal caso una novazione oggettiva dei rapporti di lavoro. Le progressioni, invece, all'interno di ciascuna area professionale o categoria, sia con acquisizione di posizioni più elevate meramente retributive sia con il conferimento di qualifiche (livello funzionale di inquadramento connotato da un complesso di mansioni e di responsabilità) superiori (art. 52, comma 1 T.U.), sono affidate a procedure poste in essere dall'amministrazione con la capacità e i poteri del datore di lavoro privato (art. 5, comma 2 T.U.) (Cass. s.u. 4 aprile 2023 n. 9329, Cass. s.u. 20 dicembre 2016, n. 26270).

Sono attribuite alla giurisdizione del giudice ordinario tutte le controversie inerenti ad ogni fase del rapporto di lavoro, incluse quelle concernenti l'assunzione al lavoro ed il conferimento di incarichi dirigenziali, mentre la riserva in via residuale alla giurisdizione amministrativa, contenuta nel citato art. 63, comma 4 T.U. concerne esclusivamente le procedure concorsuali strumentali alla costituzione del rapporto con la P.A., le quali possono essere anche interne, purché configurino “progressioni verticali novative e non meramente economiche oppure comportanti, in base alla contrattazione collettiva applicabile, il conferimento di qualifiche più elevate, ma comprese nella stessa area, categoria o fascia di inquadramento (Cass. s.u. 13 marzo 2020, n. 7218; da ultimo Cass. s.u. 7 dicembre 2022, n. 36027).

In tema di personale docente, nelle controversie concernenti la legittimità della regolamentazione delle graduatorie provinciali per il conferimento delle supplenze in ambito scolastico, sussiste la giurisdizione del giudice ordinario - venendo in considerazione atti ricompresi tra le determinazioni assunte con la capacità e i poteri del datore di lavoro privato ai sensi dell'art. 5, comma 2, T.U., di fronte ai quali sussistono soltanto diritti soggettivi - in quanto le procedure relative alla formazione e all'aggiornamento delle predette graduatorie non si configurano come procedure concorsuali, non implicando alcuna valutazione discrezionale ed essendo finalizzate unicamente all'inserimento di coloro che sono in possesso di determinati requisiti in una graduatoria preordinata al conferimento di posti che si rendano disponibili; la giurisdizione del giudice amministrativo resta di conseguenza limitata alle controversie nelle quali, secondo il criterio del petitum sostanziale, la questione involga direttamente la validità dell'atto amministrativo di carattere generale, o di quello regolamentare, che disciplina l'accesso alle graduatorie e, solo quale conseguenza dell'annullamento di tale atto, la tutela della posizione individuale dell'aspirante all'inserimento in una determinata graduatoria (Cass. s.u. 19 aprile 2023, n. 10538).

In tema di pubblico impiego privatizzato, con l'approvazione della graduatoria nelle procedure concorsuali si esaurisce l'ambito riservato al procedimento amministrativo ed all'attività autoritativa della P.A. e subentra una fase in cui i comportamenti dell'amministrazione vanno ricondotti all'ambito privatistico, espressione del potere negoziale della P.A. nella veste di datrice di lavoro, da valutarsi alla stregua dei principi civilistici sull'inadempimento delle obbligazioni (art. 1218 c.c.), inclusi i parametri della correttezza e della buona fede, sicché la controversia rimane devoluta alla giurisdizione del giudice ordinario, ai sensi dell'art. 63, comma 1, T.U., anche nell'ipotesi in cui la graduatoria del concorso sia stata annullata in via di autotutela dopo l'instaurazione del rapporto (Cass. 16 novembre 2017, n. 29197).

In tema di riparto di giurisdizione nelle controversie relative alle procedure concorsuali nell'ambito del pubblico impiego contrattualizzato, spetta al giudice ordinario la cognizione della causa con la quale il candidato utilmente collocato nella graduatoria finale di un concorso faccia valere il proprio diritto all'assunzione, contestando le modalità di scorrimento della graduatoria, mentre, ove l'affermazione di tale diritto richieda la negazione degli effetti del provvedimento con cui l'Amministrazione abbia scelto di indire una nuova procedura concorsuale, anziché attingere alla menzionata graduatoria, la controversia è devoluta al giudice amministrativo, poiché investe l'esercizio di un potere di organizzazione degli uffici, cui corrisponde una situazione di interesse legittimo (Cass. s.u. 19 luglio 2022, n. 22566).

Spetta alla giurisdizione del giudice ordinario la cognizione sulla controversia relativa al mancato rinnovo del contratto di lavoro autonomo stipulato dall'INPS all'esito di selezione pubblica con i medici incaricati delle procedure di valutazione per la concessione dell'invalidità civile, atteso che il rapporto di lavoro instaurato è di natura parasubordinata, e pertanto privatistica, e che la procedura selettiva ha caratteristiche negoziali e non di pubblico concorso (Cass. s.u. 13 ottobre 2021, n. 27889).

L'art. 69, comma 7 T.U. detta poi una disciplina transitoria, fissando al 30 giugno 1998 il discrimen temporale per il passaggio dalla giurisdizione amministrativa alla giurisdizione ordinaria: andavano proposte pertanto innanzi al giudice amministrativo, a pena di decadenza entro il 15 settembre 2000, le questioni attinenti al periodo del rapporto di lavoro anteriore al 30 giugno 1998; sono invece attribuite al giudice ordinario quelle relative al periodo successivo.

