Processo del lavoro - primo grado

02 Maggio 2024

Il rito del lavoro è improntato a principi di oralità, concentrazione e immediatezza, per cui tendenzialmente è prevista una unica udienza di discussione, ove devono essere compiute tutte le attività processuali: verifica della regolarità degli atti, della presenza e della costituzione delle parti, dell'integrità del contraddittorio; interrogatorio libero delle parti e tentativo di conciliazione; ammissione dei mezzi di prova e assunzione delle prove; discussione e decisione. Nella pratica le attività descritte vengono suddivise in più udienze, una di prima comparizione nella quale di compiono le attività introduttive e si ammettono le prove, una istruttoria, nella quale vengono assunte le prove ammesse e una di decisione in cui le parti discutono la causa e il giudice pronuncia la decisione. Un rigido meccanismo di preclusioni consente di definire sin dall'inizio le questioni giuridiche da affrontare e le circostanze di fatto da accertare attraverso l'istruttoria dibattimentale.

Inquadramento

Il processo del lavoro è assoggettato ad apposito rito speciale (v. Titolo IV, Libro II, c.p.c.), improntato a principi di oralità, concentrazione e immediatezza.

È infatti prevista un'unica udienza di discussione (v. art. 420 c.p.c.), nella quale dovrebbero preferibilmente concentrarsi tutte le attività processuali: interrogatorio libero delle parti, tentativo di conciliazione, esame delle questioni preliminari e pregiudiziali, ammissione dei mezzi di prova, assunzione delle prove, discussione e decisione della causa. Sono inoltre vietate le udienze di mero rinvio, mentre i rinvii consentiti presuppongono l'impossibilità di svolgere alcune attività processuali in un'unica udienza e sono comunque soggetti a stringenti termini sollecitatori, pur ordinatori.

Nella prassi, tuttavia, il rito lavoro si snoda attraverso più udienze, solitamente un'udienza di prima comparizione in cui vengono compiute le attività introduttive ed ammesse le prove, una o più udienze istruttorie in cui vengono assunte le prove ammesse e, infine, un'udienza di decisione in cui le parti discutono la causa e il giudice pronuncia la sentenza.

Un rigido meccanismo di preclusioni allegatorie ed istruttorie consente di definire tendenzialmente già con gli atti introduttivi (v. artt. 414,416 e 419 c.p.c.) il thema decidendum et probandum, ferma la possibilità di modificare domanda, eccezioni e conclusioni su autorizzazione del giudice ove ricorrano gravi motivi (art. 420 c.p.c.) e salvi i poteri istruttori officiosi del giudice (art. 421 c.p.c.).

Il rito lavoro è obbligatorio per le controversie che vi sono assoggettate (art. 409 c.p.c.), essendo previsti il mutamento del rito nel caso in cui esse siano state promosse nelle forme ordinarie (v. art. 426 c.p.c. e art. 4, L. n. 150/2011), nonché la prevalenza del rito lavoro sul rito ordinario in caso di trattazione congiunta di cause connesse soggette a riti diversi (v. art. 40, comma 3 c.p.c.).

Tuttavia, l'esattezza del rito non è mai suscettibile di essere considerata come fine a sé stessa, donde può essere invocata solo per riparare a una precisa e apprezzabile lesione, ragion per cui la violazione della disciplina sul rito assume rilevanza invalidante soltanto nell'ipotesi in cui, in sede di impugnazione, la parte indichi lo specifico pregiudizio processuale concretamente derivatole dalla mancata adozione del rito diverso, quali una precisa e apprezzabile lesione del diritto di difesa, del contraddittorio e, in generale, delle prerogative processuali protette della parte (Cass. 9 settembre 2022, n. 26683).

Dall'1.1.2023, anche al rito lavoro si applicano le novità in materia di deposito telematico di atti e provvedimenti, conformità delle copie agli originali e udienze a distanza introdotte con norme di carattere generale dal Titolo V-ter disp. att. c.p.c. (art. 35, comma 2, D.Lgs. n. 149/2022), nonché le novità in materia di pagamento del contributo unificato introdotte dall'art. 192, D.P.R. n. 115/2002 (art. 13, comma 1, lett. e), n. 1), D.Lgs. n. 149/2022).

Controversie soggette al rito lavoro

Sono soggette al rito lavoro, ai sensi dell'art. 409 c.p.c., le controversie attinenti a:

a) rapporti di lavoro subordinato privato;

Devono considerarsi controversie attinenti a rapporti di lavoro subordinato privato:

1. non solo le controversie relative alle obbligazioni propriamente caratteristiche del rapporto di lavoro, ma tutte quelle in cui la pretesa fatta valere in giudizio si ricolleghi direttamente al detto rapporto, nel senso che questo, pur non costituendo la causa petendi di tale pretesa, si presenti come antecedente e presupposto necessario, e non già meramente occasionale, della situazione di fatto in ordine alla quale viene invocata la tutela giurisdizionale, essendo irrilevante l'eventuale non coincidenza delle parti in causa con quelle del rapporto di lavoro (Cass. 8 ottobre 2012, n. 17092);

2. tutte le controversie comunque collegate ad un rapporto di lavoro, in atto, estinto o ancora da costituirsi, ivi incluse pertanto anche le cause nelle quali si fanno valere diritti all'assunzione nel posto di lavoro privato o altri diritti nascenti dalla mancata assunzione in violazione di obblighi contrattuali o di legge (Cass. 21 maggio 2003, n. 8022);

3. anche le controversie attinenti ad apparenti contratti di associazione in partecipazione, laddove le parti abbiano escluso la partecipazione alle perdite, poiché in tal caso l'eventuale assenza di utili determina l'assenza di compensi, necessariamente correlati all'andamento economico dell'impresa (Cass. 19 maggio 2023, n. 13842).

b) rapporti derivanti da contratti agrari;

Ferma la competenza delle sezioni specializzate agrarie, devono considerarsi controversie attinenti a rapporti di lavoro derivanti da contratti agrari anche le controversie relative a rapporti di colonia cd. miglioratizia, in quanto, pur assimilabili morfologicamente al rapporto enfiteutico (di natura reale e, pertanto, non rientrante nei rapporti di cui all'art. 409, n. 2 c.p.c.), essi sono ontologicamente rapporti agrari a carattere obbligatorio (Cass. 8 febbraio 2016, n. 2376, Cass. 11 giugno 2014, n. 13236).

c) rapporti di agenzia e rappresentanza commerciale e altri rapporti di collaborazione coordinata e continuativa (per tale intendendosi quella in cui il collaboratore organizza autonomamente l'attività lavorativa, pur nel rispetto delle modalità di coordinamento stabilite di comune accordo dalle parti);

Devono considerarsi controversie attinenti a rapporti di agenzia, rappresentanza commerciale, co.co.co.:

1. le controversie relative a rapporti che si concretino in una prestazione d'opera continuativa e coordinata, di natura prevalentemente personale, prestazione personale che va invece esclusa nel caso in cui l'agente sia una società di persone o di capitali, una società di fatto o irregolare, ovvero abbia organizzato la propria attività con criteri imprenditoriali, limitandosi ad organizzare e dirigere i suoi collaboratori, senza realizzare una collaborazione semplicemente ausiliaria dell'attività altrui, ma gestendo un'impresa autonoma propria (Cass. 5 aprile 2023, n. 9431);

2. anche le controversie in tema d'impresa familiare in cui non si chieda soltanto l'accertamento del diritto alla remunerazione in favore di alcuno dei soggetti di cui all'art. 230 bis c.c., ma anche la condanna all'attribuzione di beni o di quote di beni che si assumano acquistati con i proventi dell'impresa familiare stessa, poiché tali pretese trovano titolo in un rapporto di collaborazione personale, continuativa e coordinata (Cass. 8 aprile 2015, n. 7007);

3. anche le controversie relative a rapporti di collaborazione coordinata e continuativa con una pubblica amministrazione, poiché l'art. 409, n. 3 c.p.c. non introduce alcun discrimine soggettivo in ragione della qualità, pubblica o privata, della controparte della prestazione d'opera (Cass. 6 febbraio 2017, n. 3087).

d) rapporti di lavoro alle dipendenze di enti pubblici economici;

