Codice Civile art. 2043 - Risarcimento per fatto illecito.Risarcimento per fatto illecito. [I]. Qualunque fatto doloso o colposo [1176], che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno [7, 10, 129-bis, 840, 844, 872 2, 935 2, 939 3, 948, 949, 1440, 1494 2, 2395, 2504-quater, 2600, 2818, 2947; 185 2, 198 c.p.; 22 ss. c.p.p.; 55, 60, 64 2, 96, 278 c.p.c.] 12.
[1] In tema di responsabilità per danno da prodotto difettoso v. art. 114 d.lg. 6 settembre 2005, n. 206; in tema di danno ambientale v. art. 300 d.lg. 3 aprile 2006, n. 152; in tema di assicurazione obbligatoria della responsabilità civile v. gli artt. 170-172 d.lg. 7 settembre 2005, n. 209. [2] Per la responsabilità civile della struttura e dell'esercente la professione sanitaria, v. art. 7 l. 8 marzo 2017, n. 24. InquadramentoSegnano l'approdo nella giurisprudenza di legittimità della tutela aquiliana del diritto di credito una serie di sentenze delle Sezioni Unite degli anni '71 e '72 del secolo scorso, in merito a condotte di terzi cagionanti la morte del debitore, in materia di contratto di affitto e di fornitura di energia elettrica. L'ingiustizia del danno che l'art. 2043 c.c. assume quale componente essenziale della fattispecie di responsabilità civile è difatti intesa nella duplice accezione di danno prodotto non iure, nel senso che il fatto produttivo non debba essere altrimenti giustificato dall'ordinamento giuridico, e contra ius, dovendo ledere una situazione soggettiva riconosciuta e garantita dall'ordinamento medesimo, non potendo quindi assumersi quale criterio determinante per ammettere o negare la tutela aquiliana la distinzione tra diritti assoluti e diritti relativi. Il diritto di credito, nel suo aspetto dinamico interno (potere del creditore di esigere la prestazione dal debitore) è tutelato dalla norma che direttamente lo contempla mentre sotto l'aspetto statico o esterno (situazione di appartenenza dell'interesse del creditore alla sua sfera giuridica patrimoniale) trova fonte immediata della sua protezione nell'art. 2043 c.c. L'area di applicazione della responsabilità extracontrattuale per la lesione del diritto di credito deve però essere circoscritta sia sul piano di una valutazione rigorosa delle condizioni rilevanti agli effetti della garanzia dell'interesse oggetto del diritto, sia su quello di un non meno rigoroso apprezzamento del rapporto di causalità tra la condotta e l'evento di danno (Cass. S.U., n. 174/1971; Cass. S.U., n. 1008/1972). I principi di cui innanzi vengono quindi progressivamente applicati alla lesione del credito nel rapporto di lavoro (ad esempio per fatto illecito che cagioni la morte o l'inabilità lavorativa del debitore lavoratore), anche in ipotesi di condotta del terzo che ottenga dall'altrui debitore la relativa prestazione oltre che di partecipazione del terzo all'altrui inadempimento, nonché con riferimento ai diritti nascenti dal contratto di locazione ed in materia di titoli di credito. La tutela aquiliana del diritto di credito: origini, fondamento e limitiLa tutela aquiliana del diritto di credito approda nella giurisprudenza di legittimità negli anni settanta del secolo scorso, con riferimento ad ipotesi di condotta cagionante la morte del debitore altrui per poi trovare applicazione diffusa con riferimento ai detti diritti relativi. Proprio con riferimento alla lesione provocata dall'aver cagionato la morte dell'altrui debitore, è emblematico delle esigenze sottese al passaggio alla tutela risarcitoria della lesione del diritto di credito una risalente statuizione di legittimità, che pur escludendola la ricollegava ai danni da morte del congiunto. Si sosteneva difatti che per la risarcibilità del danno necessitasse che esso (immediato o mediato) colpisse un interesse direttamente protetto dal diritto. Cosicché, in linea generale, ove a taluno fosse imputabile il decesso