In tema di pubblico impiego contrattualizzato, l'art. 69, comma 7 T.U., stabilisce come regola la giurisdizione del giudice ordinario per ogni questione che riguardi, anche parzialmente, il periodo del rapporto di lavoro successivo al 30 giugno 1998, ove risulti essere sostanzialmente unitaria la fattispecie dedotta in giudizio, residuando come eccezione la giurisdizione del giudice amministrativo per le sole questioni che riguardino unicamente il periodo compreso entro la data suddetta; ne consegue che sono devolute alla giurisdizione del giudice ordinario le controversie relative a differenze retributive correlate ad atti di inquadramento anteriori alla data del 30 giugno 1998, che tuttavia producano i loro effetti anche oltre tale data, atteso che il fatto costitutivo del diritto alla maggiore retribuzione è la decorrenza dell'inquadramento economico, la cui efficacia permane e si protrae nel tempo (Cass. s.u. 19 aprile 2022, n. 12441).

In materia di rapporti di lavoro instaurati con lo Stato ed altre pubbliche amministrazioni, la giurisdizione deve essere determinata quoad tempus in base ai fatti costitutivi del diritto rivendicato tutte le volte in cui essi vengano in rilievo a prescindere dal loro collegamento con uno specifico atto di gestione del rapporto da parte dell'amministrazione, e, invece, in base alla data dell'atto emesso da questa quando il regime del rapporto preveda che la giuridica rilevanza dei fatti sia assoggettata ad un preventivo apprezzamento dell'amministrazione medesima ed alla conseguente declaratoria della sua volontà al riguardo: infatti, l'art. 69, comma 7 T.U., nell'escludere dal trasferimento alla giurisdizione ordinaria tutte le controversie che, sebbene introdotte successivamente alla data del 30 giugno 1998, abbiano ad oggetto questioni attinenti al periodo di rapporto di lavoro pubblico anteriore a tale data, utilizza una locuzione generica, che pone l'accento sul dato storico, costituito dall'avverarsi dei fatti materiali e delle circostanze, in relazione alla cui giuridica rilevanza sia sorta la controversia. Ne consegue che, con riferimento all'accertamento del diritto all'inquadramento del lavoratore, il momento da cui dipende la giurisdizione è quello dell'emanazione dell'atto impugnato che ne determina la lesione, senza che rilevi che si riferisca ad un periodo lavorativo antecedente al 30 giugno 1998, o che il provvedimento sia stato adottato revocando in autotutela altro atto amministrativo antecedente alla stessa data (Cass. s.u. 26 febbraio 2021, n. 5241).

In tema di pubblico impiego contrattualizzato, la sopravvivenza della giurisdizione del giudice amministrativo, regolata dall'art. 69, comma 7, T.U., costituisce, nelle intenzioni del legislatore, ipotesi assolutamente eccezionale, sicché, per evitare il frazionamento della tutela giurisdizionale, quando il lavoratore deduce un inadempimento unitario dell'amministrazione, la protrazione della fattispecie oltre il discrimine temporale del 30 giugno 1998 radica la giurisdizione presso il giudice ordinario anche per il periodo anteriore a tale data, non essendo ammissibile che sul medesimo rapporto abbiano a pronunciarsi due giudici diversi, con possibilità di differenti risposte ad una stessa istanza di giustizia (Cass. s.u. 26 maggio 2020, n. 9779).

  

            In materia di lavoro pubblico, sono attualmente riconosciuti al giudice ordinario i seguenti poteri (art. 63, commi 2 e 2 bis T.U.):

  1. adozione di tutti i provvedimenti (di accertamento, costitutivi e di condanna) richiesti dalla natura dei diritti da tutelare, se del caso con efficacia costitutiva ed estintiva del rapporto di lavoro;
  2. in caso di annullamento o declaratoria di nullità del licenziamento, condanna dell'amministrazione alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro precedentemente occupato nonché al pagamento di un'indennità risarcitoria ed al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali (art. 21, comma 1, D. Lgs. n. 75/2017);
  3. in caso di annullamento di sanzione disciplinare per difetto di proporzionalità, rideterminazione della sanzione in applicazione di vigenti disposizioni normative e contrattuali (art. 21, comma 1, D. Lgs. n. 75/2017).

Costituzione del rapporto di lavoro

La costituzione del rapporto di lavoro è uno degli aspetti in cui il lavoro pubblico si differenzia maggiormente dal lavoro privato.

Diversamente da quanto avviene nel lavoro privato – ove la parte datoriale è libera di scegliere i propri collaboratori secondo i criteri che ritiene più opportuni, salve le assunzioni obbligatorie per legge –, nel lavoro pubblico vigono i principi generali dettati dagli artt. 51 e 97 Cost., secondo i quali “tutti i cittadini … possono accedere agli uffici pubblici … in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge” e “agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante pubblico concorso”.

Tali principi sono ora attuati dagli artt. 35 e ss. del T.U. che, ferme le ipotesi di avviamento al lavoro degli iscritti nelle liste di collocamento, impongono l'espletamento di procedure selettive volte all'accertamento – mediante meccanismi oggettivi e trasparenti – della professionalità richiesta in relazione alla posizione da ricoprire, che garantiscano l'accesso dall'esterno in misura adeguata, che si conformino ai principi di adeguata pubblicità, imparzialità, economicità e celerità di espletamento, eventualmente attraverso l'ausilio di sistemi informatizzati e forme di preselezione (v., ora, il Portale unico del reclutamento ed il procedimento per l'assunzione del personale non dirigenziale introdotti dagli artt. 35 ter e 35 quater T.U.).

Il pubblico concorso costituisce la forma generale e ordinaria di reclutamento per le amministrazioni pubbliche, quale strumento per assicurare l'efficienza, il buon andamento e l'imparzialità dell'azione amministrativa (Corte cost. 21 luglio 2020, n. 199, Corte cost. 27 febbraio 2020, n. 36, Corte cost. 20 marzo 2018, n. 40, Corte cost. 6 dicembre 2017, n. 251).