Devono considerarsi controversie attinenti a rapporti di lavoro alle dipendenze di enti pubblici economici anche le controversie attinenti alla fase concorsuale precedente la costituzione del rapporto, atteso che la discrezionalità che contrassegna le scelte concorsuali è espressione non di potestà pubblica ma dell'esercizio di attività privatistica dell'imprenditore, qual è l'ente pubblico – comunque denominato – che operi nel campo della produzione, sia dedito ad attività esclusivamente o prevalentemente economica, e svolga – per la realizzazione dei propri fini istituzionali – un'attività di conservazione, scambio, produzione di beni o servizi secondo criteri di economicità, funzionale non soltanto al perseguimento dei propri fini sociali, ma anche al procacciamento di entrate remunerative dei fattori produttivi, dal carattere puramente o prevalentemente imprenditoriale (Cass. s.u. 18 gennaio 2018, n. 1203).

e) rapporti di lavoro pubblico, con esclusione delle categorie di cui all'art. 3, D. Lgs. n. 165/2001, soggette alla giurisdizione del giudice amministrativo ex art. 133, co. 1, lett. i), D. Lgs. n. 104/2010;

Devono considerarsi controversie attinenti a rapporti di lavoro pubblico anche le controversie relative al rapporto lavorativo del personale universitario con l'azienda sanitaria, poiché l'art. 5, comma 2, D.Lgs. n. 517/1999 distingue il rapporto di lavoro dei professori e ricercatori con l'università da quello instaurato dagli stessi con l'azienda ospedaliera e dispone che, sia per l'esercizio dell'attività assistenziale, sia per il rapporto con le aziende, si applicano le norme stabilite per il personale del servizio sanitario nazionale; di conseguenza, quando la parte datoriale si identifichi nell'azienda sanitaria, la qualifica di professore universitario funge da mero presupposto del rapporto lavorativo e l'attività svolta si inserisce nei fini istituzionali e nell'organizzazione dell'azienda, determinandosi perciò l'operatività del principio generale di cui all'art. 63, comma 1, D.Lgs. n. 165/2001, che sottopone al giudice ordinario, in funzione di giudice del lavoro, le controversie dei dipendenti delle aziende e degli enti del servizio sanitario nazionale (Cons. Stato 27 gennaio 2022, n. 579).

Sono altresì soggette al rito lavoro, nel settore lavoro e previdenza, le controversie attinenti a:

Licenziamento in cui si chieda la tutela reintegratoria

art. 441 bis c.p.c.

Licenziamento del socio della cooperativa

art. 441 ter c.p.c.

Licenziamento discriminatorio (ove la domanda non sia proposta con i riti speciali)

art. 441 quater c.p.c.

Assistenza e previdenza obbligatorie

art. 442 c.p.c.

Lavoro dei detenuti

Corte cost. 27 ottobre 2006, n. 341, Cass. 26 aprile 2007, n. 9969

Lavoro sportivo

art. 25, comma 2, e art. 37, comma 1, D.Lgs. n. 36/2021

Lavoro nautico

Corte cost. 19 febbraio 1976, n. 29

ed in altri settori, le controversie relative a:

Locazione, comodato, affitto

art. 447 bis c.p.c.

Opposizione ad ordinanza-ingiunzione

art. 6, D.Lgs. n. 150/11, art. 22, L. n. 689/81

Opposizione a verbale di accertamento di violazione al Cod. Strada

art. 7, D.Lgs. n. 150/11, art. 204 bis, D.Lgs. n. 285/92

Opposizione a sanzione amministrativa in materia di stupefacenti

art. 8, D.Lgs. n. 150/11, art. 75, comma 9, D.P.R. n. 309/90

Opposizione a provvedimenti di recupero di aiuti di Stato

art. 9, D.Lgs. n. 150/11, art. 1, D.L. n. 59/08, conv. in L. n. 101/08

Controversie in materia di protezione dei dati personali

art. 10, D.Lgs. n. 150/11, art. 152, D.Lgs n. 196/2003

Impugnazione di provvedimenti in materia di registro dei protesti

art. 12, D.Lgs. n. 150/11, art. 4, L. n. 77/1955

Opposizione ai provvedimenti in materia di riabilitazione del debitore protestato

art. 13, D.Lgs. n. 150/11, art. 17, L. n. 108/1996

Competenza

Le controversie di cui all'art. 409 c.p.c. in primo grado sono di competenza del tribunale in funzione di giudice del lavoro (art. 413 c.p.c.).

Competenza per materia

A seguito dell'istituzione del giudice unico di primo grado, l'assegnazione ad una diversa sezione specializzata (ad es., in materia di impresa o fallimento) o ad una sezione ordinaria piuttosto che al giudice del lavoro nell'ambito dello stesso ufficio giudiziario, non dà luogo a questione di competenza per materia in senso tecnico ma esclusivamente ad una diversità di rito, trattandosi di mera distribuzione degli affari giurisdizionali all'interno dello stesso ufficio giudiziario (Cass. 24 giugno 2020, n. 12433, Cass. 5 maggio 2015, n. 8905); non è quindi ammissibile il regolamento di competenza (artt. 42 e ss. c.p.c.), salvo il principio dell'apparenza (Cass. 1° marzo 2019, n. 6179, ma contra sul punto Cass. 5 maggio 2015, n. 8905 cit.), né ricorre alcuna causa di nullità della sentenza, salvo che l'erronea scelta del rito abbia cagionato lesione al diritto di difesa (Cass. 9 settembre 2022, n. 26683).

Competenza per territorio

L'art. 413 c.p.c. disciplina altresì la competenza territoriale, dettando criteri:

- speciali, perché prevalenti sui criteri relativi al foro generale delle persone fisiche di cui all'art. 18 c.p.c., che pertanto sono applicabili solo in via sussidiaria e residuale ex art. 413, comma 7 c.p.c. (Cass. 9 febbraio 2009, n. 3117);

- diversificati per categorie di lavoratori (privati, parasubordinati, pubblici);

- inderogabili (stante la nullità delle clausole derogative sancita dall'art. 413, comma 8 c.p.c.) ma la cui violazione, a mente dell'art. 428, comma 1 c.p.c., può essere eccepita dal convenuto solo nella memoria difensiva o rilevata d'ufficio dal giudice entro la prima udienza di discussione (Cass. n. 15 aprile 2019, n. 10516);

- la cui ricorrenza va valutata con riferimento al momento della proposizione della domanda (Cass. 12 novembre 2019, n. 29218) alla luce degli elementi di fatto prospettati e comprovati dalla parte ricorrente (Cass. 7 settembre 2023, n. 26081).

1. Per i lavoratori privati

Sono previsti tre criteri alternativi e concorrenti – tra cui il ricorrente è libero di scegliere, salvo l'onere di dimostrare la ricorrenza dei relativi presupposti di fatto (Cass. 31 luglio 2014, n. 17513) –, che risultano tuttavia diversamente applicabili nel tempo (Cass. 8 ottobre 2020, n. 21648):

- luogo ove è sorto il rapporto, applicabile in qualunque momento, anche dopo la cessazione del rapporto;

- luogo ove si trova l'azienda cui il lavoratore è addetto, applicabile sino a 6 mesi dopo la cessazione del rapporto o il trasferimento d'azienda;

- luogo ove si trova una dipendenza dell'azienda cui il lavoratore è addetto, applicabile sino a 6 mesi dopo la cessazione del rapporto o il trasferimento della dipendenza.

Per dipendenza aziendale va inteso il luogo in cui il datore di lavoro ha dislocato un nucleo, seppur modesto, di beni organizzati per l'esercizio dell'impresa; pertanto, in difetto di alcun collegamento oggettivo o soggettivo del luogo di svolgimento della prestazione con l'organizzazione aziendale, non può qualificarsi dipendenza aziendale l'abitazione del lavoratore, in cui questi esegua la propria attività lavorativa in smart working (Cass. 5 luglio 2023, n. 19023).

Con specifico riferimento alle prestazioni lavorative rese nell'ambito di un appalto, ai fini dell'art. 413 c.p.c. costituisce dipendenza aziendale anche quella di proprietà della società committente, dove il lavoratore ha svolto o svolge, in via esclusiva, la prestazione di lavoro, trattandosi di luogo destinato a rendere possibile l'espletamento dell'attività appaltata e, quindi, il conseguimento dei fini imprenditoriali perseguiti dal datore di lavoro-appaltatore (Cass. 7 settembre 2023, n. 26081).

Ove il rapporto di lavoro non sia ancora costituito, l'unico criterio applicabile è il foro dell'azienda (Cass. 19 settembre 2013, n. 21506).

