Il contenuto di una richiesta del privato alla A.G. non è provato dalla sua trasmissione con PEC

16 Ottobre 2017

La genuinità di una richiesta avanzata da un privato alla A.G. è garantita dalla trasmissione della stessa a mezzo PEC?
Massima

La PEC garantisce che durante la trasmissione di un messaggio gli allegati non vengano alterati, ma non certifica (giuridicamente) quello che la “busta elettronica” contiene, ossia il contenuto dei file allegati ad essa. Nel caso in cui si voglia inviare, insieme al testo dell'email, un file, conferendo allo stesso il valore di originale, sarà necessario utilizzare il sistema di firma digitale sul documento (nel caso di specie il ricorrente aveva allegato la mera certificazione PEC di invio e ricezione dalla richiesta dell'imputato detenuto di autorizzazione a comparire senza scorta per l'udienza camerale d'appello, con allegata l'istanza cartacea priva di data certa e la Corte ha ritenuto che la certificazione non garantisse né contenuto del file allegato né la sua data).

Il caso

Con sentenza del 17 settembre 2015 il GUP del Tribunale di Napoli Nord aveva dichiarato gli imputati responsabili dei reati di violazione della normativa sugli stupefacenti e li aveva condannati, tenuto conto in alcuni casi della recidiva contestata, a pene che sono state rideterminate in melius dalla Corte di appello di Napoli, all'esito dell'udienza camerale tenutasi il 30 settembre 2016, previa rinuncia ai motivi di appello relativi alla penale responsabilità da parte di tutti gli imputati.

Avverso la sentenza emessa dal giudice di secondo grado, hanno proposto ricorso in cassazione gli imputati lamentando tutti violazione di legge e vizi motivazionali, in relazione agli artt. 73, comma 5 ss. d.P.R. n. 309/1990; al mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche e alla mancata applicazione della disposizione di cui all'art. 73 d.P.R. n. 309/1990 in vigore fino al 5 marzo 2014.

Uno degli imputati deduceva, altresì, la violazione di legge ed il vizio motivazionale in relazione agli artt. 178, lett. c), 420-ter e 599, comma 2, c.p.p. rappresentando che il medesimo, posto per questi fatti agli arresti domiciliari presso la sua abitazione, aveva manifestato a mezzo del difensore la volontà di comparire dinanzi alla Corte di appello per l'udienza fissata per il giorno 30 settembre 2016 e ciò nonostante, in quella udienza, senza che fosse stata autorizzata (o rigettata) la sua comparizione senza scorta e dunque in sua assenza, il processo era stato discusso e definito.

Nello specifico, il 19 settembre 2016 veniva inviata alla Corte di appello di Napoli, all'indirizzo di PEC risultante anche dal decreto di citazione per il grado di appello, unitamente ad una richiesta di autorizzazione per provvedere alle indispensabili esigenze di vita, una richiesta di autorizzazione a comparire all'udienza del 30 settembre 2016 con mezzi propri e senza scorta. Deduceva il difensore che solo in data 30 settembre 2016 si è proceduto alla discussione e vi è stata sentenza e che non avesse alcun rilievo la circostanza che in precedenza vi fossero state due udienze di rinvio – rispetto alle quali, da quanto è dato dedurre, l'imputato aveva rinunciato a comparire – avendo il ricorrente il diritto di comparire all'udienza del 30 settembre 2016.

La Corte di cassazione ha ritenuto tutti i ricorsi manifestamente infondati e perciò inammissibili, premettendo che nel caso di sostanziale “doppia conforme” tra la sentenza di primo grado e di appello e di rinuncia ai motivi di appello relativi alla penale responsabilità (come nella specie), non risultano consentiti i motivi dei ricorsi che attengono alla responsabilità degli imputati, alla qualificazione giuridica dei fatti, alle attenuanti generiche e all'entità della pena [cfr. Cass., sez. IV, 18 luglio 2013, (dep. 22 luglio 2013), n. 31362; Cass., sez. II, 3 dicembre 2010 (dep. 1 febbraio 2011) n. 3593] e, quanto alla dosimetria della pena, rilevando che essa è censurabile in cassazione solo quando sia frutto di mero arbitrio e ragionamento illogico, che nel caso di specie non ricorre (Cass., sez. II, 3 novembre 2015, n. 45312; Cass., sez. IV, 23 ottobre 2015, n. 44815).

