Condotte distrattive e condotte restitutorie antecedenti la dichiarazione di fallimento

Marco Marzari
10 Ottobre 2017

La condotta restitutoria, da parte dell'amministratore della società, atta a reintegrare il patrimonio dell'impresa depauperato da una precedente attività distrattiva dei beni della stessa, può essere efficacemente posta in essere fino al momento della dichiarazione di fallimento.
Massima

La condotta restitutoria, da parte dell'amministratore della società, atta a reintegrare il patrimonio dell'impresa depauperato da una precedente attività distrattiva dei beni della stessa, può essere efficacemente posta in essere fino al momento della dichiarazione di fallimento, anche se è noto lo stato di decozione della società, integrando in tal modo la c.d. “bancarotta riparata”, per l'insussistenza dell'elemento oggettivo del reato.

Il caso

Con ricorso ex art. 606 c.p.p. veniva impugnata dal P.M., dalla parte civile e dall'imputato la sentenza della Corte d'Appello di Milano, di parziale riforma della precedente sentenza assolutoria del giudice di prime cure.

L'imputato, assolto dall'imputazione di bancarotta fraudolenta patrimoniale con riferimento ad una serie di condotte contestate come distrattive e dissipative, era stato poi solo in parte condannato dalla Corte territoriale, la quale aveva valorizzato – in difformità dal G.I.P. – come dissipativa la cessione in noleggio a terzi, a condizioni svantaggiose per la fallita, del parco macchine aziendale.

Con il ricorso per Cassazione, il Procuratore della Repubblica aveva denunciato violazione di legge e vizio di motivazione in relazione alla valutazione positiva da parte della Corte d'Appello, della rinuncia da parte dell'imputato – amministratore della fallita – di un suo credito nei confronti della società, di gran lunga superiore all'importo che aveva indebitamente prelevato a titolo di rimborso finanziamento soci: secondo il P.M. ricorrente tale restituzione sarebbe ininfluente, poiché da un lato posta in essere in un periodo “sospetto”, in quanto di poco antecedente la dichiarazione di fallimento, e dall'altro in quanto vanificata dall'accordo pattizio concluso dall'imputato con una terza società a cui aveva ceduto le sue quote a fronte del rimborso, da parte di questa società acquirente, del credito fatto oggetto di rinuncia.

La difesa dell'imputato, per quanto concerne la parziale statuizione di condanna, contestava analogamente violazione di legge e vizio di motivazione, poiché la Corte territoriale avrebbe erroneamente qualificato come fatto dissipativo la cessione in noleggio, per corrispettivi irrisori, del parco auto societario, omettendo di valutare l'elemento soggettivo in capo all'imputato, il quale aveva agito nell'intento di proseguire l'attività della fallita, evitando i costi di manutenzione delle autovetture, in attesa di nuovi finanziamenti da parte di nuovi acquirenti del capitale sociale. La condotta si sarebbe dovuta, perciò, inquadrare nell'ambito delle operazioni di buona fede compiute da un imprenditore in vista del salvataggio della sua azienda, o al limite in quelle condotte imprudenti, di “pura sorte”, integranti la meno grave ipotesi di bancarotta semplice.

Le questioni

La sentenza in commento, nel respingere i ricorsi proposti da P.M. (ed adesivamente dalla parte civile) e dalla difesa dell'imputato, dichiarandoli al limite dell'inammissibilità, in quanto fondati su una diversa lettura del compendio probatorio non devolvibile al sindacato di legittimità della Suprema Corte, coglie l'occasione per affrontare due questioni di un certo interesse in materia di reati del fallimento mediante frode.