Corollario del principio dell'obbligo di pubblico concorso è quello dell'inammissibilità della costituzione di fatto di un rapporto di lavoro pubblico, codificato dall'art. 36, comma 5 T.U., a mente del quale “in ogni caso, la violazione di disposizioni imperative riguardanti l'assunzione o l'impiego di lavoratori, da parte delle pubbliche amministrazioni, non può comportare la costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato con le medesime pubbliche amministrazioni, ferma restando ogni responsabilità e sanzione”. In conseguenza dell'espletamento di fatto della prestazione, dunque, il lavoratore ha diritto al risarcimento del danno ma non alla costituzione di un formale rapporto di lavoro con la P.A.

Parimenti, la violazione di norme imperative riguardanti contratti di lavoro a tempo determinato o altre forme di lavoro flessibile – ora consentiti “soltanto per comprovate esigenze di carattere esclusivamente temporaneo o eccezionale e nel rispetto delle condizioni e modalità di reclutamento stabilite dall'articolo 35” (v. art. 9, comma 1, D. Lgs. 75/2017) –, non possono determinare la conversione del rapporto in contratto a tempo indeterminato.

In materia di pubblico impiego privatizzato, nell'ipotesi di abusiva reiterazione di contratti a termine, la misura risarcitoria prevista dall'art. 36, comma 5 T.U., va interpretata in conformità al canone di effettività della tutela affermato dalla Corte di giustizia Ue (ordinanza 12 dicembre 2013, in C-50/13), sicché, mentre va escluso - siccome incongruo - il ricorso ai criteri previsti per il licenziamento illegittimo, può farsi riferimento alla fattispecie omogenea di cui alla L. n. 183/2010, art. 32, comma 5, quale danno presunto, con valenza sanzionatoria e qualificabile come "danno comunitario", determinato tra un minimo ed un massimo, salva la prova del maggior pregiudizio sofferto, senza che ne derivi una posizione di favore del lavoratore privato rispetto al dipendente pubblico, atteso che, per il primo, l'indennità forfetizzata limita il danno risarcibile, per il secondo, invece, agevola l'onere probatorio del danno subito (Cass. 20 settembre 2021, n. 25406). Ove venga in rilievo la clausola 5 dell'accordo quadro allegato alla direttiva 1999/70/CE, il diritto dell'Unione non impone la conversione del rapporto a termine in contratto a tempo indeterminato, giacché può costituire una misura adeguata anche il risarcimento del danno (Cass. 21 aprile 2021, n. 10568).

Nell'ipotesi di illegittima reiterazione di contratti di lavoro a tempo determinato, il termine decennale di prescrizione del diritto al risarcimento del danno cd. comunitario spettante al lavoratore decorre dall'ultimo di tali contratti, in considerazione della natura unitaria del predetto diritto, sicché il numero dei contratti in questione rileva solo ai fini della liquidazione del danno, potendo anche quelli stipulati oltre dieci anni prima della richiesta di risarcimento avere incidenza sulla quantificazione del pregiudizio patito dal dipendente (Cass. 12 dicembre 2023, n. 34741).

Infine, le PP.AA. possono conferire incarichi individuali con contratti di lavoro autonomo solo per prestazioni di natura temporanea e altamente qualificata, fermi gli ulteriori limiti previsti dall'art. 7, comma 6 T.U., e fermo altresì il divieto di stipulare contratti di collaborazione che si concretino in prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative e le cui modalità di esecuzione siano organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro, divieto la cui violazione non può tuttavia comportare l'applicazione della disciplina del rapporto di lavoro subordinato ai sensi dell'art. 2, comma 1, D. Lgs. n. 81/2015 (art. 7, comma 5-bis T.U.).

Rapporto di lavoro

Il rapporto di lavoro pubblico si differenzia da quello privato anche sotto ulteriori profili, quali quelli di seguito analizzati.

MANSIONI

Nel lavoro pubblico non trova applicazione l'art. 2103 c.c., giacché l'art. 52 T.U. detta una disciplina speciale in materia di mansioni, fissando i seguenti principi:

  1. il lavoratore deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o alle mansioni equivalenti nell'ambito dell'area di inquadramento (comma 1);
  2. non può dunque essere adibito a mansioni inferiori;
  3. può essere invece adibito a mansioni proprie della qualifica immediatamente superiore in caso di vacanza di posto in organico nonché di sostituzione di altro lavoratore con diritto alla conservazione del posto e, in tali casi, ha diritto al trattamento economico corrispondente (commi 2 e 4);
  4. se adibito a mansioni superiori al di fuori delle ipotesi di cui supra alla lett. c), ha diritto alla differenza di trattamento economico rispetto alla qualifica superiore (comma 5);
  5. l'esercizio di fatto di mansioni non corrispondenti alla qualifica di appartenenza non ha effetto ai fini dell'inquadramento del lavoratore o dell'assegnazione di incarichi di direzione (comma 1).

In tema di pubblico impiego privatizzato, l'art. 52 T.U. assegna rilievo solo al criterio dell'equivalenza formale delle mansioni, con riferimento alla classificazione prevista in astratto dai contratti collettivi, indipendentemente dalla professionalità in concreto acquisita, senza che il giudice possa sindacare la natura equivalente della mansione, non potendosi avere riguardo alla norma generale di cui all'art. 2103 c.c. (Cass. 16 gennaio 2024, n. 1665).

In tema di pubblico impiego contrattualizzato, poiché il rapporto è regolato esclusivamente dai contratti collettivi e dalle leggi sul rapporto di lavoro privato, il datore di lavoro pubblico non ha il potere di attribuire inquadramenti in violazione del contratto collettivo, ma solo la possibilità di adattare i profili professionali, indicati a titolo esemplificativo, alle sue esigenze organizzative, senza modificare la posizione giuridica ed economica stabilita dalle norme pattizie; ne consegue che è affetto da nullità per violazione di norma imperativa, rilevabile d'ufficio in ogni stato e grado del giudizio, l'atto di inquadramento in deroga, anche in melius, alle disposizioni del contratto collettivo (Cass. 1° ottobre 2018, n. 23757).

