Mafia al nord e problemi applicativi dell'art. 416-bis c.p.Fonte: Cod. Pen Articolo 416 bis
20 Ottobre 2017
Abstract
Negli ultimi vent'anni le organizzazioni di tipo mafioso – e la ‘ndrangheta in particolare – hanno fatto breccia in territori tradizionalmente refrattari al fenomeno, come dimostrano diversi provvedimenti giurisprudenziali che hanno contribuito a far luce sulle caratteristiche “tipologiche” di questi nuovi insediamenti criminali. La configurazione di queste nuove cellule mafiose sembrerebbe risentire del tipo di legame che si instaura con il territorio di provenienza, potendosi distinguere situazioni nelle quali i gruppi mafiosi che si insediano nei “nuovi” territori mantengono stretti rapporti di dipendenza con l'organizzazione “madre” e casi in cui, invece, le nuove formazioni recidono progressivamente il legame con l'associazione principale per acquisire nel tempo una posizione di piena autonomia. Si tratta, per lo più, di sotto-organizzazioni che mutuano dalle associazioni di origine formule e stili di comportamento ma che spesso appaiono dotate di strutture meno articolate e poco votate al controllo del territorio. Come ha sostenuto una certa vulgata sociologica, siamo forse di fronte ad una mafia più attenta alla dimensione imprenditoriale che a quella militare, benché puntuali analisi empiriche rivelino che le infiltrazioni hanno fino ad oggi riguardato attività a basso contenuto tecnologico e non settori economico-produttivi più all'avanguardia. I mafiosi – si è osservato – non sembrano disporre di particolari capacità imprenditoriali e preferiscono indirizzare le loro attenzioni su contesti economici già sperimentati nelle terre d'origine: si fa riferimento, in particolare, al settore edile e urbanistico e ad attività collaterali quali il movimento terra e lo smaltimento rifiuti (AA.VV., Mafie del Nord. Strategie criminali e contesti locali, a cura di R. Sciarrone, Roma, 2014). Questo dato empirico parrebbe rivelare una sostanziale continuità di forme e obiettivi del condizionamento mafioso, sgombrando il campo da quelle suggestioni di matrice politico-giornalistica inclini ad attribuire al fenomeno mafioso una dimensione liquida e immateriale e la conseguente capacità di “contaminare” le attività economiche e i mercati finanziari ai livelli più alti e insospettabili. Allo stesso tempo, però, non appare irragionevole ipotizzare – e proprio su questo aspetto varrebbe forse la pena avviare un'indagine più approfondita – che l'esperienza maturata nell'azione di contrasto della criminalità organizzata nelle regioni d'origine abbia finito per orientare la valutazione del fenomeno mafioso al Nord lungo traiettorie criminologiche non sempre aderenti ad un contesto socio-economico più evoluto. In altri termini, non va sottovalutato il duplice rischio (socio-criminologico e giuridico-penale) che il ricorso ai tradizionali modelli ricostruttivi finisca:
Indirizzi ricostruttivi a confronto: la tesi della capacità d'intimidazione “potenziale” nella giurisprudenza più recente
La tendenza a ricostruire la fattispecie penale in funzione «del senso, della logica sociale e del valore dei fenomeni verso cui è indirizzato l'intervento legislativo» (BALSAMO-RECCHIONE, Mafie al Nord. L'interpretazione dell'art. 416-bis c.p. e l'efficacia degli strumenti di contrasto, in Dir. pen. cont.) ha trovato riscontro in quell'innovativo indirizzo ermeneutico che, ai fini della configurabilità del delitto di associazione mafiosa, non considera necessario che la forza d'intimidazione del sodalizio si estrinsechi in atti specifici e suscettibili di valutazione ma ne ritiene sufficiente la mera esistenza potenziale. Secondo questo punto di vista, un'associazione criminale è di tipo mafioso quando, per il solo fatto della sua esistenza, risulti capace di sprigionare una carica intimidatrice idonea a piegare ai propri fini la volontà di quanti vengano in contatto con gli affiliati all'organismo criminale (tra le altre, Cass. pen., Sez. I, 10 gennaio 2012, n. 5888). Ma come accertare che il sodalizio sia dotato di una potenziale forza di intimidazione se la stessa non si estrinseca mai in atti concreti e riconoscibili? In tal caso – si argomenta – la forza di intimidazione andrebbe riconosciuta:
Tuttavia la tesi che nella forza di intimidazione vede una sorta di merce d'importazione dal Sud al Nord presuppone il riconoscimento di un dato strutturale meno incontroverso di quanto talora si lasci intendere: e cioè che la ‘ndrangheta sia un'organizzazione unitaria, dotata di un vertice capace di impartire precise direttive a quelle proiezioni esterne che si affacciano sui territori di espansione. L'assunto – che implica lo spostamento del baricentro della prova dal metodo mafioso all'organizzazione tipica – è stato recentemente sostenuto in alcuni processi di grande rilievo mediatico. Ad esempio, con le sentenze 5 giugno 2014, n. 30059, Albanese e 21 aprile 2015, n. 34147, Agostino, la Cassazione ha avallato la tesi di un'evoluzione in senso federativo e piramidale della ‘ndrangheta, condividendo gli argomenti del tribunale di Milano circa l'esistenza di un coordinamento di vertice (di stanza in Calabria e denominato “Provincia” o “Crimine”) chiamato a garantire l'applicazione delle regole e a legittimare le diverse articolazioni territoriali del sodalizio.
