Lavoro pubblico

Giovanni Mimmo
Roberto Bonanni
Roberto Bonanni
15 Settembre 2017

Scheda in fase di aggiornamento

L'evoluzione normativa del rapporto di lavoro dei dipendenti della pubblica amministrazione è stata caratterizzata, dopo una prima fase tendente ad avvicinare sempre di più la disciplina a quella dei rapporti di lavoro privati (c.d. “privatizzazione del pubblico impiego”), da una tendenza ad una maggiore separazione delle due discipline.L'attuale assetto normativo del rapporto di lavoro pubblico è, pertanto, caratterizzato da una sempre maggiore prevalenza della regolamentazione legale rispetto a quella di derivazione contrattuale e da una conseguente peculiarità della disciplina relativa agli istituti più rilevanti rispetto a quella che caratterizza il rapporto di lavoro privato, come reso evidente dalle peculiari disposizioni in materia di costituzione ed estinzione del rapporto, dalla disciplina delle mansioni e dalla regolamentazione del rapporto di lavoro dirigenziale. Il D.Lgs. n. 75/2017, nel modificare numerose disposizioni del D.Lgs. n. 165/2001, ha invertito la tendenza verso una progressiva rilegificazione, riaffermando nella gestione del rapporto di lavoro alle dipendenze di una pubblica amministrazione il ruolo centrale della contrattazione collettiva nazionale rispetto alla legge.La norma è intervenuta a modificare il procedimento disciplinare a carico del pubblico dipendente ed ha dettato una specifica disciplina applicabile la pubblico impiego in caso di licenziamento invalido.

Inquadramento

L'evoluzione normativa del rapporto di lavoro dei dipendenti della pubblica amministrazione è stata caratterizzata, dopo una prima fase tendente ad avvicinare sempre di più la disciplina a quella dei rapporti di lavoro privati (c.d. “privatizzazione del pubblico impiego”), da una tendenza ad una maggiore separazione delle due discipline.

L'attuale assetto normativo del rapporto di lavoro pubblico è, pertanto, caratterizzato da una sempre maggiore prevalenza della regolamentazione legale rispetto a quella di derivazione contrattuale e da una conseguente peculiarità della disciplina relativa agli istituti più rilevanti rispetto a quella che caratterizza il rapporto di lavoro privato, come reso evidente dalle peculiari disposizioni in materia di costituzione ed estinzione del rapporto, dalla disciplina delle mansioni e dalla regolamentazione del rapporto di lavoro dirigenziale.

Individuazione soggettiva

Ai sensi dell'art. 1 del D.Lgs. 30 marzo 2001 n. 165 per individuare l'ambito soggettivo del pubblico impiego va fatto riferimento ai dipendenti di:

  • Amministrazioni statali, anche ad ordinamento autonomo, e scuole di ogni ordine e grado;
  • Regioni, Province, Comuni, Comunità montane e loro consorzi o associazioni;
  • Istituzioni universitarie;
  • Camere di commercio;
  • Enti pubblici non economici nazionali, regionali e locali;
  • Amministrazioni, aziende ed enti del servizio sanitario nazionale;
  • Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni;
  • Agenzie di cui al D.Lgs. 30 luglio 1999, n. 300 (tutte quelle strutture che svolgono attività a carattere tecnico-operativo di interesse nazionale, esercitate da ministeri ed enti pubblici);
  • CONI.

Non sono dipendenti pubblici, e si applicano esclusivamente le norme di diritto privato, i lavoratori delle società per azioni a partecipazione pubblica (per esempio, RAI S.p.A., Poste Italiane S.p.A., Rete Ferroviaria Italiana S.p.A., ecc.). Per le società per azioni eventualmente partecipate da un ente pubblico é lo Stato medesimo che si assoggetta alla legge delle società per azioni per assicurare alla propria gestione maggiore snellezza di forme e nuove possibilità realizzatrici, per cui la scelta della pubblica amministrazione di acquisire partecipazioni in società private implica il suo assoggettamento alle regole proprie della forma giuridica prescelta: conseguentemente, in difetto di norme esplicite che introducano una disciplina difforme è ai principi generali ed alle linee portanti del sistema civile che occorre aver riguardo. Le evidenziate connotazioni pubblicistiche che caratterizzano una società per azioni a partecipazione pubblica non incidono in alcun modo sulla natura del rapporto di lavoro che rimane, in assenza di specifiche deroghe, integralmente assoggettato alla normativa di diritto privato, alla stregua dei dipendenti di qualunque altra società per azioni privata. Il rapporto di lavoro dei loro dipendenti, pertanto, è integralmente disciplinato dalle norme privatistiche, senza che risultino applicabili norme dettate per il pubblico impiego, salve deroghe espressamente previste dal legislatore che trovano la loro giustificazione nel carattere pubblicistico della società.

In evidenza: Cassazione

La Suprema Corte, in materia di riparto di giurisdizione circa una controversia sulle procedure concorsuali per l'assunzione di personale da parte della RAI, proprio sul presupposto che tale assunzione è in funzione dell'insorgenza di un rapporto di lavoro privato alle dipendenze di una società per azioni, ha dichiarato la giurisdizione del giudice ordinario, con esclusione, quindi, delle riserve di giurisdizione del giudice amministrativo, di cui all'art. 63, comma 4, del D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, che presuppone pur sempre la finalità dell'instaurazione di un rapporto di lavoro pubblico, sebbene contrattualizzato, alle dipendenze di una P.A. e, non rilevando l'obbligo di rispettare i principi, anche di derivazione comunitaria, di trasparenza, pubblicità ed imparzialità, i quali non implicano l'esercizio di pubblici poteri (Cass., sez. un., 22 dicembre 2011, n. 28329).

L'art. 3 D.Lgs. 165/2001 elenca alcune categorie di dipendenti pubblici per i quali non trova applicazione la disciplina di cui allo stesso D.Lgs. 165/2001. Si tratta di personale “non contrattualizzato” per il quale non vi è un contratto collettivo di riferimento, ma i rapporti di lavoro trovano esclusivo fondamento nella legge.

  • Magistrati ordinari, amministrativi e contabili;
  • Avvocati e procuratori dello Stato;
  • Personale militare, forze di polizia e corpo nazionale dei vigili del fuoco;
  • Personale della carriera diplomatica e della carriera prefettizia;
  • Dipendenti degli enti che svolgono le loro attività nelle materie contemplate dall'art. 1 del D.Lgs. 17 luglio 1947 n. 691 (funzione creditizia, valutaria e di risparmio) e delle leggi 4 giugno 1985, n. 281 e 10 ottobre 1990, n. 387 (borsa e mercato);
  • Dipendenti della Camera dei deputati, del Senato e della Corte Costituzionale;
  • Personale della carriera dirigenziale penitenziaria;
  • Professori e ricercatori universitari (anche se per costoro trovano specifica applicazione alcune disposizioni del D.Lgs. n. 165 del 2001, quali l'art. 24, comma 6, in tema di incentivazione dell'impegno didattico dei docenti universitari e l'art. 53, comma 7, in tema di incompatibilità).

Ai sensi dell'art. 63, comma 4, del D.Lgs. 165/2001 i rapporti di lavoro delle suddette categorie continuano ad essere devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.

