Processo del lavoro - primo grado

15 Aprile 2016

Scheda in fase di aggiornamento

Il rito del lavoro è improntato a principi di oralità, concentrazione e immediatezza, per cui tendenzialmente è prevista una unica udienza di discussione, ove devono essere compiute tutte le attività processuali: verifica della regolarità degli atti, della presenza e della costituzione delle parti, dell'integrità del contraddittorio; interrogatorio libero delle parti e tentativo di conciliazione; ammissione dei mezzi di prova e assunzione delle prove; discussione e decisione. Nella pratica le attività descritte vengono suddivise in più udienze, una di prima comparizione nella quale di compiono le attività introduttive e si ammettono le prove, una istruttoria, nella quale vengono assunte le prove ammesse e una di decisione in cui le parti discutono la causa e il giudice pronuncia la decisione. Un rigido meccanismo di preclusioni consente di definire sin dall'inizio le questioni giuridiche da affrontare e le circostanze di fatto da accertare attraverso l'istruttoria dibattimentale.

Inquadramento

Il rito del lavoro è improntato a principi di oralità, concentrazione e immediatezza, per cui tendenzialmente è prevista una unica udienza di discussione, ove devono essere compiute tutte le attività processuali: verifica della regolarità degli atti, della presenza e della costituzione delle parti, dell'integrità del contraddittorio; interrogatorio libero delle parti e tentativo di conciliazione; ammissione dei mezzi di prova e assunzione delle prove; discussione e decisione.

Nella pratica le attività descritte vengono suddivise in più udienze, una di prima comparizione nella quale di compiono le attività introduttive e si ammettono le prove, una istruttoria, nella quale vengono assunte le prove ammesse e una di decisione in cui le parti discutono la causa e il giudice pronuncia la decisione.

Un rigido meccanismo di preclusioni consente di definire sin dall'inizio le questioni giuridiche da affrontare e le circostanze di fatto da accertare attraverso l'istruttoria dibattimentale.

Individuazione delle controversie soggette al rito lavoro

Il processo del lavoro è un rito speciale che deve essere obbligatoriamente attivato per le seguenti controversie (art. 409 c.p.c.):

  • Rapporti di lavoro subordinato privato e pubblico (per questi ultimi a meno che non siano devoluti alla giurisdizione del giudice amministrativo)

Per controversie relative al rapporto di lavoro devono intendersi non solo quelle inerenti obbligazioni propriamente caratteristiche del rapporto di lavoro, ma tutte le controversie in cui la pretesa fatta valere in giudizio si ricolleghi direttamente al detto rapporto, nel senso che questo pur non costituendo “causa petendi” della pretesa, si presenti come antecedente e presupposto necessario - non meramente occasionale - della situazione di fatto in ordine alla quale viene invocata la tutela giurisdizionale, a nulla rilevando che parti del giudizio non siano il lavoratore e il datore di lavoro, posto che in ogni caso la domanda è destinata ad incidere su di un diritto dei lavoratori (Cassazione, Sez. Un., 24 novembre 1997 n. 11726).

In evidenza: Cassazione

Nell'espressione "controversie relative a rapporti di lavoro subordinato" contenuta nell'art. 409 c.p.c. è compresa ogni controversia comunque collegata ad un rapporto di lavoro, in atto, estinto o ancora da costituirsi. Pertanto, sono devolute alla competenza del giudice del lavoro anche le cause nelle quali si fanno valere diritti all'assunzione nel posto di lavoro privato o altri diritti nascenti dalla mancata assunzione in violazione di obblighi contrattuali o di legge (Cassazione, sez. lav., 21 maggio 2003 n. 8022).

La controversia promossa dal condominio di un edificio nei confronti del proprio portiere, che sia rivolta a conseguire il rilascio dello alloggio concessogli per l'espletamento delle relative mansioni, quale effetto dell'accertamento dell'intervenuta risoluzione del rapporto di lavoro, negata dal convenuto, spetta alla cognizione del pretore in funzione di giudice del lavoro, dato che investe la cessazione o meno del suddetto rapporto, come presupposto indispensabile del preteso rilascio (Cassazione 9 maggio 1987 n. 4301).

  • Rapporti di agenzia

Per potersi configurare la competenza del giudice del lavoro in tema di contratti di agenzia è necessario che l'attività di collaborazione sia coordinata e continuativa e venga svolta quanto meno in misura prevalente con il lavoro personale dell'agente. Tale situazione non ricorre allorché il contratto di agenzia intercorra con una società di capitali o, come nella specie, con una società di persone che costituisca un autonomo centro d'imputazione di interessi tra il socio e il preponente, ovvero quando l'agente svolga la propria attività avvalendosi di una struttura organizzativa a carattere imprenditoriale (Cassazione, sez. II, 22 marzo 2006 n. 6351). In materia di rapporti di agenzia, ove l'agente abbia organizzato la propria attività di collaborazione in forma societaria, anche di persone, o comunque si avvalga di una autonoma struttura imprenditoriale, non è ravvisabile un rapporto di lavoro coordinato e continuativo ai sensi dell'art. 409, primo comma, n. 3, c.p.c., sicché non può essere riconosciuta in via automatica la rivalutazione monetaria sulle somme liquidate in favore dell'agente (Cassazione, sez. II, 16 febbraio 2015, n. 3029).