Secondo trib. Milano, 6 dicembre 2012, n. 13255 (proc. Infinito), la ‘ndrangheta sarebbe passata da una originaria conformazione «orizzontale», incentrata sul frazionamento e isolamento tra le varie ‘ndrine, ad «una struttura federativa di tipo piramidale», in cui le «locali», pur dotate di una propria sovranità territoriale, sono coordinate secondo un rapporto di tipo federativo da un organismo collegiale supremo (in Calabria denominato «Provincia», nel Settentrione chiamato «Lombardia») avente funzioni di coordinamento delle numerose locali attive nell'area geografica di riferimento.
Più in particolare, si è sostenuto che la ‘ndrangheta costituirebbe un'unica associazione di tipo mafioso, composta da molteplici proiezioni “esterne” nei territori di espansione, legate da un rapporto di «dipendenza funzionale» con la «casa madre» calabrese in merito alle decisioni strategiche più importanti, ma ampiamente autonome nel disbrigo degli affari criminali correnti. Tra ‘ndrangheta calabrese e organizzazione lombarda vi sarebbe, insomma, una sorta di rapporto di franchising: la “Calabria” avrebbe accondisceso all'esportazione «del marchio ‘ndrangheta, completo del suo bagaglio di arcaiche usanze e tradizioni», oltre i confini regionali, a patto che le filiazioni esterne si impegnino a rispettare una serie di standard, in mancanza dei quali viene meno la possibilità stessa di fregiarsi del marchio. Secondo questa ricostruzione, il rapporto di filiazione sarebbe sempre vivo ma non si esprimerebbe «con un potere gerarchico della casa madre, bensì con l'emanazione da parte di questa di regole la cui osservanza è ritenuta condizione necessaria perché la struttura lombarda mantenga, alla stregua di un marchio di fabbrica, la propria legittimità ‘ndranghetista» (Cass. pen., 21 aprile 2015, n. 34147 cit. In dottrina, SERRAINO, Associazioni ‘ndranghetiste di nuovo insediamento e problemi applicativi dell'art 416 bis c.p., in Riv. it. dir. proc. pen., 2016, 264 ss.). Tuttavia la suggestiva metafora del contratto di franchising non chiarisce fino in fondo quali siano i tratti che connotano la relazione tra ‘ndrangheta lombarda e casa madre calabrese. Né va trascurato come le stesse sentenze di legittimità abbianodato conto di vocazioni autonomistiche delle cosiddette “filiali” e di tensioni con la “casa madre”, che non sempre appaiono compatibili con la tesi di un ente unitario, le cui articolazioni territoriali condividerebbero gli obiettivi criminali individuati dall'organo apicale. A prescindere dagli accorgimenti semantici, più o meno appropriati, impiegati per descrivere il rapporto tra ‘ndrangheta calabrese e organizzazioni locali, occorrerebbe comunque chiedersi se il collegamento e le affinità strutturali tra le propaggini lombarde e il clan originario siano:
La tesi innovativa che riduce la forza di intimidazione a mera capacità potenziale è stata accolta anche da altri arresti giurisprudenziali in materia di “mafia al nord”. Ad esempio, chiamata a pronunciarsi sulla matrice ‘ndranghetista di un'organizzazione stanziatasi in Piemonte, la Cassazione (Cass. pen., Sez. II, 3 marzo 2015 n. 31666) ha affermato che per valutare la caratura mafiosa di un'organizzazione criminale operante in “aree non tradizionali” occorra, anzitutto, tenere conto delle c.d. precondizioni fattuali e, quindi, interpretare la norma incriminatrice a seconda delle connotazioni socio-criminologiche del singolo fenomeno vagliato dal giudice. Più precisamente, la Cassazione ha ritenuto che la necessità di accertare tutti i «presupposti costitutivi» del reato associativo di tipo mafioso sussista soltanto allorché l'organizzazione criminale si configuri quale struttura autonoma e originale che si propone «di utilizzare la stessa metodica delinquenziale delle mafie storiche». In tal caso, occorrerebbe