In evidenza: Cassazione

L'art. 69, comma 7, del D.Lgs. n. 165 del 2001 fissa il discrimine temporale per il passaggio dalla giurisdizione amministrativa a quella ordinaria alla data del 30 giugno 1998, con riferimento al “momento storico” dell'avverarsi dei fatti materiali e delle circostanze, in relazione alla cui giuridica rilevanza sia insorta controversia, con la conseguenza che, ove la lesione del diritto del lavoratore sia prodotta da un atto, provvedimentale o negoziale, deve farsi riferimento all'epoca della sua emanazione, assumendo rilievo, qualora l'Amministrazione si sia pronunciata con una pluralità di atti, lo specifico provvedimento che ha inciso sulla posizione del dipendente, la cui eventuale portata retroattiva non influisce sulla determinazione della giurisdizione, ciò significando che occorre far riferimento al momento in cui, in concreto, la pretesa dedotta in giudizio sia divenuta azionabile. La sopravvivenza della giurisdizione del giudice amministrativo, regolata dall'art. 69, comma 7, del D.Lgs. n. 165 del 2001, costituisce, nelle intenzioni del legislatore, ipotesi assolutamente eccezionale, sicché, per evitare il frazionamento della tutela giurisdizionale, quando il lavoratore deduce un inadempimento unitario dell'amministrazione, la protrazione della fattispecie oltre il discrimine temporale del 30 giugno 1998 radica la giurisdizione presso il giudice ordinario anche per il periodo anteriore a tale data, non essendo ammissibile che sul medesimo rapporto abbiano a pronunciarsi due giudici diversi, con possibilità di differenti risposte ad una stessa istanza di giustizia (Cass., SU, 22 marzo 2017, n. 7305). Peraltro, già in precedenza, Cass., SU, 17 maggio 2013, n. 12103 , ritenendo in tal caso la giurisdizione del giudice amministrativo, aveva precisato che una domanda di risarcimento danni di un dipendente nei confronti della P.A., attinente al periodo di rapporto di lavoro antecedente la data del 1° luglio 1998 (a norma dell'art. 69, comma settimo, del d.lgs. n. 165 del 2001) - come anche a quella di un dipendente comunque in regime di diritto pubblico - la giurisdizione era devoluta al giudice amministrativo, se si faceva valere la responsabilità contrattuale dell'ente datore di lavoro, mentre apparteneva al giudice ordinario nel caso in cui si fosse trattato di azione che trovava titolo in un illecito. L'accertamento circa la natura del titolo di responsabilità azionato prescindeva dalle qualificazioni operate dall'attore, anche attraverso il richiamo strumentale a disposizioni di legge, quali l'art. 2087 cod. civ. o l'art. 2043 cod. civ., mentre assumeva valore decisivo la verifica dei tratti propri dell'elemento materiale dell'illecito, e quindi l'accertamento se il fatto denunciato violasse il generale divieto di "neminem laedere. e riguardasse, quindi, condotte la cui idoneità lesiva potesse esplicarsi indifferentemente nei confronti della generalità dei cittadini come nei confronti dei propri dipendenti, ovvero conseguisse alla violazione di obblighi specifici che avessero trovato la ragion d'essere nel rapporto di lavoro. Si veda anche, da ultimo, in senso conforme, Cass., SU, 10 novembre 2020, n. 25207, che ha precisato che la giurisdizione sulla controversia attinente ad un rapporto di lavoro subordinato protrattosi dal 1995 al 2004, spetta al giudice ordinario anche in relazione a questioni relative al periodo antecedente al 1° luglio 1998, non ostando a tale conclusione il disposto dell'art. 69, comma 7, del d. lgs. n. 165 del 2001, il quale, in ossequio alla "ratio" di evitare il frazionamento della tutela giurisdizionale, dev'essere interpretato nel senso di riconoscere la generale giurisdizione del giudice ordinario in ordine ad ogni questione afferente ai rapporti di lavoro che pure siano stati instaurati anteriormente alla data suddetta, laddove unitaria risulti essere la fattispecie dedotta in giudizio, residuando la giurisdizione del giudice amministrativo per le sole questioni che riguardino unicamente il periodo antecedente a tale data.

Evoluzione normativa

L'art. 2, comma secondo, del D.Lgs. 165/2001, ha previsto che i rapporti di lavoro dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche siano disciplinati dalle norme sui rapporti di lavoro subordinato nelle imprese, fatte salve le deroghe specificamente previste.

È la c.d. “privatizzazione del pubblico impiego”, fenomeno che, sul presupposto di una maggiore efficienza, ha inteso assimilare il rapporto di lavoro pubblico a quello privato: tuttavia, come si vedrà di seguito, tale assimilazione è rimasta meramente astratta, in quanto le deroghe introdotte sono talmente numerose e riguardano l'intera struttura del rapporto, dalla sua costituzione alla cessazione, da consentire di affermare che in ogni caso la disciplina del rapporto di lavoro alle dipendenze di una pubblica amministrazione sia del tutto speciale rispetto alla disciplina del rapporto di lavoro privato.

Il motivo della persistenza, al di là del generico precetto normativo di sostanziale equiparazione del rapporto pubblico a quello privato, di una disciplina speciale è facilmente intuibile: mentre il datore di lavoro ha piena libertà, nell'ambito di eccezionali limiti fissati dalla legge e del principio di non discriminazione, di scegliere i lavoratori da assumere le retribuzioni da corrispondere a ciascuno, salvo il limite inderogabile dei minimi contrattuali, e l'assetto organizzativo da dare all'azienda, non così il datore di lavoro pubblico le cui scelte non possono essere rimesse alla discrezionalità del soggetto che rappresenta l'ente.

Soprattutto a seguito delle modifiche apportate dal D.Lgs. 27 ottobre 2009 n. 150 si è assistito ad una fase di rilegificazione, cioè materie devolute originariamente alla contrattazione collettiva sono state nuovamente disciplinate dalla legge, con conseguente riduzione degli spazi di operatività della contrattazione collettiva medesima: ne è un chiaro esempio, come si vedrà, l'esercizio del potere disciplinare che trova adesso una regolamentazione, sia in riferimento alle procedure sia in riferimento al codice disciplinare, quasi integrale nella legge e non più nel contratto collettivo.

Negli stessi rapporti tra la legge e la contrattazione collettiva l'evoluzione legislativa è stata in questo senso. L'art. 2, secondo comma, D.Lgs. 165/2001 dopo avere previsto che “eventuali disposizioni di legge, regolamento o statuto, che introducano discipline del rapporto di lavoro la cui applicabilità sia limitata ai dipendenti delle amministrazioni pubbliche, o a categorie di essi, possono essere derogate da successivi contratti o accordi collettivi e, per la parte derogata, non sono ulteriormente applicabili” nella formulazione originaria precisava “salvo che la legge disponga espressamente in senso contrario”; il D.Lgs. 150/2009 ha modificato l'ultimo inciso nel senso che la deroga alle disposizioni normative da parte della contrattazione collettiva può avvenire “solo qualora ciò sia espressamente previsto dalla legge”.

Il D.Lgs. n. 150/2009 ha drasticamente ridotto il campo di azione della contrattazione collettiva, in quanto in presenza di disposizioni di legge che disciplinino un determinato settore la sua operatività è subordinata ai limiti previsti dalla legge stessa.

Il D.Lgs n. 75/2017, andando in questa parte in senso opposto rispetto al precedente D. Lgs. n. 150/2009, ha restituito alla contrattazione collettiva un ruolo centrale, sopprimendo dall'art. 2, secondo comma, del D.Lgs. n. 165/2001 le parole “solo qualora ciò sia espressamente previsto dalla legge”. Così per effetto dell'ultima modifica legislativa la contrattazione collettiva può modificare disposizioni di legge precedenti che non siano dichiarate inderogabili, ripristinando sostanzialmente il medesimo regime in vigore anteriormente alla novella del 2009. La facoltà di deroga di disposizioni legislative o regolamentari è attribuita alla sola contrattazione collettiva di livello nazionale.

A seguito del D.Lgs. n. 75/2017, l'attribuzione alla contrattazione collettiva nazionale di un ruolo centrale nella disciplina del rapporto di pubblico impiego si concretizza nella previsione, prima assente, di forme di partecipazione sindacale in materia di organizzazione degli uffici (art. 5, secondo comma, D.Lgs. n. 165/2001 come modificato dall'art. 2 del D.Lgs. n. 75/2017) e in un ampliamento della sfera di intervento della contrattazione collettiva (art. 40 D.Lgs. n. 165/2001 come modificato dall'art. 11 D.Lgs. n. 75/2017) non più limitata ai diritti e agli obblighi “direttamente pertinenti al rapporto di lavoro”, ma riguardante l'intera disciplina del rapporto di lavoro e delle relazioni sindacali. Inoltre, il nuovo comma quarto ter dell'art. 40 D.lgs n. 165/2001 attribuisce alla contrattazione collettiva nazionale il compito di provvedere al riordino, alla razionalizzazione e alla semplificazione delle discipline in materia di dotazione e utilizzo dei fondi destinati alla contrattazione integrativa.

Dall'atto amministrativo all'atto di diritto comune

Se la “privatizzazione” del pubblico impiego non ha portato ad una assimilazione all'impiego di privato in termini di disciplina, ha avuto una notevole ripercussione sulla concreta regolamentazione del rapporto di lavoro.

La pubblica amministrazione datrice di lavoro agisce, infatti, nei rapporti con i propri dipendenti con i poteri e le capacità del privato datore di lavoro. L'art. 5, secondo comma, D.Lgs. 165/2001 dispone espressamente che “le determinazioni per l'organizzazione degli uffici e le misure inerenti alla gestione dei rapporti di lavoro sono assunte in via esclusiva dagli organi preposti alla gestione con la capacità e i poteri del privato datore di lavoro” precisando che sono “fatte salve la sola informazione ai sindacati ovvero le ulteriori forme di partecipazione” (inciso inserito dall'art. 2 D.Lgs. n. 75/2017).

Si suole allora distinguere tra atti di organizzazione, che rimangono disciplinati integralmente dal diritto amministrativo e sono quelli relativi alle linee fondamentali dell'organizzazione degli uffici (art. 2, comma 1, D.Lgs. 165/2001: individuazione degli uffici di maggiore rilevanza e dei modi di conferimento della titolarità dei medesimi; determinazione delle dotazioni organiche complessive), dagli atti di macro-organizzazione (determinazioni operative e gestionali) che sulla base dell'art. 5, comma secondo, citato vengono adottati con le capacità e i poteri del privato datore di lavoro e gli atti di micro-organizzazione, cioè relativi alla concreta gestione del rapporto di lavoro, assoggettati al diritto privato.