Lo svolgimento di mansioni superiori non dirigenziali alle dipendenze degli enti pubblici non economici (nella specie, Autorità di sistema portuale) comporta il diritto del dipendente alla promozione ex art. 2103 c.c., in ragione dell'applicazione della normativa speciale di cui agli artt. 6 e 10 L. n. 84/1994, che deroga alla previsione generale di cui all'art. 52 T.U. (Cass. 18 gennaio 2024, n. 1920).

In materia di pubblico impiego contrattualizzato, il diritto al compenso per lo svolgimento di fatto di mansioni superiori, da riconoscersi nella misura indicata nell'art. 52, comma 5 T.U., non è condizionato alla sussistenza dei presupposti di legittimità di assegnazione delle mansioni o alle previsioni dei contratti collettivi, né all'operatività del nuovo sistema di classificazione del personale introdotto dalla contrattazione collettiva, posto che una diversa interpretazione sarebbe contraria all'intento del legislatore di assicurare comunque al lavoratore una retribuzione proporzionata alla qualità del lavoro prestato, in ossequio al principio di cui all'art. 36 Cost. (Cass. 1° settembre 2022, n. 25848).

RETRIBUZIONE

Nel lavoro pubblico, il trattamento economico – sia fondamentale che accessorio – è un aspetto tipicamente rimesso alla contrattazione collettiva (art. 45, comma 1 T.U.).

Tuttavia, anche in questa materia, la contrattazione collettiva incontra alcuni limiti:

  1. deve rispettare i vincoli di bilancio risultanti dalla programmazione annuale e pluriennale di ciascuna amministrazione (art. 40, comma 3 bis T.U.);
  2. è soggetta al controllo della Corte dei conti, del Dipartimento della funzione pubblica e del Ministero dell'economia e delle finanze (art. 40, comma 3 quinquies T.U.);
  3. deve svolgersi secondo la procedura di cui all'art. 47 T.U.

Infine, diversamente dal lavoro privato, in cui il datore – fermi i minimi tabellari ed il principio di non discriminazione – può corrispondere ai propri dipendenti la retribuzione che ritiene più opportuna, le amministrazioni pubbliche devono invece garantire trattamenti non inferiori a quelli previsti dai rispettivi contratti collettivi e parità di trattamento contrattuale (art. 45, comma 2 T.U.).

Il principio espresso dall'art. 45 T.U., secondo il quale le amministrazioni pubbliche garantiscono ai propri dipendenti parità di trattamento contrattuale, opera solo nell'ambito del sistema previsto dalla contrattazione collettiva e vieta trattamenti migliorativi o peggiorativi a titolo individuale, ma non costituisce parametro per giudicare le differenziazioni operate in quella sede, in quanto la disparità trova fondamento non in scelte datoriali unilaterali lesive della dignità del lavoratore, ma in pattuizioni dell'autonomia negoziale delle parti collettive, le quali operano su un piano paritario e istituzionalizzato, sufficiente (salva l'applicazione di divieti legali), a tutelare il lavoratore in riferimento alle specificità delle situazioni concrete (Cass. 5 aprile 2022, n. 11008).

In tema di pubblico impiego, l'art. 30 T.U., che riconduce il passaggio diretto di personale da amministrazioni diverse alla fattispecie della cessione del contratto, comporta, per i dipendenti trasferiti, l'applicazione del trattamento giuridico ed economico previsto dai contratti collettivi del comparto dell'Amministrazione cessionaria, salvi gli assegni ad personam attribuiti al fine di rispettare il divieto di reformatio in peius del trattamento economico già acquisito, che sono destinati ad essere riassorbiti negli incrementi del trattamento economico complessivo spettante ai dipendenti dell'Amministrazione cessionaria. In particolare, l'assorbimento del migliore trattamento in concomitanza con i futuri aumenti retributivi opera anche con riferimento all'assegno ad personam, corrisposto ai dipendenti del Ministero dell'Istruzione, transitati al Ministero degli Affari Esteri, atteso che la regola della non riassorbibilità, di cui alla L. n. 266/2005, art. unico, comma 226, si applica esclusivamente ai passaggi di carriera previsti dall'art. 202, D.P.R. n. 3/1957, e non al trasferimento da un'Amministrazione all'altra, presupponendo i primi un provvedimento di trasferimento mentre, il secondo è riconducibile alla cessione del contratto, di cui all'art. 1406 c.c. e ss. (Cass. 6 giugno 2019, n. 15371).

In tema di lavoro pubblico contrattualizzato, il diritto alla percezione dell'assegno ad personam, previsto per i dipendenti statali dagli artt. 202, D.P.R. n. 3/1957 e 3, comma 57, L. n. 537/1993, sussiste anche nel caso in cui il passaggio ad altra amministrazione avvenga a seguito di procedura concorsuale, deponendo in tal senso il dato letterale della disposizione, così come la sua ratio, volta ad incentivare la mobilità volontaria nel pubblico impiego attraverso il divieto di attribuzione di un trattamento economico regressivo rispetto a quello goduto al momento del passaggio nella nuova posizione, onde consentire alle diverse Amministrazioni dello Stato di utilizzare le migliori competenze maturate, anche in altri settori, dai suoi dipendenti (Cass. 19 novembre 2019, n. 30071).

In tema di transito del personale militare appartenente alla Guardia di Finanza nei ruoli civili, l'assegno ad personam, attribuito, al momento del passaggio, qualora il nuovo trattamento economico sia inferiore a quello goduto in precedenza, è riassorbibile in occasione dei miglioramenti di inquadramento e di trattamento economico riconosciuti dalle normative applicabili per effetto del trasferimento, dovendosi contemperare, in applicazione del generale principio stabilito dall'art. 45 T.U., il principio di irriducibilità della retribuzione, con quello di parità di trattamento dei dipendenti pubblici.

  

RESPONSABILITA' DISCIPLINARE

Come già visto, nella materia delle sanzioni disciplinari la contrattazione collettiva è consentita “nei limiti previsti dalle norme di legge” (art. 40, comma 1 T.U.).