appurare se «se la neoformazione delinquenziale si sia già proposta nell'ambiente circostante, ingenerando quel clima di generale soggezione, in dipendenza causale dalla sua stessa esistenza». Diversamente, laddove il sodalizio non fosse altro che una «mera articolazione di tradizionale organizzazione mafiosa, in stretto rapporto di dipendenza o, comunque, in collegamento funzionale con la casa madre», basterebbe provare, da un lato, la presenza di connotati criminologici tipici e, dall'altro, il collegamento funzionale e organico con l'organizzazione di base. In altri termini, sarebbe superflua la prova della capacità intimidatrice o della condizione di assoggettamento od omertà, poiché l'impatto oppressivo sull'ambiente circostante sarebbe comunque assicurato dalla fama conseguita nel tempo dalla associazione madre (Cass. pen., Sez. II, 3 marzo 2015, n. 34147 cit.). Sulla base di tali premesse, la Cassazione ha affermato che il sodalizio avesse natura mafiosa, benché i suoi accoliti non avessero mai commesso reati fine, né avessero esteriorizzato in altro modo la forza intimidatrice derivata “per attrazione” dall'associazione principale. La tesi opposta della necessaria esteriorizzazione del metodo mafioso
Quest'approccio ricostruttivo non sembra, tuttavia, considerare che il delitto di cui all'art. 416-bis c.p. è reato associativo “a struttura mista”, che richiede non soltanto il vincolo associativo ma anche un principio di esecuzione del programma criminoso, e dunque, un'attività esterna concretamente tangibile. Il testo della norma – che ricorre all'inequivoca locuzione si avvalgono – postula un effettivo sfruttamento della forza di intimidazione e non la semplice intenzione di avvalersene. La norma esige, cioè, che gli imputati abbiano realmente esercitato una forza di intimidazione nei confronti di qualcuno che è rimasto assoggettato e omertoso, mentre non fa alcun riferimento a qualcosa che si presume possa accadere e che però non si ha la prova che sia accaduto (VISCONTI, La Mafia è dappertutto. Falso!,Bari, 2016). Secondo il prevalente orientamento interpretativo, l'elemento che diversifica il delitto di associazione mafiosa dall'associazione per delinquere semplice va, appunto, individuato nel «metodo utilizzato, consistente nell'avvalersi della forza intimidatrice che promana dalla stessa esistenza dell'organizzazione, alla quale corrisponde un diffuso assoggettamento nell'ambiente sociale e dunque una situazione di generale omertà. L'associazione si assicura così la possibilità di commettere impunemente più delitti e di acquisire o conservare il controllo di attività economiche private o pubbliche, determinando una situazione di pericolo per l'ordine pubblico economico La situazione di omertà deve ricollegarsi essenzialmente alla forza intimidatrice dell'associazione. Se essa è invece indotta da altri fattori, si avrà l'associazione per delinquere semplice» (Cass. pen., Sez. IV, 22 gennaio 2015, n. 18459). Il metodo mafioso costituisce, infatti, lo strumento attraverso cui il sodalizio persegue gli obiettivi illeciti indicati dalla norma, sicché nel disegno normativo lo stesso è sempre, né potrebbe essere altrimenti, un “segno di esteriorizzazione” (Cass. pen., 13 febbraio 2006, n. 19141, Bruzzaniti). Questa chiave di lettura – chiaramente incompatibile con la illogica teorizzazione di una mafia silente – è, d'altronde, l'unica che consenta di tradurre in un fatto empiricamente percepibile il c.d. metodo mafioso, elemento normativo-sociale che appare dotato di una forte carica di indeterminatezza, mantenendo la norma entro il solco dei principi di tassatività e materialità del fatto di reato. Più che fondati appaiono, allora, i rilievi di chi ritiene che il caso tipologico ‘ndrangheta al nord – che segna uno scarto rispetto alle più