Qualora un rapporto di lavoro si configuri come presupposto per il sorgere del diritto alla costituzione di un successivo rapporto, i criteri di identificazione della competenza territoriale, previsti in modo alternativo e concorrente dall'art. 413 c.p.c., vanno riferiti al rapporto in essere, stante il collegamento funzionale sussistente tra questo e quello da costituire (Cass. 2 dicembre 2020, n. 27565).

2. Per i lavoratori parasubordinati

È previsto un unico criterio di carattere esclusivo, applicabile anche dopo la cessazione del rapporto (Cass. 10 gennaio 2012, n. 114):

  • luogo del domicilio del lavoratore al tempo del rapporto.

In relazione ad una domanda con cui si prospetti l'esistenza di un rapporto di lavoro parasubordinato con la P.A., e se ne chieda l'accertamento, deve trovare applicazione il criterio di collegamento del domicilio di cui all'art. 413, comma 4, c.p.c., che dà rilievo alla natura della prestazione e non alla qualità, pubblica o privata, della controparte della prestazione dell'opera, operando il successivo comma 5 nella diversa ipotesi di domanda di costituzione di un rapporto di lavoro pubblico subordinato (Cass. 6 febbraio 2017, n. 3087).

3. Per i lavoratori pubblici

È previsto un unico criterio di carattere esclusivo, applicabile anche dopo la cessazione del rapporto (Cass. 6 agosto 2002, n. 11831):

  • luogo in cui ha sede l'ufficio al quale il dipendente è addetto o era addetto al momento della cessazione del rapporto.

Ove il rapporto di lavoro non sia ancora costituito, la competenza territoriale spetta al giudice del luogo in cui ha sede l'ufficio cui il ricorrente chiede di essere addetto (Cass. 25 maggio 2015, n. 10697) ovvero, se tale ufficio non sia individuato o individuabile, al giudice del luogo in cui ha sede l'ente verso cui la pretesa sia esercitata (Cass. 10 ottobre 2022, n. 29438).

Nelle controversie relative al rapporto di lavoro dei detenuti, non è applicabile il criterio di competenza territoriale di cui all'art. 413, comma 5, c.p.c., da intendersi specificamente riferito ai rapporti di lavoro pubblico, mentre sono applicabili i criteri previsti dall'art. 413, comma 2, c.p.c., trattandosi di prestazioni svolte nell'ambito di una struttura aziendale finalizzata alla produzione di beni per il soddisfacimento di commesse pubbliche e private, con conseguente instaurazione di un rapporto di lavoro privato. Ne consegue che, intercorrendo detto rapporto con il Ministero della giustizia, il quale va considerato quale centro di direzione e coordinamento delle strutture aziendali che fanno capo ai singoli istituti, in applicazione del criterio della sede dell'azienda di cui all'art. 413, comma 2, c.p.c. (ossia del luogo in cui l'azienda viene gestita), sussiste la competenza del Tribunale di Roma, ferma restando l'operatività degli altri due fori alternativi, ivi enunciati, a scelta della parte attrice (Cass. 8 maggio 2019, n. 12205).

Fase introduttiva del giudizio

Ricorso

La domanda si propone con ricorso, da depositarsi presso la cancelleria del giudice competente e successivamente notificarsi alla controparte unitamente al decreto di fissazione dell'udienza di comparizione delle parti (art. 415 c.p.c.).

Gli effetti processuali della domanda si determinano pertanto con il deposito del ricorso, momento in cui può ritenersi instaurato il giudizio: ne consegue che il deposito del ricorso determina la pendenza della lite, la giurisdizione (con l'effetto della “perpetuatio iurisdictionis” di cui all'art. 5 c.p.c.), l'individuazione del giudice competente e di quello preventivamente adito ai fini della litispendenza, la tempestività della eventuale riassunzione del processo.

Quanto agli effetti sostanziali della domanda, perché si produca l'effetto interruttivo della prescrizione è necessario che il debitore abbia conoscenza (legale, non necessariamente effettiva) dell'atto giudiziale o stragiudiziale del creditore, sicché tale effetto, in ipotesi di domanda proposta nelle forme del processo del lavoro, non si realizza con il deposito del ricorso presso la cancelleria del giudice adito, ma con la notificazione dell'atto al convenuto (Cass. 12 febbraio 2020, n. 3346, Cass. 15 febbraio 2017, n. 4034).

Con riguardo alla decadenza, ai fini della conservazione dell'efficacia dell'impugnazione stragiudiziale del licenziamento ex art. 6, comma 2, della L. n. 604/1966, come modificato dall'art. 32, comma 1, della L. n. 183/2010, è da considerare idoneo il deposito del ricorso nella cancelleria del tribunale in funzione di giudice del lavoro (Cass. 15 febbraio 2021, n. 3818).

Ai sensi dell'art. 414 c.p.c., il ricorso deve avere un contenuto predeterminato. Tuttavia, è applicabile nel processo del lavoro – per il quale non è dettata una disciplina specifica in ordine al regime delle nullità – il generale principio di conservazione degli atti processuali, che consente la salvezza degli atti o anche di alcuni dei loro effetti in ragione del raggiungimento dello scopo (Cass. 21 agosto 2007 n. 17778).

Il ricorso deve dunque contenere:

a)  l'indicazione del giudice

Nel rito del lavoro, l'erronea indicazione nel ricorso introduttivo dell'ufficio giudiziario adito non è causa di nullità, poiché il deposito dell'atto nella cancelleria ed il decreto di fissazione dell'udienza di discussione escludono che il convenuto, cui ricorso e decreto siano notificati, possa essere incerto circa il giudice davanti al quale deve comparire, che va identificato necessariamente in quello dinanzi a cui la causa è stata così radicata (Cass., 26 aprile 2011, n. 9344).

b) il nome, il cognome, la residenza o il domicilio eletto della persona fisica, ovvero la denominazione o ditta e la sede della persona giuridica o dell'associazione non riconosciuta che agisce in giudizio, in qualità di ricorrente;

L'omessa indicazione nel ricorso della denominazione della persona giuridica attrice non determina la nullità dell'atto introduttivo, dovendosi ritenere sanata l'inosservanza dell'art. 414, n. 2, c.p.c., ove dal contenuto dell'atto emerga, senza incertezze, l'identità dell'ente e la controparte non subisca alcun pregiudizio nello svolgimento delle sue difese (Cass., 4 giugno 2008, n. 14789).

c) il nome, il cognome, la residenza o il domicilio o la dimora della persona fisica, ovvero la denominazione o ditta e la sede della persona giuridica o dell'associazione non riconosciuta convenuta in giudizio, in qualità di resistente;

d) la determinazione dell'oggetto della domanda;

Nel rito del lavoro, per aversi nullità del ricorso introduttivo del giudizio di primo grado per mancata determinazione dell'oggetto della domanda, non è sufficiente la mancata indicazione dei corrispondenti elementi in modo formale, ma è necessario che ne sia impossibile l'individuazione attraverso l'esame complessivo dell'atto ed i riferimenti ai documenti contenuti nella domanda introduttiva. La valutazione di nullità del ricorso introduttivo del giudizio di primo grado per mancata determinazione dell'oggetto della domanda, implica un'interpretazione dell'atto introduttivo della lite riservata al giudice del merito, salva la censurabilità in sede di legittimità per vizi della motivazione (Cass. 8 luglio 2020, n. 14379).

Deve essere esclusa la nullità per mancata individuazione dell'oggetto della domanda volta ad ottenere il pagamento di spettanze retributive, allorché l'attore abbia indicato il periodo di attività lavorativa, l'orario di lavoro e l'inquadramento ricevuto, ed abbia altresì specificato la somma complessivamente pretesa e i titoli in base ai quali vengono richieste le spettanze, rimanendo irrilevante la mancata formulazione di conteggi analitici o la mancata notificazione, con il ricorso, del conteggio prodotto dal lavoratore (Cass., 8 febbraio 2011 n. 3126).

e) l'esposizione dei fatti e degli elementi di diritto sui quali si fonda la domanda con le relative conclusioni;

Nel rito del lavoro la nullità del ricorso introduttivo del giudizio di primo grado per mancata determinazione dell'oggetto della domanda o per mancata esposizione delle ragioni, di fatto e di diritto, non ricorre ove si deducano pretesi errori di prospettazione in diritto e la mancata allegazione di fatti limitativi della pretesa invocata, trattandosi di elementi idonei ad incidere solo sulla fondatezza di merito della domanda (Cass., 22 gennaio 2009 n. 1629).