  • Collaborazioni coordinate e continuative

Perché sia configurabile un rapporto di cosiddetta parasubordinazione ai sensi dell'art. 409 n. 3 c.p.c., devoluto alla competenza del giudice del lavoro, è necessario che la prestazione d'opera del collaboratore autonomo con l'ente preponente sia continuativa e personale, o prevalentemente personale, e che l'attività si svolga in connessione o collegamento con il preponente stesso, per contribuire al conseguimento delle finalità cui esso mira; la Suprema Corte ha qualificato un rapporto in termini di parasubordinazione attesa la durata, decennale, della collaborazione, la cadenza mensile degli incarichi, la natura del compenso percepito, rapportata al valore di stima del bene e con un "minimo garantito", nonché per il persistente e continuativo collegamento con i capi progetto, i capi servizio e gli impiegati della società, a cui il prestatore, nell'espletamento della sua attività, doveva rapportarsi, ritenendo quindi ininfluente il carattere professionale della prestazione (Cassazione, sez. lav., 1 ottobre 2008, n. 24361).

  • Rapporti di associazione in partecipazione

In tema di contratto di associazione in partecipazione con apporto di prestazione lavorativa da parte dell'associato, l'elemento differenziale rispetto al contratto di lavoro subordinato con retribuzione collegata agli utili d'impresa risiede nel contesto regolamentare pattizio in cui si inserisce l'apporto della prestazione da parte dell'associato, dovendosi verificare l'autenticità del rapporto di associazione, che ha come elemento essenziale, connotante la causa, la partecipazione dell'associato al rischio di impresa e alla distribuzione non solo degli utili, ma anche delle perdite. Pertanto, laddove è resa una prestazione lavorativa inserita stabilmente nel contesto dell'organizzazione aziendale, senza partecipazione al rischio d'impresa e senza ingerenza ovvero controllo dell'associato nella gestione dell'impresa stessa, si ricade nel rapporto di lavoro subordinato in ragione di un generale "favor" accordato dall'art. 35 Cost., che tutela il lavoro "in tutte le sue forme ed applicazioni" (Cassazione 28 gennaio 2013, n. 1817).

La riconducibilità del rapporto di lavoro al contratto di associazione in partecipazione con apporto di prestazione lavorativa da parte dell'associato ovvero al contratto di lavoro subordinato con retribuzione collegata agli utili, esige un'indagine del giudice di merito volta a cogliere la prevalenza, alla stregua delle modalità di attuazione del concreto rapporto, degli elementi che caratterizzano i due contratti, tenendo conto, in particolare, che, mentre il primo implica l'obbligo del rendiconto periodico dell'associante e l'esistenza per l'associato di un rischio di impresa, il secondo comporta un effettivo vincolo di subordinazione più ampio del generico potere dell'associante di impartire direttive e istruzioni al cointeressato, con assoggettamento al potere gerarchico e disciplinare di colui che assume le scelte di fondo dell'organizzazione aziendale: la Suprema Corte ha ravvisato un'associazione in partecipazione nella ampia autonomia dell'associato - privo di vincoli di orario - nella gestione del rapporto con i fornitori e nella fissazione di prezzi e condizioni di vendita delle merci, nell'assenza di controllo da parte dell'associante sulle presenze dell'associato, nella partecipazione di questi agli utili ed alle perdite in relazione all'andamento dei singoli esercizi (Cassazione, sez. lav., 29 gennaio 2015 n. 1692).

  • Rapporti di lavoro dei soci di cooperative

In evidenza: Cassazione

Qualora il rapporto di lavoro del socio lavoratore di cooperativa venga risolto per due cause concorrenti che traggono origine da una stessa condotta, incidente sia sugli obblighi statutari che sui doveri di correttezza, buona fede e lealtà del lavoratore, il concorso dell'impugnativa della delibera di esclusione e del provvedimento di licenziamento configura un'ipotesi di connessione di cause, una con riflessi sul rapporto mutualistico, l'altra su quello lavorativo, che determina la competenza del giudice del lavoro in forza dell'art. 40, comma 3, c.p.c. (Cassazione, sez. VI, 6 ottobre 2015 n. 19975).