consolidate ricostruzioni giurisprudenziali del fenomeno mafioso – abbia risentito di quella «processualizzazione delle categorie sostanziali», (VISCONTI, Mafie straniere e ‘ndrangheta al nord, in Dir. Pen. cont. (riv. trim.), 2015, I, 380) che ha connotato la risposta giudiziaria alla criminalità organizzata. Si tratta di quella discutibile tendenza a rimodellare il concetto sostanziale sulla base del materiale probatorio disponibile, che può essere così sintetizzata: poiché non è stata raggiunta la prova che personaggi di presunto spessore mafioso, una volta trasferitisi in aree refrattarie al fenomeno criminale, abbiano agito avvalendosi del metodo mafioso (cioè compiendo atti specifici e concreti), si alleggerisce lo statuto di tipicità del reato di associazione mafiosa, valorizzando in luogo dell'effettivo impiego della forza intimidatrice quel collegamento con la cellula madre che, almeno in linea teorica, garantirebbe la disponibilità della forza. A soffrirne, ovviamente, è lo stesso principio di legalità penale, che sembra scivolare in secondo piano di fronte alla preoccupazione politico-criminale di contrastare la presenza di cellule delocalizzate nel Nord Italia. Del resto, gli stessi fautori della tesi che assegna rilievo alla dimensione meramente potenziale della forza intimidatrice riconoscono come tale interpretazione consenta «di assegnare alla norma una efficacia repressiva idonea a intervenire prima che il pericolo associativo precipiti in atti violenti e percepiti», mentre «l'interpretazione che richiede l'effettività e concretezza dell'intimidazione depotenzia la funzione preventiva della fattispecie, comunque orientata alla anticipazione della punibilità attraverso la penalizzazione del “fatto” organizzativo, nella sua configurazione speciale, ovvero “mafiosa”» (BALSAMO – RECCHIONE, Mafie, cit). Come che sia, una fatto è certo: questa rivisitazione della fisionomia del delitto di associazione mafiosa, poco attenta all'esegesi letterale della norma, finisce per modificare la struttura stessa della disposizione incriminatrice, trasformando il requisito oggettivo del metodo mafioso – che costituisce, per così dire, l'elemento specializzante del delitto previsto dall'art. 416-bis c.p. – in un elemento intenzionale e finalistico, che tutt'al più potrà formare oggetto del dolo specifico. Ammettere che lo sfruttamento della forza intimidatrice possa essere potenziale (o soltanto finalistico) significa, infatti, elidere l'accertamento dell'effettiva natura dell'un'organizzazione criminale di cui si sospetta la mafiosità, privando la fattispecie, della sua caratteristica essenziale, ossia lo sfruttamento, per il raggiungimento degli scopi, delle condizioni di assoggettamento e di omertà derivanti dalla forza intimidatrice del vincolo associativo. Insomma, come ha osservato la dottrina più avveduta, l'esigenza preventivo-repressiva di arrestare il contagio mafioso nel Nord Italia sta determinando, almeno con riferimento ad una precisa costellazione casistica (quella della mafia “in movimento”), la trasformazione dell'associazione mafiosa in illecito meramente associativo, attraverso la creazione giurisprudenziale di “un vero e proprio sotto-tipo criminoso che intende prendere definitivo congedo in tale specifico settore dalla camicia di forza dell'illecito associativo a struttura mista”. E ciò sostituendo l'elemento saliente dell'esteriorizzazione del metodo mafioso con la struttura organizzativa del sodalizio ed una non meglio definita fama criminale importata dalla casa madre (VISCONTI, Mafie straniere, cit.). Che sia in corso una preoccupante riconversione ermeneutica (ed una conseguente torsione applicativa) del delitto associativo di tipo mafioso si ricava, del resto, anche dal quell'orientamento intermedio che, pur confermando la natura