Processo del lavoro - secondo grado

Loredana Miccichè
22 Aprile 2016

Scheda in fase di aggiornamento

L'appello nel rito del lavoro rientra nel novero dei mezzi di impugnazione, quali definiti, in via generale, dall'art. 323 c.p.c. Anche per il rito speciale del lavoro, dunque, l'appello involge ogni aspetto della sentenza di primo grado, vale a dire sia ai vizi del procedimento (errores in procedendo), sia il merito della causa, con la censura all'attività del giudicante con riguardo all'apprezzamento dei fatti e alla attività istruttoria (errores in iudicando). L'esame, comunque, deve essere compiuto nei limiti della censure delle parti (tantum devolutum, quantum appellatum): il limite segnato dalle censure delle parti, concretamente definite, è stato rafforzato a seguito della riforma introdotta dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lett. c) bis, conv. nella L. 7 agosto 2012, n. 134, che ha modificato l'art. 434 c.p.c.

Inquadramento

L'appello nel rito del lavoro rientra nel novero dei mezzi di impugnazione, quali definiti, in via generale, dall'art. 323 c.p.c.

Anche per il rito speciale del lavoro, dunque, l'appello involge ogni aspetto della sentenza di primo grado, vale a dire sia ai vizi del procedimento (errores in procedendo), sia il merito della causa, con la censura all'attività del giudicante con riguardo all'apprezzamento dei fatti e alla attività istruttoria (errores in iudicando). L'esame, comunque, deve essere compiuto nei limiti della censure delle parti (tantum devolutum, quantum appellatum): il limite segnato dalle censure delle parti, concretamente definite, è stato rafforzato a seguito della riforma introdotta dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lett. c) bis, conv. nella L. 7 agosto 2012, n. 134, che ha modificato l'art. 434 c.p.c.

Il processo di appello, nel rito lavoro, si caratterizza per la centralità del valore della celerità, definitivamente consacrato nella riforma costituzionale della “ragionevole durata” del processo: detto principio ispira, anche per la fase impugnatoria, il sistema delle rigide preclusioni. Si è dunque consolidata la regola della improcedibilità del gravame in caso di omessa notifica; si è affermata l'estensione del suddetto principio anche alle impugnazioni incidentali; si è ulteriormente precisato, normativamente, l'obbligo di specificità dei motivi con conseguente previsione della inammissibilità dell'appello. Ancora, le stringenti preclusioni vigenti per il rito del lavoro in primo grado si riflettono, parimenti, nel giudizio di appello, nel quale vige il generale divieto del “nova”, salvo i casi di ritenuta assoluta indispensabilità dei mezzi di prova. Infine, mentre è pacifica la natura impugnatoria del reclamo ex art. 1, comma 58, L. n. 92/2012, differente è l'inquadramento del giudizio di opposizione avverso l'ordinanza emessa all'esito della fase sommaria, con conseguenti riflessi sulla idoneità dell'ordinanza predetta al passaggio in giudicato.

Proposizione del giudizio

A seguito della riforma introdotta con il D.Lgs. 19 febbraio 1998, n. 51, recante l'istituzione del giudice unico, l'appello avverso le sentenze relative a controversie di lavoro si propone con le forme del ricorso depositato alla corte d'appello competente per territorio in funzione di giudice del lavoro.

Riguardo alla forma di introduzione del giudizio di appello, si è ampiamente consolidato in giurisprudenza il principio della ultrattività del rito, in base al quale la forma dell'atto introduttivo del giudizio di appello deve essere collegata a quella del procedimento di primo grado. Pertanto, ove una controversia sia stata trattata con il rito del lavoro, l'appello deve essere proposto con ricorso depositato, a pena di decadenza, nel termine stabilito dall'art. 434 c.p.c. (trenta giorni successivi alla notifica della sentenza ovvero - giusta i principi generali di cui agli artt. 325 e 327 c.p.c. - sei mesi dal deposito) mentre, se alla controversia di primo grado sia stato applicato il rito ordinario, l'appello va proposto con atto di citazione, notificato entro trenta giorni dalla notifica della sentenza di primo grado ovvero entro sei mesi dal deposito.

La parte, infatti, deve restare vincolata alle forme processuali seguite durante la prima fase del giudizio, mentre l'eventuale decisione circa il mutamento del rito applicabile compete soltanto al giudice adito, che può eventualmente procedere a tale mutamento a norma degli artt. 426 e 427, richiamati, per la fase di appello, dal successivo art. 439 c.p.c.

Appello con riserva di motivi

L'art.433 c.p.c. in esame prevede che, in caso di inizio della esecuzione anteriormente alla notificazione della sentenza, può essere proposto appello con riserva di motivi, da presentarsi nel termine previsto dal successivo art. 434 c.p.c.

La ratio dell'istituto è facilmente ricollegabile alla necessità, per la parte, di richiedere la sospensione dell'esecutività della sentenza, nelle forme previste dall'art. 351 c.p.c.

Si è ritenuto, da parte della dottrina maggioritaria, che l'appello con riserva di motivi costituisca una vera e propria impugnazione della sentenza, sebbene con effetti prodromici o preliminari, che si inserisce in una fattispecie a formazione progressiva e si perfeziona soltanto con il deposito dei motivi a seguito della pubblicazione della sentenza. Per tali ragioni, dunque, il mancato deposito dei motivi nel termine indicato determina il passaggio in giudicato della sentenza di primo grado e l'inefficacia dell'eventuale provvedimento di inibitoria adottato; se, comunque, i motivi risultano depositati fuori termine, l'impugnazione diviene inammissibile.