del dipendente o del collaboratore di un determinato soggetto, il creditore non fosse legittimato ad agire per la lesione extracontrattuale del rapporto personale, cioè per il pregiudizio o, meglio, per la distruzione del credito alle prestazioni personali, derivante dallo specifico rapporto di lavoro di locazione d'opera o di collaborazione. Tuttavia, nell'ambito del quadro dei pregiudizi attuali o futuri arrecati ai prossimi congiunti e non genericamente ad un datore di lavoro o al creditore di una prestazione d'opera, in forza del decesso di un determinato soggetto (quadro che non può ritenersi limitato nell'ambito di erogazioni attuali o future a titolo di obbligazione alimentare) si riteneva valutabile come risarcibile anche il venir meno del contributo personale di capacita tecnica, di esperienza, di personale interesse che la vittima, indipendentemente dall'esistenza di un vero e proprio qualificato rapporto di prestazione d'opera (di opere o simili), già apportasse, o, con tutta probabilità, avrebbe apportato alla gestione tecnica o amministrativa di un'azienda di tipo esclusivamente o prevalentemente familiare. A tale riguardo, però, precisava la Suprema Corte, doveva essere tenuta presente la fungibilità, in linea di massima, delle prestazioni tecniche o amministrative e, quindi, la necessità di limitare il pregiudizio risarcibile alla perdita o al mancato conseguimento di quel particolare vantaggio che, allo sviluppo economico dell'impresa, sarebbe derivato dalla particolare qualità, inerente alla vittima, di appartenente al nucleo familiare (Cass. III, n. 170/1964). Segnano l'approdo nella giurisprudenza di legittimità della tutela aquiliana del diritto di credito una serie di sentenze delle Sezioni Unite degli anni '71 e '72 del secolo scorso, in merito a condotte di terzi cagionanti la morte del debitore, in materia di contratto di affitto e di fornitura di energia elettrica. Cass. S.U., n. 174/1971 chiarisce difatti che l'ingiustizia del danno che l'art. 2043 c.c. assume quale componente essenziale della fattispecie di responsabilità civile va intesa nella duplice accezione di danno prodotto non iure, nel senso che il fatto produttivo non debba essere altrimenti giustificato dall'ordinamento giuridico, e contra ius, dovendo ledere una situazione soggettiva riconosciuta e garantita dall'ordinamento medesimo (all'epoca ancora ritenuta necessariamente di diritto soggettivo), non potendo quindi assumersi quale criterio determinante per ammettere o negare la tutela aquiliana la distinzione tra diritti assoluti e diritti relativi. Sicché, chi con il suo fatto doloso o colposo cagiona la morte del debitore altrui e obbligato a risarcire il danno subito dal creditore, qualora quella morte abbia determinato l'estinzione del credito ed una perdita definitiva ed irreparabile per il creditore medesimo. La stessa Suprema Corte definisce il concetto di definitività ed irreparabilità della perdita ritenendo che ciò si concretizzi nel caso di obbligazioni di dare a titolo di mantenimento e di alimenti, sempre che non esistano obbligati in grado eguale o posteriore che possano sopportare il relativo onere, ovvero di obbligazioni di fare rispetto alle quali vi è insostituibilità del debitore, nel senso che non sia possibile al creditore procurarsi, se non a condizioni più onerose, prestazioni eguali o equipollenti. Nella specie, condotta cagionante la morte di un giocatore, la Suprema Corte ha anche ritenuto quello intercorrente fra il giocatore professionista e la società calcistica quale rapporto di lavoro subordinato, con conseguente inquadramento nello schema dei rapporti di credito, nonostante le peculiarità di esso in forza dei regolamenti federali. L'assunto di cui innanzi è ribadito e specificato, con relativa delimitazione anche sotto il profilo causale, da Cass. S.U., n. 1008/1972 (in fattispecie