Rientrano, inoltre, nella competenza funzionale del giudice del lavoro le controversie relative a:

  • Invenzioni del lavoratore;
  • Lavoro dei detenuti;
  • Lavoro sportivo;
  • Lavoro nautico;
  • Rapporti di collaborazione in agricoltura.

In evidenza: Cassazione

Esula dalla competenza funzionale del tribunale fallimentare, ai sensi dell'art. 24 r.d. 16 marzo 1942, n. 267, ed è, invece, devoluta alla cognizione del giudice del lavoro, la controversia instaurata dal lavoratore che, senza avanzare pretese creditorie, chieda solo l'accertamento del proprio rapporto di lavoro, non risolto dal fallimento, alle dipendenze della società dichiarata fallita, dovendo, per contro, essere fatta valere in sede fallimentare una siffatta domanda, quando essa costituisca solo la premessa per ottenere, nello stesso giudizio, vantaggi patrimoniali di natura retributiva o risarcitoria (Cassazione, sez. lav. 18 giugno 2004 n. 11439).

Competenza per territorio

L'art. 413 c.p.c. distingue ai fini della competenza territoriale l'impiego privato dal pubblico impiego.

Per l'impiego privato sono previsti tre criteri speciali tra essi concorrenti:

  • Luogo ove è sorto il rapporto;
  • Luogo ove si trova l'azienda;
  • Luogo ove si trova una dipendenza dell'azienda alla quale il lavoratore è addetto o era addetto al momento della cessazione del rapporto.

L'art. 413, secondo comma, c.p.c. attribuisce la competenza territoriale, alternativamente, al giudice nella cui circoscrizione è sorto il rapporto ovvero si trova l'azienda o una sua dipendenza alla quale è addetto il lavoratore o presso la quale egli prestava la sua opera al momento della fine del rapporto. Trattasi di criterio determinativo della competenza speciale rispetto a quello generale delle persone fisiche di cui all'art. 18 c.p.c., il quale può in via sussidiaria e residuale trovare applicazione esclusivamente nelle ipotesi in cui nessuno dei tre criteri possa trovare applicazione (art. 413 penultimo comma, c.p.c.). L'art. 413, ultimo comma, c.p.c. precisa che i criteri di competenza territoriale fissati sono inderogabili, essendo nulle eventuali clausole derogative della competenza territoriale. Ai fini della determinazione della competenza territoriale nelle controversie di lavoro, pertanto, la competenza deve essere accertata, anzitutto, in base ai criteri specificamente dettati dall'art. 413 c.p.c. e, ove questi non trovino applicazione, in forza del solo art. 18 c.p.c. sul foro generale delle persone fisiche, siccome reso applicabile in via residuale dal comma settimo dello stesso art. 413, mentre non possono operare altri criteri determinativi della competenza (Cass., sez. lav., 9 febbraio 2009 n. 3117).

In evidenza: Cassazione

Nel rito del lavoro, si applica anche alle controversie introdotte dal datore di lavoro il principio secondo il quale i fori speciali esclusivi, alternativamente concorrenti tra loro, indicati dall'art. 413, secondo e terzo comma, c.p.c., per individuare il giudice territorialmente competente in una controversia individuale di lavoro subordinato, sono tre, e cioè quello ove è sorto il rapporto, quello ove si trova l'azienda e quello della dipendenza ove il lavoratore è addetto (o prestava la sua attività lavorativa alla fine del rapporto), non consentendo la lettera della legge l'unificazione dei fori nel luogo di svolgimento dell'attività lavorativa; né della legittimità costituzionale della disciplina può dubitarsi, attesa la discrezionalità del legislatore (v. Corte cost. n. 362/1985 e 241/1993) nella fissazione dei criteri di competenza territoriale (cassazione, sez. VI, 27 luglio 2012, n. 13530).

Nelle controversie individuali di lavoro, l'attore è libero di scegliere uno dei fori alternativi di cui all'art. 413, secondo comma, c.p.c., ma ha l'onere di dimostrare che ricorrono gli elementi di fatto relativi al criterio di competenza per territorio prescelto (Cassazione, sez. VI, 31 luglio 2014, n. 17513).

In evidenza: Cassazione

Per dipendenza dell'azienda, ai fini della determinazione del giudice territorialmente competente in ordine alle controversie di lavoro ai sensi dell'art. 413 c.p.c., deve intendersi una struttura organizzativa di ordine economico funzionale dislocata in luogo diverso dalla sede dell'azienda e caratterizzata dall'esplicazione di un potere decisionale e di controllo conforme alle esigenze specifiche dell'attività ad essa facente capo. Ne consegue che tale dipendenza può essere ravvisata anche in un cantiere stradale della società datrice di lavoro, in cui siano addetti lavoratori e nel quale esistano beni destinati a rendere possibile l'espletamento dell'attività appaltata e quindi il conseguimento dei fini imprenditoriali (Cassazione, sez. VI, 22 maggio 2014 n. 11320).