La vicenda trae spunto dalla condotta di un amministratore di società di capitale, al quale è stato contestato di aver distratto e dissipato il patrimonio societario, da un lato prelevando un rimborso – non dovuto – a titolo di finanziamento soci pari a 90mila euro, dall'altro concedendo in noleggio numerose autovetture aziendali per corrispettivi irrisori o addirittura a titolo gratuito. L'esito della vicenda processuale, con la conferma da parte della Suprema Corte della sentenza della Corte d'Appello che in parte assolveva e in parte (limitatamente al noleggio del parco auto) condannava l'imputato, pone la luce su quali siano le condotte che possono essere ritenute distrattive e assistite dall'elemento psicologico tipico del reato di bancarotta fraudolenta, pur a fronte di una situazione, emergente dalle acquisizioni in atti, di dissesto societario cui l'amministratore avrebbe inteso porre rimedio. La difesa del ricorrente aveva posto l'accento su un dato oggettivo emergente dagli atti, ovverosia che la valutazione di anti-economicità – e perciò, in buona sostanza, di contrarietà agli interessi della società – del concesso noleggio del parco autovetture fosse errata, in quanto non teneva conto del fatto che la manutenzione ordinaria di tali auto, in un momento di grave dissesto dell'attività aziendale, era eccessivamente oneroso, cosicchè l'aver concesso il noleggio a terzi, ben lungi dal costituire un depauperamento del patrimonio della fallita, aveva viceversa consentito di realizzare nell'immediato un risparmio di costi che poteva consentire di evitare, nel medio tempo, il fallimento, anche perché avrebbe dovuto sopraggiungere un finanziamento da parte di due nuovi soci.

Con la sentenza in commento la Corte di Cassazione affronta e risolve – se in modo convincente o meno si vedrà infra – il punto sollevato dalla difesa dell'imputato, ribadendo che sotto il profilo oggettivo la condotta contestata all'imputato ed accertata in atti integra in modo palese un atto distrattivo; sotto questo profilo il Supremo Collegio tiene a rimarcare la differenza tra “distrazione”, che qui ricorrerebbe, e “dissipazione”, che era stata alternativamente fatta oggetto di imputazione e così dichiarata dalla sentenza di appello: la distrazione riconosciuta nel caso di specie nella sentenza in esame ricorre, dunque, “tutte le volte in cui vi sia un ingiustificato distacco di beni o di attività, con il conseguente depauperamento patrimoniale che si risolve in un danno per la massa dei creditori”; tale condotta ovviamente avrà il carattere di illecito penale solo qualora non sia finalizzata al perseguimento degli interessi della società.

Anche sotto il profilo soggettivo, la Cassazione ritiene pienamente integrato il reato di bancarotta fraudolenta in contestazione, poiché il dolo generico che è richiesto è sufficientemente integrato dalla consapevolezza di dare al patrimonio una destinazione diversa da quella delle garanzie ai creditori.

Altra questione, si è detto, è quella che è stata affrontata dalla S.C. nel respingere il ricorso del P.M., con conseguente conferma dell'assoluzione dell'imputato, con riferimento all'episodio dell'indebito rimborso prelevato dalle casse societarie pari ad euro 90mila da parte dell'amministratore. Il punto di discussione riposa sull'emergenza in atti di una condotta riparatoria, riconducibile all'imputato, il quale poco prima della dichiarazione di fallimento ebbe a rinunciare formalmente ad un suo credito esigibile nei confronti della società, di importo di gran lunga maggiore rispetto alla somma incamerata abusivamente. Tale atto di rinuncia, che aveva motivato l'assoluzione da parte dei giudici di merito, poi confermata in sede di legittimità, sarebbe stato viceversa privo di effetti sananti, secondo la pubblica accusa ricorrente; ciò per una duplice ragione: da un lato la decisione di rinunciare al credito sarebbe maturata in un periodo in cui era già evidente lo stato di insolvenza della società; dall'altro, l'amministratore ebbe contestualmente a cedere le proprie quote a soggetto terzo, ottenendone in corrispettivo il rimborso del credito rinunciato.

La conclusione cui perviene la Corte, diversamente rispetto alla tesi del P.M. ricorrente, è nel senso di riconoscere, nel caso in esame, un'ipotesi di c.d. “bancarotta riparata”, cosa che impedisce di ritenere integrato l'elemento materiale del reato di bancarotta patrimoniale per distrazione, ovverosia il depauperamento del patrimonio societario.