di reato associativo a struttura mista del delitto di associazione mafiosa, ne individua i requisiti di tipicità nell'esistenza di una originaria «carica intimidatoria autonoma», iscritta per così dire nel genoma dell'associazione, e nella «corrispondente diffusa propensione al timore nei confronti del sodalizio»: un «assoggettamento primordiale» (o «generico») che costituirebbe il riflesso esterno dell'intimidazione diffusa che l'associazione di per sé sprigiona. Secondo questo punto di vista, carica intimidatrice autonoma e diffusa propensione al timore costituirebbero due facce della stessa medaglia: condizioni “disgiuntamente necessarie” e “congiuntamente sufficienti” perché sia integrata la tipicità del metodo mafioso (in questi termini, TURONE, Il delitto di associazione mafiosa, Milano, 2008, 136). Se questo schema teorico ha il merito di preservare il nesso di reciprocità tra capacità intimidatrice e diffusa propensione al timore, non può tuttavia esserne condivisa la tendenza a ritenere che la fama criminale goduta dal sodalizio nel contesto di riferimento si traduca ipso facto in assoggettamento ed omertà ambientale. Quest'opzione ricostruttiva, incline a valorizzare la fama criminale non come dato empiricamente dimostrato ma come mero fenomeno mediatico-sociologico, finisce infatti per prescindere dalla necessaria correlazione eziologica tra prassi mafiosa e assoggettamento, riproponendo le stesse controvertibili conclusioni cui perviene la tesi della capacità intimidatrice meramente potenziale. In conclusione
Come si vede, la qualificazione giuridica delle organizzazioni criminali trapiantate al Nord rappresenta una questione aperta, in cui le esigenze di una politica criminale sempre più interventista si scontrano con la necessità di preservare la legalità penale, a prescindere dal tipo d'autore e dai contesti geografici (VISCONTI, I giudici di legittimità ancora alle prese con la "mafia silente" al nord: dicono di pensarla allo stesso modo, ma non è così, in Dir. pen. cont.). È senz'altro probabile – come ha rilevato parte della dottrina – che le Sezioni unite siano prima o poi investite della scelta tra l'uno o l'altro modello teorico del delitto associativo di tipo mafioso (PERNA, Manifestazione del metodo mafioso e c.d. mafia silente). Tuttavia la crescente tendenza a identificare il sistema penale come uno strumento di pedagogia politico-sociale o di vera e propria civilizzazione porta a dubitare che i principi formali del diritto penale, già sfibrati da una prassi giudiziaria improntata ad un modello securitario ed efficientista, possano resistere a lungo all'onda d'urto di quell'aspirazione naïve alla sicurezza e alla soddisfazione che sembra pervadere ogni strato della società contemporanea (al riguardo, v. SILVA SANCHEZ, L'espansione del diritto penale, Milano, 2004). AA.VV., Mafie del Nord. Strategie criminali e contesti locali. A cura di R. Sciarrone, Roma, 2014; BALSAMO-RECCHIONE, Mafie al Nord. L'interpretazione dell'art. 416 bis c.p. e l'efficacia degli strumenti di contrasto in Dir. pen. cont.) SERRAINO, Associazioni ‘ndranghetiste di nuovo insediamento e problemi applicativi dell'art 416 bis c.p., in Riv. it. dir. proc. pen., 2016; PIGNATONE – PRESTIPINO, Il Contagio. Come la ‘ndrangheta ha infettato l'Italia, Bari, 2012; VISCONTI, La Mafia è dappertutto. Falso!, Bari, 2016; VISCONTI, Mafie straniere e ‘ndrangheta al nord, in Dir. Pen. cont. (riv. trim.), 2015, I, 380; TURONE, Il delitto di associazione mafiosa, Milano, 2008, VISCONTI, I giudici di legittimità ancora alle prese con la "mafia silente" al nord: dicono di pensarla allo stesso modo, ma non è così, in www.dirittopenalecontemporaneo.it PERNA, Manifestazione del metodo mafioso e c.d. mafia silente; SILVA SANCHEZ, L'espansione del diritto penale, Milano, 2004. |