Diritti ed obblighi datore di lavoro

07 Giugno 2018

Il datore di lavoro è titolare di molteplici diritti e poteri nei confronti del lavoratore e, al contempo, è assoggettato ad una serie di obblighi. Egli ha il diritto di esigere, per come si ricava dall'art. 2094 c.c., la prestazione lavorativa secondo i tempi e i modi previsti dal regolamento contrattuale; il diritto in questione trova limite nella natura e tipologia di mansioni fissate all'atto dell'assunzione del lavoratore, essendo di norma precluso, per come stabilito dall'art. 2103 c.c., imporre l'effettuazione di una prestazione di portata qualitativamente inferiore rispetto a quella in origine prevista.
Inquadramento

Il datore di lavoro è titolare di molteplici diritti e poteri nei confronti del lavoratore e, al contempo, è assoggettato ad una serie di obblighi.

Egli ha il diritto di esigere, per come si ricava dall'art. 2094 c.c., la prestazione lavorativa secondo i tempi e i modi previsti dal regolamento contrattuale. Il diritto in questione trova limite nella natura e tipologia di mansioni fissate all'atto dell'assunzione del lavoratore, le quali possono essere corrispondenti all'inquadramento superiore che il lavoratore medesimo abbia successivamente acquisito ovvero riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento delle ultime effettivamente svolte (e ciò ai sensi dell'art. 2103 c.c. - nella nuova versione introdotta dall'art. 3 del D.Lgs. n. 81/2015 - che, tuttavia, prevede varie deroghe che affievoliscono la valenza del principio).

Accanto al diritto all'esatto adempimento della prestazione e di esclusiva sull'attività del lavoratore, desumibili dall'art. 2104 c.c., si pone il potere disciplinare - sancito, in via generale, dall'art. 2106 c.c. -, tipico delle situazioni in cui rileva la subalternità, nell'ambito del rapporto, di un soggetto all'altro.

Altro potere è quello, altresì stabilito dall'art. 2103 c.c., di trasferire il lavoratore da un'unità produttiva ad un'altra in presenza di comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive.

Passando agli obblighi, viene in considerazione quello di corrispondere la retribuzione, nonché quello di tutelare le condizioni di lavoro, venuto progressivamente in evidenza, mediante una sorta di scoperta dell'art. 2087 c.c., negli ultimi anni, per effetto di una maturata attenzione rivolta al bene salute.

Vengono infine in rilievo quegli obblighi che si traducono in divieti, quali quelli in materia di vigilanza, controllo e privacy.

Potere direttivo e disciplinare

Dovendo la prestazione lavorativa soddisfare, principalmente, le esigenze del datore di lavoro, a quest'ultimo (o ai propri collaboratori) è riservato il potere di fornire disposizioni per l'esecuzione del lavoro, al fine di indirizzare l'apporto lavorativo del prestatore verso i risultati utili per l'impresa all'inizio prefigurati.

In evidenza: Cassazione

Per la Cassazione, sez. lav., sentenza 9 giugno 2014, n. 12886, nell'ambito di un rapporto di durata, quale è quello di lavoro, l'attività negoziale della parte datoriale (e, quindi, di chi per essa effettivamente agisce) non si esaurisce nella stipulazione del contratto di lavoro, ma si realizza anche negli atti di gestione del rapporto, e, in particolare, nell'esercizio dei poteri direttivi e di controllo sulla prestazione dell'attività lavorativa, in modo tale che ne risulti indirizzato e definito concretamente il contenuto dell'obbligazione del prestatore di lavoro.

Di derivazione del potere direttivo è quello organizzativo, che può ricevere limitazione dalla disciplina collettiva in funzione di garanzia della posizione del lavoratore; peraltro la garanzia del preventivo controllo sindacale previsto dalla contrattazione collettiva in ordine all'espletamento del detto potere non è disponibile ad opera del singolo lavoratore che, se fosse abilitato a concedere in forza di contratto individuale il potere negato dal contratto collettivo, modificherebbe "in peius" le garanzie apprestate dalla contrattazione collettiva (Cass., sez. lav., 21 febbraio 2007, n. 4011).

Il potere organizzativo del datore di lavoro comprende senz'altro la predisposizione di regole finalizzate ad una migliore coesistenza delle diverse realtà operanti all'interno dei luoghi di lavoro e ad evitare conflittualità ma non può tradursi in condotte pregiudizievoli dell'integrità fisica e morale dei prestatori d'opera, in quanto nell'equo bilanciamento dell'esigenza di funzionalità dell'impresa e di tutela delle condizioni di lavoro e del lavoratore il legislatore ha chiaramente privilegiato i diritti fondamentali dei lavoratori (Cass., sez. lav., 5 agosto 2010, n. 18278).

Al potere direttivo è altresì riconducibile il distacco del lavoratore, costituente esercizio di un potere unilaterale del datore di lavoro.

L'inosservanza, da parte del prestatore, delle disposizioni legittimamente impartite dal datore potrebbe anche essere sanzionata con la perdita della retribuzione qualora essa si risolva in una mancanza di attività o in una prestazione totalmente inutile per il datore; ma, di norma, essa riceve sanzione, per opzione normativa di rango primario (cfr., in primo luogo, l'art. 2106 c.c.), con la previsione della possibilità, per il datore – mediante l'esercizio di quell'ulteriore potere denominato disciplinare – di sanzionare il dipendente.