Nel rito del lavoro, qualora il ricorrente non provveda ad indicare ex art. 414 c.p.c., n. 4, nel ricorso introduttivo della lite gli elementi di fatto e di diritto posti a base della domanda, la conseguenza è la nullità del ricorso, che ricorre allorché sia assolutamente impossibile l'individuazione dell'uno o dell'altro elemento attraverso l'esame complessivo dell'atto, perché in tal caso il convenuto non è posto in condizione di predisporre la propria difesa né il giudice di conoscere l'esatto oggetto del giudizio. Tale nullità è da ritenersi però sanabile ex art. 164 c.p.c., comma 5, norma ritenuta estensibile anche al processo del lavoro.  In caso di mancata fissazione, da parte del giudice adito, di un termine perentorio per la rinnovazione del ricorso o per l'integrazione della domanda nonché in mancanza di una tempestiva eccezione del convenuto, ex art. 157 c.p.c., relativa al vizio dell'atto, deve ritenersi provata l'intervenuta sanatoria del ricorso nullo per il raggiungimento dello scopo, ex art. 156 c.p.c. (Cass. 14 febbraio 2020, n. 3816, ma contraCass. 17 gennaio 2014, n. 896).

Nel rito del lavoro il ricorrente deve, a pena di nullità del ricorso, specificare gli elementi di fatto e di diritto posti a base della domanda; tale nullità può essere sanata ai sensi dell'art. 164, comma 5, c.p.c., ma la sanatoria non vale a rimettere in termini il ricorrente rispetto ai mezzi di prova non indicati in ricorso sicché il convenuto può eccepire, in ogni tempo e in ogni grado del giudizio, il mancato rispetto da parte dell'attore delle norme sull'onere della prova (Cass. 28 marzo 2018, n. 7705).

f) l'indicazione specifica dei mezzi di prova di cui il ricorrente intende avvalersi e in particolare dei documenti che si offrono in comunicazione.

Nel rito del lavoro non si versa in ipotesi di nullità del ricorso, per impossibilità di individuazione della pretesa dell'attore, ove l'esposizione dei fatti dedotti non sia corredata della richiesta di mezzi istruttori, vertendosi, in tal caso, in ipotesi di carenza probatoria, cui consegue il rigetto della domanda perché non provata (Cass., 22 luglio 2009, n. 17102).

L'eventuale mancata indicazione del contratto collettivo applicabile nel ricorso introduttivo di una causa di lavoro, con il quale, sulla base della asserita prestazione di lavoro subordinato, vengano chiesti conguagli retributivi, non incide sull'oggetto della domanda e non comporta quindi la nullità del ricorso, costituendo semmai detto documento elemento di prova, la cui mancata produzione, in caso di contestazione della sua esistenza o dei relativi contenuti, può comportare il rigetto della domanda (Cass. 6 luglio 2023, n. 19117).

La conoscibilità ex officio di un contratto collettivo si atteggia diversamente a seconda che si versi in un'ipotesi di violazione del contratto collettivo nazionale di lavoro privatistico o di un contratto collettivo nazionale del pubblico impiego: nel primo caso il contratto è conoscibile solo con la collaborazione delle parti, la cui iniziativa, sostanziandosi nell'adempimento di un onere di allegazione e produzione, è assoggettata alle regole processuali sulla distribuzione dell'onere della prova e sul contraddittorio, laddove nel secondo caso il giudice procede con mezzi propri, secondo il principio iura novit curia (Cass. 17 giugno 2021, n. 17344, Cass. 7 gennaio 2020, n. 112).

Nel rito del lavoro, qualora nell'atto introduttivo del giudizio la parte abbia richiesto una prova testimoniale, articolando i relativi capitoli senza indicare le generalità dei testi, l'omissione non determina decadenza dalla relativa istanza istruttoria, ma concreta mera irregolarità, che, ai sensi dell'art. 421, comma 1, c.p.c., consente al giudice di assegnare alla parte un termine perentorio per porre rimedio alla riscontrata irregolarità, nell'esercizio dei poteri officiosi riconosciutigli dalla disposizione citata, in funzione dell'esigenza di contemperamento del principio dispositivo con la ricerca della verità, cui è ispirato il rito del lavoro per il carattere costituzionale delle situazioni soggettive implicate (Cass. 25 giugno 2020, n. 12573, ma contra Cass. 18 aprile 2016, n. 7631). L'inosservanza di detto termine produce la decadenza dalla prova, rilevabile anche d'ufficio e non sanabile nemmeno sull'accordo delle parti (Cass. 28 luglio 2010, n. 17649).

La specificazione dei fatti oggetto di richiesta di prova testimoniale è soddisfatta quando, sebbene non definiti in tutti i loro minuti dettagli, essi vengono esposti nei loro elementi essenziali per consentire al giudice di controllarne l'influenza e la pertinenza e all'altra parte di chiedere prova contraria, giacché la verifica della specificità e della rilevanza dei capitoli di prova va condotta non soltanto alla stregua della loro letterale formulazione, ma anche in relazione agli altri atti di causa e a tutte le deduzioni delle parti, nonché tenendo conto della facoltà del giudice di domandare ex art. 253, comma 1, c.p.c. chiarimenti e precisazioni ai testi (Cass. 4 agosto 2021, n. 22254).

Nel rito del lavoro, l'omessa indicazione dei documenti prodotti nell'atto di costituzione in giudizio, e l'omesso deposito degli stessi contestualmente a tale atto, determinano la decadenza dal diritto di produrli, salvo che si siano formati successivamente alla costituzione in giudizio o la loro produzione sia giustificata dall'evoluzione della vicenda processuale (Cass., 18 maggio 2015, n. 10102). L'acquisizione documentale può essere inoltre disposta d'ufficio ex art. 421 c.pc., anche su sollecitazione di parte, se i documenti risultino indispensabili per la decisione, cioè necessari per integrare, in definizione di una pista probatoria concretamente emersa, la dimostrazione dell'esistenza o inesistenza di un fatto la cui sussistenza o insussistenza, altrimenti, sarebbe destinata ad essere definita secondo la regola sull'onere della prova (Cass. 17 dicembre 2019, n. 33393).

Costituzione del convenuto

Il convenuto deve costituirsi almeno 10 gg. prima dell'udienza mediante deposito di una memoria difensiva. Nella memoria il convenuto deve, a pena di decadenza, proporre eventuali domande riconvenzionali (con ampliamento del thema decidendum et probandum), chiedendo contestualmente la fissazione di una nuova udienza (art. 418 c.p.c.), sollevare eccezioni non rilevabili di ufficio, prendere posizione in modo specifico sui fatti dedotti dal ricorrente, proporre le proprie difese in fatto e diritto, ed infine formulare le proprie istanze istruttorie, depositando contestualmente eventuali documenti (art. 416 c.p.c.).

Nelle controversie assoggettate al rito del lavoro, al fine di verificare il rispetto dei termini fissati (per il convenuto in primo grado ai sensi dell'art. 416 c.p.c. …) con riferimento alla "udienza di discussione", non si deve aver riguardo a quella originariamente stabilita dal provvedimento del giudice, ma a quella fissata - ove, eventualmente, sopravvenga - in dipendenza del rinvio d'ufficio della stessa, che concreta una modifica del precedente provvedimento di fissazione, e che venga effettivamente tenuta in sostituzione della prima (Cass. 29 aprile 2015, n. 8684, Cass. s.u. 20 giugno 2007, n. 14288, ma contraCass. 17 ottobre 2006, n. 22230).

Se risulta violato il termine a comparire di 30 gg. tra la data della notifica del ricorso e la data dell'udienza (art. 415, comma 5 c.p.c.), la conseguente nullità è sanata se il convenuto, costituendosi, si difende nel merito, a meno che non eccepisca l'intervenuta violazione del termine, chiedendo fissarsi nuova udienza per articolare difese più adeguate (Cass. 4 febbraio 2021, n. 2673).

Quanto alla contestazione dei fatti affermati dal ricorrente, l'art. 416, comma 3, c.p.c. ha introdotto nel processo del lavoro il c.d. “principio di non contestazione”, secondo il quale fatti allegati da una parte e non specificamente contestati dall'altra, ove costituita, possono ritenersi provati: al fine di evitare un tale esito, è necessario, dunque, che il resistente – anche tardivamente costituitosi – prenda su di essi posizione, in maniera precisa e non limitata ad una generica contestazione, nella prima difesa utile, stante il rigido sistema di preclusioni proprio del rito lavoro. Il principio in questione è tuttavia applicabile ad entrambe le parti processuali, ogni qual volta oneri di allegazione e prova gravino sulla controparte (Cass. 5 marzo 2003, n. 3245).