In evidenza: Cassazione

In tema di servizio sanitario nazionale, l'individuazione con atto del direttore generale delle strutture operative semplici dell'azienda sanitaria locale, afferenti ad una struttura complessa (nella specie quella di oculistica), con riduzione di esse da tre a due e conseguente nomina di soli due dirigenti, è, a norma dell'art. 3, comma 1 bis, del D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 502, come modificato dal D.Lgs. 19 giugno 1999, n. 229, che espressamente lo prevede, atto di macro-organizzazione, disciplinato dal diritto privato, in coerenza con il suo carattere imprenditoriale, strumentale al raggiungimento del fine pubblico dell'azienda, sicché la giurisdizione a conoscere di tali atti spetta al giudice ordinario (Cass., sez. un., 4 luglio 2014, n. 15304; nello stesso senso Cass., SU, 7 dicembre 2016, n. 25048; la giurisprudenza di legittimità ha, inoltre, precisato (v.Cass. SS.UU. ordinanza del 21 settembre 2020, n. 19668, che la determinazione con cui il direttore di un'Azienda Sanitaria Locale, per affidare l'incarico di dirigente di struttura complessa, ai sensi dell'art. 15 ter del d.lgs. n. 502 del 1992, indìce un nuovo avviso pubblico invece di procedere allo scorrimento nell'ambito della terna selezionata in esito a precedente procedura, si compendia in un atto adottato in base alla capacità ed ai poteri propri del datore di lavoro privato, trattandosi di scelta essenzialmente fiduciaria di un professionista ad opera del direttore generale della ASL in base ad un elenco di soggetti ritenuti idonei, con conseguente giurisdizione del giudice ordinario, anche in virtù del principio di concentrazione delle tutele, non potendo frazionarsi la giurisdizione con riferimento alle singole fasi del procedimento).

Rientra nella giurisdizione del giudice ordinario - cui sono devolute le controversie relative a rapporti di lavoro alle dipendenze di una delle pubbliche amministrazioni di cui all'art. 1, comma secondo, D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165 - l'impugnazione proposta da alcuni medici nei confronti della determinazione della Direzione generale di una A.S.L., con la quale viene disposta la disattivazione di un punto di primo soccorso, con conseguente loro assegnazione ad altra struttura di pronto soccorso, in quanto il "petitum" sostanziale ha ad oggetto non la legittimità della disattivazione del nosocomio, ma la conseguenza del provvedimento paventata dai ricorrenti, consistente nel trasferimento ad altra sede (Cass., sez. un., 23 settembre 2013, n. 21677).

In relazione agli atti di micro organizzazione, cioè agli atti di diretta gestione del rapporto di lavoro, il giudice ordinario, avendo una giurisdizione esclusiva in materia di pubblico impiego, può adottare ogni tipologia di provvedimento nei confronti della pubblica amministrazione: l'art. 63, comma seconda, del D.Lgs. 165/2001 ha previsto espressamente che “Il giudice adotta, nei confronti delle pubbliche amministrazioni, tutti i provvedimenti, di accertamento, costitutivi o di condanna, richiesti dalla natura dei diritti tutelati. Le sentenze con le quali riconosce il diritto all'assunzione, ovvero accerta che l'assunzione è avvenuta in violazione di norme sostanziali o procedurali, hanno anche effetto rispettivamente costitutivo o estintivo del rapporto di lavoro”.

Qualora l'atto amministrativo di macro-organizzazione costituisca il presupposto per l'adozione di un atto di concreta gestione del rapporto di lavoro (per esempio, chiusura di un ufficio che determina il trasferimento del lavoratore) il giudice ordinario può valutare la legittimità dell'atto e qualora lo ritenga illegittimo lo disapplica (art. 63, primo comma, D.Lgs. 165/2001).

In[RB1] evidenza: Cassazione

Cass.Sez. lav. ordinanza del 17/12/2019, n. 33401, secondo cui in tema di pubblico impiego contrattualizzato, l'accertamento dello svolgimento di mansioni superiori deve essere operato avuto riguardo all'atto di macro-organizzazione, di portata generale (nella specie, classificazione ministeriale degli uffici giudiziari), con il quale l'amministrazione ha adattato alla propria struttura i profili professionali previsti dalla contrattazione collettiva, individuando i posti della pianta organica, dovendo escludersi che a tale compito possa provvedere il giudice, cui è devoluto il sindacato dei soli atti di organizzazione esecutiva, assunti con la capacità ed i poteri del datore di lavoro privato”).

[RB1]Inserire riquadro

Le fonti del rapporto di lavoro pubblico e la retribuzione: il principio di parità di trattamento

Le fonti del rapporto di lavoro pubblico e la retribuzione: il principio di parità di trattamento

Il contratto collettivo di diritto comune costituisce lo strumento principale di regolamentazione del rapporto di lavoro: l'art. 40 D.Lgs. n. 165/2001 dispone che “La contrattazione collettiva disciplina il rapporto di lavoro e le relazioni sindacali e si svolge con le modalità previste dal presente decreto”.

La norma esclude dalla contrattazione collettiva le materie attinenti all'organizzazione degli uffici, quelle oggetto di partecipazione sindacale ai sensi dell'articolo 9, quelle afferenti alle prerogative dirigenziali ai sensi degli articoli 5, comma 2, 16 e 17, la materia del conferimento e della revoca degli incarichi dirigenziali, nonché quelle che l'articolo 2, comma 1, lettera c), della legge 23 ottobre 1992, n. 421 riserva alla legge (le responsabilità giuridiche attinenti ai singoli operatori nell'espletamento di procedure amministrative; gli organi, gli uffici, i modi di conferimento della titolarità dei medesimi; i principi fondamentali di organizzazione degli uffici; i procedimenti di selezione per l'accesso al lavoro e di avviamento al lavoro; i ruoli e le dotazioni organiche nonché la loro consistenza complessiva; la disciplina della responsabilità e delle incompatibilità tra l'impiego pubblico ed altre attività e i casi di divieto di cumulo di impieghi e incarichi pubblici).

Nelle materie relative alle sanzioni disciplinari, alla valutazione delle prestazioni ai fini della corresponsione del trattamento accessorio, della mobilità e delle progressioni economiche, la contrattazione collettiva è consentita negli esclusivi limiti previsti dalle norme di legge. Soprattutto nella materia delle sanzioni disciplinari il D.Lgs. 150/2009 ha introdotto numerose ipotesi in cui può essere applicata la sanzione del licenziamento ed è intervenuto a disciplinare nel dettaglio il procedimento disciplinare, lasciando così margini estremamente ridotti alla contrattazione collettiva, anche alla luce della sostanziale “normazione” del c.d. codice di comportamento (d.p.r. 16 aprile 2013, n. 62).

Allora, l'affermazione secondo la quale il rapporto di lavoro pubblico sia disciplinato dalla contrattazione collettiva se formalmente veritiera non corrisponde alla sostanza del rapporto, quasi integralmente disciplinato da normativa primaria o secondaria.

Un aspetto tipicamente rimesso all'esclusivo intervento della contrattazione collettiva è quello relativo all'individuazione del trattamento economico. Infatti, l'art. 45, primo comma, D.Lgs. 165/2001 stabilisce che il trattamento economico fondamentale e accessorio è definito dai contratti collettivi.

Tuttavia, anche questo aspetto non deve essere sopravvalutato in quanto la contrattazione collettiva, seppure formalmente sovrana in materia di individuazione del trattamento economico, deve rispettare i vincoli di bilancio risultanti dalla programmazione annuale e pluriennale di ciascuna amministrazione (art. 40, comma 3 bis, D.Lgs. 165/2001), è soggetto al controllo della Corte dei Conti, del dipartimento della funzione pubblica e del Ministero dell'economia e delle finanze (art. 40, comma 3 quinquies) e deve rispettare l'articolata procedura di cui all'art. 47 norma citata.

Peraltro, se nel rapporto privato il datore di lavoro, nel rispetto dei minimi tabellari e del principio di non discriminazione, è libero di individuare per i propri dipendenti la retribuzione che ritiene più opportuna, nell'ambito del pubblico impiego il rapporto di lavoro si costituisce attraverso un contratto di lavoro individuale di lavoro, il quale da un lato non può prevedere trattamenti retributivi inferiori a quelli previsti dai contratti collettivi, dall'altro deve conformarsi ai principi contenuti nell'art. 45, secondo comma, D.Lgs. 165/2001.

Quest'ultima norma impone al datore di lavoro pubblico il rispetto del principio di parità di trattamento economico dei pubblici dipendenti, norma che sembrerebbe precludere la possibilità di individuare trattamenti di favore individuali.

Il principio di parità di trattamento non deve essere inteso nel senso che tutti i dipendenti debbano percepire una uguale retribuzione, quanto piuttosto che eventuali differenze di retribuzione devono trovare una loro giustificazione oggettiva, cioè non fondata sulla posizione soggettiva del singolo dipendente.