In realtà, i margini lasciati alla contrattazione collettiva in materia sono stati notevolmente ridotti dal D. Lgs. n. 150/2009, che ha introdotto numerose ipotesi di licenziamento disciplinare (art. 55 quater T.U.) e disciplinato nel dettaglio il procedimento disciplinare (art. 55 bis T.U.), nonché dalla L. 190/2012 che ha imposto la definizione di un codice di comportamento dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni mediante atto di normazione secondaria (art. 54 T.U.), poi adottato con D.P.R. n. 62/2013.

Il potere disciplinare del datore di lavoro, alla luce delle disposizioni vigenti, è soggetto ai seguenti principi (art. 55, comma 2, art. 55 bis, commi 2 e 4, e art. 55 sexies, comma 3 T.U.):

  1. proporzionalità delle sanzioni disciplinari ai sensi dell'art. 2106 c.c.;
  2. predeterminazione di infrazioni e sanzioni;
  3. terzietà del soggetto competente ad irrogare la sanzione;
  4. contraddittorio con il lavoratore incolpato;
  5. obbligatorietà dell'azione disciplinare.

L'art. 55 ter T.U. disciplina, infine, i rapporti tra procedimento disciplinare e procedimento penale, rapporti nei quali risultano controversi i limiti di applicabilità del principio del ne bis in idem.

In tema di illeciti disciplinari nel pubblico impiego privatizzato, l'art. 63, comma 2 bis T.U. – il quale prevede che, nel caso di annullamento della sanzione disciplinare per difetto di proporzionalità, il giudice “può rideterminare la sanzione tenendo conto della gravità del comportamento e dello specifico interesse pubblico violato –, va interpretato nel senso che il giudice ha il potere/dovere di rimodulare la predetta sanzione, anche in difetto di sollecitazione ad opera dell'amministrazione, in quanto l'assoluta discrezionalità nell'esercizio del potere in questione renderebbe la norma priva di ragionevolezza, oltre che contrastante con la dichiarata necessità di valorizzare e tutelare gli interessi pubblici coinvolti dall'illecito (Cass. 18 aprile 2023, n. 10236).

In tema di sanzioni disciplinari nel pubblico impiego, il responsabile della struttura ed il soggetto competente ad irrogare la sanzione, quest'ultimo da individuarsi a cura di ciascuna amministrazione e secondo il proprio ordinamento, devono essere distinti, ex art. 55 bis T.U. al fine di garantire che, in relazione alle sanzioni di maggiore gravità, tutte le fasi del procedimento vengano condotte da un soggetto terzo, in condizioni di serenità ed imparzialità di giudizio e con il sufficiente distacco dalla struttura lavorativa alla quale è addetto il dipendente; la necessità di tale distinzione viene meno solo ove si realizzi la duplice condizione che l'infrazione rilevata sia fra quelle di minore gravità ed il responsabile della struttura rivesta la qualifica di dirigente (Cass. 27 dicembre 2021, n. 41568).

In materia di pubblico impiego privatizzato, la Suprema Corte (Cass. 26 ottobre 2017, n. 25485) ha precisato che, sulla base dei criteri indicati dalla Corte EDU, richiamati nelle pronunce della Corte Costituzionale (Corte cost.16 dicembre 2016, n. 276Corte cost. 24 febbraio 2017, n. 43), deve negarsi la natura penale delle sanzioni disciplinari, in quanto il potere disciplinare non è espressione della pretesa punitiva dell'autorità pubblica, ma del potere direttivo del datore di lavoro, inteso come potere di conformazione della prestazione alle esigenze organizzative dell'impresa o dell'ente che, nei rapporti disciplinati dal T.U., ha natura privatistico contrattuale. Ne consegue che il lavoratore, condannato in sede penale con sentenza passata in giudicato, non può invocare l'art. 4 del protocollo 7 della CEDU (principio del ne bis in idem) per sottrarsi al procedimento disciplinare che il datore di lavoro abbia avviato per i fatti contestati in sede penale. La previsione della sanzione disciplinare non è posta, dunque, a presidio di interessi primari della collettività, tutelabili erga omnes, né assolve alla funzione preventiva propria della pena, sicché l'interesse che attraverso la sanzione disciplinare si persegue, anche qualora i fatti commessi integrino illecito penale, è sempre quello del datore di lavoro al corretto adempimento delle obbligazioni che scaturiscono dal rapporto (Cass. 13 dicembre 2022, n. 36456).

Nel pubblico impiego privatizzato, la riapertura del procedimento disciplinare disposta ai sensi dell'art. 55 ter, comma 3, T.U., non comporta una violazione del principio del ne bis in idem, poiché, qualora non venga sospeso, il procedimento disciplinare resta comunque unitario sin dall'inizio, seppur articolato in due fasi, e termina solo all'esito di quello penale, di talché la sanzione inflitta nella fase iniziale ha natura provvisoria e non esaurisce il potere della P.A. che, dopo il passaggio in giudicato della sentenza penale, in base agli identici fatti storici può infliggere una sanzione diversa e finale, che non si aggiunge alla prima, ma la sostituisce retroattivamente (Cass. 13 dicembre 2022, n. 36456).

Cessazione del rapporto di lavoro

Il lavoro pubblico si differenzia dal lavoro privato anche con riguardo alla cessazione del rapporto, in particolare sotto il profilo delle cause di risoluzione, delle tutele, della cessazione del rapporto dirigenziale.

CAUSE DI RISOLUZIONE

Quanto alle cause di risoluzione del rapporto, va evidenziato che il T.U. non contiene una disciplina generale in materia di estinzione del rapporto di lavoro ma piuttosto singole disposizioni che contemplano alcune specifiche e peculiari ipotesi di cessazione, che si affiancano, da un lato, ad altre fattispecie previste da norme penali o speciali relative al solo rapporto di lavoro pubblico e, dall'altro, ad alcune ipotesi tipiche della disciplina privatistica.