A norma dell'art. 413, comma 5°, c.p.c., “competente per territorio per le controversie relative ai rapporti di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni è il giudice nella cui circoscrizione ha sede l'ufficio al quale il dipendente è addetto o era addetto al momento della cessazione del rapporto”.

Si tratta, a differenza di quanto avviene per i rapporti di lavoro privati, di foro esclusivo che non si cumula con i fori alternativi di cui al primo comma della stesso articolo: in tema di competenza territoriale per le controversie relative a dipendenti pubblici, il quinto comma dell'art 413, c.p.c. (introdotto dall'art. 40 del D. Lgs. 31 marzo 1998 n. 80), nel prevedere la competenza territoriale del giudice nella cui circoscrizione ha sede l'ufficio al quale il dipendente è addetto, deve essere inteso nel senso che la individuazione del foro speciale per le controversie dei dipendenti pubblici ha carattere esclusivo e non concorrente (Cassazione, sez. lav., 6 agosto 2002, n. 11831).

In evidenza: Cassazione

La sede dell'ufficio ove il dipendente è addetto è quella presso cui in concreto il dipendente presta servizio: la Suprema Corte in sede di regolamento di competenza ha affermato che nelle controversie relative a rapporti di lavoro alle dipendenze della pubblica amministrazione, la competenza per territorio va determinata, secondo quanto previsto dall'art. 413 c.p.c., in relazione al luogo in cui si trova l'azienda o la sua dipendenza ove il dipendente presta servizio, intendendosi per tale la sede di effettivo servizio e non la sede in cui è effettuata la gestione amministrativa del rapporto secondo le regole interne delle singole amministrazioni (Cassazione, sez. lav., 15 ottobre 2007, n. 21562).

La competenza per territorio in relazione a domanda diretta alla costituzione del rapporto di lavoro alle dipendenze di una P.A., volta, nella specie, all'accertamento del diritto di un insegnante all'inclusione nella graduatoria dell'ufficio scolastico provinciale, con conseguente immissione in ruolo e sottoscrizione del contratto a tempo indeterminato, spetta, in difetto di un rapporto già in essere, al giudice nella cui circoscrizione ha sede l'ufficio dove il ricorrente chiede di essere assunto, dovendosi stabilire, agli effetti dell'art. 413, quinto comma, c.p.c., un'equazione fra rapporto di lavoro già costituito e rapporto di lavoro virtuale (Cassazione, sez. VI 25 maggio 2015 n. 10697).

Trattandosi di una competenza inderogabile, la relativa eccezione può essere rilevata anche di ufficio.

La fase introduttiva del giudizio - Ricorso

Nel processo del lavoro la domanda si propone con ricorso che deve essere depositato presso la cancelleria del Tribunale e poi notificato alla controparte unitamente al decreto con il quale il giudice fissa l'udienza di comparizione delle parti (art. 415 c.p.c.).

Il ricorso deve contenere (art. 414 c.p.c.):

  • L'indicazione del giudice

Nel rito del lavoro, l'erronea indicazione nel ricorso introduttivo dell'ufficio giudiziario adìto non è causa di nullità, poiché il deposito dell'atto nella cancelleria ed il decreto di fissazione dell'udienza di discussione escludono che il convenuto, cui ricorso e decreto siano notificati, possa essere incerto circa il giudice davanti al quale deve comparire, che va identificato necessariamente in quello dinanzi a cui la causa è stata così radicata (Cassazione, sez. lav., 26 aprile 2011 n. 9344).

  • Il nome, il cognome, la residenza e il domicilio eletto del soggetto che agisce
  • Il nome, il cognome, la residenza, ovvero la denominazione della persona giuridica e la sede del soggetto convenuto

L'omessa indicazione nel ricorso della denominazione della persona giuridica attrice non determina la nullità dell'atto introduttivo, dovendosi ritenere sanata l'inosservanza dell'art. 414, n. 2, c.p.c., ove dal contenuto dell'atto emerga, senza incertezze, l'identità dell'ente e la controparte non subisca alcun pregiudizio nello svolgimento delle sue difese. Né la valutazione di idoneità dell'atto processuale da parte del giudice di primo grado può essere sindacata dal giudice di appello in difetto di specifico motivo d'impugnazione, in mancanza del quale la dichiarazione officiosa di nullità della domanda dà luogo al vizio di ultrapetizione (Cassazione, sez. lav., 4 giugno 2008, n. 14789).