Tanto affermato, la Corte si è tuttavia soffermata sulla censura mossa da uno degli imputati relativa alla omessa autorizzazione alla comparizione all'udienza camerale d'appello senza scorta, così come richiesta dal detenuto (e, di conseguenza, alla sua omessa traduzione, essendo evidente che ove fosse stata negata la prima, doveva essere disposta la seconda) ed in questo ambito possono essere enucleate due questioni.

La questione

Due le questioni affrontate sul punto dalla Corte.

La prima è la seguente: premesso che la mancata traduzione (all'udienza camerale di appello) dell'imputato detenuto e regolarmente citato dà luogo ad una nullità di ordine generale ai sensi dell'art. 178 c.p.p., essa è assoluta, ai sensi dell'art. 179 c.p.p., o a carattere intermedio?

La seconda questione che si enuclea dalla sentenza in esame è, invece, se la genuinità di una richiesta avanzata da un privato alla A.G. sia garantita dalla trasmissione della stessa a mezzo PEC.

Le soluzioni giuridiche

Sulla prima questione si registrano in Cassazione due diversi orientamenti.

A fronte di un orientamento, che appare minoritario, secondo il quale la mancata traduzione in udienza dell'imputato detenuto dà luogo ad una nullità a carattere intermedio, che non può essere rilevata né dedotta dopo la deliberazione della sentenza del grado successivo (cfr. Cass., sez. II, 27 maggio 2010, n. 2225; Cass., sez. V, 28 aprile 1999 (dep. 1 giugno 1999), n. 6916, sembra prendere sempre più corpo il diverso orientamento sviluppatosi a seguito della decisione delle Sezioni Unite, 24 giugno 2010, n. 35399.

Partendo infatti dal principio ivi espresso, la Suprema Corte ha da ultimo ribadito che «la mancata traduzione all'udienza camerale d'appello, perché non disposta o non eseguita, dell'imputato che abbia tempestivamente manifestato in qualsiasi modo la volontà di comparire e che si trovi detenuto o soggetto a misure limitative della libertà personale, anche al di fuori della circoscrizione del giudice procedente, determina la nullità assoluta ed insanabile del giudizio camerale e della relativa sentenza» (cfr. Cass., sez. III, 1 febbraio 2016, n. 4077). A monte, è comunque necessario che quando l'imputato è detenuto (anche per un titolo diverso da quello oggetto del giudizio), il medesimo comunichi, eventualmente a mezzo del difensore, il suo status in tempo utile per poter disporre la traduzione (Cass. sez. VI, sent., 2 luglio 2012, n. 29833; Cass., sez. II, sent. 22 gennaio 2014, n. 5950).

La sezione IV, con la sentenza in commento, aderisce al primo orientamento, minoritario, e risolve la prima questione giuridica affermando che «la mancata traduzione in udienza dell'imputato detenuto e regolarmente citato, in quanto attiene al diritto dello stesso a partecipare al dibattimento, determina una nullità generale ai sensi dell'art. 178 c.p.p. la quale, esulando dalle ipotesi di cui al successivo art. 179 c.p.p., non è assoluta ma a carattere c.d. intermedio. Ne consegue che essa non può essere rilevata né dedotta dopo la deliberazione della sentenza del grado successivo». Di qui il rilievo che, non essendo stata avanzata, nelle udienze precedenti a quella del 30 settembre 2016 una richiesta di presenziare da parte del ricorrente e non avendo il difensore mai eccepito, prima della deliberazione della sentenza, la mancata traduzione (ovvero l'autorizzazione a presenziare), il motivo di censura non potesse essere accolto.

A ben vedere la Corte arriva a questa conclusione (ossia al rigetto del motivo di censura sul punto) perché, implicitamente, ritiene priva di valore legale, in quanto sprovvista di data certa, l'istanza cartacea, contenente la richiesta di autorizzazione a presenziare all'udienza libero e senza scorta, allegata alla PEC inviata dal privato all'A.G. e di cui il difensore aveva prodotto la certificazione di invio e di ricevimento.