Sono o possono essere cause di risoluzione del solo rapporto di lavoro pubblico le seguenti ipotesi, alcune delle quali qualificabili come risoluzioni automatiche ex lege del rapporto piuttosto che come licenziamenti:

  1. il collocamento in disponibilità di cui all'art. 33 T.U., cui non segua – all'esito del periodo massimo di fruizione della relativa indennità (24 mesi) – la ricollocazione presso la stessa o altra amministrazione (art. 34, comma 4 T.U.), salvo il pensionamento del dipendente che abbia maturato i relativi requisiti;
  2. le numerose fattispecie di licenziamento disciplinare previste dall'art. 55 quater T.U., come integrate dal D. Lgs. n. 75/2017;
  3. l'accertata permanente inidoneità psicofisica al servizio (art. 55 octies T.U.);
  4. ove sussistano esigenze organizzative, la maturazione del requisito di anzianità contributiva per l'accesso alla cd. pensione anticipata di cui all'art. 24, commi 10 e 12, D.L. n. 201/2011, conv. in L. n. 214/2011, salvo il preavviso di mesi 6 (art. 72, comma 11, D.L. 112/2008, conv. in L. 133/2008);
  5. il collocamento a riposo per raggiunti limiti di età (art. 4, D.P.R. n. 1092/1973 e art. 12, L. n. 70/1975);
  6. il difetto ab origine o sopravvenuto dei requisiti richiesti per l'assunzione (art. 12, L. n. 70/1975);
  7. la pena accessoria dell'interdizione dai pubblici uffici (artt. 28 e 29 c.p.);
  8. l'estinzione del rapporto di lavoro alle dipendenze della P.A. in caso di condanna alla reclusione non inferiore a 2 anni per alcuni delitti contro la pubblica amministrazione (art. 32 quinquies c.p.).

Sono inoltre applicabili anche al rapporto di lavoro pubblico:

  1. il licenziamento per superamento del periodo cd. di comporto (art. 2110, comma 2 c.c.);
  2. il licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo soggettivo, stante il rinvio di cui all'art. 54 quater, comma 1 T.U.;
  3. la cessazione del rapporto per morte del lavoratore;
  4. le dimissioni del lavoratore.

Si applicano infine le ipotesi di cessazione previste dai contratti collettivi del pubblico impiego.

Si ritengono invece non applicabili al lavoro pubblico le norme in materia di licenziamento individuale o collettivo per riduzione dei posti di lavoro, stante la disciplina speciale dettata dagli artt. 33 e 34 T.U. in materia di collocamento in disponibilità, essendo stato peraltro espunto dall'art. 33 cit. ogni riferimento alla L. 223/1991.

Nel pubblico impiego contrattualizzato, in caso di eccedenze di personale di cui all'art. 33 T.U. (nel testo anteriore alle modifiche apportategli dal D. Lgs. n. 150/2009), ove la dichiarazione di esubero interessi un numero di lavoratori inferiore a dieci unità trovano applicazione i soli commi 7 e 8 del suddetto articolo, sicché è esclusa la procedura di consultazione sindacale regolata dai commi 3, 4, e 5; in mancanza di una diversa regolamentazione introdotta dalla contrattazione collettiva, anche nella predetta ipotesi operano i criteri di selezione di cui all'art. 5, commi 1 e 2, L. n. 223/1991 e la P.A. è tenuta a dimostrare l'impossibilità di una ricollocazione alternativa del dipendente all'interno della stessa amministrazione (c.d. repechage), anche alla stregua di eventuali previsioni contrattuali in deroga all'art. 2103, comma 2, c.c., nonché l'adempimento dell'obbligo di comunicazione di cui all'art. 34 T.U., ai fini dell'iscrizione del personale in disponibilità negli elenchi finalizzati al recupero delle eccedenze di personale presso altre PP.AA. (Cass. 13 febbraio 2017, n. 3738).

In tema di riduzione delle dotazioni organiche, con conseguente eccedenza o soprannumero di personale ex artt. 33 T.U. e 2, comma 11, del D.L. n. 95/2012, conv. dalla L. n. 135/2012, la risoluzione unilaterale del rapporto di lavoro ex art. 72, comma 11, D.L. n. 112/2008, conv. dalla L. n. 133/2008, sussistendo i previsti requisiti anagrafici e contributivi, non richiede motivazione e, dunque, una valutazione della specifica posizione professionale del dipendente, né – in presenza di un atto presupposto che ha dato luogo alle eccedenze o al soprannumero adottato nel rispetto delle condizioni tipizzate in sede normativa, che vanno estese con motivazione, e dell'iter procedurale ivi previsto - può ravvisarsi la contrarietà del recesso ai principi di imparzialità e di buon andamento di cui all'art. 97 Cost. e ai criteri generali di correttezza e buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c., in quanto, secondo la fattispecie legale, tale misura è prioritaria, e non facoltativa, e si applica proprio in ragione dell'atto presupposto (Cass. 10 luglio 2020, n. 14813).

In tema di sanzioni disciplinari nei confronti di dipendenti pubblici, il principio del divieto di automatismi sanzionatori non è applicabile nell'ipotesi di interdizione perpetua dai pubblici uffici (o di altre analoghe pene accessorie), atteso che in questi casi la perdita dell'impiego consegue come effetto automatico della sanzione penale accessoria, senza necessità di un procedimento disciplinare; di conseguenza, in presenza di una sentenza penale di condanna con pena accessoria interdittiva, l'amministrazione non può fare altro che disporre la cessazione dal servizio, con un provvedimento che non ha carattere né costitutivo né discrezionale, venendo in rilievo un atto vincolato, dichiarativo di uno status conseguente al giudizio penale definitivo nei confronti del dipendente (Cass. 17 febbraio 2010, n. 3698).