La potestà disciplinare costituisce, pertanto, per il datore, un'arma di difesa (di cui egli potrebbe anche non avvalersi, dominando, in questo campo, la discrezionalità tipica di ogni situazione di potere) avente, in generale, anche portata dissuasiva con riguardo a quei lavoratori restii a conformarsi alle direttive emanate nonché irrispettosi delle disposizioni dettate dal datore per la disciplina del lavoro (quando esistenti, per lo più nella veste del regolamento predisposto unilateralmente); ma prevale di essa, sul piano effettuale, l'aspetto punitivo, che connota la sanzione disciplinare in termini di pena privata, avente valore repressivo per il lavoratore interessato ed efficacia deterrente nell'ambiente di lavoro.

Il principale criterio orientatore nella fase di irrogazione della sanzione è quello della proporzionalità (richiamato dal citato art. 2106 c.c.), ovvero della corrispondenza, in punto di gravità ed afflittività, tra mancanza e sanzione.

Interviene a ripristinare il nesso di proporzionalità, in ipotesi violato, il giudice, il quale può annullare la sanzione allorquando essa non sia commisurata, in punto di gravità, all'infrazione, salvo procedere alla riduzione della sanzione stessa quando ne ricorrano i presupposti.

In evidenza: Cassazione

Per la Cassazione, sez. lav., sentenza 13 aprile 2007, n. 8910, il potere di infliggere sanzioni disciplinari e di proporzionare la gravità dell'illecito accertato rientra nel potere di organizzazione dell'impresa quale esercizio della libertà di iniziativa economica di cui all'art. 41 Cost., onde è riservato esclusivamente al titolare di esso, ragion per cui non può essere esercitato dal giudice in conseguenza dell'opposizione del lavoratore, neppure con riferimento alla riduzione della gravità della sanzione, salvo il solo caso in cui l'imprenditore abbia superato il massimo edittale e la riduzione consista, perciò, soltanto in una riconduzione a tale limite. Tuttavia, nell'ipotesi in cui sia lo stesso datore di lavoro, convenuto in giudizio per l'annullamento della sanzione, a chiedere, nel suo atto di costituzione (senza che sia necessaria, in merito, la proposizione di una domanda riconvenzionale in senso proprio), la riduzione della sanzione per l'ipotesi in cui il giudice, in accoglimento della domanda del lavoratore, ritenga eccessiva (come nella specie) la sanzione già inflitta, l'applicazione all'esito del giudizio di una sanzione minore è da ritenersi legittima poiché la stessa non implica la sottrazione della sua autonomia all'imprenditore e realizza l'economia di un nuovo ed eventuale giudizio valutativo, avente ad oggetto la sanzione medesima.

Il meccanismo disciplinare è governato, in linea generale, dai principi di predeterminazione dell'infrazione, di correlazione tra infrazione e sanzione, di pubblicità del codice disciplinare.

A tale ultimo riguardo va però ricordato che in materia di licenziamento disciplinare, il principio di necessaria pubblicità del codice disciplinare mediante affissione in luogo accessibile a tutti non si applica nei casi in cui il licenziamento sia irrogato per sanzionare condotte del lavoratore che concretizzano violazione di norme penali o che contrastano con il cosiddetto "minimo etico", mentre deve essere data adeguata pubblicità al codice disciplinare con riferimento a comportamenti che violano mere prassi operative, non integranti usi normativi o negoziali (Cass., sez. lav., 3 ottobre 2013, n. 22626).

Il procedimento disciplinare – eventualmente preceduto dalle indagini preliminari – prende avvio con la contestazione, caratterizzata in primo luogo dal requisito dell'immediatezza.

In evidenza: Cassazione

Per la Cassazione, sez. lav., sentenza 27 febbraio 2014, n. 4724, in tema di licenziamento disciplinare, la rilevanza penale dei fatti contestati, e la conseguente denuncia all'autorità inquirente, non fanno venire meno l'obbligo dì immediata contestazione, in considerazione della rilevanza che esso assume rispetto alla tutela dell'affidamento e del diritto di difesa dell'incolpato, sempre che i fatti riscontrati facciano emergere, in termini di ragionevole certezza, significativi elementi di responsabilità a carico del lavoratore. Ne consegue che il differimento dell'incolpazione è giustificato soltanto dalla necessità, per il datore di lavoro, di acquisire conoscenza della riferibilità dei fatti, nelle linee essenziali, al lavoratore e non anche dall'integrale accertamento degli stessi. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva ritenuto non giustificato un ritardo nell'elevazione della contestazione di quasi sette mesi, dall'inizio degli accertamenti ispettivi, nell'ambito di una filiale di un istituto bancario di notevoli dimensioni).

La contestazione dell'infrazione deve essere poi connotata da specificità, al fine di circoscrivere esattamente l'addebito da cui il lavoratore dovrà difendersi.

In evidenza: Cassazione

Per la Cass., sez. lav., sentenza 18 aprile 2018, n. 9590, la previa contestazione dell'addebito, necessaria nei licenziamenti qualificabili come disciplinari, ha lo scopo di consentire al lavoratore l'immediata difesa e deve conseguentemente rivestire il carattere della specificità, che è integrato quando sono fornite le indicazioni necessarie ed essenziali per individuare, nella sua materialità, il fatto o i fatti nei quali il datore di lavoro abbia ravvisato infrazioni disciplinari o comunque comportamenti in violazione dei doveri di cui agli artt. 2104 e 2105 c.c.; per ritenere integrata la violazione del principio di specificità è necessario che si sia verificata una concreta lesione del diritto di difesa del lavoratore e la difesa esercitata in sede di giustificazioni è un elemento concretamente valutabile per ritenere provata la non genericità della contestazione.