Per quanto è dato comprendere dalla lettura dell'inciso contenuto nella sentenza in commento, il difensore, al fine di documentare la tempestiva trasmissione alla A.G. dell'istanza di autorizzazione a comparire in udienza avanzata dal detenuto – ed in ciò le premesse in fatto per la soluzione alla seconda questione – aveva prodotto alla Corte una certificazione PEC di invio e di ricevimento della mail, unitamente all'istanza (cartacea) della richiesta (di autorizzazione) che si assumeva allegata alla PEC.

Ebbene la Corte risolve la seconda questione, affermando che «La PEC garantisce che durante la trasmissione di un messaggio gli allegati non vengano alterati, ma non ne certifica il contenuto verso terzi. Nel caso, infatti, in cui si voglia inviare, insieme al testo dell'email, un file, conferendo allo stesso il valore di originale, sarà necessario utilizzare il sistema di firma digitale sul documento».

La Corte, in altri termini, risponde negativamente al secondo quesito.

A queste conclusioni si arriva premettendo che la PEC può contenere file allegati e che «la trasmissione PEC certifica che una certa trasmissione è avvenuta tra due indirizzi email PEC, ma non certifica (giuridicamente) quello che la "busta elettronica" conteneva».

Nel caso di specie, la trasmissione con PEC della richiesta di autorizzazione – contenuta nell'istanza cartacea sprovvista di data certa, asseritamente allegata alla PEC inviata e ricevuta – non conferendo ad essa il valore di originale, non garantisce la genuinità del documento e non prova, in termini di certezza legale, la data di inoltro di quella richiesta, con la conseguenza che essa va sostanzialmente considerata intempestiva.

Di qui il definitivo rigetto anche di questo motivo del ricorso.

Osservazioni

Merita qualche riflessione la seconda questione risolta dalla Corte di cassazione, in quanto con riferimento alla prima, al di là dell'esistenza di due opposti orientamenti, di cui quello minoritario seguito dalla pronuncia in commento, non si ravvisano elementi di rilevante novità.

Per inquadrare la seconda questione, occorre premettere cosa si intenda per PEC, cosa per firma digitale, cosa per documento informatico e quali siano le relative norme di riferimento.

La definizione della PEC è contenuta all'art. 1, comma 2, lett g), d.P.R., n. 68/2005 ed in base alla normativa vigente, è possibile con essa la trasmissione e ricezione da parte di un utente (persona fisica, persona giuridica, pubblica amministrazione e qualsiasi ente, associazione o organismo, nonché eventuali unità organizzative interne ove presenti, che sia mittente o destinatario di PEC) di un messaggio, ossia di un documento prodotto mediante strumenti informatici composto dal testo del messaggio, dai dati di certificazione e dagli eventuali documenti informatici allegati.

Quanto alla firma elettronica (e per essa alla firma digitale), oltre al regolamento PEC occorre fare riferimento alle disposizioni del Codice dell'amministrazione digitale (di seguito CAD, approvato con d.lgs. 7 marzo 2005, n. 8, integrato con d.lgs., 26 agosto 2016, n. 179), che disciplinano sia la firma elettronica (artt. 24 ss. CAD) sia il documento informatico (art. 20 ss. CAD), individuandone il valore legale.

Tanto premesso, secondo il principio espresso dalla Corte, la PEC, da sola, non basta a dare valore legale all'atto allegato, essendo necessario utilizzare il sistema di firma digitale sul documento, il che, in sostanza, significa che l'atto in questione si caratterizza come “documento informatico” (intendendosi per esso, secondo la definizione che ne da il CAD «il documento elettronico che contiene la rappresentazione informatica di atti, fatti o dati giuridicamente rilevanti») sottoscritto con firma elettronica.

In altri termini, afferma la Corte, perché l'atto allegato alla PEC possa avere un qualche valore legale (ed il valore legale, che esso ha, varia, a norma dell'art. 21 CAD, a seconda della firma elettronica appostavi), è necessario che allo stesso sia apposta una firma elettronica (eventualmente avanzata, qualificata o digitale), che nel caso di specie mancava o comunque non risultava, avendo il difensore prodotto unicamente la certificazione di invio e ricezione della PEC e l'allegato cartaceo, non munito di data certa.