Contenuto dell'atto di appello nella evoluzione normativa e giurisprudenziale

Anteriormente alla “riscrittura” dell'art. 434 c.p.c. per effetto del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lett. c) bis, conv. nella L. 7 agosto 2012, n. 134, sul contenuto dell'atto di appello si erano formati due opposti orientamenti giurisprudenziali: secondo un primo indirizzo, maggiormente restrittivo, era necessaria l'indicazione delle statuizioni impugnate e dei motivi specifici delle impugnazioni, che possono essere svolti con una esposizione sommaria, purché non generica ed equivoca, sufficiente a consentire al giudice del gravame di considerare la fondatezza delle ragioni per le quali si chiede la "revisio prioris instantiae”. Secondo diverso orientamento, invece, non occorreva una precisa enunciazione delle ragioni della impugnazione quando questa investa "in toto" la sentenza di primo grado e renda indispensabile l'esame del giudice di appello su tutta la controversia, essendo sufficiente la manifestazione della volontà di impugnare.

Il primo indirizzo si basa su dati testuali, ed, in particolare, sulla norma dell'art. 342 c.p.c., la quale richiede che l'atto d'appello contenga l'esposizione dei fatti ed i motivi specifici dell'impugnazione, e, con il richiamo all'art. 163 c.p.c. (per quanto riguarda l'appello proposto davanti alla corte d'appello o al tribunale), che siano indicati l'oggetto della domanda e le ragioni che la giustificano; così anche l'art. 434 c.p.c., per il processo lavoristico, fa riferimento ai “motivi specifici dell'impugnazione” nonché richiama l'art. 414 c.p.c.

L'orientamento opposto argomenta sulla base della pienezza di cognizione del giudice dell'appello, in contrapposizione all'efficacia rescindente del giudizio per cassazione e del procedimento di revocazione, in cui è necessaria per legge l'esposizione dei motivi, il cui contenuto segna anche i limiti della cognizione del giudice.

In evidenza: Cassazione

Le Sezioni Unite, con la sentenza n. 4991 del 6 giugno 1987, hanno sottolineato che, poiché anche il giudizio d'appello è giudizio d'impugnazione, la cognizione del giudice deve essere estesa al suo oggetto concreto che deve essere determinato dall'appellante attraverso l'indicazione specifica dei motivi di appello. In tal senso di spiega, secondo il Supremo Collegio, il reale contenuto del precetto relativo all'onere di specificità dei motivi d'appello, che serve a delimitare il principio del cd “effetto devolutivo” anche per consentire l'applicazione delle regole dell'acquiescenza e della decadenza dalle eccezioni non accolte nella decisione di primo grado e non riproposte in appello.

Secondo la decisione delle Sezioni Unite, cui si è in seguito uniformata tutta la giurisprudenza di merito e di legittimità, l'obbligo di motivazione e l'onere di allegazione sono correlativi: il grado di specificità dei motivi non può essere stabilito una volta per tutte in via generale, ma va desunto dal grado di specificità che avrà assunto la motivazione del giudice di primo grado.

Affermato, quindi, il principio per cui i motivi del gravame debbono essere specificati in stretta correlazione con le argomentazioni della sentenza impugnata, si è anche precisato che, ai fini della indicazioni dei predetti motivi (purché, appunto correlati alle motivazioni della sentenza gravata) può essere sufficiente il rinvio ad altri atti processuali (tipicamente, al ricorso di primo grado); mentre, ovviamente, la integrale ripetizione del ricorso di primo grado, senza alcun collegamento alla sentenza impugnata, non vale a soddisfare il requisito in questione. Irrilevante è, invece, che i motivi siano enunciati in moduli prestampati, relativi alle controversie cd “seriali”, se comunque essi attengano alla motivazione della sentenza gravata.

Così, in caso di giudizi il cui esito sia basato sulle risultanze di una consulenza tecnica, non è sufficiente richiedere il rinnovo della CTU, ma occorre riportare specifiche censure avverso la consulenza depositata in primo grado.

Quanto alle conseguenze circa l'inosservanza dell'obbligo di specificità dei motivi, il Supremo Collegio ha osservato che, dal richiamo all'art. 163 c.p.c. da parte dell'art. 342 c.p.c. (o art. 414 c.p.c. da parte dell'art. 434 c.p.c.) ed in particolare alla disposizione di cui al n. 3 delle predette norme (determinazione dell'oggetto del giudizio), consegue che la sanzione è quella della nullità e non della inammissibilità. Di conseguenza, con la costituzione del convenuto appellato, si può verificare la sanatoria dell'atto di appello nullo, seppur con salvezza dei diritti anteriormente acquisiti.

La conclusione sopra indicata, propugnata dalla citata pronuncia a Sezioni Unite, non è stata però condivisa all'unanimità dalla giurisprudenza: non mancavano, infatti, pronunce – anche della Cassazione – che affermavano, invece, come la mancanza di specificazione dei motivi determini la inammissibilità dell'appello e il conseguente passaggio in giudicato della sentenza impugnata.

In evidenza: Cassazione

Il contrasto è stato risolto da un intervento delle Sezioni Unite (sentenza del 29 gennaio 2000, n.16), che ha condiviso la tesi per cui l'appello carente del requisito della specificità dei motivi è inammissibile, pur argomentando nel senso che l'atto che non contenga motivi specifici è comunque affetto da una forma di invalidità, che deve qualificarsi come nullità insanabile (in quanto rende l'appello inidoneo a costituire il rapporto processuale) con conseguente passaggio in giudicato della sentenza impugnata.

La ricostruzione operata conduce all'esame consapevole e ragionato del nuovo testo dell'art. 434 c.p.c., introdotto dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lett. c) bis, conv. nella L. 7 agosto 2012, n. 134, che per il rito del lavoro, in coerenza con il paradigma generale contestualmente introdotto nell'art. 342 c.p.c., specifica i requisiti della motivazione che il ricorso in appello deve presentare, a pena di inammissibilità del gravame, individuandoli: 1) nell'"indicazione delle parti del provvedimento che si intende appellare e delle modifiche che vengono richieste alla ricostruzione del fatto compiuta dal giudice di primo grado" e, 2) "nell'indicazione delle circostanze da cui deriva la violazione della legge e della loro rilevanza ai fini della decisione impugnata", laddove la precedente formulazione imponeva "l'esposizione sommaria dei fatti e i motivi specifici dell'impugnazione".