In evidenza: Cassazione

In tema di passaggio diretto di dipendenti da un ministero ad un altro, ai sensi dell'art. 30 del D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, ove il lavoratore venga a godere di un trattamento retributivo più favorevole di quello spettante alla generalità degli altri, il divario deve essere progressivamente assorbito, contemperandosi così l'esigenza d'irriducibilità del miglior trattamento con il principio di parità di tutti i dipendenti del medesimo soggetto, di cui all'art. 45 D.Lgs. n. 165 del 2001. Ne consegue che l'assorbimento del migliore trattamento in concomitanza con i futuri aumenti retributivi opera anche con riferimento all'assegno "ad personam", atteso che la regola della non riassorbibilità, di cui all'art. 1, comma 256, della legge 23 dicembre 2005, n. 266, si applica esclusivamente ai passaggi di carriera previsti dall'art. 202 del d.p.r. 10 gennaio 1957, n. 3 e non al trasferimento da un'amministrazione all'altra, presupponendo i primi un provvedimento di trasferimento mentre, il secondo è riconducibile alla cessione del contratto, di cui agli artt. 1406 ss. cod. civ. (Cass., sez. lav., 24 novembre 2014 n. 24949; nello stesso senso Cass., sez. lav., 5 gennaio 2017, n. 169); v., altresì, Cass sez. lav., ordinanzadel 25 luglio 2017 n.18299, secondo cui, in caso di passaggio diretto di dipendenti da un ministero ad un altro ex art. 30 del d.lgs. n. 165 del 2001, riconducibile alla cessione del contratto di cui agli artt. 1406 e ss. c.c., vige la regola generale dell'applicazione del trattamento giuridico ed economico, compreso quello accessorio, previsto nei contratti collettivi nel comparto dell'Amministrazione cessionaria, non giustificandosi diversità di trattamento, salvi gli assegni "ad personam" attribuiti al fine di rispettare il divieto di "reformatio in peius" del trattamento economico acquisito, tra dipendenti dello stesso ente, a seconda della provenienza; ne consegue che i menzionati assegni sono destinati ad essere riassorbiti negli incrementi del trattamento economico complessivo spettante ai dipendenti dell'Amministrazione cessionaria; v., anche, Cass. sez. lav., 19 novembre 2019n. 30071 che ha precisato che il diritto alla percezione dell'assegno "ad personam", previsto per i dipendenti statali dagli artt. 202 del d.P.R. n. 3 del 1957 e 3, comma 57, della l. n. 537 del 1993, sussiste anche nel caso in cui il passaggio ad altra amministrazione avvenga a seguito di procedura concorsuale, deponendo in tal senso il dato letterale della disposizione, così come la sua "ratio", volta ad incentivare la mobilità volontaria nel pubblico impiego attraverso il divieto di attribuzione di un trattamento economico regressivo rispetto a quello goduto al momento del passaggio nella nuova posizione, onde consentire alle diverse Amministrazioni dello Stato di utilizzare le migliore competenze maturate, anche in altri settori, dai suoi dipendenti” e, la successiva, Cass. sez. lav. ordinanza 28 maggio 2020n. 10210 secondo cui, In tema di procedure volontarie di mobilità nel pubblico impiego privatizzato, in difetto di disposizioni speciali - di legge, di regolamento o di atti amministrativi - che espressamente e specificamente definiscano un determinato trattamento retributivo come non riassorbibile o, comunque, ne prevedano la continuità indipendentemente dalle dinamiche retributive del nuovo comparto, si applica il principio generale della riassorbibilità degli assegni "ad personam" attribuiti al fine di rispettare il divieto di "reformatio in peius" del trattamento economico acquisito, argomentando dall'art. 34 del d.lgs. n.29 del 1993, come sostituito dall'art. 19 del d.lgs. n. 80 del 1998 (ora art. 31 del d.lgs. n. 165 del 2001), secondo le regole dettate dall'art. 2112 c.c., rese applicabili a fattispecie diversa dal trasferimento di azienda, restando irrilevante che i contratti collettivi, sia dell'ente di provenienza, sia di quello di destinazione prevedano entrambi l'inserimento nella struttura stipendiale della retribuzione individuale di anzianità (cd. RIA), dato che la continuità giuridica del rapporto implica la conservazione dell'anzianità di servizio sin dall'assunzione presso l'amministrazione di provenienza, ma con il rilievo che essa assume nella nuova organizzazione.

In materia di pubblico impiego privatizzato, il principio espresso dall'art. 45 del D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, secondo il quale le amministrazioni pubbliche garantiscono ai propri dipendenti parità di trattamento contrattuale, opera nell'ambito del sistema di inquadramento previsto dalla contrattazione collettiva e vieta trattamenti migliorativi o peggiorativi a titolo individuale, ma non costituisce parametro per giudicare le differenziazioni operate in quella sede, in quanto la disparità trova titolo non in scelte datoriali unilaterali lesive, come tali, della dignità del lavoratore, ma in pattuizioni dell'autonomia negoziale delle parti collettive, le quali operano su un piano tendenzialmente paritario e sufficientemente istituzionalizzato, di regola sufficiente, salva l'applicazione di divieti legali, a tutelare il lavoratore in relazione alle specificità delle situazioni concrete (Cassazione, sez. lav., 20 gennaio 2014 n. 1037); v., altresì, Cass. sez. lav, 25 gennaio 2016, n. 1241, secondo cui, sempre in tema di pubblico impiego privatizzato, la materia degli inquadramenti del personale è stata affidata dalla legge allo speciale sistema di contrattazione collettiva che nel settore pubblico può intervenire senza incontrare il limite della inderogabilità delle norme in materia di mansioni concernenti il lavoro subordinato privato, sicché le scelte della contrattazione collettiva sull'inquadramento del personale, e di corrispondenza tra le vecchie qualifiche e le nuove aree, sono sottratte al sindacato giurisdizionale, dovendosi escludere che il principio di non discriminazione di cui all'art. 45 del d.lgs. n. 165 del 2001 costituisca parametro di giudizio sulle eventuali differenziazioni operate in tale sede e Cass. sez. lav.ordinanza 31 luglio 2017, n. 19043, che ha confermato che il principio di pari trattamento di cui all'art. 45 del d.lgs. n. 165 del 2001 vieta trattamenti individuali migliorativi o peggiorativi rispetto a quelli previsti dalla contrattazione collettiva, ma non costituisce parametro per giudicare le differenziazioni operate in quella sede, dato che il legislatore ha lasciato piena autonomia alle parti sociali di prevedere trattamenti differenziati in determinate situazioni, afferenti alla peculiarità del rapporto, ai diversi percorsi formativi, alle specifiche esperienze maturate e alle carriere professionali dei lavoratori e Cass. sez. lav., ordinanza 06 marzo 2019, n. 6553, secondo cui il principio di pari trattamento di cui all'art. 45 del d.lgs. n. 165 del 2001 vieta trattamenti individuali migliorativi o peggiorativi rispetto a quelli previsti dalla contrattazione collettiva, ma non costituisce parametro per giudicare le differenziazioni operate in quella sede, dato che il legislatore ha lasciato piena autonomia alle parti sociali di prevedere trattamenti differenziati in funzione dei diversi percorsi formativi, delle specifiche esperienze maturate e delle diverse carriere professionali.

Costituzione del rapporto di pubblico impiego

Uno dei momenti in cui la disciplina del rapporto di lavoro pubblico si differenzia maggiormente rispetto alla disciplina privatistica è quello della costituzione del rapporto di lavoro. Il motivo è facilmente intuibile: l'imprenditore privato, infatti, ha, salve le assunzioni obbligatorie a tutela degli invalidi, piena libertà di scegliersi i propri collaboratori secondo i criteri che ritiene più opportuni. Non così il datore di lavoro pubblico, il quale non ha nessuna discrezionalità nel selezionare i lavoratori da assumere, ma lo può fare solo nei modi fissati dalla legge.

L'art. 97, quarto comma, Cost. stabilisce il principio secondo il quale agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso. Questo principio è attuato dall'art. 35 D.Lgs. 165/2001 secondo il quale l'assunzione presso una pubblica amministrazione può avvenire solo tramite procedure selettive finalizzate ad accertare la professionalità richiesta. Tali procedure devono garantire una adeguata pubblica della selezione, l'imparzialità, economicità e celerità, devono attuare una selezione dei candidati attraverso meccanismi oggettivi e trasparenti.

Un importante corollario del principio secondo cui all'impiego pubblico si accede solo tramite concorso è quello dell'inammissibilità della costituzione di fatto di un rapporto di lavoro pubblico.

Il principio è codificato nell'art. 36, quinto comma, D.Lgs. 165/2001 secondo il quale “In ogni caso, la violazione di disposizioni imperative riguardanti l'assunzione o l'impiego di lavoratori, da parte delle pubbliche amministrazioni, non può comportare la costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato con le medesime pubbliche amministrazioni, ferma restando ogni responsabilità e sanzione”.