  • La determinazione dell'oggetto della domanda e l'esposizione dei fatti e degli elementi di diritto sui quali si fonda la domanda con le relative conclusioni

In evidenza: Cassazione

Nel rito del lavoro, per aversi nullità del ricorso introduttivo del giudizio di primo grado per mancata determinazione dell'oggetto della domanda o per mancata esposizione degli elementi di fatto e delle ragioni di diritto su cui si fonda la domanda stessa, non è sufficiente l'omessa indicazione dei corrispondenti elementi in modo formale, ma è necessario che attraverso l'esame complessivo dell'atto - che compete al giudice del merito ed è censurabile in sede di legittimità solo per vizi di motivazione - sia impossibile l'individuazione esatta della pretesa dell'attore e il convenuto non possa apprestare una compiuta difesa. Ne consegue che la suddetta nullità deve essere esclusa nell'ipotesi in cui la domanda abbia per oggetto spettanze retributive, allorché l'attore abbia indicato - come nel caso di specie - il periodo di attività lavorativa, l'orario di lavoro, l'inquadramento ricevuto ed abbia altresì specificato la somma complessivamente pretesa e i titoli in base ai quali vengono richieste le spettanze, rimanendo irrilevante la mancata formulazione di conteggi analitici o la mancata notificazione, con il ricorso, del conteggio prodotto dal lavoratore (Cassazione, sez. VI, 8 febbraio 2011 n. 3126).

Nel rito del lavoro la nullità del ricorso introduttivo del giudizio di primo grado per mancata determinazione dell'oggetto della domanda o per mancata esposizione delle ragioni, di fatto e di diritto, non ricorre ove si deducano pretesi errori di prospettazione in diritto e la mancata allegazione di fatti limitativi della pretesa invocata, trattandosi di elementi idonei ad incidere solo sulla fondatezza di merito della domanda (Cassazione, sez. lav. 22 gennaio 2009 n. 1629). Secondo la regola prevista dall'art. 414 c.p.c., i fatti su cui il ricorrente fonda le sue pretese devono essere specificatamente indicati, dovendosi altrimenti pervenire al rigetto della domanda, perché l'altra parte non è stata posta in condizione di apprestare una dettagliata ed efficace difesa: la Suprema Corte ha confermato, in quanto "corretta e logica", la sentenza di merito che aveva respinto la domanda di una lavoratrice relativa a compensi per lavoro straordinario, mancando nel ricorso la specifica indicazione dell'orario di lavoro svolto (Cassazione, sez. lav., 5 novembre 2011 n. 21217).

  • L'indicazione specifica dei mezzi di prova del quale il ricorrente intende avvalersi e in particolare dei documenti che si offrono in comunicazione

Nel rito del lavoro non si versa in ipotesi di nullità del ricorso, per impossibilità di individuazione della pretesa dell'attore, ove l'esposizione dei fatti dedotti non sia corredata della richiesta di mezzi istruttori, vertendosi, in tal caso, in ipotesi di carenza probatoria, cui consegue il rigetto della domanda perché non provata (Cassazione, sez. lav., 22 luglio 2009, n. 17102).

Nel rito del lavoro, qualora la parte abbia, con l'atto introduttivo del giudizio, proposto capitoli di prova testimoniale mediante indicazione specifica dei fatti, formulati in articoli separati, ma omettendo l'enunciazione delle generalità delle persone da interrogare, incorre nella decadenza della relativa istanza istruttoria, con la conseguenza che il giudice non può fissare un termine, ai sensi dell'art. 421 c.p.c., per sanare la carente formulazione (Cass., sez. III, 14 marzo 2014, n. 5950). In senso opposto: nel rito del lavoro, qualora la parte abbia, con l'atto introduttivo del giudizio, proposto capitoli di prova testimoniale, specificamente indicando di volersi avvalere del relativo mezzo in ordine alle circostanze di fatto ivi allegate, ma omettendo l'enunciazione delle generalità delle persone da interrogare, tale omissione non determina decadenza dalla relativa istanza istruttoria, ma concreta una mera irregolarità, che abilita il giudice all'esercizio del potere-dovere di cui all'art. 421, comma 1, c.p.c. (Cass., sez. lav., 17 luglio 2009, n. 16661).

In evidenza: Cassazione

Nel rito del lavoro, la verifica degli elementi essenziali del ricorso introduttivo costituisce indagine pregiudiziale rispetto alla decisione sul merito, cui inerisce anche la valutazione delle prove. Ne consegue che il ricorso privo dell'esatta determinazione dell'oggetto della domanda o dell'esposizione dei fatti e degli elementi di diritto è affetto da nullità insanabile, che il giudice è tenuto a dichiarare preliminarmente senza possibilità di scendere all'esame del merito, neppure per respingere la domanda perché non provata (Cassazione, sez. lav., 17 gennaio 2014, n. 896).

Nel processo del lavoro, ove manca una disciplina specifica in ordine al regime delle nullità, è applicabile il generale principio di conservazione degli atti processuali, che consente la salvezza degli atti o anche di alcuni dei loro effetti in ragione del raggiungimento dello scopo degli stessi (Cassazione, sez. lav. 21 agosto 2007 n. 17778).