inerente l'espropriazione di fondo oggetto di contratto di affitto). Essa difatti conferma la risarcibilità per fatto illecito della lesione del diritto di credito, in quanto il requisito dell'ingiustizia del danno sussiste anche nel caso di lesione di diritti relativi, non sussistendo altresì incompatibilità tra il carattere assoluto della tutela aquiliana ed il carattere relativo del diritto di credito. Quest'ultimo, difatti, nel suo aspetto dinamico interno (potere del creditore di esigere la prestazione dal debitore) è tutelato dalla norma che direttamente lo contempla mentre sotto l'aspetto statico o esterno (situazione di appartenenza dell'interesse del creditore alla sua sfera giuridica patrimoniale) trova la fonte immediata della sua protezione nell'art. 2043 c.c. Una qualunque lesione arrecata all'interesse del creditore a difendere la sua posizione dall'illecita ingerenza di terzi impedisce o menoma difatti in radice la possibilità di far valere la pretesa verso il debitore, la quale, per il semplice fatto di essere tutelata, necessariamente si impone al rispetto di tutti. In punto di limiti alla tutela in oggetto però la Suprema Corte chiarisce che l'area di applicazione della responsabilità extracontrattuale per la lesione del diritto di credito deve essere circoscritta sia sul piano di una valutazione rigorosa delle condizioni rilevanti agli effetti della garanzia dell'interesse oggetto del diritto sia su quello di un non meno rigoroso apprezzamento del rapporto di causalità tra la condotta e l'evento di danno (in senso conforme, ancorché in fattispecie di ritenuta incidenza del fatto del terzo in un rapporto contrattuale di lavoro, Cass. III, n. 2105/1980; per la sostanziale differenza dei due aspetti, quello interno e quello esterno, si veda, più di recente, Cass. S.U., n. 19200/2004 per la quale, in materia di responsabilità civile, in presenza delle condizioni di risarcibilità richieste dall'art. 2043 c.c., il danneggiato è titolare di un diritto soggettivo – di credito – al risarcimento del danno ingiusto autonomo e distinto dalla posizione giuridica violata, dalla cui natura – di diritto soggettivo ovvero di interesse legittimo o di altro interesse giuridicamente rilevante – esso invero prescinde). Con sentenza di poco successiva i principi di cui innanzi sono ribadite ed ulteriormente specificati, circoscrivendone ulteriormente la portata. Ribadita la ratio della non esclusione dell'applicabilità dell'art. 2043 c.c. ai diritti relativi, non ostacolata dalla disciplina del subingresso del creditore nei diritti del debitore nei confronti del terzo che abbia reso impossibile la prestazione avente ad oggetto una cosa determinata (art. 1259 c.c.), la Suprema Corte difatti precisa che la tutela aquiliana del diritto di credito è ammessa tutte le volte che una perdita definitiva ed irreparabile renda al creditore impossibile procurarsi una prestazione uguale o equipollente. Ciò vale anche nel caso in cui, pur non venendo definitivamente meno la possibilità per il debitore di eseguire nel futuro le proprie prestazioni, si sia in presenza di un rapporto di durata, dal quale sorga l'obbligazione di eseguire continuamente ed ininterrottamente la prestazione in funzione di uno specifico interesse del creditore. Sempre che, per la particolarità dell'oggetto, l'interruzione si risolva, con riferimento ad un determinato intervallo temporale, in un pregiudizio ineliminabile (Cass. S.U., n. 2135/1972 che ammette la tutela aquiliana del diritto di credito di un utente all'erogazione continuativa di energia elettrica, necessaria per il funzionamento di uno stabilimento industriale, nei confronti del terzo che, danneggiando la linea elettrica, aveva determinato la temporanea interruzione della relativa fornitura). I plurimi interventi nomofilattici delle Sezioni Unite, già nel breve periodo, ispirano