(Nella specie, la S.C. ha ritenuto specifica la contestazione con cui era stato addebitato al lavoratore di aver svolto “attività extralavorativa in pendenza di malattia” anche sul rilievo che le giustificazioni rese nell'immediatezza dallo stesso erano state puntuali e finalizzate a privare di rilevanza disciplinare la condotta).

La contestazione, ancora, deve essere caratterizzata da immutabilità, nel senso che i fatti integranti l'addebito stesso dovranno coincidere con quelli per effetto dei quali è comminata la sanzione.

Segue poi la fase della difesa del lavoratore e, in ultimo, quella dell'eventuale irrogazione della sanzione (altresì connotata, secondo la giurisprudenza prevalente, da necessaria tempestività).

Ius variandi e trasferimento del lavoratore

Sulla tematica dello ius variandi si rinvia alla Scheda d'autore “Diritti ed obblighi del lavoratore”.

Quanto al trasferimento, va evidenziato che la finalità principale della norma di cui all'art. 2103 c.c. è quella di tutelare la dignità del lavoratore e di proteggere l'insieme di relazioni interpersonali che lo legano ad un determinato complesso produttivo, sicché le tutele previste per il lavoratore trasferito rilevano anche quando lo spostamento avvenga in un ambito geografico ristretto (ad esempio nello stesso territorio comunale) da una unità produttiva ad un'altra, intendendosi per unità produttiva ogni articolazione autonoma dell'azienda, avente, sotto il profilo funzionale e finalistico, idoneità ad esplicare, in tutto o in parte, l'attività dell'impresa medesima, della quale costituisca una componente organizzativa, connotata da indipendenza tecnica ed amministrativa tali che in essa si possa concludere una frazione dell'attività produttiva aziendale (Cass., sez. lav., 30 settembre 2014, n. 20600).

In evidenza: Cassazione

Per la Cassazione, sez. lav., sentenza 1 settembre 2014 n. 18479, nel caso di assegnazione del lavoratore all'estero, non osta alla temporaneità della trasferta il protrarsi dello spostamento del lavoratore per un lungo periodo di tempo (nella specie, per alcuni anni), poiché l'elemento qualificante della trasferta è dato dal permanere di un legame funzionale del prestatore di lavoro con l'originaria sede di servizio, mentre, nel trasferimento, in ragione della definitività della nuova collocazione aziendale, tale legame viene meno. Né è decisivo che la destinazione all'estero derivi da una perdurante esigenza aziendale di coprire una determinata posizione lavorativa, in quanto detta necessità può essere soddisfatta sia con reiterate assegnazioni in trasferta di uno stesso o di altro dipendente sia con l'assegnazione fissa di un unico lavoratore.

In ordine al diritto del lavoratore portatore di handicap a non essere trasferito ad altra sede senza il suo consenso, previsto dall'art. 33, comma 6, della legge 5 febbraio 1992, n. 104, la S.C. (Cass., sez. lav., 5 novembre 2013, n. 24775) ha affermato che mentre esso non può subire limitazioni in caso di mobilità connessa ad ordinarie esigenze tecnico-produttive dell'azienda, non è, invece, attuabile ove sia accertata l'incompatibilità della permanenza del lavoratore nella sede di lavoro.

L'obbligo di corrispondere la retribuzione

Sulla tematica si rinvia alle Schede d'autore “Retribuzione” e “Diritti ed obblighi del lavoratore”.

L'obbligo di tutelare l'integrità fisica e morale del lavoratore

Sul datore di lavoro grava l'obbligo, previsto dall'art. 2087 c.c., di adottare, nell'esercizio dell'impresa, le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale del lavoratore.

L'obbligo di prevenzione impone al datore di adottare non solo le particolari misure tassativamente imposte dalla legge in relazione allo specifico tipo di attività esercitata e quelle generiche dettate dalla comune prudenza, ma anche tutte le altre misure che in concreto si rendano necessarie per la tutela del lavoro in base all'esperienza e alla tecnica.

Tuttavia, secondo la giurisprudenza (Cass. sez. lav., 2 giugno 1998, n. 5409) dalla menzionata norma non può desumersi la prescrizione di un obbligo assoluto di rispettare ogni cautela possibile ed innominata diretta ad evitare qualsiasi danno, con la conseguenza di ritenere automatica la responsabilità del datore di lavoro ogni volta che il danno si sia verificato, occorrendo invece che l'evento sia riferibile a sua colpa, per violazione di obblighi di comportamento imposti da fonti legali o suggeriti dalla tecnica, ma concretamente individuati.

Venendo al tema centrale degli obblighi gravanti sul datore, è stato chiarito, di recente, che:

  • non rientrano tra i dispositivi di protezione individuale, previsti dall'art. 40 della legge 19 settembre 1994, n. 626 (applicabile "ratione temporis"), le tute, di stoffa o monouso, fornite dal datore di lavoro (nella specie, a dipendenti comunali con mansioni di giardinieri), quando esse, per la loro consistenza, svolgono esclusivamente la funzione di preservare gli abiti civili dalla ordinaria usura connessa all'espletamento dell'attività lavorativa, e non anche quella (pur astrattamente configurabile) di proteggere il lavoratore contro uno o più rischi suscettibili di minacciarne la sicurezza o la salute durante il lavoro, sicché rispetto ad esse non è configurabile, in mancanza di specifiche previsioni contrattuali, un obbligo a carico del datore di lavoro di continua fornitura e di sistematico lavaggio (Cass., sez. lav., 5 febbraio 2014, n. 2625);
  • l'obbligo del datore di lavoro, nel caso di lavorazioni eseguite ad altezza superiore a due metri, di apprestare - quando possibile - impalcature, ponteggi o altre opere provvisionali, non può essere sostituito dall'uso delle cinture di sicurezza, che sono una misura di carattere generale e imperativo, ma complementare, nel senso che, quando sia comprovata l'impossibilità della concreta realizzabilità del loro utilizzo, il datore di lavoro può essere esonerato dall'obbligo di fornire la protezione delle cinture purché i suddetti impalcati di protezione e parapetti siano idonei a scongiurare del tutto il rischio di caduta dall'alto e non soltanto a facilitare il lavoro o, tutt'al più, ad attenuare soltanto tale rischio (Cass., sez. lav., 14 ottobre 2014, n. 21647);
  • gli indumenti con funzione protettiva dal contatto con sostanze nocive o patogene rientrano tra i dispositivi di protezione individuale, previsti dall'art. 40 della D. Lgs. n. 626 del 1994 (applicabile "ratione temporis"), sicché rispetto ad essi è configurabile un obbligo a carico del datore di lavoro di continua fornitura e di mantenimento in stato di efficienza (Cass., sez. lav., 22 settembre 2015, n. 18674).

Tra i fattori di possibile danno alla persona nell'ambiente di lavoro non vi sono solo le macchine, le polveri, il rumore, o lo sforzo fisico, bensì anche lo stress psichico, che può derivare da superlavoro, da comportamenti ingiuriosi del datore, da molestie sessuali, da vessazioni sistematiche.

In tale contesto si inserisce la fattispecie del mobbing.

In evidenza: Cassazione

Per la Cassazione, sez. lav., sentenza 6 agosto 2014, n. 17698, ai fini della configurabilità del mobbing lavorativo devono ricorrere: a) una serie di comportamenti di carattere persecutorio - illeciti o anche leciti se considerati singolarmente - che, con intento vessatorio, siano posti in essere contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi; b) l'evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente; c) il nesso eziologico tra le descritte condotte e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psico-fisica e/o nella propria dignità; d) l'elemento soggettivo, cioè l'intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi.

Con particolare riguardo all'elemento soggettivo, la Cass, sez. lav., 10 novembre 2017, n. 26684, ha puntualizzato che la legittimità dei provvedimenti emessi dal datore di lavoro può rilevare indirettamente, perché, in difetto di elementi probatori di segno contrario, la legittimità in questione è sintomatica dell'assenza dell'elemento soggettivo che deve sorreggere la condotta, unitariamente considerata; parimenti la conflittualità delle relazioni personali all'interno dell'ufficio, che impone al datore di lavoro di intervenire per ripristinare la serenità necessaria per il corretto espletamento delle prestazioni lavorative, può essere apprezzata dal giudice per escludere che i provvedimenti siano stati adottati al solo fine di mortificare la personalità e la dignità del lavoratore.

Per la Cassazione, sez. lav., 21 maggio 2018, n. 12437, è ravvisabile una fattispecie di mobbing nell'ipotesi di progressivo svuotamento delle mansioni attuato con un atteggiamento afflittivo del datore di lavoro all'interno di un procurato clima di estrema tensione in azienda.

Casistica

Obbligo di sicurezza

Tra i rischi da prevenire vi è anche quello

dell'aggressione esterna nel settore bancario, in quanto l'obbligo dell'imprenditore di tutelare l'integrità fisiopsichica dei dipendenti impone l'adozione - ed il mantenimento - non solo di misure di tipo igienico-sanitario o antinfortunistico, ma anche di misure atte, secondo le comuni tecniche di sicurezza, a preservare i lavoratori dalla lesione di detta integrità nell'ambiente od in costanza di lavoro in relazione ad attività pur se allo stesso non collegate direttamente come le aggressioni conseguenti all'attività criminosa di terzi, in relazione alla frequenza assunta da tale fenomeno rispetto a determinate imprese (in particolare, banche) ed alla probabilità del verificarsi del relativo rischio, non essendo detti eventi coperti dalla tutela antinfortunistica di cui al d.P.R. 30 giugno 1965 n. 1124

(Cass., sez. lav., 20 aprile 1998, n. 4012; in senso analogo v. Cass., sez. lav., 13 aprile 2015, n. 7405, in fattispecie concernente rapina ai danni di un ufficio postale di ridotte dimensioni, presso il quale non vi era alcun sistema di allarme rivolto all'esterno, ma solo una protezione del banco cassa con vetro antisfondamento);

dell'aggressione dei pazienti nei confronti del personale sanitario, in quanto il datore di lavoro che eserciti attività di trattamento e cura di pazienti incapaci, della cui sorveglianza egli è tenuto "erga omnes" ex art. 2047 c.c., è responsabile ex art. 2087 c.c. dell'infortunio occorso al personale sanitario per comportamento degli stessi pazienti, ove non provi di aver adottato tutte le misure di prevenzione idonee, per l'esperienza e la tecnica in relazione alla particolare attività, a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale del lavoratore

(Cass., sez. lav., 3 agosto 2007, n. 17066);

della compromissione dell'integrità psicofisica non solo dei dipendenti, ma anche delle persone estranee, ivi compresi i soci della società, anche di fatto, datrice di lavoro, che occasionalmente si trovino sui luoghi di lavoro

(Cass., sez. lav., 7 maggio 2014, n. 9870);

dei danni cagionati da cose che il datore di lavoro ha in custodia (Cass., sez. lav., 12 marzo 2018, n. 5957).

La responsabilità del datore incentrata sulla violazione dell'obbligo di sicurezza ha natura contrattuale.