Nel rito del lavoro, l'omessa indicazione, nell'atto introduttivo del giudizio di primo grado, ovvero nella memoria difensiva del convenuto, dei documenti, e l'omesso deposito degli stessi contestualmente a tali atti, determinano la decadenza del diritto alla produzione dei documenti medesimi; siffatto rigoroso sistema di preclusioni trova, tuttavia, un contemperamento - ispirato alla esigenza di coniugare il principio dispositivo con la ricerca della "verità reale" - nei poteri d'ufficio del giudice in materia di ammissione di nuovi mezzi di prova, ai sensi dell'art. 421 c.p.c. (Cassazione, sez. lav., 2 ottobre 2009, n. 21124).

Costituzione del convenuto

Il convenuto deve costituirsi almeno dieci giorni prima dell'udienza mediante il deposito di una memoria difensiva e di eventuale documentazione. Nella memoria il convenuto deve, a pena di decadenza, proporre eventuali domande riconvenzionali, sollevare eccezioni non rilevabili di ufficio, formulare istanze istruttorie (art. 416 c.p.c.).

Nel rito del lavoro, l'art. 416 c.p.c. deve essere interpretato nel senso che il convenuto, il quale non abbia proposto le eccezioni processuali e di merito, non rilevabili d'ufficio, con la memoria difensiva tempestivamente depositata almeno dieci giorni prima dell'udienza, incorre nella decadenza prevista dalla stessa norma, a nulla rilevando la circostanza che l'udienza di discussione non si sia tenuta nel giorno fissato e sia stata rinviata ad altra data (Cassazione, sez. lav., 17 ottobre 2006, n. 22230).

Principio di non contestazione

Il convenuto nella memoria di costituzione deve non solo compiere gli atti processuali sopra indicati effettuare a pena di decadenza, ma deve prendere posizione, in maniera precisa e non limitata ad una generica contestazione, circa i fatti affermati dal ricorrente (art. 416, terzo comma, c.p.c.). La disposizione ha introdotto nel processo del lavoro il c.d. “principio di non contestazione”, principio poi esteso all'intero processo civile a seguito della modifica dell'art. 115 c.p.c., secondo il quale fatti allegati da una parte e non specificamente contestati dall'altra possono ritenersi provati.

Il sistema di preclusioni su cui fonda il rito del lavoro (come il rito civile riformato) comporta per entrambe le parti l'onere di collaborare, fin dalle prime battute processuali, a circoscrivere la materia controversa, evidenziando con chiarezza gli elementi in contestazione; ne consegue che ogni volta che sia posto a carico di una delle parti (attore o convenuto che sia) un onere di allegazione (e di prova), il corretto sviluppo della dialettica processuale impone che l'altra parte prenda posizione in maniera precisa rispetto alle affermazioni della parte onerata, nella prima occasione processuale utile (e perciò nel corso dell'udienza di cui all'art. 420 c.p.c., se non ha potuto farlo nell'atto introduttivo), atteso che il principio di non contestazione, derivando dalla struttura del processo e non soltanto dalla formulazione dell'art. 416 c.p.c., è applicabile, ricorrendone i presupposti, anche con riguardo all'attore, ove oneri di allegazione (e prova) gravino anche sul convenuto (Cassazione, sez. lav., 5 marzo 2003, n. 3245).

Le contestazioni, da parte del convenuto, della titolarità del rapporto controverso dedotte dall'attore hanno natura di mere difese, proponibili in ogni fase del giudizio, senza che l'eventuale contumacia o tardiva costituzione assuma valore di non contestazione o alteri la ripartizione degli oneri probatori, ferme le eventuali preclusioni maturate per l'allegazione e la prova di fatti impeditivi, modificativi od estintivi della titolarità del diritto non rilevabili dagli atti (Cassazione, sez. un, 16 febbraio 2016 n. 2951).

Nel processo del lavoro, l'onere di contestare specificamente i conteggi relativi al "quantum" sussiste anche quando il convenuto contesti in radice la sussistenza del credito, poiché la negazione del titolo degli emolumenti pretesi non implica necessariamente l'affermazione dell'erroneità della loro quantificazione, mentre la contestazione dell'esattezza del calcolo ha una sua funzione autonoma, dovendosi escludere una generale incompatibilità tra il sostenere la propria estraneità al momento genetico del rapporto e il difendersi sul "quantum debeatur". Ne consegue che la parte, qualora neghi non l'esistenza del rapporto lavorativo ma solo la propria titolarità passiva dell'obbligazione contrattuale, riferendola ad altri, non è esonerata dalla contestazione dei conteggi, i quali, in assenza di tale censura, si consolidano nell'importo formulato (Cassazione, sez. lav., 18 maggio 2015, n. 10116).