la giurisprudenza di legittimità, ancorché ancora limitata alla necessaria estinzione del rapporto obbligatorio oltre che condizionata dal retaggio della distinzione tra diritti relativi e diritti assoluti ai fini della tutela aquiliana. Si veda emblematicamente Cass. III, n. 1458/1978, in tema di uccisione del debitore, nella specie giocatore di calcio agonistico, per la quale la condotta del terzo deve necessariamente comportare l'estinzione del rapporto obbligatorio oltre che porre il creditore nell'impossibilità di procurarsi, se non a condizioni più onerose ovvero con minore vantaggio economico, prestazioni uguali od equipollenti. Da ciò però la Suprema Corte ne fa conseguire l'esclusione, a differenza del danno per lesione di un diritto assoluto, di una idoneità potenziale del mero evento lesivo dell'altrui diritto di credito a produrre il danno, sicché, la domanda di condanna generica al relativo risarcimento può trovare accoglimento solo se l'autore dimostri la ricorrenza dei detti requisiti, condizionanti l'insorgenza del diritto al risarcimento. Parimenti, i principi di cui innanzi vengono progressivamente applicati anche alle fattispecie caratterizzate da condotta del terzo che ottenga dall'altrui debitore la relativa prestazione oltre che di partecipazione del terzo all'altrui inadempimento. Il comportamento doloso o colposo con il quale il terzo riesca a conseguire dal debitore, in tutto od in parte, la prestazione, sottraendola al creditore, è difatti qualificabile come illecito aquiliano lesivo del diritto di credito. Sicché, tale condotta può giustificare una pretesa risarcitoria del creditore nei confronti del terzo, nei limiti in cui quella indebita percezione sia idonea ad estinguere o comunque a pregiudicare il credito, ad esempio in relazione all'efficacia liberatoria del pagamento del debitore, alla sopravvenuta insolvenza di quest'ultimo, al maturarsi della prescrizione per il mancato esercizio del diritto ascrivibile all'illecito. Ne consegue che nella controversia promossa per il pagamento di una somma di denaro il terzo, che rivendichi la titolarità del relativo credito o comunque deduca la spettanza in suo favore della somma medesima, fa valere un «diritto relativo all'oggetto» della causa e, pertanto, ai sensi dell'art. 105 comma 1 c.p.c., ha facoltà d'intervenire (Cass. I, n. 6132/1987). La partecipazione del terzo, estraneo al rapporto obbligatorio, all'inadempimento causa della responsabilità contrattuale del debitore, costituisce, al pari di quello innanzi descritto, un illecito lesivo del diritto di credito, del quale egli risponde a titolo extracontrattuale nei confronti del titolare del credito. Nello specifico caso sottoposto alla Suprema Corte, i ricorrenti, consapevoli del rapporto di opzione per la vendita di un bene immobile costituitosi fra due soggetti, avevano indotto il promittente ad alienare loro tale bene, qualificandosi, contrariamente al vero, come gli effettivi titolari dell'opzione, maggiorando il prezzo pattuito e garantendo lo stesso promittente di rilevarlo da qualsiasi azione proposta nei suoi confronti. I giudici di merito avevano ritenuto che tale comportamento, inserendosi nell'inadempimento del promittente, si fosse configurato come causa diretta ed autonoma del danno subito dall'altro contraente, costituendo pertanto fonte di responsabilità aquiliana (Cass. III, n. 1300/1972, ha confermato la sentenza di merito enunciando il principio di cui innanzi). Gli stessi principi elaborati dalla giurisprudenza nella materia in oggetto escludono però in differenti ipotesi, la tutela in esame. Proprio argomentando dall'assunto per il quale la tutela aquiliana dei diritti di credito ha come indefettibile presupposto l'intervenuta lesione – totale o parziale – della pretesa creditoria, Cass. IV, n. 1143/2001 ha escluso che la tutela in esame a possa