Alla luce di tale principio l'eventuale insorgenza con un lavoratore di un rapporto subordinato di fatto, cioè senza una regolare procedura di assunzione, se determina il diritto del prestatore a percepire la retribuzione corrispondente ai sensi dell'art. 2126 c.c., non può mai portare alla definitiva costituzione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato; allo stesso modo eventuali vizi di rapporti di lavoro flessibili (contratto a termine, somministrazione o appalto irregolari, ecc.) non possono determinare la conversione del rapporto in contratto a tempo indeterminato.

In evidenza: Cassazione

In materia di pubblico impiego privatizzato, la violazione di disposizioni imperative riguardanti l'assunzione o l'impiego di lavoratori, da parte della P.A., non determina la costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato, ma fonda il diritto del lavoratore al risarcimento del danno, ai sensi dell'art. 36, comma 5, del D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, interpretato - con riferimento a fattispecie diverse da quelle del precariato scolastico - nel senso di "danno comunitario", il cui risarcimento, in conformità ai canoni di adeguatezza, effettività, proporzionalità e dissuasività rispetto al ricorso abusivo alla stipulazione di contratti a termine, è configurabile quale sanzione "ex lege" a carico del datore di lavoro (Cassazione, sez. lav., 30 dicembre 2014, n. 27481).

In materia di pubblico impiego privatizzato, nell'ipotesi di abusiva reiterazione di contratti a termine, la misura risarcitoria prevista dall'art. 36, comma 5, del D.Lgs. n. 165 del 2001, va interpretata in conformità al canone di effettività della tutela affermato dalla CGUE (Ordinanza 12 dicembre 2013, in C-50/13), sicché, mentre va escluso - siccome incongruo - il ricorso ai criteri previsti per il licenziamento illegittimo, può farsi riferimento alla fattispecie omogenea di cui all'art. 32, comma 5, della L. n. 183 del 2010, quale danno presunto, con valenza sanzionatoria e qualificabile come "danno comunitario", determinato tra un minimo ed un massimo, salva la prova del maggior pregiudizio sofferto, senza che ne derivi una posizione di favore del lavoratore privato rispetto al dipendente pubblico, atteso che, per il primo, l'indennità forfetizzata limita il danno risarcibile, per il secondo, invece, agevola l'onere probatorio del danno subito (Cass., SU, 15 marzo 2016, n. 5072; nello stesso senso Cass. civ., sez. VI, 6 aprile 2017, n. 8885)

L'inammissibilità della trasformazione di un rapporto di lavoro flessibile in un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato è destinata ad incidere notevolmente sulla disciplina dei lavori flessibili nella pubblica amministrazione; generalmente, infatti, il datore di lavoro consente alla pubblica amministrazione il ricorso a rapporti di lavoro flessibili, però è evidente che l'assenza di un regime sanzionatorio in caso di eventuali irregolarità, rende il rispetto della disciplina assai meno stringente di quanto avviene nell'impiego privato.

Al fine di contrastare il fenomeno del precariato all'interno della Pubblica Amministrazione il D.Lgs. n. 75/2017 ha limitato fortemente il ricorso a contratti di collaborazione, introducendo all'art. 7 del D.Lgs. n. 165/2001 il comma 5 bis che dispone che “È fatto divieto alle amministrazioni pubbliche di stipulare contratti di collaborazione che si concretano in prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative e le cui modalità di esecuzione siano organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro. I contratti posti in essere in violazione del presente comma sono nulli e determinano responsabilità erariale. I dirigenti che operano in violazione delle disposizioni del presente comma sono, altresì, responsabili ai sensi dell'art. 21 e ad essi non può essere erogata la retribuzione di risultato” affermando, inoltre che “Resta fermo che la disposizione di cui all'art. 2, comma 1, del D.Lgs. 15 giugno 2015, n. 81 (che prevede che per tali tipologie contrattuali trovi applicazione la disciplina del rapporto di lavoro subordinato), non si applica alle pubbliche amministrazioni”.

Le Pubbliche Amministrazioni possono così conferire incarichi individuali con contratti di lavoro autonomo solo nei limiti previsti dall'art. 7, comma sesto, D.Lgs. n. 165/2001 per prestazioni temporanee e altamente qualificate.

Il D.Lgs. n. 75/2017, modificando l'art. 36, secondo comma, del D.Lgs. n. 165/2001 consente la stipula di contratti a tempo determinato, contratti di somministrazione e di contratti di formazione e lavoro “soltanto per comprovate esigenze di carattere esclusivamente temporaneo e nel rispetto delle condizioni e delle modalità di reclutamento stabilite dall'art. 35”.

Cessazione del rapporto di pubblico impiego

Il D.Lgs. 165/2001 non contiene una disciplina generale in materia di estinzione del rapporto di lavoro subordinato, ma solo specifiche disposizioni (per esempio, art. 21, primo comma, che disciplina il recesso dal rapporto di lavoro dirigenziale per responsabilità del dirigente e art. 33 che prevede la risoluzione del rapporto al termine del periodo di collocamento in disponibilità). Dovrebbe, allora, trovare applicazione la ordinaria disciplina privatistica: tuttavia, anche in questo campo le differenze tra la disciplina del rapporto di lavoro pubblico e quello privato non sono secondarie.

Le differenze principali si rinvengono nelle fattispecie riconducibili a motivi oggettivi:

  1. l'art. 33 D.Lgs. 165/2001, infatti, dispone che, quando una pubblica amministrazione rilevi eccedenze di personale, verifica la ricollocazione totale o parziale del personale in situazione di soprannumero o di eccedenza nell'ambito della stessa amministrazione, anche mediante il ricorso a forme flessibili di occupazione, ovvero presso altre amministrazioni, previo accordo con le stesse; trascorsi novanta giorni dalla comunicazione iniziale, l'Amministrazione colloca in disponibilità il personale che non sia possibile impiegare diversamente nell'ambito della medesima amministrazione e che non possa essere ricollocato presso altre amministrazioni nell'ambito regionale, ovvero che non abbia preso servizio presso la diversa amministrazione secondo gli accordi di mobilità. Il collocamento in disponibilità produce la conseguenza della sospensione di tutte le obbligazioni inerenti al rapporto di lavoro ed il lavoratore ha diritto ad un'indennità pari all'80% dello stipendio e dell'indennità integrativa speciale (con esclusione di qualsiasi altro emolumento retributivo comunque denominato) per la durata massima di 24 mesi.
    Decorso tale periodo senza che il lavoratore sia stato ricollocato, « ;il rapporto si intende definitivamente risolto a tale data ;» (art. 34, comma 4). Si tratta di una risoluzione automatica ex lege del rapporto e non già di un licenziamento, non essendo necessario che l'Amministrazione compia alcun atto di recesso; neppure è dovuto il preavviso. Nella vicenda appena descritta è pertanto ravvisabile un atto unilaterale datoriale diretto a risolvere il rapporto solamente con riferimento ai lavoratori eccedentari che abbiano maturato il requisito di anzianità contributiva per l'accesso alla pensione.
    Per il resto, non integrano gli estremi di un licenziamento né il collocamento in disponibilità (atto unilaterale che però non determina l'estinzione del rapporto, bensì la sua sospensione), né la risoluzione del rapporto al termine del periodo di disponibilità (effetto prodotto non da un'iniziativa della Pubblica Amministrazione, bensì direttamente dalla previsione legislativa). L'esclusione della natura di licenziamento di simili atti comporta altresì, in caso di invalidità dei provvedimenti datoriali, l'inapplicabilità delle misure contemplate dall'art. 18 l. 300/1970, tutto dovendosi risolvere sulla base dei comuni principi in tema di responsabilità contrattuale.
    La previsione di una disciplina speciale in materia di esuberi di personale porta ad escludere che nel settore pubblico si applichino le disposizioni in materia di licenziamento individuale o collettivo per riduzione dei posti di lavoro;
  2. altra fattispecie di carattere speciale, sempre riconducibile a motivi oggettivi di carattere organizzativo, è quella prevista dall'art. 72, comma 11, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 convertito con modif. nella L. 6 agosto 2008, n. 133, che consente il licenziamento con preavviso di sei mesi di quanti abbiano maturato il requisito di anzianità contributiva per il conseguimento della c.d. pensione anticipata così come rideterminato dell'art. 24, commi 10 e 12, del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201;
  3. l'art. 55 octies del D.Lgs. n. 165 del 2001 prevede che l'amministrazione possa risolvere il rapporto di lavoro “nel caso di accertata permanente inidoneità psicofisica al servizio dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche”;
  4. l'art. 29 c.p. prevede quale pena accessoria l'interdizione dai pubblici uffici che una volta applicata impedisce lo svolgimento dell'attività lavorativa e determina la risoluzione del rapporto di lavoro;
  5. gli artt. 19 e 32 quinquies c.p. prevedono quale ipotesi di pena accessoria per taluni delitti l'estinzione automatica del rapporto di lavoro alle dipendenze della pubblica amministrazione.