Nell'immediata applicazione della norma la giurisprudenza di merito si è interrogata se la nuova formulazione avesse operato una maggiore restrizione del canone di specificità dei motivi così come delineato dalla ricostruzione sopra ricordata; quali conseguenze, in particolare, comportasse la mancata indicazione delle “parti del provvedimento” sia sotto il profilo della ricostruzione del fatto, sia sotto il profilo delle enunciazione delle “circostanze da cui deriva la violazione di legge”; nonché delle “modifiche richieste”.

In evidenza: Cassazione

La Corte di Cassazione, sez. lav., ha messo un punto fermo con la sentenza 5 febbraio 2015, n.2143, secondo cui la norma, con la sua nuova formulazione, va intesa nel senso che l'atto di appello non richiede che le deduzioni della parte appellante assumano una determinata forma o ricalchino la decisione appellata con diverso contenuto, ma impone al ricorrente in appello di individuare in modo chiaro ed esauriente il "quantum appellatum", circoscrivendo il giudizio di gravame con riferimento agli specifici capi della sentenza impugnata nonché ai passaggi argomentativi che la sorreggono e formulando, sotto il profilo qualitativo, le ragioni di dissenso rispetto al percorso adottato dal primo giudice, sì da esplicitare la idoneità di tali ragioni a determinare le modifiche della decisione censurata. (Nella specie, la S.C. ha ritenuto correttamente formulato un ricorso in appello, in cui le singole censure - attinenti alla ricostruzione del fatto e/o alla violazione di norme di diritto - erano state sviluppate mediante la indicazione testuale riassuntiva delle parti della motivazione ritenute erronee e con la analitica indicazione delle ragioni poste a fondamento delle critiche e della loro rilevanza al fine di confutare la decisione impugnata).

Ribadita, dunque, l'assenza di precisi vincoli formalistici e la necessità, invece, di individuare specificamente il cd. “quantum appellatum”, deve ritenersi che il ricorso in appello può anche riproporre le argomentazioni già svolte in primo grado, purché esse siano comunque funzionali a supportare le censure proposte nei confronti di specifici passaggi argomentativi della sentenza appellata.

Deposito del ricorso e notificazione dell'impugnazione

L'art. 435 c.p.c. stabilisce espressamente che, ai fini della proposizione dell'impugnazione, deve essere depositato presso la cancelleria della Corte d'Appello il ricorso in appello, senza tuttavia specificare se, ai fini della rituale costituzione della parte appellante, debba altresì essere depositato il fascicolo di parte del primo grado nonché la copia della sentenza impugnata, come prescritto dall'art. 347 c.p.c. per il rito ordinario.

Si è dunque discusso se dovevano ritenersi applicabili anche al rito del lavoro le disposizioni dell'art. 347 c.p.c. e, conseguentemente, dell'art. 348 c.p.c., che prevedeva la sanzione della improcedibilità dell'appello in caso di mancato deposito del fascicolo di parte – corredato della copia della sentenza impugnata – alla prima udienza.

Salvo un orientamento minoritario, la giurisprudenza aveva in larga maggioranza affermato che il mancato deposito del fascicolo di parte e della copia della sentenza gravata non comportavano l'improcedibilità dell'appello, ma potevano provocare il rigetto dell'appello nel merito, in mancanza di elementi su cui fondare la decisione. Restava salva, comunque, la possibilità di ordinare il deposito dei documenti predetti se il Collegio decideva di avvalersi della facoltà di cui all'art. 421 c.p.c.

A seguito della riforma dell'art. 348 c.p.c. ad opera dell'art. 54 della L.26 novembre 1990, n.353, è stata abolita la norma che prevedeva l'improcedibilità in caso di mancato deposito del fascicolo di parte alla prima udienza: sia la giurisprudenza formatasi sul rito ordinario che, dunque, quella intervenuta relativamente alla questione sul rito del lavoro, hanno definitivamente affermato il principio per cui non si determina alcuna improcedibilità ove l'appellante non depositi il proprio fascicolo e la copia della sentenza impugnata.

È pacifico che, ove la sentenza non venga notificata, si applica il principio generale di cui all'art. 327 c.p.c., per cui il termine per proporre impugnazione è di sei mesi dal deposito della sentenza. A tal fine è irrilevante, ai fini del computo del termine, la lettura del dispositivo all'udienza di discussione: anzi, si considera inammissibile l'appello proposto anteriormente al deposito della motivazione della sentenza, a meno che non si versi nella eccezionale ipotesi prevista dall'art. 433, secondo comma, c.p.c. (appello con riserva dei motivi).

Il termine per la proposizione dell'appello si considera ritualmente osservato se, entro il termine predetto, intervenga il deposito del ricorso in cancelleria, mentre resta irrilevante la data di notifica del ricorso e del decreto presidenziale di fissazione dell'udienza di discussione. Di conseguenza, se il deposito del ricorso in appello avviene entro i sei mesi dalla pubblicazione della sentenza, la notifica, anche se intervenuta oltre detto termine, si esegue presso il procuratore costituito. Non si applica, dunque, l'art.330, secondo comma, c.p.c., secondo cui l'impugnazione tardiva deve essere notificata alla parte personalmente: si è osservato, infatti, che se l'appello è depositato entro i sei mesi dalla pubblicazione della sentenza, l'impugnazione si considera tempestiva, e non tardiva.

La sospensione dei termini feriali non si applica alle controversie di lavoro secondo il disposto dell'art. 3 della L.742/1969. Ai fini di escludere la commutabilità dei termini feriali vale il principio dell'effettivo rito seguito, e non quello della reale natura del rapporto, secondo la tesi – pacifica in giurisprudenza – della cd. “ultrattività del rito”.

La giurisprudenza è consolidata nel ritenere che il termine di cinque giorni per la nomina del giudice relatore, nonché quello di sessanta giorni per la fissazione dell'udienza di discussione hanno natura ordinatoria (ché, anzi, non riguardando le parti, ma i giudici, sono stati definiti anche termini «sollecitatori»): il mancato rispetto di detti termini, dunque, non incide sulla validità e sulla procedibilità dell'appello, con l'avvertimento che se, comunque, la fissazione dell'udienza non consente il rispetto dei termini minimi a comparire, si verifica la nullità del decreto presidenziale che deve essere quindi rinnovato.