Effetti processuali e sostanziali della domanda

Il deposito del ricorso determina l'inizio del processo con conseguente pendenza della lite. Gli effetti processuali conseguenti all'instaurazione del giudizio si determinano, pertanto, con il deposito del ricorso: per esempio la “perpetuatio iurisdictionis” prevista dall'art. 5 c.p.c., l'individuazione del giudice preventivamente adito ai fini della litispendenza, la tempestività della riassunzione del processo.

Per gli effetti sostanziali è necessario distinguere: la decadenza prevista dall'art. 6 della legge n. 604/1966 viene impedita, sulla base di espressa previsione normativa dal deposito del ricorso, mentre la prescrizione, essendo un atto recettizio che necessariamente deve pervenire al destinatario per produrre effetti, viene interrotta non già dal deposito del ricorso ma solo dalla sua notifica.

In evidenza: Cassazione

La domanda giudiziale relativa a controversia di lavoro pervenuta a conoscenza della controparte costituisce esercizio effettivo del diritto sufficiente ad interrompere la prescrizione, quale che sia l'esito successivo del giudizio, ed anche ove la domanda sia dichiarata nulla; in tal caso, permane altresì l'effetto della domanda relativo alla sospensione del decorso del termine prescrizionale fino al passaggio in giudicato della sentenza che ne ha dichiarato la nullità, in quanto tale pronuncia, anche se in rito, è diversa dalla pronuncia di estinzione del giudizio, che è la sola atta a privare la domanda giudiziaria dell'effetto sospensivo ai sensi dell'art. 2945 c.c. (Cassazione, sez. lav. 23 ottobre 2007, n. 22238).

L'udienza di discussione e la fase istruttoria

Poiché il rito del lavoro è improntato a principi di oralità, concentrazione e immediatezza, l'art. 420 c.p.c. prevede tendenzialmente una unica udienza di discussione, ove devono essere compiute tutte le attività processuali: verifica della regolarità degli atti, della presenza e della costituzione delle parti, dell'integrità del contraddittorio; interrogatorio libero delle parti e tentativo di conciliazione; ammissione dei mezzi di prova e assunzione delle prove; discussione e decisione. Nella pratica le attività descritte vengono suddivise in più udienze, una di prima comparizione nella quale di compiono le attività introduttive e si ammettono le prove, una istruttoria, nella quale vengono assunte le prove ammesse e una di decisione in cui le parti discutono la causa e il giudice pronuncia la decisione.

Le parti non possono introdurre domande nuove, ma, previa autorizzazione del giudice, possono modificarle.

Si ha "mutatio libelli" quando si avanzi una pretesa obiettivamente diversa da quella originaria, introducendo nel processo un "petitum" diverso e più ampio oppure una "causa petendi" fondata su situazioni giuridiche non prospettate prima e particolarmente su un fatto costitutivo radicalmente differente, di modo che si ponga al giudice un nuovo tema d'indagine e si spostino i termini della controversia, con l'effetto di disorientare la difesa della controparte ed alterare il regolare svolgimento del processo; si ha, invece, semplice "emendatio" quando si incida sulla "causa petendi", in modo che risulti modificata soltanto l'interpretazione o qualificazione giuridica del fatto costitutivo del diritto, oppure sul "petitum", nel senso di ampliarlo o limitarlo per renderlo più idoneo al concreto ed effettivo soddisfacimento della pretesa fatta valere (Cassazione, sez. lav., 27 luglio 2009, n. 17457).

Il giudice può disporre di ufficio l'ammissione di ogni mezzo di prova (art. 421 c.p.c.).

Nel rito del lavoro, caratterizzato dall'esigenza di contemperare il principio dispositivo con quello della ricerca della verità materiale, allorchè le risultanze di causa offrano significativi dati d'indagine, il giudice, anche in grado di appello, ove reputi insufficienti le prove già acquisite, deve esercitare il potere - dovere, previsto dall'art. 437 c.p.c., di provvedere d'ufficio agli atti istruttori sollecitati da tale materiale probatorio e idonei a superare l'incertezza sui fatti costitutivi dei diritti in contestazione, purché i fatti stessi siano allegati nell'atto costitutivo, non verificandosi in questo caso alcun superamento, a mezzo dell'attività istruttoria svolta d'ufficio dal giudice, di eventuali preclusioni o decadenze processuali già verificatesi a carico delle parti, in quanto la prova disposta d'ufficio è solo un approfondimento, ritenuto indispensabile al fine di decidere, di elementi probatori già obiettivamente presenti nella realtà del processo (Cassazione, sez. lav. 10 gennaio 2005, n. 278).