Pertanto la parte che subisce l'inadempimento non deve dimostrare la colpa dell'altra parte - dato che ai sensi dell'art. 1218 c.c. è il debitore/datore di lavoro che deve provare che l'impossibilità della prestazione o la non esatta esecuzione della stessa o comunque il pregiudizio che colpisce la controparte derivano da causa a lui non imputabile - ma è comunque soggetta all'onere di allegare e dimostrare l'esistenza del fatto materiale ed anche le regole di condotta che assume essere state violate, provando che l'asserito debitore ha posto in essere un comportamento contrario o alle clausole contrattuali che disciplinano il rapporto o a norme inderogabili di legge o alle regole generali di correttezza e buona fede o alle misure che, nell'esercizio dell'impresa, debbono essere adottate per tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro (Cass., sez. lav., 11 aprile 2013, n. 8855).

Ai fini del giudizio di responsabilità datoriale é irrilevante l'assenza di doglianze mosse dal lavoratore, così come l'ignoranza delle particolari condizioni in cui sono prestate le mansioni affidate ai dipendenti, che, salvo prova contraria, si presumono conosciute dal datore di lavoro in quanto espressione ed attuazione concreta dell'assetto organizzativo adottato dall'imprenditore; peraltro gli effetti della conformazione della condotta del prestatore ai canoni di cui all'art. 2104 cod. civ., coerentemente con il livello di responsabilità proprio delle funzioni e in ragione del soddisfacimento delle ragioni dell'impresa, non integrano mai una colpa del lavoratore (Cass., sez. lav., 8 maggio 2014, n. 9945).

Resta fermo il principio secondo cui non può comunque esigersi dal datore di lavoro la predisposizione di accorgimenti idonei a fronteggiare cause d'infortunio del tutto imprevedibili (Cass., sez. lav., 22 gennaio 2014, n. 1312).

Dalla lesione dell'integrità psico-fisica e morale del lavoratore può sorgere l'obbligo risarcitorio per il ristoro dei danni patrimoniali e non patrimoniali.

In evidenza: Cassazione

Per la Cass. sez. lav., 20 aprile 2018, n. 9901, “Nell'ipotesi di demansionamento, il danno non patrimoniale è risarcibile ogni qual volta la condotta illecita del datore di lavoro abbia violato, in modo grave, i diritti del lavoratore che siano oggetto di tutela costituzionale, in rapporto alla persistenza del comportamento lesivo, alla durata e reiterazione delle situazioni di disagio professionale e personale, nonché all'inerzia del datore di lavoro rispetto alle istanze del lavoratore, anche a prescindere da uno specifico intento di declassarlo o svilirne i compiti”.

(Nella specie, la S.C. ha ravvisato una violazione dell'art. 2087 c.c., con conseguente obbligo di risarcimento del danno biologico, nella condotta tenuta dal datore di lavoro nei confronti di una lavoratrice alla quale, dopo il rientro dalla cassa integrazione, non erano stati assegnati compiti da svolgere, era stato disattivato il telefono e non era stato consentito di sostituire personale assente per maternità, nonostante le reiterate richieste).

Per la Cass. sez. lav., 13 giugno 2017, n. 14655, in caso di fatto illecito plurioffensivo, ciascuno è titolare di un autonomo diritto all'integrale risarcimento del pregiudizio subìto, comprensivo, pertanto, sia del danno morale che di quello "dinamico-relazionale"; ne consegue che, in caso di perdita definitiva del rapporto matrimoniale e parentale, ognuno dei familiari superstiti ha diritto ad una liquidazione inclusiva di tutto il danno non patrimoniale subìto, in proporzione alla durata ed intensità del vissuto, nonché alla composizione del restante nucleo familiare in grado di prestare assistenza morale e materiale, avuto riguardo all'età della vittima ed a quella dei familiari danneggiati, alla personalità individuale di costoro, alla loro capacità di reazione e sopportazione del trauma e ad ogni altra circostanza del caso concreto, da allegare e dimostrare (anche presuntivamente, secondo nozioni di comune esperienza) da parte di chi agisce in giudizio, spettando alla controparte la prova contraria di situazioni che compromettono l'unità, la continuità e l'intensità del rapporto familiare.

(Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza impugnata, che aveva respinto le domande risarcitorie proposte nei confronti della datrice di lavoro, "iure hereditatis" e "iure proprio", dalle figlie e dal coniuge di un prestatore di lavoro deceduto a seguito di mesotelioma pleurico contratto per causa di lavoro, ritenendo inammissibile la proposizione da parte di costoro di un'azione di responsabilità contrattuale ex art. 2087 c.c.).

Per la Cass. sez. lav., 7 febbraio 2012, n. 1716 sussiste il diritto al risarcimento del danno morale in capo al lavoratore, che sia in stato di coma in seguito ad infortunio, dovendo esso configurarsi non soltanto come riparazione delle sofferenze psichiche, ma anche della lesione alla dignità personale, particolarmente evidente quando, come nella specie, un padre di famiglia venga ridotto allo stato vegetativo e così perda ogni legame con la vita, compresi i vincoli affettivi nell'ambito della comunità familiare, tutelata dagli artt. 2, 29 e 30 Cost., dal momento che sarebbe iniquo riconoscere il diritto soggettivo al risarcimento di un danno non patrimoniale diverso dal pregiudizio alla salute e consistente in sofferenze morali, e negarlo quando queste sofferenze non siano neppure possibili a causa dello stato di non lucidità del danneggiato.