In evidenza: Corte Costituzionale

La Corte costituzionale, intervenendo sulla questione di legittimità sollevata con riferimento all'articolo 435 c.p.c., ha stabilito, con la sentenza additiva del 14 gennaio 1977, n. 15, che il deposito del decreto presidenziale di fissazione dell'udienza deve essere comunicato all'appellante, cominciando solo da tale comunicazione a decorre il termine per la notifica del ricorso e del decreto.

Consegue, pertanto, che - qualora si verifichi l'evenienza della omessa comunicazione del decreto di fissazione dell'udienza - la mancata comparizione dell'appellante all'udienza di discussione che è stata fissata e, naturalmente, anche la conseguente mancata notificazione del ricorso e del decreto all'appellato non rendono inammissibile l'appello e si determina comunque – in virtù del deposito del ricorso – l'effetto preclusivo del giudicato. Dovrà, in tale ipotesi, fissarsi una nuova udienza di discussione della quale - secondo lo schema procedimentale che si è detto - deve essere data comunicazione all'appellante. Nel caso in cui, malgrado la mancanza dell'avviso, l'appellante compaia ugualmente all'udienza di discussione, senza far rilevare la nullità, la giurisprudenza reputa che la nullità derivata dalla mancanza dell'avviso sia sanata in forza della regola generale del raggiungimento dello scopo dell'atto.

Nessun particolare problema si pone con riguardo ai termini: quello di dieci giorni successivi alla comunicazione per provvedere alla notifica all'appellato non è considerato di natura perentoria.

In evidenza: Cassazione

In proposito, la Corte di Cassazione, sez. lav., con la sentenza 4 aprile 2014, n. 8007, ha ribadito che, nel rito del lavoro, il termine di dieci giorni entro il quale l'appellante, ai sensi dell'art. 435, secondo comma, c.p.c., deve notificare all'appellato il ricorso, tempestivamente depositato in cancelleria nel termine previsto per l'impugnazione, e il decreto di fissazione dell'udienza di discussione non ha carattere perentorio; la sua inosservanza non produce quindi alcuna conseguenza pregiudizievole per la parte, perché non incide su alcun interesse di ordine pubblico processuale o su di un interesse dell'appellato, sempre che sia rispettato il termine che ai sensi del medesimo art. 435, commi terzo e quarto, c.p.c., deve intercorrere tra il giorno della notifica e quello dell'udienza di discussione.

Il termine minimo a comparire di venticinque giorni deve necessariamente essere rispettato incidendo sul diritto di difesa della controparte e integrando, in caso di inosservanza, un vizio, certamente con possibilità di sanatoria. (Cass., sez. lav., 10 settembre 1986, n.5530, principio consolidato).

Il problema relativo alle conseguenze derivanti al giudizio di appello dalla omessa o invalida notificazione del ricorso e del decreto di fissazione dell'udienza di discussione presenta una lunga storia nell'ambito degli indirizzi della giurisprudenza. La questione è stata lungamente dibattuta con riferimento, da un lato, alla possibilità di sanatoria, e, dall'altro, agli effetti della sanatoria.

Il prevalente orientamento formatosi all'indomani della riforma del processo del lavoro aveva ritenuto l'applicabilità della predetta norma sia alle ipotesi di omessa o inesistente notificazione sia alle ipotesi di nullità della notificazione stessa, con l'ulteriore conseguenza per cui, ordinata dal collegio la rinnovazione della notifica, si verificava un effetto sanante ex tunc, senza, cioè, che nelle more spirasse il termine legale per la proposizione dell'impugnazione.

A tale conclusione si era giunti in considerazione della peculiarità del rito del lavoro, caratterizzato dall'autonomia della fase introduttiva del giudizio (editio actionis) da quella diretta alla instaurazione del contraddittorio (vocatio in ius), ribadendosi il principio per cui con il deposito tempestivo del ricorso in appello doveva ritenersi osservato il termine per la proposizione della impugnazione, restando irrilevante la data della notificazione del ricorso e del decreto (Cass., sez. lav., 1 marzo 2006, n.4543).

Malgrado tale prevalente indirizzo avesse affermato la possibilità di una piena convalidazione in seguito all'ordine di rinnovazione della notificazione nulla o addirittura omessa o inesistente, con effetto ex tunc, nella giurisprudenza di merito si era affermato un diverso orientamento, secondo cui il regime di sanatoria delle nullità formali afferenti l'atto introduttivo del giudizio e la sua notificazione, posto dagli artt. 156, 162, 164 e 291 c.p.c., trovava applicazione anche nel rito del lavoro, in mancanza di specifica deroga e non ostando ragioni di incompatibilità con le peculiarità strutturali di detto rito. Nelle cause di lavoro, pertanto, la nullità radicale od inesistenza giuridica della notificazione del ricorso introduttivo e del decreto di fissazione dell'udienza ovvero l'omissione della notificazione medesima, al pari della nullità dovuta al mancato rispetto del termine minimo per la comparizione, integrano vizi sanabili mediante la costituzione del convenuto, o la rinnovazione disposta dal giudice, soltanto con effetto ex nunc.

Veniva quindi affermata pur sempre la possibilità di sanatoria, ma non con effetto sanante pieno: la costituzione dell'appellato o la notifica del ricorso in appello dovevano pur sempre intervenire anteriormente allo spirare del termine legale per la proposizione dell'impugnazione (Cass., sez. lav., 9 marzo 1994, n.2282).

In tale panorama interpretativo, le Sezioni Unite della S.C. (Cass., SS.UU. 29 luglio 1996, n.6841) accoglievano l'indirizzo meno rigoroso, aderendo alla tesi della piena e incondizionata applicabilità della regola sancita dall'art. 291 c.p.c. in tutti i casi di omessa, inesistente o invalida notificazione, con sanatoria ex tunc. Detto orientamento era affermato anche nella ipotesi di opposizione a decreto ingiuntivo, nel caso di omessa o inesistente notificazione dell'atto di opposizione (formulata con ricorso), e anche in quella di appello alla sentenza di rigetto dell'opposizione a decreto ingiuntivo.