La normativa speciale assorbe quasi integralmente le ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo: residua solo l'ipotesi del superamento per periodo di comporto per malattia ai sensi dell'art. 2110, secondo comma, c.c.

Per quanto riguarda il licenziamento disciplinare del pubblico dipendente si applicano le medesime ipotesi di giusta causa e giustificato motivo soggettivo previste per il rapporto di lavoro privato. Tuttavia, la riforma del 2009, pur facendo espressamente salva la disciplina in tema di giusta causa e giustificato motivo soggettivo prevista dalla contrazione collettiva, definisce alcune tipologie di infrazioni che per la loro gravità comportano il licenziamento disciplinare: si tratta di ipotesi legali di giusta causa o giustificato motivo soggettivo, a fronte delle quali non sussiste alcuna discrezionalità nell'applicazione della sanzione del licenziamento. Inoltre, gli artt. 1, comma 61, della legge 662/1996 e 53, comma 1, D.Lgs. 165/2001 prevedono come ipotesi di giusta causa di licenziamento lo svolgimento di attività lavorativa al di fuori delle ipotesi consentite.

Altre ipotesi speciali di estinzione del rapporto di lavoro sono previste dai contratti collettivi del pubblico impiego: la risoluzione immediata del contratto per mancata presentazione entro 30 giorni dall'assunzione della documentazione prevista da disposizioni di legge o dal bando di concorso, ovvero per mancata presentazione in servizio nel termine assegnato; la risoluzione del contratto senza obbligo di preavviso per annullamento della procedura di reclutamento; la cessazione del rapporto per compimento del limite di età previsto dalla normativa pensionistica.

A tali ipotesi si aggiungono le cause di estinzione del rapporto analoghe al settore privato, quali la morte del lavoratore e le dimissioni del lavoratore.

Tutela applicabile in caso di illegittima cessazione dal rapporto di lavoro

L'art. 21 del D.Lgs. n. 75/2017, introducendo un periodo al secondo comma dell'art. 63 del D.Lgs. n. 165 del 2001, ha finalmente dettato una disciplina in materia di conseguenze per l'ipotesi di licenziamento invalido, consentendo così di superare la questione relativa alla applicabilità alla Pubblica Amministrazione delle modifiche apportate all'art. 18 della L. n. 300/1970 dalla L. n. 92/2012 nonché del D.Lgs. n. 23/2015.

In evidenza: Cassazione

Ai sensi dell'art. 51, comma 2, del D.Lgs. n. 165 del 2001, lo Statuto dei Lavoratori si applica, a prescindere dal numero dei dipendenti, al pubblico impiego privatizzato, sicché il licenziamento nullo per contrarietà a norma imperativa (nella specie, l'art. 55 bis, comma 4, del D.Lgs. n. 165 del 2001) va sanzionato con la reintegra, rientrando tra le altre nullità previste dalla legge di cui all'art. 18, comma 1, St. Lav. come modificato dalla l. n. 92 del 2012 (Cassazione, sez. lav., 26 novembre 2015 n. 24157).

Ai rapporti di lavoro disciplinati dal D.Lgs. 30 marzo 2001 n. 165, art. 2 non si applicano le modifiche apportate dalla L. 28 giugno 2012, n. 92 all'art. 18 della L. 20 maggo 1970, n. 300, per cui la tutela del dipendente pubblico in caso di licenziamento illegittimo intimato in data successiva all'entrata in vigore della richiamata L. n. 92 del 2012 resta quella prevista dall'art. 18 della L. n. 300 del 1970 nel testo antecedente alla riforma (Cass., sez. lav., 9 giugno 2016, n. 11868; nello stesso senso Cass., sez. trib. 15 marzo 2017, n. 6779); v. successiva conforme Cass. sez. lav. del 06/10/2017, n. 23424, secondo cui la previsione degli effetti retroattivi del licenziamento disciplinare (e del licenziamento per giustificato motivo oggettivo in aziende con i requisiti dimensionali di cui all'art. 18, comma 8, st.lav) di cui all'art. 1, comma 41, della l. n. 92 del 2012, non è applicabile al pubblico impiego privatizzato, come desumibile dal tenore letterale dei commi 7 e 8 dell'art. 1 della l. n. 92 del 2012, ove assume peculiare rilievo interpretativo il rinvio ad un successivo intervento normativo, e dalla inconciliabilità della nuova disciplina con lo specifico regime imperativo dettato dagli artt. 54 e segg. d.lgs. n. 165 del 2001, costituendo eccezione a tale principio le sole disposizioni della novella normativa del 2012 in relazione alle quali la questione dell'applicabilità sia stata già risolta in modo espresso dal legislatore. Anche con riguardo al diverso profilo delle dimissioni del lavoratore Cass.sez. lav. del 09 agosto 2019, n. 21297, ha precisato che la procedura di convalida di cui all'art. 4, commi da 16 a 22, della l. n. 92 del 2012, in assenza dei provvedimenti attuativi per l'armonizzazione del lavoro privato a quello nelle pubbliche amministrazioni previsti dall'art. 1, comma 8, della stessa legge, non trova applicazione al pubblico impiego contrattualizzato, trattandosi di disciplina modulata sulle dinamiche del lavoro privato, fermo restando l'obbligo per il datore lavoro pubblico di conformarsi ai principi costituzionali di legalità e imparzialità.

L'opzione scelta dal legislatore è stata quella di introdurre una unica tipologia di sanzione, valida per tutte le ipotesi di invalidità del licenziamento, sia esso conseguente a vizio di mancanza di forma scritta, a nullità per discriminatorietà, a illegittimità per carenza di giusta causa o giustificato motivo, a vizio di forma, in chiara controtendenza rispetto a quanto avviene nel rapporto di lavoro privato ove il legislatore ha distinto le sanzioni in base alla tipologia di vizio.

Il legislatore ha previsto per il lavoratore pubblico ingiustamente licenziato la reintegra nel posto di lavoro e la condanna del datore di lavoro al pagamento delle retribuzioni maturate dal licenziamento fino alla reintegra con un limite massimo di 24 mensilità.

Il secondo periodo del secondo comma dell'art. 63 D. Lgs. n. 165/2001 dispone che “Il giudice, con la sentenza con la quale annulla o dichiara nullo il licenziamento, condanna l'amministrazione alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e al pagamento di un'indennità risarcitoria commisurata all'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto corrispondente al periodo dal giorno del licenziamento fino a quello dell'effettiva reintegrazione, e comunque in misura non superiore alle ventiquattro mensilità, dedotto quanto il lavoratore abbia percepito per lo svolgimento di altre attività lavorative. Il datore di lavoro è condannato, altresì, per il medesimo periodo, al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali”.

Si deve evidenziare che l'omogeneità sanzionatoria che mette sullo stesso piano vizi di carattere meramente formale e vizi sostanziali del licenziamento è fortemente temperata dalla modifica del procedimento disciplinare a carico del pubblico dipendente introdotta dallo stesso D.Lgs. n. 75/2017 secondo il quale “La violazione dei termini e delle disposizioni sul procedimento disciplinare previste dagli articoli da 55 a 55-quater, fatta salva l'eventuale responsabilità del dipendente cui essa sia imputabile, non determina la decadenza dall'azione disciplinare né l'invalidità degli atti e della sanzione irrogata, purché non risulti irrimediabilmente compromesso il diritto di difesa del dipendente, e le modalità di esercizio dell'azione disciplinare, anche in ragione della natura degli accertamenti svolti nel caso concreto, risultino comunque compatibili con il principio di tempestività” (art. 55 bis, comma 9 ter, D.Lgs. n. 165/2001, introdotto dall'art. 13, lett.) j, D.Lgs. n. 75/2017). Così vizi formali del licenziamento del pubblico dipendente, che normalmente sono quelli di più frequente verificazione, non incideranno sulla validità del licenziamento, a meno che, comprimendo il diritto di difesa, si risolvano in vizi sostanziali.

Una novità introdotta dal D.Lgs. n. 75/2017 consiste nella possibilità che il giudice, che ritenga sproporzionato il licenziamento del dipendente rispetto alla gravità della condotta, applichi direttamente una sanzione disciplinare conservativa sostitutiva, senza la necessità così di rinnovare il procedimento disciplinare. L'art. 63, comma 2 bis dispone che “Nel caso di annullamento della sanzione disciplinare per difetto di proporzionalità, il giudice può rideterminare la sanzione, in applicazione delle disposizioni normative e contrattuali vigenti, tenendo conto della gravità del comportamento e dello specifico interesse pubblico violato”.

La risoluzione del rapporto di lavoro dirigenziale

Per i dipendenti pubblici che hanno la qualifica dirigenziale non trovano applicazione le disposizioni in materia di licenziamento ad nutum che caratterizzano il rapporto di lavoro dirigenziale privato. Per i dirigenti pubblici, infatti, il rapporto di lavoro può essere risolto solo in presenza di una delle ipotesi previste per gli altri pubblici dipendenti, con l'aggiunta della c.d. responsabilità dirigenziale di cui all'art. 21 D.Lgs. 165/2001 prevista in caso di mancato raggiungimento degli obiettivi e di inosservanza delle direttive, purché imputabili al dirigente.