Vigilanza e controllo

Il datore di lavoro non può procedere ad un controllo occulto dei propri dipendenti, dovendo egli giocare, nella gestione del rapporto lavorativo, a carte scoperte; vi è infatti l'esigenza sociale di salvaguardare l'autenticità e la trasparenza della dinamica dei rapporti lavorativi, il cui contrario porrebbe il lavoratore nella deprecabile condizione di dover subire, nella sua sfera privata, attività invasive del datore di lavoro sottratte ad ogni possibilità di contrasto, proprio perché non conosciute.

Tra le norme di tutela della posizione del lavoratore, che si risolvono in obblighi del datore, vi è quella di cui all'art. 2 della L. n. 300/1970, ove è previsto che il datore di lavoro può impiegare le particolari guardie giurate soltanto per scopi di tutela del patrimonio aziendale. La disposizione prosegue stabilendo che le guardie in questione non possono contestare ai lavoratori azioni o fatti diversi da quelli che attengono alla tutela del patrimonio aziendale; dispone, poi, che è fatto divieto al datore di lavoro di adibire alla vigilanza sull'attività lavorativa le guardie giurate, le quali non possono accedere nei locali dove si svolge tale attività, durante lo svolgimento della stessa, se non eccezionalmente per specifiche e motivate esigenze attinenti ai compiti di salvaguardia del patrimonio aziendale.

In evidenza: Cassazione

Per la Cass. sez. lav., 20 gennaio 2015, n. 848, le disposizioni dell'art. 2 dello Statuto dei Lavoratori, nel limitare la sfera di intervento di persone preposte dal datore di lavoro a tutela del patrimonio aziendale, non precludono a quest'ultimo di ricorrere ad agenzie investigative - purché queste non sconfinino nella vigilanza dell'attività lavorativa vera e propria, riservata dall'art. 3 dello statuto direttamente al datore di lavoro e ai suoi collaboratori -, restando giustificato l'intervento in questione non solo per l'avvenuta perpetrazione di illeciti e l'esigenza di verificarne il contenuto, ma anche in ragione del solo sospetto o della mera ipotesi che illeciti siano in corso di esecuzione.

Altra fondamentale norma di protezione della sfera privata del lavoratore è quella dell'art. 3 della L. n. 300/1970, nella quale è previsto che “I nominativi e le mansioni specifiche del personale addetto alla vigilanza dell'attività lavorativa debbono essere comunicati ai lavoratori interessati”; in tal modo il lavoratore è in grado di conoscere chi e come potrà legittimamente esercitare controlli – necessari per il governo dell'impresa – sulla propria attività lavorativa. Tuttavia tale regola subisce un forte ridimensionamento per effetto di un consolidato orientamento della Suprema Corte, secondo cui il predetto art. 3 non impedisce all'imprenditore di esercitare i suoi necessari e ovvii poteri di controllo, da solo o attraverso ausiliari le cui funzioni possono in ogni momento e all'occorrenza essere conosciute da tutti (Cass., sez. lav., 13 aprile 2007, n. 8910, in motivazione).

Presupposto per l'operatività di un tale orientamento di portata estensiva è da rinvenirsi nell'assenza di sistematicità del controllo occulto, che assumerebbe una finalità difensiva in quanto esercitato sull'attività che esulerebbe dalla normale prestazione lavorativa per essere diretta, illecitamente, ad arrecare pregiudizio al patrimonio aziendale.

In evidenza: Cassazione

Per la Cass. sez. lav., 22 maggio 2017, n. 12810, il controllo, demandato dal datore di lavoro ad un'agenzia investigativa, sull'attività extralavorativa svolta dal lavoratore in violazione del divieto di concorrenza, non è precluso ai sensi degli artt. 2 e 3 st.lav., poiché non riguarda l'adempimento della prestazione lavorativa, ma un comportamento illegittimo, posto in essere al di fuori dell'orario di lavoro, disciplinarmente rilevante e fonte di danni per il datore di lavoro.

Va detto che stabilire quando il controllo occulto é lecito è questione non sempre di agevole soluzione.

Sul medesimo versante è stabilito dall'art. 4, comma 1, della L. n. 300/1970 - nella nuova versione introdotta dall'art. 23 del D.Lgs. n. 151/2015 - che gli impianti audiovisivi e gli altri strumenti dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell'attività dei lavoratori possono essere impiegati esclusivamente per esigenze organizzative e produttive, per la sicurezza del lavoro e per la tutela del patrimonio aziendale, e possono essere installati previo accordo collettivo stipulato dalla rappresentanza sindacale unitaria o dalle rappresentanze sindacali aziendali. In alternativa, nel caso di imprese con unità produttive ubicate in diverse province della stessa regione ovvero in più regioni, tale accordo può essere stipulato dalle associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale. In mancanza di accordo gli impianti e gli strumenti predetti possono essere installati previa autorizzazione della Direzione territoriale del lavoro o, in alternativa, nel caso di imprese con unità produttive dislocate negli ambiti di competenza di più Direzioni territoriali del lavoro, del Ministero del lavoro e delle politiche sociali. Il secondo comma del predetto art. 4 dispone che la sopra illustrata previsione non si applica agli strumenti utilizzati dal lavoratore per rendere la prestazione lavorativa e agli strumenti di registrazione degli accessi e delle presenze. Al terzo comma è infine previsto che le informazioni raccolte ai sensi dei commi 1 e 2 sono utilizzabili a tutti i fini connessi al rapporto di lavoro a condizione che sia data al lavoratore adeguata informazione delle modalità d'uso degli strumenti e di effettuazione dei controlli e nel rispetto di quanto disposto dal decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196.