In evidenza: Cassazione

Il principio che appariva acquisito all'interpretazione pratica è stato ribaltato: intervenendo ancora una volta, le Sezioni Unite della S.C. (30 luglio 2008, n. 20604) sono ritornate sulla questione prendendo in considerazione proprio l'ipotesi di opposizione e decreto ingiuntivo. Ha stabilito la Corte che, nel caso di omessa o inesistente notificazione del ricorso in appello non deve essere ordinata alcuna rinnovazione e il processo deve concludersi con una sentenza di improcedibilità del gravame medesimo, statuendo altresì che i medesimi principi vanno applicati alla omessa notifica del ricorso in opposizione a decreto ingiuntivo per crediti da lavoro.

Ponendosi in una prospettiva di ossequio ermeneutica al principio, introdotto nell'ordinamento dalla legge 23 novembre 1999, n. 23 - che ha modificato l'art. 111 della Costituzione - le Sezioni Unite hanno fornito una soluzione del tutto opposta alla luce della «ragionevole durata del processo», inteso come principio non meramente esortativo, ma avente valore direttamente applicativo nella ermeneutica delle questioni processuali. Si è, in particolare, rilevato che, sulla scorta del criterio sopra ricordato, la lettura delle norme processuali deve essere maggiormente attenta al tenore letterale, di talché, poiché l'art. 291 del codice di rito si riferisce all'ipotesi di «nullità» della notificazione, detta norma non può applicarsi anche al caso di omissione o inesistenza della notificazione medesima, data «l'impossibilità concettuale di rinnovare l'inesistente, giuridico o di fatto» (come si legge nella pronuncia in discorso). Un'applicazione dell'art. 291 c.p.c. al di fuori di quanto letteralmente stabilito finisce, infatti, per allungare in misura del tutto ingiustificata i tempi del processo del lavoro con disapplicazione dei principi di oralità, concentrazione e immediatezza che lo contraddistinguono. Detto indirizzo, adottato nel panorama ormai definito delle pronunce in accordo con i principi del giusto processo e della sua ragionevole durata, si è definitivamente consolidato.

Resta fermo - in accordo con quanto in precedenza detto - che non si verte nella ipotesi di omessa notificazione se il decreto presidenziale di fissazione dell'udienza non sia stato comunicato all'appellante da parte della cancelleria: in tal caso, se l'appellante compare, deve essergli concesso termine per notificare il ricorso e decreto. In caso di mancata comparizione, va disposto il rinvio dell'udienza e la comunicazione del decreto all'appellante, che dovrà provvedere alla notificazione nel termine di legge.

Costituzione dell'appellato e appello incidentale

Ai sensi dell'art. 436 c.p.c., l'appellato deve costituirsi almeno 10 giorni prima dell'udienza, con l'onere di proporre, a pena di decadenza, appello incidentale articolato sui motivi specifici su cui si fonda l'impugnazione, da notificarsi alla controparte almeno dieci giorni prima dell'udienza fissata.

La prima questione da esaminare riguarda in quali casi la parte appellata deve proporre l'impugnazione incidentale, ai fini di evitare il passaggio in giudicato dei capi di sentenza a sé sfavorevoli.

In evidenza: Cassazione

Si è di recente consolidato il principio per cui la parte pienamente vittoriosa nel merito in primo grado non ha l'onere di proporre, in ipotesi di gravame formulato dal soccombente, appello incidentale per richiamare in discussione le eccezioni e le questioni che risultino superate o assorbite, o comunque non accolte con la sentenza di primo grado, difettando di interesse al riguardo, ma è soltanto tenuta a riproporle espressamente nel nuovo giudizio in modo chiaro e preciso, tale da manifestare in forma non equivoca la sua volontà di chiederne il riesame, al fine di evitare la presunzione di rinuncia derivante da un comportamento omissivo, ai sensi dell'art. 346 c.p.c. (Cass., sez. lav., 11 giugno 2010, n. 14086; Cass., sez. lav., 28 agosto 2013, n. 19828).

Si ritiene comunque che l'onere di reiterare l'istanza relativa alle eccezioni non accolte debba essere formulata, necessariamente, entro il termine dei dieci giorni prima dell'udienza, in conformità al disposto dell'art. 416 c.p.c. (richiamato dall'art. 435) in ordine alla proposizione delle eccezioni non rilevabili d'ufficio.

Quanto alle istanze istruttorie, per il rito ordinario la Suprema Corte afferma che l'appellante che intende ottenere il riesame delle istanze istruttorie non ammesse o non esaminate in primo grado ha l'onere, in ragione dell'effetto devolutivo dell'appello, di reiterarle nell'atto introduttivo del gravame ai sensi degli artt. 342 e 345 c.p.c., ma non anche ai sensi dell'art. 346 c.p.c., che riguarda l'appellato vittorioso, il quale può solo riproporre le domande ed eccezioni che non sono state accolte in primo grado ovvero non esaminate perché ritenute assorbite ( da ultimo Cass., 24 novembre 2015, n. 23978).

Diversa regola è stata invece affermata per il rito del lavoro.

In evidenza: Cassazione

Nel rito del lavoro, l'appellante che impugna "in toto" la sentenza di primo grado, insistendo per l'accoglimento delle domande, non ha l'onere di reiterare le istanze istruttorie pertinenti a dette domande, ritualmente proposte in primo grado, in quanto detta riproposizione è insita nella istanza di accoglimento delle domande, mentre la parte appellata, vittoriosa in primo grado, non riproponendo alcuna richiesta di riesame della sentenza, ad essa favorevole, deve manifestare in maniera univoca la volontà di devolvere al giudice del gravame anche il riesame delle proprie richieste istruttorie sulle quali il primo giudice non si è pronunciato, richiamando specificamente le difese di primo grado, in guisa da far ritenere in modo inequivocabile di aver riproposto l'istanza di ammissione della prova. (Cass., sez. lav, 11 febbraio 2011, n. 3376; Cass., sez. lav., 27 ottobre 2009, n. 22687).