applicarsi all'ipotesi ad una ipotesi particolare inerente ai crediti dei medici ambulatoriali operanti nella regione Lazio in regime di convenzione con gli enti già erogatori di assistenza sanitaria prima dell'istituzione del servizio sanitario nazionale (disciolti ai sensi dell'art. 66 l. n. 833/1978) per i compensi relativi all'attività svolta prima dell'1 gennaio 1980 (crediti che la legislazione regionale ha posto a carico dei Comuni). L'eventuale ritardo delle Unità sanitarie locali nel prescritto invio ai Comuni della documentazione contabile necessaria per la quantificazione delle spettanze dei sanitari, chiarisce la Suprema Corte, non può dare luogo alla suddetta tutela, non incidendo il comportamento illecito in argomento sulla posizione creditoria dei medici ma pregiudicando soltanto la posizione dei Comuni in riferimento alla esposizione al pagamento degli accessori dei crediti dovuti in conseguenza del ritardo nell'adempimento. Pregiudizio, questo, interno al rapporto obbligatorio tra i Comuni e le Unità sanitarie locali (conforme anche Cass. IV, n. 2440/2001). In materia societaria, Cass. I, n. 3903/1995 precisa che qualora una società per azioni subisca, per effetto dell'illecito commesso da un terzo, un danno alla consistenza patrimoniale o alla redditualità, tale da inciidere sul valore delle azioni, il diritto al risarcimento compete solo alla società, non già annche a ciascuno degli azionisti. Nella specie si trattava di danno a seguito di illecita iscrizione di ipoteca legale, su immobili di proprietà della società, da parte del Ministero di Grazia e Giustizia in occasione di procedimento penale per reati valutari, rispetto ai quali la società medesima era risultata estranea. L'illecito difatti colpisce il patrimonio della società ed obbliga il responsabile a risarcire il danno alla persona giuridica (nel cui bilancio il diritto al risarcimento costituisce una posta attiva) e, pertanto, il fatto lesivo opera come uno dei molteplici fattori, non solo economici, che influenzano il valore di mercato delle azioni, con la conseguenza che, in relazione al minor prezzo realizzato con la cessione delle stesse successivamente all'illecito, il socio non può vantare alcune diritto nei confronti dell'autore dell'illecito medesimo (Cass. I, n. 3903/1995). In dottrina non si registrano unanimità di vedute in merito all'orientamento della Suprema Corte innanzi da ultimo evidenziato. Vi è difatti chi concorda con la non riconducibilità della fattispecie in esame nell'ambito della lesione del diritto di credito del singolo socio (Balzarini, 745), ritenendo, in particolare corretto argomentare dalla personalità giuridica della società l'assenza di diretta interrelazione tra soci e terzi che abbiano recato danno ingiusto alla società (Vidiri, 2423). Altro autore, per converso, evidenzia come l'orientamento di cui innanzi lasci privi di tutela i soci con riferimento alla diminuzione del valore delle proprie partecipazioni azionarie, ancorché ciò sia riconducibile ad un fatto illecito del terzo lesivo del diritto di credito del socio alla liquidazione di una quota corrispondente al valore che la stessa avrebbe avuto in assenza dell'illecito (Frumigli, 1082). Al di là della riconduzione della fattispecie a lesione del diritto di credito, altra parte della dottrina ritiene invece che il pregiudizio diretto e non riflesso subito dal socio, costretto a vendere l'azione a prezzo svilito in ragione dell'illecito del terzo, sia tale da recare allo stesso un danno risarcibile ex art. 2043 c.c. (Afferini, 249). La successiva giurisprudenza di legittimità ha comunque confermato l'orientamento in esame. Le Sezioni Unite ribadiscono difatti che per effetto dell'illecito commesso da un terzo, ancorché esso possa incidere negativamente sui diritti attribuiti al socio dalla partecipazione sociale nonché sulla consistenza