Le contestazioni sulla legittimazione ad agire, attiva o passiva, così come sulla titolarità, attiva o passiva, del rapporto controverso hanno natura di mere difese, proponibili in ogni fase del giudizio, e, di conseguenza, il difetto di legittimazione così come la carenza di titolarità del rapporto, ancorché non oggetto di contestazione dall'altra parte, sono rilevabili di ufficio se risultanti dagli atti di causa (Cass. 1° settembre 2021, n. 23721)

Nel processo del lavoro, l'onere di contestare specificamente i conteggi relativi al quantum debeatur sussiste anche quando il convenuto contesti in radice la sussistenza del credito (an debeatur), poiché la negazione del titolo degli emolumenti pretesi non implica necessariamente l'affermazione dell'erroneità della loro quantificazione, mentre la contestazione dell'esattezza del calcolo ha una sua funzione autonoma, dovendosi escludere una generale incompatibilità tra il sostenere la propria estraneità al momento genetico del rapporto e il difendersi sul quantum debeatur (Cass. 6 dicembre 2017, n. 29236).

Nei procedimenti che seguono il rito del lavoro, il principio di non contestazione, con riguardo ai conteggi elaborati dal ricorrente ai fini della quantificazione del credito oggetto della domanda, impone la distinzione tra la componente fattuale e quella normativa dei calcoli, nel senso che è irrilevante la non contestazione attinente all'interpretazione della disciplina legale o contrattuale della quantificazione, appartenendo al potere-dovere del giudice la cognizione di tale disciplina, mentre rileva quella che ha ad oggetto i fatti da accertare nel processo e non la loro qualificazione giuridica (Cass. 23 novembre 2020, n.26591, Cass. 6 agosto 2019, n. 20998).

Se, proposta la domanda riconvenzionale, il convenuto non chiede la fissazione di una nuova udienza, egli incorre nella decadenza di cui all'art. 418, comma 1, c.p.c. Ove invece venga fissata la nuova udienza, memoria difensiva e decreto di fissazione vanno notificati al ricorrente a cura della cancelleria, almeno 25 gg. prima dell'udienza così fissata.

Nel rito del lavoro, l'inosservanza da parte del convenuto, che abbia ritualmente proposto, ai sensi dell'art. 416 c.p.c., domanda riconvenzionale, del disposto di cui dell'art. 418 c.p.c., comma 1 - il quale impone, a pena di decadenza dalla domanda riconvenzionale medesima, di chiedere al giudice, con apposita istanza contenuta nella memoria di costituzione in giudizio, di emettere ulteriore decreto per la fissazione della nuova udienza - non determina la decadenza stabilita "ex lege" qualora l'attore ricorrente compaia all'udienza originariamente stabilita ex art. 415 c.p.c., ovvero alla nuova udienza di cui all'art. 418 c.p.c., eventualmente fissata d'ufficio dal giudice, senza eccepire l'irritualità degli atti successivi alla riconvenzione ed accettando il contraddittorio anche nel merito delle pretese avanzate con la stessa domanda riconvenzionale. Infatti, osta ad una declaratoria di decadenza sia la rilevanza da riconoscere, ai sensi dell'art. 156 c.p.c., comma 3, alla realizzazione della funzione dell'atto, sia il difetto di eccezione della sola parte che, in forza dell'art. 157 c.p.c., comma 2, sarebbe legittimata a far valere il vizio, essendo appunto quella nel cui interesse è stabilita la decadenza stessa, dovendosi inoltre escludere che l'istanza di fissazione dell'udienza rappresenti un elemento costitutivo della domanda riconvenzionale (tale che in suo difetto non possa neppure reputarsi proposta la domanda stessa), giacché l'istanza di fissazione concerne la "vocatio in jus" ed è, perciò, "esterna" rispetto alla proposizione della riconvenzionale, la quale, ai sensi dell'art. 416 c.p.c., comma 2, si realizza con la "editio actionis" (Cass. n. 29 gennaio 2019, n. 2334, ma contra Cass. 21 giugno 2017, n. 15359).

Quanto alle eccezioni, il rilievo d'ufficio delle eccezioni in senso lato, attesa la distinzione rispetto a quelle in senso stretto, non è subordinato alla specifica e tempestiva allegazione della parte, purché i fatti risultino documentati ex actis; ne consegue che in presenza di una eccezione in senso lato il giudice può esercitare anche i propri poteri officiosi al fine di ammettere le prove indispensabili, cioè quelle idonee ad elidere ogni incertezza nella ricostruzione degli eventi (Cass. 10 ottobre 2019, n. 25434). 

Intervento volontario del terzo

L'intervento del terzo, ove non finalizzato all'integrazione necessaria del contraddittorio, non può avvenire oltre il termine stabilito per la costituzione del convenuto (art. 419 c.p.c.).

Nelle controversie soggette al rito del lavoro, l'intervento volontario del terzo non può avvenire oltre il termine stabilito per la costituzione del convenuto e, qualora esso sia tardivo e non finalizzato all'integrazione necessaria del contraddittorio, la tardività non può essere sanata dall'accettazione del contraddittorio da parte del soggetto contro il quale il terzo abbia proposto le sue domande e può essere rilevata anche d'ufficio dal giudice, attesa la rilevanza pubblica degli interessi in vista del quale, nei giudizi assoggettati a detto rito, è posto il divieto di domande nuove (Cass. 4 luglio 2019, n. 17932).

Udienza di discussione e fase istruttoria

All'udienza di discussione, il giudice procede all'interrogatorio libero delle parti e al tentativo di conciliazione, formulando una proposta transattiva o conciliativa. Le parti possono comparire personalmente (la mancata comparizione senza giustificato motivo è valutabile dal giudice ex art. 116 c.p.c.) o farsi rappresentare da un procuratore a conoscenza dei fatti di causa.

Il verbale di conciliazione, sottoscritto in udienza, costituisce titolo esecutivo. Se è redatto con strumenti informatici, il giudice – in luogo della sottoscrizione di parti, cancelliere e difensori – dichiara che tali soggetti hanno accettato pienamente il contenuto degli accordi (art. 88, comma 2, disp. att. c.p.c.).

La natura giuridica non confessoria dell'interrogatorio libero non incide sulla sua libera valutazione da parte del giudice, che può legittimamente trarre dalle dichiarazioni rese dalla parte in tale sede un convincimento contrario all'interesse della medesima ed utilizzare tali dichiarazioni quale unica fonte di prova (Cass. 24 aprile 2023, n. 10895).

Non sono fondate le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 420, comma 1, c.p.c., censurato per violazione degli artt. 3,4,24,35 e 117, comma 1, Cost., quest'ultimo in relazione agli artt. 6, 13 e 14 CEDU, nonché agli artt. 21 e 47 CDFUE, in quanto prevede che, nel processo del lavoro, il rifiuto della proposta transattiva o conciliativa del giudice, senza giustificato motivo, costituisce comportamento valutabile dal giudice ai fini del giudizio. La disposizione censurata non viola i parametri evocati, in quanto non pone un ostacolo al lavoratore, pur parte “debole” del rapporto, all'accesso e alla piena realizzazione della tutela giurisdizionale, limitandosi ad ampliare il novero delle ipotesi nelle quali il giudice, motivatamente, può compensare, a fronte di una condotta comunque ingiustificata della parte, le spese di lite. Inoltre, la possibilità del giudice di vagliare in modo simmetrico la condotta di entrambe le parti in causa, e non del solo lavoratore, per la statuizione sulle spese di lite — in vista di un'eventuale compensazione e non già di una condanna alle stesse esclusivamente della parte vittoriosa — rispetto all'ingiustificato rifiuto di una proposta conciliativa, esclude ogni forma di potenziale discriminazione in danno del lavoratore. Invero, la qualità di «lavoratore» della parte che agisce (o resiste), nel giudizio avente ad oggetto diritti ed obblighi nascenti dal rapporto di lavoro, non costituisce, di per sé sola, ragione sufficiente — pur nell'ottica della tendenziale rimozione degli ostacoli di ordine economico e sociale alla tutela giurisdizionale — per derogare al generale canone di par condicio processuale espresso dal secondo comma dell'art. 111 Cost., e ciò vieppiù tenendo conto della circostanza che la situazione di disparità in cui, in concreto, venga a trovarsi la parte «debole» trova un possibile riequilibrio, secondo il disposto del terzo comma dell'art. 24 Cost., in «appositi istituti» diretti ad assicurare ai non abbienti i mezzi per agire e difendersi davanti ad ogni giurisdizione (Corte cost. 11 dicembre 2020, n. 268).