In materia di collocamento a riposo d'ufficio nel pubblico impiego, la cessazione del rapporto di lavoro per raggiunti limiti di età, prevista per il lavoro pubblico sulla base di disposizioni di legge non derogabili dalla contrattazione collettiva, avviene in via automatica, non avendo la comunicazione di risoluzione del rapporto natura provvedimentale o negoziale, ma di mera notizia e ricognizione dell'effetto ricollegato dalla legge all'evento; ne consegue che, trattandosi di una causa di risoluzione diversa e distinta dal licenziamento, ad essa non è applicabile la disciplina della decadenza dettata dall'art. 6, L. n. 604/1966, che il legislatore, anche a seguito delle modifiche apportate dalla L. n. 183/2010, ha circoscritto a specifiche ipotesi normative non suscettibili di interpretazione estensiva o analogica (Cass. 5 maggio 2022, n. 14236).

TUTELA IN CASO DI ILLEGITTIMA CESSAZIONE DEL RAPPORTO DI LAVORO

Con l'entrata in vigore della L. n. 92/2012 e successivamente del D. Lgs. n. 23/2015, si è posta la questione dell'applicabilità o meno al lavoro pubblico delle novità da tali disposizioni normative introdotte in merito alle conseguenze del licenziamento invalido.

Il legislatore ha cercato di superare le questioni interpretative attraverso l'art. 21, D. Lgs. n. 75/2017, che ha modificato l'art. 63, comma 2 T.U., dettando in proposito una specifica disciplina: in caso di licenziamento nullo o di annullamento del licenziamento, il giudice condanna l'amministrazione a reintegrare il pubblico dipendente nel posto di lavoro e a versargli un'indennità risarcitoria pari alla retribuzione maturata dal giorno del licenziamento a quello dell'effettiva reintegra, comunque in misura non superiore alle 24 mensilità.

Tale disciplina sanzionatoria è dunque unica ed applicabile a tutte le ipotesi di invalidità del licenziamento, diversamente da quanto avviene nel rapporto di lavoro privato ove il legislatore ha distinto le sanzioni in base alla tipologia di vizio.

Sebbene tale unitaria disciplina sanzioni allo stesso modo vizi di carattere meramente formale e vizi sostanziali del licenziamento, il D. Lgs. n. 75/2017, introducendo nell'art. 55 bis il comma 9 ter, ha limitato l'incidenza dei vizi formali sulla validità del licenziamento alle sole ipotesi in cui essi si risolvano in vizi sostanziali, risultandone compromesso il diritto di difesa del dipendente ovvero violato, nell'esercizio del potere disciplinare, il principio di tempestività.

Pur restando applicabile ai rapporti di pubblico impiego privatizzato la tutela reintegratoria prevista dall'art. 18 L. 300/1970 nel testo antecedente le modifiche apportate dall'art. 1, comma 42, L. n. 92/2012, alle impugnative dei licenziamenti adottati dalle pubbliche amministrazioni intimate successivamente all'entrata in vigore della richiamata L. n. 92 trova applicazione il rito disciplinato dall'art. 1, commi 48 e seguenti di tale legge (Cass. 25 settembre 2018, n. 22683, Cass. 27 agosto 2018, n. 21192).  A tal fine rileva, da un lato, il fatto che l'art. 1, comma 8, L. n. 92/2012 rinvia ad un intervento successivo, dall'altro, l'inconciliabilità della nuova normativa, modulata sulle esigenze del lavoro privato, con le disposizioni di cui al T.U., neppure richiamate al comma 6 del nuovo art. 18. Inoltre, assume importanza in questo senso la natura fissa e non mobile del rinvio di cui all'art. 51, comma 2 T.U., che mostra l'incompatibilità con un automatico recepimento di ogni modifica successiva che incida sulla natura del dipendente licenziato (Cass. 25 ottobre 2017, n. 25376).

La previsione degli effetti retroattivi del licenziamento disciplinare (e del licenziamento per giustificato motivo oggettivo in aziende con i requisiti dimensionali di cui all'art. 18, comma 8, L. n. 300/1970) di cui all'art. 1, comma 41, L. n. 92/2012, non è applicabile al pubblico impiego privatizzato, come desumibile dal tenore letterale dei commi 7 e 8 dell'art. 1, L. n. 92/2012, ove assume peculiare rilievo interpretativo il rinvio ad un successivo intervento normativo, e dalla inconciliabilità della nuova disciplina con lo specifico regime imperativo dettato dagli artt. 54 e segg. T.U., costituendo eccezione a tale principio le sole disposizioni della novella normativa del 2012 in relazione alle quali la questione dell'applicabilità sia stata già risolta in modo espresso dal legislatore (Cass. 6 ottobre 2017, n. 23424).

La sentenza dichiarativa dell'illegittimità del licenziamento recante la condanna dell'amministrazione alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, emessa ai sensi dell'art. 63, comma 2 T.U., come novellato dal D. Lgs. n. 75/2017, è suscettibile di esecuzione coattiva, in quanto la predetta norma qualifica la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro quale "sanzione unica" a fronte del licenziamento illegittimo, la cui mancata attuazione configura inadempienza da parte del datore di lavoro pubblico ed inottemperanza all'ordine del giudice (Cass. 17 dicembre 2022, n. 37040).

Nel lavoro pubblico contrattualizzato, nel regime anteriore alle modifiche apportate all'art. 63 T.U. dal D. Lgs. n. 75/2017, il risarcimento del danno spettante al dipendente illegittimamente licenziato va commisurato alle retribuzioni maturate nel periodo compreso fra la data del licenziamento e quella di estinzione automatica del rapporto, che si verifica al compimento dell'età massima prevista per il collocamento a riposo d'ufficio, salvo che prima di detta data il dipendente abbia rinunciato alla reintegrazione e manifestato la volontà di non riprendere servizio (Cass. 23 luglio 2018, n. 19520).