Altra questione riguarda la decadenza dall'appello incidentale: fermo restando l'onere di proporlo in uno con la memoria depositata nel termine dei dieci giorni anteriori alla udienza di discussione, si è posto il problema se occorre, oltre al deposito, anche la notifica dell'appello.

L'indirizzo affermatosi era nel senso che era sufficiente il solo deposito, più precisamente, si era ritenuto che nelle controversie soggette al rito del lavoro, la proposizione dell'appello incidentale si perfeziona, ai sensi dell'art. 436 c.p.c., con il deposito, nel termine previsto dalla legge, del ricorso nella cancelleria del giudice "ad quem", che impedisce ogni decadenza. Ne consegue che, qualora sia osservata la tempestività nel deposito dell'appello incidentale, ma la parte non abbia provveduto alla rituale notificazione della memoria che lo contiene almeno dieci giorni prima dell'udienza fissata per la discussione, per averla omessa o per essere stata la stessa invalidamente eseguita, non può derivarne la declaratoria di inammissibilità dell'impugnazione dovendo il giudice di appello concedere all'appellante incidentale nuovo termine, da qualificarsi come perentorio, per la notificazione, sempre che la controparte presente all'udienza non vi rinunci, accettando il contraddittorio o limitandosi a chiedere un congruo rinvio, da disporsi anche nel caso di intervenuta notificazione tardiva. (cfr. Cass. 22 maggio 2007, n.11888).

Più recentemente, la Suprema Corte ha però precisato che la richiesta di notificazione del gravame incidentale all'ufficiale giudiziario deve essere compiuta nel termine di dieci giorni prima dell'udienza, a pena di inammissibilità (Cass. 31 maggio 2012, n. 8723).

In evidenza: Cassazione

La Suprema Corte, sez. lav, con la sentenza 19 gennaio 2016, n. 837, ha da ultimo statuito che nel rito del lavoro, l'appello incidentale, pur tempestivamente proposto, ove non sia stato notificato va dichiarato improcedibile poiché il giudice, in attuazione del principio della ragionevole durata del processo, non può assegnare all'appellante un termine per provvedere a nuova notifica, e la suddetta improcedibilità è rilevabile d'ufficio trattandosi di materia sottratta alla disponibilità delle parti. (Nella specie, la S.C. ha escluso che potesse avere rilevanza il fatto che la mancata concessione del nuovo termine fosse seguita alla condotta della controparte che, presente all'udienza, si era limitata a chiedere un rinvio della discussione).

Detto indirizzo, intervenuto successivamente alla sopra ricordata pronuncia delle Sezioni Unite in ordine alla omessa notificazione dell'appello principale, appare coerente con l'indirizzo rigoroso ormai adottato dalla giurisprudenza di legittimità in ossequio ai principi della ragionevole durata del processo civile.

Infine, deve ritenersi che valgano senz'altro anche per l'impugnazione incidentale i principi in ordine alla specificità dei motivi di impugnazione già ricordati per l'impugnazione principale.

Udienza di discussione

Uno dei problemi che si è posto con immediatezza è quello della mancata comparizione delle parti alla prima udienza di discussione: esso ha affascinato e diviso, sin dagli inizi, la giurisprudenza di legittimità e di merito.

In particolare, una prima interpretazione, sottolineando la differente struttura del rito lavoristico e la sua finalità delle definizione della controversia, reputava che - pur in assenza delle parti - il giudice (sia di primo grado che di appello) deve pronunciare nel merito. Ad essa si contrapponeva un secondo indirizzo interpretativo per il quale sono applicabili anche nel processo del lavoro le disposizioni stabilite dagli artt. 181, 309 e 348 c.p.c. per il rito ordinario: il giudice, quindi, nella situazione considerata, deve fissare una nuova udienza di discussione, provvedendo alla cancellazione della causa dal ruolo se, all'udienza successiva, permanga l'assenza delle parti.

Si è affermato e consolidato, nel tempo, questo secondo indirizzo, per cui, nell'ipotesi in cui la parte appellante non si presenti alla prima udienza fissata per la trattazione della causa nel merito, né a quella successiva, deve ritenersi operante la norma di cui all'art. 348, 2° comma, c.p.c., non ostandovi la specialità del rito né i principi cui esso si ispira (C. App. Roma, 2 marzo 2011, n. 870); nel medesimo senso anche la giurisprudenza di legittimità (Cass., sez. lav., 5 maggio 2001, n. 6326, nonché Cass., sez. lav., 22.agosto 2003, n. 12358).

La regola generale fissata dall'art. 437 c.p.c. prevede l'inammissibilità, nella fase di gravame, di domande ed eccezioni nuove. Attualmente, l'art. 437 ricalca la disciplina del processo di appello nel rito ordinario (art. 345 c.p.c.) come novellato dalla L. n. 353/990, ma, al momento della sua formulazione, introduceva, stante la peculiarità del rito del lavoro, oltre che il divieto di proporre nuove domande, anche il generale divieto di proporre nuove eccezioni, consentite invece nel rito ordinario “ante riforma”.

Ai fini dell'individuazione delle domande nuove, deve procedersi all'analisi degli elementi di identificazione della causa, ossia il petitum e la causa petendi: la domanda muta quando non vi sia coincidenza anche di uno solo degli elementi sopra citati.

Secondo il tenore letterale della norma, che stabilisce l'inammissibilità di domande “nuove”, si potrebbe ritenere invece possibile la mera emedatio libelli, ossia la modifica degli elementi costitutivi della domanda. Detta interpretazione, seppur apparentemente consona alla testuale dizione dell'articolo in commento, deve essere esclusa in base ad una lettura sistematica, considerando che, nel processo di primo grado, è possibile, alla prima udienza di discussione, modificare le domande solo in caso di ricorrenza di gravi motivi e dietro autorizzazione del giudice. Il thema decidendum, dunque, è da considerarsi definitivamente fissato nel processo di primo grado, il cui ambito segna, altrettanto definitivamente, la cognizione del giudice d'appello.