Le parti non possono introdurre domande nuove ma, previa autorizzazione del giudice, possono modificarle.

Nel rito del lavoro, previa autorizzazione del giudice ex art. 420, comma 1, c.p.c., è possibile la modifica della domanda che dipenda dalle allegazioni in fatto contenute nella memoria di costituzione avversaria (e, pertanto, dei fatti di cui la controparte in tal modo dimostri di avere già conoscenza), non attuandosi in questo caso alcuna pregiudizievole estensione del thema probandum e rimanendo pienamente integra la parità delle parti nel processo (Cass. 16 marzo 2018, n. 6597).

All'udienza, il giudice ammette i mezzi di prova rilevanti tempestivamente richiesti dalle parti, disponendo per la loro assunzione. Al solo fine di integrare gli elementi istruttori già acquisiti in giudizio (Cass. 27 ottobre 2020, n. 23605, Cass. 23 novembre 2020, n. 26597), per esigenze di ricerca della verità materiale, può disporre d'ufficio l'ammissione di ogni mezzo di prova (art. 421 c.p.c.), con esclusione del giuramento decisorio, nonché – per gli atti che richiedono la forma scritta ad substantiam – della prova testimoniale (art. 2725 c.c.) e delle presunzioni semplici (art. 2729, comma 2 c.c.).

Posto che il licenziamento è atto unilaterale per il quale è richiesta la forma scritta ad substantiam, non è ammissibile la prova per testi, salvo che il relativo documento sia andato perduto senza colpa, né tale divieto può essere superato con l'esercizio officioso dei poteri istruttori da parte del giudice, che può intervenire solo sui limiti fissati alla prova testimoniale dagli artt. 2721,2722 e 2723 c.c. e non sui requisiti di forma richiesti per l'atto (Cass. 8 settembre 2022, n. 26532).

I poteri-doveri officiosi di cui agli artt. 421 e 437 c.p.c. possono essere esercitati dal giudice in deroga non solo alle regole sulle prove dettate dal codice civile, ma anche alle norme sull'assunzione delle prove dettate per il rito ordinario e quindi, quanto all'esibizione di cose e documenti, a prescindere dall'iniziativa di parte, in deroga all'art. 210 c.p.c., e, quanto alla consulenza tecnica d'ufficio in materia contabile, a prescindere dal consenso di tutte le parti alla consultazione di documenti non precedentemente prodotti, in deroga all'art. 198 c.p.c. (Cass. 10 dicembre 2019, n. 32265).

Nel rito del lavoro, l'acquisizione, da parte del c.t.u., di documenti non prodotti dalle parti è riconducibile ai poteri istruttori ufficiosi, sicché, da un lato, è ammissibile solo previa autorizzazione del giudice, e dall'altro impone a quest'ultimo di assegnare un termine per la formulazione della prova contraria alla parte che ne faccia richiesta (Cass. 6 settembre 2021, n. 24024).

L'eccezione di interruzione della prescrizione si configura come eccezione in senso lato sicché può essere rilevata anche d'ufficio dal giudice, in qualsiasi stato e grado del processo, purché sulla base delle allegazioni e di prove ritualmente acquisite o acquisibili al processo e quindi, nelle controversie soggette al rito del lavoro, anche all'esito dell'esercizio dei poteri istruttori d'ufficio di cui all'art. 421, comma 2, c.p.c., (Cass. 22 aprile 2022, n. 12900).

Nel rito lavoro, oltre agli ordinari mezzi di prova (210 e ss. c.p.c.), il giudice può chiedere informazioni ed osservazioni alle associazioni sindacali, disporre l'accesso sul luogo di lavoro e l'esame dei testimoni sul luogo stesso, nonché interrogare liberamente le persone che non possono essere escusse come testimoni exartt. 246 e 247 c.p.c.

Si applicano anche al rito lavoro, nei procedimenti instaurati dopo il 28 febbraio 2023, le novità introdotte dall'art. 3, comma 15, lett. a) e b), D.Lgs. n. 149/2022 in materia di:

  • ordine di esibizione (art. 210, commi 4 e 5 c.p.c.): se la parte o il terzo non vi adempiono senza giustificato motivo, il giudice può condannarli ad una pena pecuniaria e – nei confronti della parte – desumere argomenti di prova ex art. 116, comma 2 c.p.c.;
  • richiesta di informazioni alla pubblica amministrazione (art. 213, comma 2 c.p.c.): l'amministrazione deve trasmettere le informazioni richieste – o comunicare i motivi del diniego – entro 60 gg. dalla comunicazione del provvedimento del giudice.

In ogni stato del giudizio, il giudice può inoltre adottare ordinanze di condanna al pagamento di somme, che costituiscono titolo esecutivo, mantengono efficacia in caso di estinzione del giudizio, non sono appellabili ma possono essere revocate con la sentenza che definisce il giudizio e determina in via definitiva il quantum debeatur:

  • per il pagamento di somme non contestate (art. 423, comma 1 c.p.c.);
  • per il pagamento di somme a titolo provvisorio, nei limiti in cui ritiene raggiunta la prova (cd. provvisionale, art. 423, comma 2 c.p.c.).

Fase decisoria

Ai sensi dell'art. 429, comma 1 c.p.c. (come novellato dall'art. 53 del D.L. n. 112/2008, conv. in L. n. 133/2008), esaurita la discussione orale e udite le conclusioni delle parti, il giudice pronuncia sentenza con cui definisce il giudizio, predisponendo sia il dispositivo che la motivazione, e dandone lettura in udienza, con attestazione a verbale. Solo in caso di particolare complessità della controversia, egli può limitarsi a predisporre e leggere in udienza il solo dispositivo, depositando poi la motivazione in un termine non superiore a 60 gg., fissato nel dispositivo stesso. In tal caso, il cancelliere dà immediata comunicazione alle parti del deposito della motivazione (art. 430 c.p.c., come modificato dal D.Lgs. n. 149/2022).

L'omessa lettura del dispositivo all'udienza di discussione determina, ex art. 156, comma 2, c.p.c., la nullità insanabile della sentenza per mancanza del requisito formale indispensabile per il raggiungimento dello scopo dell'atto, correlato alle esigenze di concentrazione del giudizio e di immutabilità della decisione rispetto alla successiva stesura della motivazione (Cass. 6 dicembre 2021, n. 38521).

Il dispositivo della sentenza nel rito del lavoro è atto a rilevanza esterna ed autonoma poiché racchiude gli elementi del comando giudiziale, con la conseguenza che la contraddittorietà dello stesso non può essere sanata, né facendo applicazione del principio dell'integrazione del dispositivo con la parte motivazionale, né con il procedimento di correzione degli errori materiali e determina pertanto la nullità della sentenza ai sensi dell'art. 156 c.p.c., comma 2, difettando l'atto, considerato nella sua unità, dei requisiti indispensabili per il raggiungimento dello scopo cui è destinato (Cass. 28 maggio 2020, n. 10218, ma contra sulla ammissibilità della correzione Cass. 10 marzo 2020, n. 6947).

Trova tuttora applicazione, anche nel rito lavoro, la disposizione introdotta dall'art. 52, comma 5, L. n. 69/2009, secondo cui la motivazione della sentenza consiste nella succinta esposizione dei fatti rilevanti della causa e delle ragioni giuridiche della decisione, anche con riferimento a precedenti conformi; devono essere esposte, concisamente e nell'ordine, le questioni discusse e decise, nonché indicati principi di diritto e norme di legge applicati e, nel caso in cui la causa sia decisa secondo equità ex art. 114 c.p.c., devono essere esposte le ragioni su cui si fonda la decisione (art. 118, commi 1 e 2 disp. att. c.p.c.).