di questa, il diritto al risarcimento compete solo alla società e non anche a ciascuno dei soci, in quanto l'illecito colpisce direttamente la società e il suo patrimonio, obbligando il responsabile al relativo risarcimento, mentre l'incidenza negativa sui diritti del socio, nascenti dalla partecipazione sociale, costituisce soltanto un effetto indiretto di detto pregiudizio e non conseguenza immediata e diretta dell'illecito. In applicazione del principio Cass. S.U., n. 27346/2009, ha confermato la sentenza di merito che aveva respinto la domanda con cui una società per azioni, socia di una compagnia di assicurazioni s.p.a., aveva dedotto la responsabilità della società di revisione, incaricata della certificazione del bilancio della società partecipata, per il danno patito dalla quota di partecipazione a seguito delle condotte illecite ascritte alla società di revisione. La lesione del credito nei rapporti di lavoroLa tutela aquiliana del diritto di credito, come evidenziato nel paragrafo precedente, si afferma nella giurisprudenza di legittimità, a Sezioni Unite, per la prima volta, proprio con riferimento ai rapporti di lavoro (Cass. S.U. n. 174/1971, seguita, sempre in tema di rapporti di lavoro da Cass. III, n. 1458/1978). Proprio con riferimento a tale tipologia di rapporti essa è ulteriormente specificata, in particolare, tramite la distinzione dell'ipotesi di danno da definitiva perdita della prestazione lavorativa da quella del danno da erogazione retributiva senza prestazione. Nel caso di lesione, per fatto del terzo, del diritto di credito di uno dei soggetti del rapporto contrattuale l'obbligo del risarcimento ai sensi dell'art. 2043 c.c. è comunque limitato ai danni che siano conseguenza immediata e diretta dell'illecito, secondo un rigoroso rapporto di causalità, in base al principio stabilito dall'art. 1223 c.c. in quanto valido per la responsabilità civile, sia contrattuale che extracontrattuale. Applicando il detto principio ad un'ipotesi di incidenza del fatto del terzo in un rapporto contrattuale di lavoro la Suprema Corte ritiene necessario accertare se, nella specie, la mancata prestazione del lavoratore, ricollegabile in via diretta e immediata al fatto illecito del terzo, abbia, in concreto, dato luogo alla necessità di sostituire il lavoratore assente con altra persona, con relativo sacrificio di natura economica, ovvero all'impossibilita di tale sostituzione, in relazione alla particolare natura ed importanza della prestazione lavorativa venuta meno (definitivamente o temporaneamente), con conseguente grave ed insanabile pregiudizio per il creditore. Così argomentando si esclude la risarcibilità, in favore del datore di lavoro, dei danni costituiti dal versamento dei contributi assicurativi e dalla corresponsione al lavoratore, nei giorni di assenza, della retribuzione e dell'indennità integrativa di malattia (ex plurimis, Cass. III, n. 2105/1980). Sembrerebbe contrastare con l'orientamento di cui innanzi quello per il quale sarebbe risarcibile anche il danno da corrisposta retribuzione, anche se, a ben vedere, la differenza troverebbe ragione nella differente fattispecie ed in particolare nella non riconducibilità ad unità del danno da «retribuzione a vuoto» e del danno da definitiva perdita dell'attività lavorativa. La Suprema Corte chiarisce difatti che, in base al principio dell'applicabilità della tutela aquiliana, ai sensi dell'art. 2043 c.c., anche al caso di lesione del diritto di credito da parte di soggetto estraneo al rapporto obbligatorio, l'autore di un fatto colposo da cui siano derivate al lavoratore dipendente lesioni personali con invalidità temporanea assoluta è tenuto a risarcire il datore di lavoro dell'ammontare delle retribuzioni corrisposte, per legge o per contratto, nel periodo di assenza del dipendente (con gli interessi e la rivalutazione monetaria