Il contenuto della riportata disposizione statutaria non sembra del tutto compatibile con il tradizionale insegnamento (di cui è espressione Cass., sez. lav., 17 febbraio 2015, n. 3122), riferito al regime previgente, secondo cui le garanzie procedurali imposte dall'art. 4, secondo comma, della legge n. 300/1970 (espressamente richiamato anche dall'art. 114 del D.Lgs. n. 196/2003) per l'installazione di impianti ed apparecchiature di controllo richiesti da esigenze organizzative e produttive ovvero dalla sicurezza del lavoro, ma dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell'attività dei lavoratori, trovano applicazione anche ai controlli c.d. difensivi, ovverosia a quei controlli diretti ad accertare comportamenti illeciti dei lavoratori, quando tali comportamenti riguardino l'esatto adempimento delle obbligazioni discendenti dal rapporto di lavoro e non la tutela dei beni estranei al rapporto stesso (con la conseguenza che esula dal campo di applicazione della norma il caso in cui il datore abbia posto in essere verifiche dirette ad accertare comportamenti del prestatore illeciti e lesivi del patrimonio e dell'immagine aziendale).

In evidenza: Cassazione

Per la Cass. sez. lav., 10 novembre 2017, n. 26682, in tema di controllo del lavoratore, la duplicazione periodica dei dati contenuti nei computer aziendali, preventivamente nota ai dipendenti, esula dal campo di applicazione delle garanzie procedurali imposte dall'art. 4, comma 2, st.lav. (nel testo anteriore alle modifiche di cui al art. 23, comma 1, d.lgs. n. 151 del 2015), se effettuata a tutela di beni estranei al rapporto di lavoro, quali l'immagine dell'azienda e la tutela della dignità di altri lavoratori, e non riguardi l'esatto adempimento delle obbligazioni discendenti dal rapporto stesso.(Nella specie, la S.C. ha ritenuto legittimo il controllo effettuato dalla datrice di lavoro sulla posta elettronica aziendale di un dipendente accusato di aver inviato una serie di e-mail contenenti reiterate espressioni scurrili nei confronti del legale rappresentante della società e di altri collaboratori, nonché apprezzamenti negativi nei confronti dell'azienda in quanto tale).

Per la Cass. sez. lav., 2 maggio 2017, n. 10636, non è soggetta alla disciplina dell'art. 4, comma 2, st.lav., l'installazione di impianti ed apparecchiature di controllo poste a tutela del patrimonio aziendale dalle quali non derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell'attività lavorativa, né risulti in alcun modo compromessa la dignità e riservatezza dei lavoratori, atteso che non corrisponde ad alcun criterio logico-sistematico garantire al lavoratore, in presenza di condotte illecite sanzionabili penalmente o con sanzione espulsiva, una tutela maggiore di quella riconosciuta ai terzi estranei all'impresa. (In applicazione di tale principio, la S.C. ha confermato la sentenza di appello contenente la declaratoria di legittimità del licenziamento disciplinare intimato ad un lavoratore la cui condotta era stata accertata dal filmato di una telecamera installata nei locali dove si erano verificati furti in danno del patrimonio aziendale).

Ed infatti, ora, le garanzie procedurali vanno rispettate anche qualora i controlli difensivi concernano la tutela del patrimonio aziendale. Esse invece non si applicano - e qui si registra un alleggerimento, rispetto al passato, dei vincoli gravanti sul datore - ove i controlli investano gli strumenti utilizzati dal lavoratore per rendere la prestazione lavorativa nonché quelli di registrazione degli accessi e delle presenze.

L'art. 5 della L. n. 300/1970 stabilisce, sempre nel quadro del meccanismo di garanzia della sfera privata del lavoratore, il divieto di accertamenti da parte del datore di lavoro sulla idoneità e sulla infermità per malattia o infortunio del lavoratore dipendente; la disposizione aggiunge che il controllo delle assenze per infermità può essere effettuato soltanto attraverso i servizi ispettivi degli istituti previdenziali competenti, i quali sono tenuti a compierlo quando il datore di lavoro lo richieda.

Va infine menzionato l'art. 6 St. lav., ove è previsto, tra l'altro,

  • che le visite personali di controllo sul lavoratore sono vietate fuorché nei casi in cui siano indispensabili ai fini della tutela del patrimonio aziendale, in relazione alla qualità degli strumenti di lavoro o delle materie prime o dei prodotti;
  • che in tali casi le visite in questione possono essere effettuate soltanto a condizione che siano eseguite all'uscita dei luoghi di lavoro, che siano salvaguardate la dignità e la riservatezza del lavoratore e che avvengano con l'applicazione di sistemi di selezione automatica riferiti alla collettività o a gruppi di lavoratori;
  • che le ipotesi nelle quali possono essere disposte le visite personali e le relative modalità debbono essere concordate dal datore di lavoro con le rappresentanze sindacali aziendali oppure, in mancanza di queste, con la commissione interna;
  • che in difetto di accordo, su istanza del datore di lavoro, provvede l'Ispettorato del lavoro.
Privacy

La materia della protezione dei dati personali nell'ambito del rapporto di lavoro trova il primo referente normativo nell'art. 8 della L. n. 300/1970, il quale stabilisce che è fatto divieto al datore di lavoro, ai fini dell'assunzione, come nel corso dello svolgimento del rapporto di lavoro, di effettuare indagini, anche a mezzo di terzi, sulle opinioni politiche, religiose o sindacali del lavoratore, nonché su fatti non rilevanti ai fini della valutazione dell'attitudine professionale del lavoratore.