Nel rito del lavoro, i poteri istruttori officiosi di cui all'art. 421 c.p.c. non possono sopperire alle carenze probatorie delle parti (nella specie, mancata indicazione nel ricorso dei capitoli di prova testimoniale), così da porre il giudice in funzione sostitutiva degli oneri delle parti medesime e da tradurre i poteri officiosi anzidetti in poteri d'indagine e di acquisizione del tipo di quelli propri del procedimento penale (Cassazione, sez. lav., 21 maggio 2009, n. 11847).

La fase decisoria

Ai sensi dell'art. 429 c.p.c. esaurita la discussione orale e udite le conclusioni delle parti il giudice pronuncia sentenza con cui definisce il giudizio.

La norma, novellata dall'art. 53 del d.l. 112/2008 convertito in legge 133/2008 prevede un meccanismo particolarmente celere per la redazione della sentenza: infatti, tendenzialmente, il giudice pronuncia la decisione all'esito della discussione, predisponendo sia il dispositivo, sia la motivazione e dando lettura in udienza della sentenza. Solo in caso di particolare complessità della controversia il giudice può limitarsi a predisporre il dispositivo e leggerlo in udienza, provvedendo poi al deposito della motivazione in un termine fissato nel dispositivo stesso che non può essere superiore ai sessanta giorni.

Trova applicazione anche al processo del lavoro la disposizione introdotta dall'art. 79 del d.l. 69/2013 secondo cui la motivazione della sentenza consiste nella concisa esposizione dei fatti decisivi e dei principi di diritto su cui la decisione è fondata, anche con esclusivo riferimento a precedenti conformi ovvero mediante rinvio a contenuti specifici degli scritti difensivi o degli altri atti di causa.

La generalizzata provvisoria esecutività di tutte le sentenze civili di primo grado introdotta dalla legge n. 353/1990 ha fatto venire meno la peculiarità delle sentenze di condanna emesse a favore del lavoratore per crediti derivanti dal rapporto di lavoro, per le quali l'art. 431 c.p.c. disponeva appunto l'esecutività. Tuttavia, per tali sentenze sono rimaste alcune peculiarità quali la possibilità di procedere all'esecuzione a fronte della sola pronuncia del dispositivo e la possibilità di sospensione dell'esecuzione solo qualora possa derivare alla controparte “gravissimo danno”.

Facoltà della P.A. di farsi assistere in giudizio da propri funzionari

L'art. 417 bis c.p.c. consente alle pubbliche amministrazioni di stare in giudizio avvalendosi di propri dipendenti limitatamente alle controversie relative ai rapporti di lavoro e limitatamente al primo grado. La notifica del ricorso introduttivo alle pubbliche amministrazioni statali va sempre fatta all'Avvocatura dello Stato, a pena di nullità della citazione, spetta poi alla Avvocatura dello Stato valutare se assumere direttamente la difesa o invitare l'amministrazione interessata a difendersi a mezzo di propri funzionari.

La notificazione dell'atto giudiziario eseguita direttamente all'Amministrazione dello Stato e non presso l'Avvocatura distrettuale dello Stato, nei casi nei quali non si applica la deroga alla regola di cui all'art. 11 del r.d. 30 ottobre 1933, n. 1611, non può ritenersi affetta da mera irregolarità, bensì - secondo quanto disposto dalla citata norma - da nullità (Cassazione, sez. I, 27 febbraio 2008, n. 5212).

Allorché l'amministrazione statale sia costituita in giudizio avvalendosi di un proprio dipendente, secondo la previsione di cui all'art. 417 bis c.p.c., la notifica della sentenza di primo grado ai fini del decorso del termine di impugnazione va effettuata allo stesso dipendente; la citata norma, infatti, va interpretata nel senso che essa attribuisce al dipendente di cui l'amministrazione si sia avvalsa tutte le capacità connesse alla qualità di difensore in tale giudizio, ivi compresa quella di ricevere la notificazione della sentenza, ancorché tale atto si collochi necessariamente in un momento successivo alla conclusione del giudizio stesso (Cassazione, sez. lav., 22 febbraio 2008, n. 4690; conforme Cassazione, sez. lav., 23 maggio 2013, n. 12730 e Cassazione, sez. lav., 30 gennaio 2009, n. 2528).

Nell'ipotesi in cui la pubblica amministrazione sia assistita da propri funzionari vige un regime particolare in materia di spese processuali: l'art. 152 bis disp. att. c.p.c. dispone che in caso di condanna in favore dell'amministrazione spettano gli onorari previsti dalle tariffe vigenti per gli avvocati ridotti del 20%.

Riferimenti

Normativa:

Artt. 115, 409, 413, 414, 415, 416, 417 bis , 420,421,429,431 c.p.c.

Art. 152 bis disp. att. c.p.c.

Giurisprudenza:

Cassazione, sez. lav., 22 luglio 2009, n. 17902

Cassazione, sez. lav., 9 febbraio 2009, n. 3177

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