dalla data del verificarsi di tale assenza e della correlativa «retribuzione a vuoto»). Tale erogazione retributiva, a differenza di quella per contributi previdenziali ed assicurativi (privi di funzione corrispettiva della prestazione lavorativa e dovuti per il solo fatto della esistenza del rapporto di lavoro), si traduce difatti, in difetto della attività lavorativa dell'infortunato, in una perdita patrimoniale legata da rapporto di causalità con il fatto del terzo. Ne consegue che la suddetta obbligazione risarcitoria deve essere affermata anche quando non ricorra una situazione di insostituibilità del dipendente, trattandosi di circostanza rilevante nel diverso caso del danno per la definitiva perdita della prestazione lavorativa (ad esempio, per morte del dipendente), con estinzione dell'obbligo di pagamento del corrispettivo. Per converso, nell'ipotesi sopra considerata il pregiudizio consiste nell'erogazione retributiva senza controprestazione, con la conseguenza che esso oltre che la sua derivazione causale dal fatto illecito sussistono indipendentemente dalla possibilità del datore di lavoro di sostituire l'infortunato con un nuovo dipendente o con una diversa organizzazione del rimanente personale (ex plurimis, Cass. III, 5562/1984; Cass. III, n. 531/1987). Sembrerebbe altresì cercare di ricomporre il contrasto quella giurisprudenza di legittimità per la quale l'importo della retribuzione comunque corrisposta potrebbe costituire, in mancanza di prova diversa, un indice indiziario per la liquidazione del danno. Ciò in caso di condotta del terzo che abbia determinato al lavoratore dipendente una invalidità temporanea assoluta, con riferimento al danno per il datore di lavoro, cagionato dalla mancanza delle prestazioni lavorative, nel caso in cui sia comunque stata erogata la retribuzione per obbligo gravante in capo al datore di lavoro(Cass. III, n. 5699/1986). Sul punto intervengono le Sezioni Unite, facendo riferimento però anche ai contributi previdenziali. Cass. S.U., n. 6132/1988 precisano difatti che il responsabile di lesioni personali in danno di un lavoratore dipendente, con conseguente invalidità temporanea assoluta, è tenuto a risarcire il datore di lavoro per la mancata utilizzazione delle prestazioni lavorative, la quale integra un ingiusto pregiudizio, a prescindere dalla sostituibilità o meno del dipendente, causalmente ricollegabile al comportamento doloso o colposo di detto responsabile. Tale pregiudizio, in difetto di prova diversa, è liquidabile sulla base dell'ammontare delle retribuzioni e dei contributi previdenziali, obbligatoriamente pagati durante il periodo di assenza dell'infortunato, atteso che il relativo esborso esprime il normale valore delle prestazioni perdute, salva restando la risarcibilità dell'ulteriore nocumento in caso di comprovata necessità di sostituzione del dipendente (si vada, per le sentenze successive all'intervento nomofilattico delle Sezioni Unite, ex plurimis, Cass. III, n. 5373/1989). L'esplicitato orientamento reca con sé ripercussioni in materia di assicurazione contro infortuni, di trattamento di fine rapporto e pensionistico oltre che di efficacia nei confronti del creditore della transazione intercorsa tra debitore e terzo, di operatività delle presunzioni di cui all'art. 2054 c.c. e del termine di prescrizione del diritto. Rileva in particolare evidenziare che l'azione che il creditore del danneggiato dal fatto del terzo proponga nei confronti di quest'ultimo non si inquadra nella surrogatoria di cui all'art. 1916 c.c. e, come già chiarito, non presenta neppure analogie con l'azione prevista dall'art. 1259 c.c. ma va assunta invece nello schema dell'azione risarcitoria diretta ex art. 2043 c.c., come tale esercitata iure proprio e non iure rapraesentationis. Sicché, la transazione conclusa tra il terzo autore dell'illecito ed il