La giurisprudenza di legittimità è conforme nel ritenere che l'inammissibilità delle domande nuove va dichiarata d'ufficio dal Collegio, e che l'inammissibilità opera anche se la controparte dichiara di voler accettare il contraddittorio sulla domanda nuova formulata dall'avversario.

Le eccezioni nuove, non ammissibili in appello, sono certamente le eccezioni in senso stretto non rilevabili d'ufficio; rimangono ammissibili le deduzioni delle mere difese nonché le eccezioni di rito rilevabili d'ufficio in ogni stato e grado del processo.

L'art. 437 c.p.c. stabilisce inoltre che non sono ammessi nuovi mezzi di prova salvo che il collegio, anche d'ufficio, li ritenga indispensabili ai fini della decisione.

In evidenza: Cassazione

Il potere di ammissione in grado di appello dei mezzi di prova ritenuti indispensabili deve essere pur sempre esercitato con riferimento ai fatti allegati dalle parti o emersi nel processo nel contradditorio delle medesime, da intendersi come fatti tempestivamente dedotti o, in difetto, comunque oggetto di consapevole dibattito processuale (Cass., S.U., 20 aprile 2005, n. 8202 ).

In sostanza, l'indispensabilità, in sede di appello, di una produzione documentale o di una iniziativa istruttoria di ufficio può essere invocata non già per superare gli effetti preclusivi ormai verificatisi inerenti ad una omessa o tardiva eccezione, deduzione o formulazione di richiesta istruttoria, ovvero per supplire ad una carenza probatoria totale sui fatti costitutivi della originaria domanda o eccezione, ovvero sui fatti modificativi o estintivi della medesima, ma solo per colmare eventuali lacune delle risultanze di causa che offrano già significativi dati di indagine ed in ordine alle quali la parte interessata non sia stata in grado di sopperire adeguatamente nei limiti temporali all'uopo legalmente fissati, circostanze queste ultime tutte estranee alla vicenda processuale in decisione.

In evidenza: Cassazione

Cass., sez. lav., 13 luglio 2010, n. 16421, è nel senso che l'ingresso d'ufficio delle prove, oltre il ricorso e la memoria difensiva, è legittimo, indipendentemente dal verificarsi di preclusioni o decadenze in danno delle parti, solo qualora le prove stesse siano relative a fatti allegati dalle parti o emersi nel processo a seguito del contraddittorio.

Altrimenti detto, nel rito del lavoro non esiste conseguenzialità tra accertamento officioso e ammissibilità di prove, in quanto l'esercizio dei poteri officiosi deve avvenire sulla base di allegazioni e di prove, incluse quelle documentali, ritualmente acquisite al processo, nonché di fatti anch'essi ritualmente acquisiti al contraddittorio; in sostanza, i mezzi istruttori ammissibili d'ufficio presuppongono la preesistenza di altri mezzi istruttori, ritualmente acquisiti, intesi come complessivo materiale probatorio, che siano meritevoli dell'integrazione affidata alle prove officiose ( Cass., sez. lav., 13 giugno 2007, n. 13783; Cass., sez. lav., 27 luglio 2006, n. 17178).

Specificamente, quanto alle prove documentali, restano validi anche per il giudizio di appello i principi di Cass., S.U., 20 aprile 2005, n. 8202, secondo cui nel rito del lavoro e della previdenza i documenti, anche relativi ad eccezioni rilevabili d'ufficio e che non risultino richiamati nel ricorso o nella memoria difensiva e contestualmente depositati, possono essere successivamente invocati ed acquisiti, in via alternativa, solo quando:

  • la loro formazione sia successiva ed attenga a fatti parimenti successivi alla costituzione in giudizio; se i documenti ed i fatti rappresentati sono precedenti, è necessario che la parte deduca e dimostri di non averne avuto conoscenza quando ha depositato il ricorso o la memoria difensiva ed, inoltre, di aver formulato l'eccezione con il primo atto difensivo successivo all'acquisita consapevolezza;
  • b) pur essendo preesistenti, la produzione sia giustificata dall'evolversi della vicenda processuale, ad esempio a seguito di riconvenzionale, di intervento o chiamata in causa del terzo, di esercizio di poteri istruttori d'ufficio, di presentazione dell'appello incidentale).
Decisione

Vanno in questa sede brevemente enunciate le particolarità della decisione di appello rispetto a quella di primo grado, segnatamente, il fatto che in appello non si applica la motivazione contestuale, essendo rimasta immutata la formulazione dell'art. 437 c.p.c. anche a seguito delle novità apportate all'art. 429 c.p.c. (dunque, solo per il primo grado) dall'art. 53 d.l. n. 112/2008, conv. nella L. n. 133/2008; e dell'art. 27 della L. n. 183/2011).

La sentenza è nulla solo nel caso in cui il collegio che dà lettura del dispositivo sia diverso da quello davanti al quale si sia tenuta la discussione (Cass., sez. lav., 8 aprile 2002, n.5019); mentre non si verifica alcuna nullità se il collegio che trattiene la causa in decisione sia diverso da quello che ha trattato il procedimento nelle precedenti udienze, anche eventualmente istruttorie (Cass., sez. lav., 30 novembre 2009, n.25229); né se nel verbale dell'udienza di discussione non compaia il nominativo di uno dei giudici presenti in udienza (Cass. 10 febbraio 2016, n.2658).

Non presentano particolarità, rispetto al giudizio di primo grado, le questioni relative alla mancata lettura del dispositivo, al contrasto tra dispositivo e motivazione.

Mutamento del rito

L'art. 439 c.p.c. disciplina il mutamento del rito in appello, prevedendo l'applicazione degli artt. 426 e 427 c.p.c. (passaggio dal rito ordinario al rito speciale e viceversa). Dal dato testuale si ricava che l'erronea applicazione del rito in primo grado non costituisce causa di nullità della sentenza, determinandosi, in tal caso, solamente l'obbligo della corte d'appello di procedere al mutamento del rito nella fase di secondo grado del giudizio.