In virtù della generale previsione di cui all'art. 282 c.p.c. (come sostituito dalla L. n. 353/1990, ed espressamente richiamato dall'art. 431, comma 5 c.p.c. per le sentenze di condanna a favore della parte datoriale), sono ormai provvisoriamente esecutive tutte le sentenze civili di primo grado, non più dunque le sole sentenze di condanna pronunciate in favore del lavoratore per crediti derivanti dal rapporto di lavoro (art. 431, comma 1 c.p.c.). Tuttavia, solo per queste ultime è possibile procedere all'esecuzione a fronte del mero dispositivo, in pendenza del termine per il deposito della motivazione (art. 431, comma 2 c.p.c.).

Con ordinanza non impugnabile del giudice d'appello, può essere sospesa, in tutto o in parte, l'esecuzione delle sentenze di condanna:

  • a favore del lavoratore per crediti di lavoro, quando dall'esecuzione possa derivare alla controparte “gravissimo danno”, configurabile ad es. in caso di eccessivo squilibrio tra vantaggi e pregiudizi per le parti, o a fronte di un rischio di irripetibilità delle somme; l'esecuzione provvisoria resta comunque autorizzata sino alla somma di € 258,23 (431, commi 3 e 4 c.p.c.);
  • a favore del datore di lavoro, eventualmente su cauzione, quando ricorrono “gravi motivi”, ad es. attinenti all'insolvenza del lavoratore; per le impugnazioni proposte dopo il 28.2.23, l'istanza può essere proposta o riproposta nel corso del giudizio d'appello se sopravvengono mutamenti nelle circostanze (artt. 431, commi 5 e 6, e 283, commi 2 e 3 c.p.c., come sostituiti e inseriti dall'art. 3, comma 22, lett. a) e b), D.Lgs. n. 149/2022).

Se le istanze di sospensione sono manifestamente inammissibili o infondate, il giudice, con ordinanza non impugnabile, può condannare la parte che le ha proposte a pena pecuniaria di importo compreso tra € 250,00 e € 10.000,00.

In caso di condanna al pagamento di somme per crediti di lavoro in favore del lavoratore, la sentenza deve inoltre determinare gli interessi legali nonché il maggior danno eventualmente subito dal lavoratore a causa della svalutazione monetaria. Il calcolo va effettuato applicando gli interessi sulla sorte capitale – al lordo di ritenute fiscali e contributive (Cass. 17 giugno 2020, n. 11720) – via via rivalutata, con decorrenza dalla data di maturazione dei singoli diritti ed applicazione dell'indice Istat dei prezzi al consumo (art. 150 disp. att. c.p.c.). Il cumulo è invece vietato (art. 22, comma 36, L. n. 724/94) per emolumenti di natura retributiva, pensionistica e assistenziale spettanti ai dipendenti pubblici; il relativo divieto si estende anche ai crediti di natura risarcitoria.

Il cumulo tra interessi e risarcimento del danno da rivalutazione monetaria, previsto dall'art. 429, comma 3 c.p.c., trova applicazione anche nel caso di crediti liquidati ai sensi dell'art. 18, L. n. 300/1970, a titolo di risarcimento del danno da licenziamento illegittimo, i quali, sebbene non siano sinallagmaticamente collegati con una prestazione lavorativa, rappresentano pur sempre l'utilità economica che da questa il lavoratore avrebbe tratto ove la relativa esecuzione non gli fosse stata impedita dall'ingiustificato recesso della controparte. Ne consegue che sia la rivalutazione monetaria che gli interessi legali vanno attribuiti d'ufficio, con decorrenza dalla data del licenziamento sulla somma capitale via via rivalutata (Cass. 21 maggio 2014, n. 11235).

L'indennità di cui all'art. 32, comma 5, L. n. 183/2010, dovuta al lavoratore a titolo di risarcimento del danno per l'illegittima apposizione del termine al rapporto di lavoro, non ha natura retributiva e su di essa non spettano la rivalutazione monetaria e gli interessi legali se non dalla data della pronuncia giudiziaria dichiarativa della illegittimità della clausola appositiva del termine al contratto di lavoro subordinato (Cass. 17 febbraio 2016, n. 3062).

La restituzione dei contributi assicurativi versati dal datore di lavoro in misura maggiore di quella dovuta costituisce l'oggetto di una obbligazione pecuniaria di fonte legale (art. 2033 c.c.), assoggettata alla disposizione di cui all'art. 1224 c.c. in tema di interessi moratori e risarcimento del maggior danno per il ritardo nell'adempimento, restando invece inapplicabile, all'indicata obbligazione restitutoria, la speciale disciplina del cumulo di interessi legali e rivalutazione  dettata esclusivamente per i crediti di previdenza sociale e di assistenza sociale obbligatoria (Cass. 12 marzo 2020, n. 7091).

Il divieto di cumulo di rivalutazione monetaria ed interessi, previsto dall'art. 22, comma 36, L. n. 724/1994 per gli emolumenti di natura retributiva, pensionistica ed assistenziale spettanti ai dipendenti pubblici in attività di servizio o in quiescenza, si applica anche ai crediti risarcitori (quali quelli derivanti da omissione contributiva o da licenziamento illegittimo), trattandosi di una regola limitativa della previsione generale dell'art. 429, comma 3 c.p.c. che, nell'utilizzare la più ampia locuzione “crediti di lavoro”, ha inteso riferirsi a tutti i crediti connessi al rapporto di lavoro e non soltanto a quelli strettamente retributivi (Cass. 2 luglio 2020, n. 13624).

Ai sensi dell'art. 432 c.p.c., infine, il giudice può procedere alla liquidazione del dovuto in via equitativa, quando sia certo l'an ma non sia provato ilquantum.

In virtù del richiamo operato dall'art. 442 c.p.c., che estende le disposizioni dettate per le controversie di lavoro alle controversie in materia di previdenza ed assistenza obbligatorie, la disposizione dell'art. 432 c.p.c., che prevede il ricorso alla liquidazione equitativa quando sia certo il diritto, ma non sia possibile determinare la somma dovuta, può trovare applicazione anche per la determinazione della base imponibile per il calcolo dei contributi di previdenza ed assistenza sociale (Cass. 24 agosto 2020, n. 17607).

Controversie in materia di lavoro pubblico

Alle controversie relative a rapporti di lavoro alle dipendenze della pubblica amministrazione si applicano alcune disposizioni speciali:

  • l'art. 415, ult. comma c.p.c. prescrive che il ricorso sia notificato direttamente all'amministrazione destinataria, ai sensi dell'art. 144, comma 2 c.p.c., salvo che per le amministrazioni statali alle quali va sempre notificato a pena di nullità presso l'Avvocatura dello Stato competente per territorio ai sensi dell'art. 11, R.D. n. 1611/1933;
  • l'art. 417 bis c.p.c. consente alle pubbliche amministrazioni di stare in giudizio in primo grado avvalendosi di propri dipendenti, salvo che l'Avvocatura di Stato non assuma direttamente la trattazione della causa, ove vengano in rilievo questioni di massima o aventi notevoli riflessi economici;
  • l'art. 152 bis disp. att. c.p.c. dispone che, in caso di condanna in favore dell'amministrazione rappresentata in giudizio da propri dipendenti ai sensi dell'art. 417 bis cit., ai fini della liquidazione delle spese di lite, si applicano gli onorari previsti dalle tariffe vigenti per gli avvocati, ridotti del 20%;
  • l'art. 63, comma 1, D. Lgs. n. 165/2001 consente al giudice di disapplicare eventuali atti amministrativi illegittimi presupposti quando siano rilevanti ai fini della decisione, senza che l'eventuale impugnazione degli stessi innanzi al giudice amministrativo possa rappresentare causa di sospensione del giudizio;
  • l'art. 63 bis, D. Lgs. n. 165/2001 consente all'ARAN di intervenire nei giudizi, al fine di garantire la corretta interpretazione ed uniforme applicazione dei contratti collettivi;
  • l'art. 64, D. Lgs. n. 165/2001 prevede che – quando, per definire la controversia, sia necessario risolvere in via pregiudiziale una questione interpretativa relativa all'efficacia, validità ed interpretazione delle clausole di un CCNL –, il giudice disponga la comunicazione degli atti all'ARAN con apertura di un apposito procedimento incidentale.