Tanto chiarito, sembra, a parere di chi scrive, che la Corte assimili casi che sono in realtà diversi.

Su un piano si pone, infatti, la questione relativa al documento informatico sottoscritto con firma elettronica; su altro piano, la trasmissione a mezzo PEC di una richiesta e/o istanza avanzata dal privato alla A.G..

Ebbene, attualmente non è previsto che nel processo penale il privato possa trasmettere alla A.G. un documento informatico da lui formato e sottoscritto con firma elettronica, eventualmente digitale. Sebbene l'art. 2, comma 6, CAD preveda che «Le disposizioni del presente Codice si applicano altresì al processo civile, penale, amministrativo, contabile e tributario, in quanto compatibili e salvo che non sia diversamente disposto dalle disposizioni in materia di processo telematico», una rilevante eccezione riguarda proprio le disposizioni concernenti il deposito degli atti e dei documenti in via telematica nel processo, che rimangono disciplinate dalla normativa, anche regolamentare, del processo telematico sia per quanto concerne l'efficacia dei documenti informatici sottoscritti con firma elettronica (art. 21, comma 2), sia per le modalità di identificazione elettronica (art. 64, comma 2-septies). Ed allo stato, per quanto riguarda il processo penale, non vi sono né norme primarie, né norme secondarie che regolamentano il documento informatico firmato digitalmente.

Diverso è il discorso relativo alla trasmissione a mezzo PEC di una richiesta e/o istanza avanzata dal privato alla A.G. L'unico ambito “normato” del processo penale telematico sono infatti le notificazioni (telematiche), ed una delle questioni oggi più dibattute riguarda proprio la possibilità per il privato di inviare all'A.G. istanze o richieste a mezzo PEC.

Su questo la sentenza in commento non si pronuncia direttamente, anche se implicitamente, andando ad affrontare la questione del valore legare dell'atto, sembra in astratto ammetterla.

Se dunque si volesse ritenere, seppur in astratto ed in via indiretta, che la quarta sezione della Corte ammetta che un privato possa inviare un'istanza all'A.G. utilizzando la PEC, allora la sentenza in esame - a fronte di un orientamento che è ancora nel senso dell'inammissibilità dell'invio da parte del privato di una istanza e/o richiesta alla A.G. [cfr. Cass., sez. V, 5 marzo 2015 - dep. 5 giugno 2015, n. 24332; Cass., sent. sez. II, ud. 32015 (dep. 30 marzo 2016) n. 12878; Cass., sez. III, sent. 26 ottobre 2016 (dep. 14 febbraio 2017), n. 6883] - costituirebbe un primo e timido caso di apertura in questa direzione.

Si tratta, a ben vedere, di un'apertura solo accennata, desunta implicitamente da una lettura complessiva della pronuncia in commento, che non segna quindi una svolta rispetto agli ultimi arresti giurisprudenziali, ancora fermi, come evidenziato, sull'inammissibilità dell'invio da parte del privato di una istanza e/o richiesta alla A.G..

È quest'ultimo un orientamento sicuramente condivisibile, nei casi in cui le modalità di comunicazione siano individuate in modo tassativo (si pensi all'impugnazione); tuttavia, negli altri casi, laddove le forme e le modalità di trasmissione non siano oggetto di una normativa specifica, non sembra vi siano ostacoli ad ammettere che anche il privato possa notificare o comunicare con gli uffici giudiziari utilizzando la PEC (mutuando quanto è avvenuto in passato con il fax, che, come la PEC costituisce “mezzo tecnico idoneo” ai sensi dell'art. 148, comma 2, c.p.p.) pur se ciò, da un lato, richiede che gli uffici giudiziari si organizzino adeguatamente, e, dall'altro, onera la parte privata che intenda dolersi in sede di impugnazione dell'omesso esame della sua istanza, di accertarsi del regolare arrivo della comunicazione e del suo tempestivo inoltro al Giudice procedente e la espone (come nel caso in esame) al rischio dell'intempestività, nell'ipotesi in cui essa non venga portata a conoscenza del giudice procedente.

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