Le mansioni

L'art. 52 D.Lgs. 165/2001 detta una disciplina speciale in materia di mansioni che deroga integralmente all'art. 2103 c.c., per cui non trovano applicazione al pubblico impiego le disposizioni contenute in quest'ultima norma.

In particolare, i principi fissati dalla norma sono i seguenti:

  • il lavoratore deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle equivalenti nell'ambito dell'area di inquadramento. Il legislatore ha previsto per il pubblico impiego un concetto di equivalenza non incentrato sul contenuto professionale delle mansioni, ma sulla corrispondenza dell'inquadramento indicato nella contrattazione collettiva;
  • vige il principio del divieto di adibizione del lavoratore pubblico a mansioni inferiori;
  • è invece ammessa l'assegnazione a mansioni superiori, la quale, tuttavia, non può dare diritto, a prescindere dalla durata dell'assegnazione, al riconoscimento del livello superiore, ma solo alle corrispondenti differenze retributive.

La nuova formulazione dell'art. 2103 c.c., a seguito delle modifiche apportate dall'art. 3 D.Lgs. 81/2015, estende il concetto di equivalenza proprio del pubblico impiego anche all'impiego privato, con la conseguenza che il giudizio di equivalenza non sarà più collegato al concreto contenuto professionale delle mansioni, ma alla classificazione contenuta nei contratti collettivi,venendo così affidato all'insindacabile e vincolante valutazione operata in sede contrattuale.

In evidenza: Cassazione

In tema di pubblico impiego privatizzato, l'art. 52 del D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, assegna rilievo solo al criterio dell'equivalenza formale delle mansioni, con riferimento alla classificazione prevista in astratto dai contratti collettivi, indipendentemente dalla professionalità in concreto acquisita, senza che il giudice possa sindacare in concreto la natura equivalente della mansione, non potendosi aver riguardo alla norma generale di cui all'art. 2103 cod. civ. (Cassazione, sez. lav., 26 marzo 2014, n. 7106 e successiva conforme v. Cass. sez. lav. 16 luglio 2018, n. 18817).

In evidenza: Cassazione

In materia di pubblico impiego contrattualizzato, lo svolgimento di fatto di mansioni proprie di una qualifica - anche non immediatamente - superiore a quella di inquadramento formale comporta in ogni caso, in forza del disposto dell'art. 52, comma 5, D.Lgs. del 30 marzo 2001, n. 165, il diritto alla retribuzione propria di detta qualifica superiore - e tale diritto non è condizionato alla sussistenza dei presupposti di legittimità di assegnazione delle mansioni o alle previsioni dei contratti collettivi, né all'operativa del nuovo sistema di classificazione del personale introdotto dalla contrattazione collettiva, posto che una diversa interpretazione sarebbe contraria all'intento del legislatore di assicurare comunque al lavoratore una retribuzione proporzionata alla qualità del lavoro prestato, in ossequio al principio di cui all'art. 36 Cost. (Cassazione, sez. lav., 7 agosto 2013 n. 18808 e successiva conforme Cass. sez. 6-lav. ord. 24 gennaio 2019, n. 2102).

Giurisdizione

Ai sensi dell'art. 63, comma 1, D.Lgs. 165/2001 tutte le controversie riguardanti il pubblico impiego contrattualizzato sono devolute al giudice ordinario, che ha una giurisdizione esclusiva. Dopo avere precisato che rientrano nella giurisdizione ordinaria tutte le controversie la norma precisa, in via esemplificativa, che il giudice ordinario ha la giurisdizione anche sulle seguenti materie:

  • assunzioni al lavoro;
  • conferimento e revoca degli incarichi dirigenziali;
  • responsabilità del dirigente;
  • indennità di fine rapporto comunque denominate;
  • controversie relative ai comportamenti antisindacali delle pubbliche amministrazioni;
  • controversie relative alle procedure di contrattazione collettiva.

La giurisdizione del giudice ordinario permane anche qualora vengano in questione atti amministrativi presupposti: in tal caso il giudice se li ritiene illegittimi, li disapplica.

L'unica eccezione è quella fissata dal quarto comma dell'art. 63 citato secondo il quale restano devolute al giudice amministrativo le controversie in materia di procedure concorsuali per l'assunzione dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni. In tal caso la giurisdizione del giudice amministrativo riguarda solo l'eventuale illegittimità del bando, il corretto svolgimento della procedura e la formazione della graduatoria, mentre rientrano nella giurisdizione del giudice ordinario le controversie successive alla formazione della graduatoria, allorché si discuta esclusivamente del diritto all'assunzione.

In evidenza: Cassazione

In tema di pubblico impiego privatizzato, l'art. 63, comma 4, del D.Lgs. n. 165 del 2001 si interpreta, alla stregua dei principi enucleati dalla giurisprudenza costituzionale sull'art. 97 Cost., nel senso che le "procedure concorsuali per l'assunzione", riservate alla giurisdizione del giudice amministrativo, sono quelle preordinate alla costituzione "ex novo" dei rapporti di lavoro, involgente l'esercizio del relativo potere pubblico, dovendo il termine "assunzione" intendersi estensivamente, comprese le procedure riguardanti soggetti già dipendenti di pubbliche amministrazioni ove dirette a realizzare la novazione del rapporto con inquadramento qualitativamente diverso dal precedente e dovendo, di converso, il termine "concorsuale" intendersi restrittivamente con riguardo alle sole procedure caratterizzate dall'emanazione di un bando, dalla valutazione comparativa dei candidati e dalla compilazione finale di una graduatoria di merito. (Nella specie, in applicazione dell'enunciato principio, la S.C. ha dichiarato la giurisdizione del giudice amministrativo, trattandosi di una procedura concorsuale in senso proprio, finalizzata all'assunzione presso un consiglio regionale, seppur riservata a chi già vi avesse lavorato per un certo tempo). (Cassazione, sez. un. 29 maggio 2012, n. 8522; v., Cass. SSUU. 20 dicembre 2016, n. 26270 che ha precisato le progressioni, invece, all'interno di ciascuna area professionale o categoria, sia con acquisizione di posizioni più elevate meramente retributive, sia con il conferimento di qualifiche (livello funzionale connotato da un complesso di mansioni e di responsabilità) superiori (art. 52, comma 1 del d.lgs. n. 165 del 2001), sono affidate a procedure poste in essere dall'amministrazione con la capacità ed i poteri del datore di lavoro privato (art. 5, comma 2 dello stesso d.lgs.).

In evidenza: Cassazione

Nel pubblico impiego privatizzato, la riserva di giurisdizione amministrativa in materia di procedure concorsuali ex art. 63, comma 4, del D.Lgs. n. 165 del 2001 non estende la sua rilevanza alla fase successiva all'approvazione della graduatoria e, in particolare, alle controversie relative alle pretese di assunzione basate sull'esito del concorso; pertanto, è devoluta alla giurisdizione ordinaria la controversia instaurata nei confronti dell'ente pubblico dal soggetto che, senza contestare la procedura concorsuale e l'utilizzo della relativa graduatoria, ne denunci il criterio di scorrimento, finalizzato alla reiterata stipulazione di contratti a tempo determinato con lo stesso lavoratore fino al raggiungimento del limite legale di utilizzo del lavoro a termine (Cassazione, sez. un., 28 maggio 2012, n. 8410). V., altresì, Cass. sez.un., ord. 21 dicembre 2018, n. 33213, secondo cui appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario la controversia relativa al diritto all'assunzione all'esito di una procedura di mobilità esterna per passaggio diretto tra pubbliche amministrazioni, atteso che nell'ambito di tale procedura non viene in rilievo la costituzione di un nuovo rapporto lavorativo a seguito di procedura concorsuale, ma una mera modificazione soggettiva del rapporto preesistente con il consenso di tutte le parti e, quindi, una cessione del contratto.

La Suprema Corte ha individuato un peculiare riparto di giurisdizione in materia di procedure selettive riguardanti le progressioni in carriera del personale interno, distinguendo l'ipotesi in cui la procedura selettiva sia finalizzata ad acquisire in inquadramento superiore in un'area funzionale o in una categoria più elevata, dall'ipotesi in cui la progressione in carriera riguardi diversi profili all'interno della stessa area funzionale o categoria.

In evidenza: Cassazione

In tema di lavoro pubblico contrattualizzato, rientrano nella giurisdizione amministrativa alla stregua dell'art. 63 del D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, oltre a quelli preordinati alla costituzione di rapporti di lavoro aperti a candidati esterni, i procedimenti concorsuali che, realizzando una novazione oggettiva del rapporto, consentono l'inquadramento in aree funzionali o categorie più elevate. Appartengono alla giurisdizione ordinaria le controversie attinenti le procedure riservate ai dipendenti, dirette a passaggi di qualifica nell'ambito della medesima area funzionale classificata dal contratto collettivo applicabile, e pertanto comportanti l'esercizio di poteri di diritto privato (Cassazione, sez. un., 26 marzo 2014 n. 7171).