Osservazioni

La sentenza in epigrafe appare di semplice lettura per lo schema che segue e per la chiarezza con cui vengono affrontati e risolti i punti di diritto che qui interessano.

Nondimeno qualche pur sintetica osservazione, anche critica, può essere svolta dall'interprete.

Se si vuole seguire l'ordine con cui sono state riepilogate le questioni trattate (v. supra), che non è l'ordine della sentenza in esame, merita approfondire gli elementi oggettivi e soggettivi costituenti bancarotta fraudolenta, riconosciuti dalla Cassazione nel caso in esame con riferimento al noleggio, a corrispettivo irrisorio o nullo, del parco auto aziendale. Il primo distinguo che la sentenza pone tra condotta distrattiva e dissipativa non pare, sinceramente, avere grande rilievo pratico ai fini della sussistenza o meno del reato di cui all'art. 216 l. fall., posto che entrambi i concetti sottendono un'attività volontaria di depauperamento del patrimonio sociale da parte dell'amministratore e la norma stessa pone le due azioni (distrarre e dissipare) tra le possibili alternative equivalenti che integrano, sotto il profilo oggettivo, il reato de quo.

Ciò detto, la questione posta dal ricorrente concerneva, come si è visto, la ritenuta legittimità di condotte apparentemente lesive del patrimonio societario, ma in realtà, laddove valutate complessivamente sotto ogni aspetto e profilo economico, tese semplicemente ad un risparmio di costi e quindi alla salvezza dell'azienda. Si sarebbe, in buona sostanza, trattato di operazione azzardata ed imprudente, ma pur sempre in linea con l'interesse sociale e, come tale, non correlabile ad un intento fraudolento. La questione posta in questi termini, perciò, fa leva su due elementi: da un lato evidentemente quello oggettivo, ovverosia l'insussistenza di condotte dissipative/distrattive da parte dell'amministratore, laddove devesi riconoscere semmai una scelta imprenditoriale azzardata, imprudente, che non ha poi sortito l'esito sperato. Dall'altro lato, l'elemento soggettivo in capo all'agente, poicihè la condotta contestata non era assistita dal dolo tipico della frode ai creditori, bensì finalizzata al mantenimento dell'attività aziendale e quindi ad evitare o posticipare il fallimento.

Come si è visto, la Cassazione ha troncato ogni discussione su questi punti, affermando da un lato che la evidente mancanza di convenienza economica insita nell'operazione posta in essere dall'imputato non potesse che integrare oggettivamente un atto distrattivo delle risorse della fallita, mentre sotto il profilo soggettivo il dolo richiesto dalla fattispecie non richiederebbe neppure la coscienza dello stato di insolvenza, né lo scopo di recare pregiudizio ai creditori, ma la semplice consapevolezza di perseguire una finalità diversa da quella propria dell'impresa.

A parere dello scrivente, la decisione della Suprema Corte su questo punto non appare del tutto convincente, a fronte di una prospettazione difensiva di bancarotta semplice né peregrina, né sprovvista di un qualche appiglio giurisprudenziale. Ed infatti, come è noto l'art. 217 l. fall. prevede alcune ipotesi di bancarotta semplice tra cui, al comma 1 n° 3), l'aver “compiuto operazioni di grave imprudenza per ritardare il fallimento. Si ripropone qui ancora una volta il problema dell'individuazione dei limiti di autonomia decisionale dell'imprenditore rispetto ad una impresa in situazione critica: quali operazioni, avventate o gravemente imprudenti, rientrano nel limite legittimo della “ordinaria imprudenza” (per usare l'espressione usata da Cass. Pen., Sez. V, 20 marzo 2013 n. 24231) e quali invece ne esulano, ponendo la condotta, perciò, aldilà della bancarotta semplice? La fattispecie concreta in esame, con le circostanze complessivamente emergenti, parrebbe potersi più fondatamente ricondurre nei confini dell'art. 217, comma 1, n° 3 cit.