In tema di eccedenze di personale e di mobilità collettiva tra amministrazioni pubbliche, regolate dall'art. 33 T.U. (nella vigenza della disciplina anteriore alle modifiche introdotte, a decorrere dal 1° gennaio 2012, dalla L. n. 183/2011 e dal D.L. n. 95/2012, conv. dalla L. n. 135/2012), in caso di collocamento in disponibilità in violazione dei criteri di scelta da cui sia conseguita la risoluzione del rapporto alla scadenza del periodo di sospensione, il lavoratore che faccia valere la suddetta violazione ha diritto anche al ripristino della funzionalità del rapporto, poiché la risoluzione dello stesso rientra tra gli effetti pregiudizievoli dell'illegittimo collocamento in disponibilità; in tale caso, trova applicazione l'art. 63, comma 2, del d.lgs. n. 165 del 2001, che attribuisce al giudice del lavoro anche il potere di adottare nei confronti della P.A. qualsiasi tipo di sentenza, ivi compresa la sentenza di condanna ad un facere (Cass. 28 luglio 2017, n. 18835).

 RISOLUZIONE DEL RAPPORTO DI LAVORO DEL DIRIGENTE

            Ai dirigenti pubblici non si applicano le disposizioni in materia di libera recedibilità che caratterizzano il rapporto di lavoro dirigenziale privato.

            Il regime del recesso deve ritenersi invece disciplinato dalle norme del T.U. dettate specificamente per la dirigenza (art. 21 T.U., per il caso di mancato raggiungimento degli obiettivi e di inosservanza delle direttive; art. 55 quinquies, comma 3 T.U., per il medico dipendente di struttura sanitaria pubblica che abbia rilasciato certificazioni mediche false a giustificazione dell'assenza dal servizio di un dipendente pubblico) o che siano applicabili per tutti i dipendenti pubblici (art. 33, art. 55 quater, art. 55 octies T.U.).

Invero, come la Corte costituzionale ha avuto modo di affermare, il rapporto d'ufficio del dirigente con l'amministrazione deve essere “connotato da specifiche garanzie, le quali presuppongono che esso sia regolato in modo tale da assicurare la tendenziale continuità dell'azione amministrativa e una chiara distinzione funzionale tra i compiti di indirizzo politico-amministrativo e quelli di gestione”. Il rispetto di tali principi è necessario al fine di garantire che “il dirigente generale possa espletare la propria attività - nel corso e nei limiti della durata predeterminata dell'incarico - in conformità ai principi di imparzialità e di buon andamento dell'azione amministrativa (art. 97 Cost.)” (Corte cost. 23 marzo 2007, n. 103, Corte cost. 20 maggio 2008, n. 161).

Qualora un pubblico dipendente benefici della c.d. mobilità volontaria ex art. 33 D.Lgs. n. 29 del 1993 (od ai sensi dell'art. 30 T.U.) e si trasferisca presso un ente pubblico economico, egli manterrà i diritti maturati prima della cessione del contratto sulla base del precedente regime giuridico (come, ad esempio, qualifica, funzione, retribuzione ed altri diritti connessi all'anzianità), ma, una volta divenuto dipendente del detto ente pubblico economico, gli si applicheranno, con riferimento alle vicende successive, la disciplina di diritto privato e la relativa pertinente contrattazione collettiva e non, in presenza di una situazione di soprannumero o di eccedenza di personale, l'art. 33 T.U.; per l'effetto, ove, dopo il trasferimento, il lavoratore abbia acquisito la qualifica di dirigente, il suo rapporto sarà disciplinato dalle disposizioni che regolano il lavoro dirigenziale, fra cui quelle che consentono al datore di lavoro la recedibilità ex art. 2118 c.c. (Cass. 1° agosto 2022, n. 23884).

L'art. 21 T.U., dopo aver definito la fattispecie della “responsabilità dirigenziale”, prevede la revoca dell'incarico dirigenziale solo “in relazione alla gravità dei casi”; sicché occorre che sussistano i presupposti di fatto della responsabilità dirigenziale (mancato raggiungimento degli obiettivi, inosservanze di direttive, illeciti disciplinari) e che questi raggiungano una soglia di apprezzabile gravità tale da essere proporzionale alla più radicale misura della revoca dell'incarico. In ogni caso, a garanzia del dirigente, gli incarichi dirigenziali possono essere revocati esclusivamente nei casi e con le modalità dell'art. 21, comma 1, secondo periodo, cit. Quanto poi alle conseguenze della revoca illegittima dell'incarico dirigenziale, la disciplina del recesso dal rapporto di lavoro dei dirigenti pubblici non è quella dell'art. 2118 c.c., propria dei dirigenti privati, ma segue i canoni del rapporto di lavoro dei dipendenti con qualifica impiegatizia. Pertanto, in caso di revoca illegittima dell'incarico dirigenziale ne consegue che l'Amministrazione è tenuta a ripristinare l'incarico dirigenziale illegittimamente revocato ed a corrispondere le differenze retributive (Cass. 1° dicembre 2009, n. 25254).

Riferimenti

Normativa

  • Artt. 51, 81 e 97 Cost.
  • D. Lgs. n. 165/2001
  • D. Lgs. n. 150/2009
  • D.Lgs. n. 75/2017
  • Artt. 2103, 2110, 2126 c.c.

Giurisprudenza

  • Corte cost. 25 giugno 2019, n. 159
  • Cass. s.u. 4 marzo 2020, n. 6076
  • Cass. s.u. 4 aprile 2023 n. 9329
  • Cass. 12 dicembre 2023, n. 34741
  • Cass. 16 gennaio 2024, n. 1665
  • Cass. 18 aprile 2023, n. 10236
  • Cass. 13 dicembre 2022, n. 36456
  • Cass. 5 maggio 2022, n. 14236
  • Cass. 17 dicembre 2022, n. 37040

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