Non rientrano nella giurisdizione del giudice ordinario, ma rimangono devolute alla giurisdizione della Corte dei Conti, le controversie in materia di trattamenti pensionistici dei pubblici dipendenti.

In evidenza: Cassazione

La giurisdizione della Corte dei Conti nella materia pensionistica riguarda non solo il diritto a pensione ma anche, pur in costanza di lavoro, ogni diritto relativo al rapporto pensionistico, ivi compreso quello relativo al conseguimento del trattamento di pensione a partire da una certa data, nonché quello relativo al risarcimento del danno per inadempimento delle obbligazioni derivanti da tale rapporto (Cassazione, sez. un., 7 gennaio 2013 n. 153 e successiva Cass.SS.UU.14 aprile 2020, n. 7830 secondo cui la domanda di accertamento delle condizioni sanitarie preordinate al riconoscimento dell'assegno di invalidità introdotta con procedimento ex art. 445 bis c.p.c. dal pubblico dipendente, in quanto strumentale all'adozione del provvedimento amministrativo di attribuzione della prestazione pensionistica, appartiene alla giurisdizione esclusiva della Corte dei conti, che ricomprende tutte le controversie funzionali e connesse al diritto alla pensione dei pubblici dipendenti”.

Da ultimo, una menzione merita, nell'ambito del lavoro pubblico, soprattutto in relazione al periodo caratterizzato dalla pandemia del covid-19, il c.d. “smart working” (lavoro agile) definito dall'art. 18 della L. n. 81/2017 come una “modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato stabilita mediante accordo tra le parti, anche con forme di organizzazione per fasi, cicli e obiettivi e senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro, con il possibile utilizzo di strumenti tecnologici per lo svolgimento dell'attività lavorativa. La prestazione lavorativa viene eseguita, in parte all'interno di locali aziendali e in parte all'esterno senza una postazione fissa, entro i soli limiti di durata massima dell'orario di lavoro giornaliero e settimanale, derivanti dalla legge e dalla contrattazione collettiva”.

In particolare, il comma 3 dell'art. 18 cit. prevede che “le disposizioni del presente capo si applicano, in quanto compatibili, anche nei rapporti di lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche di cui all'articolo 1, comma 2, del decretolegislativo 30 marzo 2001, n. 165, e successive modificazioni, secondo le direttive emanate anche ai sensi dell'articolo 14 dellalegge 7 agosto 2015, n. 124, e fatta salva l'applicazione delle diverse disposizioni specificamente adottate per tali rapporti”.

Con la Direttiva n. 3 del 2017 in materia di lavoro agile a firma dell'allora Ministro per la Semplificazione e la Pubblica Amministrazione contiene gli indirizzi per l'attuazione dei commi 1 e 2 dell'articolo 14 della Legge 7 agosto 2015, n. 124, che ha delegato il Governo alla riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche, prevedendo l'introduzione di linee guida per la nuova organizzazione del lavoro, finalizzate a promuovere la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro dei dipendenti.

Sono stati inseriti aspetti di profonda innovazione sia con riguardo ai lavoratori sia in riferimento alle pubbliche amministrazioni, ossia: la valorizzazione delle risorse umane e la loro responsabilizzazione, concentrandosi più sui risultati del lavoro che non sugli aspetti formali con razionalizzazione nell'uso delle risorse e aumento della produttività e, pertanto, risparmio in termini di costi e miglioramento dei servizi offerti, ove la tecnologia gioca un ruolo certamente importante, giacché lo Smart Working ha bisogno, da una parte, delle tecnologie per dare concretezza al suo svolgimento, dall'altra rappresenta esso stesso una grande leva per la realizzazione della PA Digitale.

Invero, a partire da febbraio 2020, a seguito del diffondersi della pandemia Covid-19, sono stati emanati una serie di provvedimenti sia legislativi che ministeriali per semplificare l'accesso allo Smart Working e diffonderne al massimo l'utilizzo nella PA.

Si veda, da ultimo, il decreto del Ministro per la pubblica amministrazione del 20 gennaio 2021, che ha prorogato al 30 aprile 2021 le modalità organizzative, i criteri e principi in materia di flessibilità del lavoro pubblico e di lavoro agile stabiliti dal decreto ministeriale 19 ottobre 2020, che, all'articolo 1, ha previsto che “1.Il lavoro agile nella pubblica amministrazione costituisce una delle modalità ordinarie di svolgimento della prestazione lavorativa. 2.Fino al 31 dicembre 2020 per accedere al lavoro agile non è richiesto l'accordo individuale di cui all'articolo 19 della legge 22 maggio 2017, n. 81. 3.Il lavoro agile può avere ad oggetto sia le attività ordinariamente svolte in presenza dal dipendente, sia, in aggiunta o in alternativa e comunque senza aggravio dell'ordinario carico di lavoro, attività progettuali specificamente individuate tenuto conto della possibilità del loro svolgimento da remoto, anche in relazione alla strumentazione necessaria. Di regola, e fatto salvo quanto disposto all'articolo 3, il lavoratore agile alterna giornate lavorate in presenza e giornate lavorate da remoto. 4.I lavoratori che rendono la propria prestazione in modalità agile non subiscono penalizzazioni ai fini del riconoscimento di professionalità e della progressione di carriera”

Riferimenti

Normativa

  • Legge 22maggio2017, n. 81
  • Artt. 1, 2, 5, 9, 11, 12, 13, 14, 15, 20 e 21 D.Lgs. n. 75/2017.
  • Legge 7 agosto 2015, n. 124
  • Art. 97 Cost.
  • Artt. 2103, 2110, 2126 c.c.
  • Artt. 19, 32 quinquies c.p.
  • Artt. 1, 2, 3, 5, 21, 33, 34, 35, 36, 40, 45, 47, 51, 52, 53, 55 octies, 63, 69 D.Lgs. n. 165/2001
  • Art. 24, D.L. 6 dicembre 2011, n. 201
  • D.Lgs. 27 ottobre 2009, n. 150
  • Art. 72, D.L. 25 giugno 2008, n. 112
  • Art. 18, L. 20 maggio 1970, n. 300

Giurisprudenza

  • Cass. S.U., 10 novembre 2020, n. 25207
  • Cass. S.U., ord. 21 settembre 2020, n. 19668
  • Cass. S.U., ord. 28 maggio 2020, n. 10210
  • Cass. S.U., 14 aprile 2020, n. 7830
  • Cass. sez. lav., 17 dicembre 2019, n. 33401
  • Cass., sez. lav., 19 novembre 2019, n. 30071
  • Cass. sez. lav., 9 agosto 2019, n. 21297
  • Cass. sez. lav., ord. 6 marzo 2019, n. 6553
  • Cass. sez. 6-lav., ord. 24 gennaio 2019, n. 2102
  • Cass. S.U.. ord. 21 dicembre 2018, n. 33213
  • Cass. sez. lav., 16 luglio 2018, n. 18817
  • Cass. sez. lav., 6 ottobre 2017, n. 23424
  • Cass. sez. lav., 31 luglio 2017, n. 19043
  • Cass. sez. lav., ord. 25 luglio 2017, n. 18299
  • Cass. civ, sez. VI, 6 aprile 2017, n. 8885
  • Cass. S.U., 22 marzo 2017, n. 7305
  • Cass. sez. lav., 17 marzo 2017, n. 6779
  • Cass. sez. lav., 5 gennaio 2017, n. 169
  • Cass. S.U., ord. 20 dicembre 2016, n. 26270
  • Cass. S.U., 7 dicembre 2016, n. 25048
  • Cass. civ., sez. VI, 2 agosto 2016, n. 16095
  • Cass. sez. lav., 6 giugno 2016, n. 11868
  • Cass. S.U., 15 marzo 2016, n. 5072
  • Cass. sez. lav., 25 gennaio 2016, n. 1241
  • Cass. sez. lav., 26 novembre 2015, n. 24157
  • Cass. sez. lav., 30 dicembre 2014, n. 27481
  • Cass. sez. lav., 24 novembre 2014, n. 24949
  • Cass. sez. un., 4 luglio 2014, n. 15304
  • Cass. sez. un., 26 marzo 2014, n. 7171
  • Cass. sez. lav., 26 marzo 2014, n. 7106
  • Cass. sez. lav., 20 gennaio 2014, n. 1037
  • Cass. sez. un., 23 settembre 2013, n. 21677
  • Cass. sez. lav., 7 agosto 2013, n. 18808
  • Cass. S.U., 17 maggio 2013, n. 12103
  • Cass. S.U., 7 gennaio 2013, n. 153
  • Cass. S.U., 23 novembre 2012, n. 20726
  • Cass. S.U., 29 maggio 2012, n. 8522
  • Cass. S.U., 28 maggio 2012, n. 8410
  • Cass. S.U., 22dicembre 2011, n. 28329
Sommario