D'altro canto, anche sotto il profilo dell'elemento soggettivo del reato, pare a chi scrive che la sentenza in esame sia stata forse troppo sbrigativa nell'affermare con certezza la ricorrenza del dolo in relazione alla bancarotta fraudolenta; non può sottacersi che la S.C. ha ritenuto doversi provare la coscienza e volontà dell'agente di diminuire il patrimonio sociale per scopi del tutto estranei all'impresa, con operazioni prive anche del minimo appiglio con gli interessi della stessa. Laddove la prova di un tale dolo distrattivo/dissipativo non sia raggiunta, può viceversa essere ritenuta la bancarotta semplice anche qualora si sia di fronte ad atti di gestione del tutto estranei alle esigenze di conduzione dell'impresa.

L'altro punto affrontato dalla sentenza in esame è quello che riguarda la c.d. “bancarotta riparata”, che giustamente, va detto subito, la Corte ha qui riconosciuto integrata, a fronte di osservazioni contrarie da parte del P.M. ricorrente prive di pregio.

Va ricordato, in premessa, che la bancarotta riparata ricorre ogniqualvolta la sottrazione di beni societari da parte dell'amministratore venga compensata e sanata da un'operazione contraria, da parte dello stesso soggetto e prima della dichiarazione di fallimento, idonea ad annullare l'impoverimento del patrimonio sociale e il conseguente pregiudizio ai creditori.

Ciò chiarito, come si è visto supra, la Procura ricorrente contestava che si potesse parlare di condotta efficacemente riparatoria nel caso in esame, poiché la restituzione – attuata mediante la rinuncia ad un credito molto maggiore nei confronti della società – era stata effettuata quando lo stato di decozione era conclamato e comunque perché l'imputato aveva poi ceduto le proprie quote a società terza, la quale gli aveva rimborsato l'importo del credito rinunciato.

L'infondatezza della tesi qui riassunta appare evidente, alla luce della finalità presa di mira dalla norma sanzionatoria e, di contro, dalla bancarotta riparata, ovverosia la salvaguardia del patrimonio e delle garanzie dei creditori. E dunque, palesemente di nessun rilievo è il fatto che l'imputato abbia stipulato un patto separato con un soggetto terzo, pur acquirente delle quote della fallita, posto che, al netto di ogni perplessità sulla simulazione, qui irrilevante, l'obbligazione della società terza non incide minimamente sul patrimonio della società fallita, la quale ha beneficiato della rinuncia al credito da parte dell'amministratore.

Più suggestiva, ma del pari infondata, è la tesi secondo cui sarebbe da negare efficacia alla condotta riparatoria, quando essa sia stata posta in essere nel periodo di dissesto immediatamente precedente il fallimento. A ben vedere qui il ricorrente ha probabilmente mutuato gli elementi della bancarotta preferenziale, ove effettivamente l'operazione di pagamento a favore di un creditore, avvenuta nel periodo sospetto e con la coscienza dello stato di decozione, costituisce elemento integrante la fattispecie. Ma in nessun modo tali elementi oggettivo e soggettivo sono richiesti ai fini dell'integrazione della bancarotta riparata, che pone il focus unicamente sulla oggettiva mancanza di pregiudizio per il patrimonio della fallita grazie ad una condotta riparatoria antecedente la dichiarazione di fallimento, che ne costituisce dunque il solo limite cronologico.

Conclusioni

Pare potersi dire che la sentenza qui oggetto di esame svolge un'analisi talvolta sbrigativa di tutta la vicenda, mentre alcune questioni avrebbero meritato maggior approfondimento.

Sembra, in buona sostanza, che rispetto alla dichiarata ricorrenza degli elementi della bancarotta fraudolenta per distrazione si sarebbe dovuto esigere, da parte del giudice di merito, un miglior approfondimento circa gli elementi soggettivo e materiale del reato, a fronte di una prospettazione plausibile, fondata comunque su una evidente situazione complessiva della fallita.