L'oggetto della tutela è la riservatezza o privacy, che è l'interesse a non subire il turbamento che deriva al soggetto, nella sua sfera intima e personale, a causa della diffusione di dati personali.

In generale si sostiene che l'indicazione del giustificato motivo di indagine contenuta nell'art. 8 della predetta L. n. 300/1970 non deve considerarsi tassativa.

Il D.Lgs. n. 196/2003, recante “Codice della privacy” (da ora “Codice”), ponendo limiti alla facoltà di raccolta, trattamento e conservazione di dati personali, incide per taluni aspetti anche sul rapporto di lavoro.

Il problema della tutela della privacy si pone soprattutto nel trattamento dei dati finalizzato all'esercizio del potere disciplinare. Qui viene in considerazione l'art. 24, primo comma, lett. f) del predetto “Codice”, che autorizza il trattamento dei dati da parte del titolare, senza il consenso dell'interessato, per soddisfare la legittima esigenza di far valere o difendere un diritto in sede giudiziaria, acquisendo il materiale probatorio a tal fine necessario.

Va inoltre segnalato che il “Codice” ha dedicato il titolo VIII al settore del lavoro e della previdenza sociale, nell'ambito del quale sono dettate previsioni in materia di codice di deontologia e di buona condotta (art. 111), di finalità di rilevante interesse pubblico (art. 112), di raccolta di dati e pertinenza (art. 113, ove è previsto che “Resta fermo quanto disposto dall'articolo 8 della legge 20 maggio 1970, n. 300”), di controllo a distanza (art. 114, ove è previsto che “Resta fermo quanto disposto dall'articolo 4 della legge 20 maggio 1970, n. 300”), di telelavoro e lavoro a domicilio (art. 115), di conoscibilità di dati, da parte degli istituti di patronato e di assistenza sociale, su mandato dell'interessato (art. 116).

Tuttavia, ora, deve esser tenuto presente il “Regolamento generale sulla protezione dei dati (Regolamento UE 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016”, relativo alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati e che abroga la Direttiva 95/46/CE, il quale è obbligatorio in tutti i suoi elementi e direttamente applicabile, a decorrere dal 25 maggio 2018, in ciascuno degli Stati membri.

In particolare, nella materia del lavoro, è previsto, all'art. 9, che il divieto di trattamento di dati personali che rivelino l'origine razziale o etnica, le opinioni politiche, le convinzioni religiose o filosofiche, o l'appartenenza sindacale, nonché il divieto di trattamento di dati genetici, dati biometrici intesi a identificare in modo univoco una persona fisica, dati relativi alla salute o alla vita sessuale o all'orientamento sessuale della persona, non si applica se i trattamenti stessi sono necessari per assolvere gli obblighi ed esercitare i diritti specifici del titolare del trattamento o dell'interessato in materia di diritto del lavoro e della sicurezza sociale e protezione sociale, nella misura in cui siano autorizzati dal diritto dell'Unione o degli Stati membri o da un contratto collettivo ai sensi del diritto degli Stati membri, in presenza di garanzie appropriate per i diritti fondamentali e gli interessi dell'interessato.

È poi previsto all'art. 88, recante “Trattamento dei dati nell'ambito del rapporto di lavoro”, che: “1. Gli Stati membri possono prevedere, con legge o tramite contratti collettivi, norme più specifiche per assicurare la protezione dei diritti e delle libertà con riguardo al trattamento dei dati personali dei dipendenti nell'ambito dei rapporti di lavoro, in particolare per finalità di assunzione, esecuzione del contratto di lavoro, compreso l'adempimento degli obblighi stabiliti dalla legge o da contratti collettivi, di gestione, pianificazione e organizzazione del lavoro, parità e diversità sul posto di lavoro, salute e sicurezza sul lavoro, protezione della proprietà del datore di lavoro o del cliente e ai fini dell'esercizio e del godimento, individuale o collettivo, dei diritti e dei vantaggi connessi al lavoro, nonché per finalità di cessazione del rapporto di lavoro. 2. Tali norme includono misure appropriate e specifiche a salvaguardia della dignità umana, degli interessi legittimi e dei diritti fondamentali degli interessati, in particolare per quanto riguarda la trasparenza del trattamento, il trasferimento di dati personali nell'ambito di un gruppo imprenditoriale o di un gruppo di imprese che svolge un'attività economica comune e i sistemi di monitoraggio sul posto di lavoro. 3. Ogni Stato membro notifica alla Commissione le disposizioni di legge adottate ai sensi del paragrafo 1 entro 25 maggio 2018 e comunica senza ritardo ogni successiva modifica”.

Riferimenti

Normativa:

Art. 3 del D.Lgs. n. 81/2015 -

Art. 2087 Codice Civile

Art. 2094 Codice Civile

Art. 2103 Codice Civile

Art. 2104 Codice Civile

Art. 2106 Codice Civile

Artt. 2, 3, 4, 5, 6, 8 L. n. 300/1970

Giurisprudenza:

Cass. sez. lav., 18 aprile 2018, n. 9590

Cass. sez. lav., 12 marzo 2018, n. 5957

Cass. sez. lav., 10 novembre 2017, n. 26684

Cass. sez. lav., 10 novembre 2017, n. 26682

Cass. sez. lav., 22 settembre 2015, n. 18674

Cass. sez. lav., 17 febbraio 2015, n. 3122

Cass. sez. lav., 1 settembre 2014 n. 18479

Cass. sez. lav., 6 agosto 2014, n. 17698

Cass. sez. lav., 9 giugno 2014, n. 12886

Cass. sez. lav., 27 febbraio 2014, n. 4724

Riferimenti normativi

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