La questione trattata si intreccia con il principio, già ricordato, della ultrattività del rito, in forza del quale l'atto introduttivo dell'appello deve comunque seguire necessariamente le forme del rito che è stato in concreto applicato in primo grado, salva poi la possibilità di provvedere al mutamento ed instradare la causa nel rito esatto da parte della Corte d'appello, ai sensi della norma in esame.

Va ancora osservato che la questione relativa al rito applicabile - che, a seguito della riforma del “giudice unico” appunto, non riguarda più la competenza - non può costituire motivo di impugnazione, in ossequio al principio per cui la erronea applicazione del rito in primo grado non costituisce causa di nullità della sentenza, a meno che detto errore non abbia inciso sul diritto di difesa delle parti, provocandone la violazione.

La norma non prevede termini preclusivi per la rilevabilità del rito applicabile, con la conseguenza che l'ordinanza che dispone il mutamento del rito potrebbe essere quindi emessa anche nell'udienza conclusiva del processo.

Si è comunque ritenuto - nella giurisprudenza formatasi in epoca in cui il pretore era funzionalmente competente per la materia del lavoro e con riferimento ai casi di passaggio dal rito speciale a quello ordinario - che, poiché la competenza si determina allo stato degli atti, e quindi in relazione al petitum e alla causa petendi esposti in domanda, l'obbligo del giudice di provvedere al mutamento del rito si presenta soltanto quando il rapporto dedotto in giudizio appaia prima facie estraneo alle controversie di cui all'art. 409 c.p.c., e non già quando tale estraneità emerga a seguito dei risultati dell'istruttoria.

Quanto agli effetti prodotti dall'ordinanza di mutamento del rito da ordinario a speciale, e dall'assegnazione del termine per la integrazione degli atti, la giurisprudenza è costante nel ritenere che la fissazione di detto termine non può comportare la sanatoria delle decadenze già maturatesi nel rito ordinario. Conseguentemente non possono certamente proporsi domande nuove, stante il divieto generale di cui agli artt. 420 e 437 c.p.c.

Per quanto riguarda l'ulteriore problema circa la possibilità di richiedere, con la memoria integrativa, nuovi mezzi di prova, nonché sollevare nuove eccezioni, l'art. 437 c.p.c. vieta espressamente detta possibilità, pur se, comunque, alle parti, a norma dell'art.426 dello stesso codice - richiamato dalla norma in commento - è consentito provvedere alla integrazione degli atti depositati.

In argomento, nella giurisprudenza di legittimità, a fronte di un indirizzo maggiormente restrittivo (per la verità, più risalente nel tempo), secondo il quale il divieto di cui al richiamato art. 437 opera con portata generale e, quindi, anche nel caso in questione, altro indirizzo più recente ritiene invece che, poiché la fissazione dell'udienza di discussione con assegnazione di termine per l'eventuale integrazione degli atti è finalizzata allo svolgimento del processo nei modi stabiliti per il primo grado e quindi all'utile esplicazione delle facoltà di difesa delle parti per quanto concerne la precisazione dell'oggetto della controversia e la determinazione degli elementi di prova, è possibile richiedere nuovi mezzi di prova e sollevare nuove eccezioni in caso di passaggio dal rito ordinario al rito lavoro nella fase di appello.

Nel caso inverso, ossia quello di passaggio dal rito speciale a quello ordinario, si è ritenuto che le parti conservano la possibilità di articolare mezzi di prova e sollevare eccezioni altrimenti precluse nel rito del lavoro.

Questioni particolari sul rito “ Fornero”

Le Sezioni Unite della Corte hanno chiarito che l'opposizione, nel rito speciale introdotto dall'art. 1 della legge n. 92/2012, non è una revisio prioris instantiae e non ha natura impugnatoria: il giudizio, infatti, si articola in due fasi, una a cognizione sommaria e una a cognizione piena, ma si tratta di un unico procedimento, che si espande, nella seconda fase, con accesso a tutti gli atti di istruzione ammissibili e rilevanti (Cass., S.U., 18 settembre 2014, n.19674; in termini, Cass., sez. lav., 17 luglio 2015, n.15066).

Anche la Corte Costituzionale, con la sentenza 13 maggio 2015, n. 78, ha escluso la natura impugnatoria del giudizio di opposizione, osservando che l'ordinanza pronunciata all'esito della fase sommaria, seppure immediatamente esecutiva, è destinata ad essere assorbita dalla sentenza che definisce la fase di opposizione.

In evidenza: Cassazione

Non è possibile ipotizzare la formazione del giudicato su alcune statuizioni e non su altre dell'ordinanza emessa a conclusione della fase urgente, e non può operare il principio del divieto di reformatio in pejus, trovando detto principio il suo fondamento nelle norme che disciplinano le impugnazioni (Cass., sez. lav., 26 febbraio 2016, n.3836).

Pacifica è, invece, la natura impugnatoria del reclamo, in ordine al quale la Corte di legittimità ha affermato che la disciplina di cui alla L. n. 92/2012 deve essere integrata con quella dell'appello per il rito lavoro. Si veda, in termini, Cass., sez. lav., 29 ottobre 2014, n.23021 e Cass., sez. lav., 29 ottobre 2015, n.22142, secondo cui “la disciplina speciale prevista dall'art. 1, comma 58, della legge 28 giugno 2012, n. 92, concernente il reclamo avverso la sentenza che decide sulla domanda di impugnativa del licenziamento nelle ipotesi regolate dall'art. 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300, va integrata con quella dell'appello nel rito del lavoro. Ne consegue l'applicabilità, nel giudizio di cassazione, oltre che dei commi terzo e quarto dell'art. 348 ter c.p.c., anche del comma quinto, il quale prevede che la disposizione di cui al precedente comma quarto - ossia l'esclusione del vizio di motivazione dal catalogo di quelli deducibili ex art. 360 c.p.c. - si applica, fuori dei casi di cui all'art. 348 bis, secondo comma, lett. a), anche al ricorso per cassazione avverso la sentenza di appello che conferma la decisione di primo grado (cosiddetta "doppia conforme").

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