Nel processo del lavoro, la comunicazione o notificazione, alla pubblica amministrazione che si sia difesa mediante propri dipendenti, della sentenza conclusiva del giudizio di primo grado, ove effettuata successivamente all'entrata in vigore dell'art. 16, comma 7, D.L. n. 179/2012, conv. con modif. dalla L. n. 221/2012, deve essere eseguita per via telematica all'indirizzo di posta elettronica comunicato ai sensi del comma 12 dell'art. 16 cit. (nella formulazione ratione temporis applicabile), restando pertanto ammissibile la notificazione presso la cancelleria non già nel caso di mancata elezione di domicilio ex art. 82 del R.D. n. 37/1934 (inapplicabile ai funzionari della P.A. cui sia demandata la difesa in giudizio), bensì nella sola ipotesi di impossibilità di procedere alla notifica telematica, imputabile alla P.A. medesima (Cass. 5 novembre 2021, n. 32166).

La previsione di cui all'art. 417 bis c.p.c., secondo cui le P.A., nelle controversie relative ai rapporti di lavoro, possono stare in giudizio, in primo grado, mediante loro dipendenti, si differenzia da quella di cui all'art. 2, R.D. n. 1611/1933, che consente all'Avvocatura dello Stato di delegare per la rappresentanza dell'Amministrazione un funzionario o procuratore, in quanto in un caso l'amministrazione assume direttamente la difesa, nell'altro la delega concerne la sola rappresentanza in giudizio, restando l'attività defensionale affidata all'ufficio dell'Avvocatura competente per territorio. Ne consegue che nel primo caso la notifica della sentenza di primo grado, ai fini del decorso del termine breve per l'impugnazione, va effettuata allo stesso dipendente, mentre nel secondo la notifica della sentenza al delegato è radicalmente nulla, dovendosi effettuare presso gli uffici dell'Avvocatura dello Stato, ex art. 11, R.D. n. 1611/1933 (Cass. 5 settembre 2016, n. 17596).

Controversie in materia di licenziamento

Rito applicabile

L'art. 37, comma 1, lett. e), D.Lgs. n. 149/2022 ha abrogato, con effetto a decorrere dal 28.2.2023, l'art. 1, commi da 47 a 69 della L. n. 92/2012, dando luogo alla cd. unificazione dei riti in materia di licenziamento.

Ne discende che:

  • ai procedimenti instaurati prima del 28.2.2023, continuano ad applicarsi le norme di rito vigenti al momento dell'instaurazione del giudizio e dunque: il rito cd. Fornero (art. 1, commi da 47 a 69 della L. n. 92/2012) per le impugnative ex art. 18, L. n. 300/70, ed il rito di cui all'art. 409 e ss. c.p.c. per le impugnative proposte ai sensi dell'art. 8, L. n. 604/66 o ai sensi del D.Lgs. n. 23/2015;
  • ai procedimenti instaurati a decorrere dal 28.2.2023, si applica il rito lavoro di cui agli artt. 409 e ss. c.p.c., qualunque sia la tutela invocata.

Tuttavia, a decorrere dalla stessa data del 28.2.2023, alle controversie in cui sia invocata la tutela reintegratoria, anche ove debbano essere risolte questioni relative alla qualificazione del rapporto, è riconosciuto carattere prioritario, di tal ché, tenuto conto delle circostanze esposte nel ricorso, il giudice può ridurre i termini del procedimento sino alla metà e procedere alla trattazione congiunta ovvero alla separazione delle domande in ragione delle esigenze di celerità (da valutarsi – secondo la relazione illustrativa al D.Lgs. n. 149/2022 – in relazione all'eventuale periculum in mora), riservando nel proprio calendario delle udienze particolari giorni, anche ravvicinati, alla concentrazione della fase istruttoria e di quella decisoria (art. 441 bis c.p.c.); i presidenti di sezione ed i dirigenti degli uffici giudiziari sono tenuti a favorire e verificare la trattazione prioritaria di tali procedimenti (art. 144 quinquies disp. att. c.p.c.).

Devono qualificarsi impugnative di licenziamento con domanda reintegratoria quelle proposte:

  • ex art. 18, commi 1-3, comma 4, comma 7 (con rinvio alla disciplina di cui al comma 4), L. n. 300/1970;
  • ex artt. 2 e 3, comma 2, D.Lgs. n. 23/2015;
  • ex art. 441 ter c.p.c., in caso di licenziamento del socio della cooperativa suscettibile di tutela reintegratoria (Cass. 18 novembre 2021, n. 35341).

Le misure sollecitatorie di cui all'art. 441 bis c.p.c. non risultano invece applicabili alle domande proposte:

  • ex art. 18, commi 5, 6 e 7 (con rinvio alla disciplina di cui al comma 5), L. n. 300/70;
  • ex art. 3, comma 1, e artt. 4 e 9, D.Lgs. n. 23/2015;
  • ex art. 8, L. n. 604/66;
  • ex art. 441 quater c.p.c., in caso di impugnativa proposta con i riti speciali di cui agli artt. 38, D.Lgs. n. 198/2006 e 28, D.Lgs. n. 150/2011;
  • domande di accertamento della legittimità del licenziamento proposte dal datore di lavoro.

Controversie in materia di licenziamento del socio di cooperativa

Posto che l'estinzione del rapporto di lavoro del socio di società cooperativa può derivare sia dall'adozione della delibera di esclusione ex art. 2533 c.c., di cui costituisce conseguenza necessitata ex lege (art. 5, comma 2, L. n. 142/2001), sia dall'adozione di un formale atto di licenziamento (eventualmente contestuale alla delibera di esclusione), va precisato che solo nel secondo caso, ove ne ricorrano i relativi presupposti, v'è spazio per le tuteleobbligatoria o reale – connesse all'intimazione del licenziamento (Cass. 18 novembre 2021, n. 35341); in difetto di formale licenziamento, il socio può invece ottenere, all'esito della eventuale invalidazione della delibera di esclusione, la sola tutela restitutoria, con ricostituzione tuttavia sia del rapporto associativo sia dell'eventuale concorrente rapporto di lavoro, a prescindere dall'inapplicabilità dell'art. 18, L. n. 300/70 (Cass. s.u. 20 novembre 2017, n. 27436, Cass. 13 maggio 2016, n. 9916, Cass. 5 gennaio 2011, n. 14741).

Quanto al rito, fermo restando che le controversie tra socio e cooperativa relative alla prestazione mutualistica sono di competenza del tribunale ordinario (art. 5, comma 2, L. n. 142/2001),  la giurisprudenza – ove il socio avesse impugnato sia la delibera di esclusione sia il contestuale licenziamento eventualmente intimatogli – aveva ravvisato un'ipotesi di connessione di causeex art. 40, comma 3 c.p.c., con conseguente applicazione del rito exartt. 409 e ss. c.p.c. e competenza del giudice del lavoro (ex plurimis, Cass. 6 ottobre 2015 n. 19975).

Al fine di dirimere ogni dubbio sulla competenza e sul rito applicabile, l'art. 3, comma 32, D.Lgs. n. 149/2022, ha introdotto l'art. 441 ter c.p.c. (applicabile a decorrere dal 28.2.2023), prevendendo l'assoggettamento al rito di cui all'art. 409 c.p.c. e la competenza del giudice del lavoro sia nell'ipotesi in cui sia stato impugnato il licenziamento formalmente intimato ma siano state proposte anche questioni relative al rapporto associativo, sia quando, in difetto di formale licenziamento, la cessazione del rapporto di lavoro sia derivata dalla cessazione del rapporto associativo.

Controversie in materia di licenziamento discriminatorio

L'art. 3, comma 32, D.Lgs. n. 149/2022, ha introdotto altresì l'art. 441 quater c.p.c. (parimenti applicabile a decorrere dal 28.2.2023) per precisare che – ferma la possibilità di impugnare il licenziamento discriminatorio sia con il rito di cui agli artt. 409 e ss. c.p.c. sia con i riti speciali (artt. 38, D.Lgs. n. 198/2006 e 28, D.Lgs. n. 150/2011), ricorrendone i rispettivi presupposti e derivandone le diverse tipologie di tutela –, la scelta operata preclude di riproporre la medesima domanda con rito diverso.

Riferimenti

Normativa:

409 e ss. c.p.c.

441 bis, 441 ter, 441 quater c.p.c.

D. Lgs. n. 149/2022

D. Lgs. 150/2011

D. Lgs. 165/2011

Giurisprudenza:

Cass. 5 luglio 2023, n. 19023

Cass. 8 settembre 2022, n. 26532

Cass. 5 novembre 2021, n. 32166

Cons. Stato 27 gennaio 2022, n. 579

Corte cost. 11 dicembre 2020, n. 268

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