danneggiato obbligato nei riguardi del proprio creditore non può riguardare e tanto meno pregiudicare i diritti risarcitori di quest'ultimo, estraneo alla detta contrattazione (Cass. IV, n. 3284/1982) In materia di infortuni del lavoratore, invece, la stipulazione da parte del datore di lavoro di un'assicurazione contro gli infortuni extralavorativi dei dipendenti (la quale rientra nello schema del contratto a favore di terzo) di regola non costituisce un mero atto di liberalità verso il beneficiario (come deve presumersi in ogni ipotesi di attribuzione patrimoniale nei confronti dei lavoratori pur se non specificamente contemplata nel contratto di lavoro) ma lo strumento giuridico per adempiere ad un'obbligazione (sorta eventualmente anche per effetto di una prassi aziendale). L'inosservanza da parte del datore di lavoro stipulante degli obblighi nascenti a suo carico dal contratto di assicurazione (nella specie consistita nel mancato pagamento del premio), quindi, traducendosi nel venir meno del diritto dei lavoratori alla prestazione assicurativa, può comportare il sorgere in loro favore di responsabilità risarcitoria a carico del datore di lavoro. La natura della detta responsabilità resta comunque contrattuale, con quanto ne consegue circa la disciplina applicabile, dovendo escludersi che nella suddetta ipotesi sia ravvisabile una fattispecie di lesione da parte del datore di lavoro del credito dei lavoratori verso l'assicuratore. Ciò in quanto l'inoperatività del contratto di assicurazione conseguente all'inadempimento del datore stipulante impedisce lo stesso sorgere in favore dei lavoratori del diritto alle prestazioni assicurative, così rendendo impossibile configurarne la lesione (Cass. IV, n. 8026/1996). In materia di trattamento di fine rapporto e pensionistico la Suprema Corte chiarisce che il comportamento della P.A. che, illegittimamente ritardandone il collocamento a riposo, cagioni al dipendente statale il danno del corrispondente ritardo nell'erogazione dell'indennità di buonuscita (nella specie, da parte dell'E.N.P.A.S.) integra lesione ad opera di un terzo del diritto soggettivo di credito avente ad oggetto la detta prestazione. Essa è fonte di responsabilità responsabilità aquiliana per la stessa P.A. e del correlativo diritto del dipendente al risarcimento di quel danno. Il credito risarcitorio sorge con l'inizio del fatto generatore del danno medesimo e con questo persiste nel tempo, rinnovandosi di momento in momento, con la conseguenza che il termine quinquennale di prescrizione ricomincia a decorrere de die in diem, per ogni giorno successivo alla prima manifestazione del danno (Cass. I, n. 655/1994). In merito alla lesione del diritto alla pensione per invalidità e vecchiaia, invece, il diritto al risarcimento del relativo danno, anche se azionato per effetto della mancata realizzazione di un diritto indisponibile, conservando la propria autonomia rispetto al diritto originario non ne assume il carattere della indisponibilità ed è, pertanto, soggetto alla prescrizione decennale di cui all'art 2934 c.c. (Cass. S.U., n. 1744/1975). Sempre circa il trattamento pensionistico, la natura meramente ricognitiva del procedimento amministrativo preordinato all'accertamento, alla liquidazione e all'adempimento della prestazione in favore dell'assicurato comporta che l'inosservanza, da parte del competente Istituto previdenziale, delle regole proprie del procedimento, nonché, più in generale, delle prescrizioni concernenti il giusto procedimento, dettate dalla l. 7 agosto 1990, n. 241, o dei precetti di buona fede e correttezza, non dispiega incidenza sul correlato rapporto obbligatorio. Ne consegue, come chiarito da Cass. IV, n. 20604/2014, che l'assicurato non può, in difetto dei fatti costitutivi dell'obbligazione, fondare la pretesa giudiziale di pagamento della prestazione previdenziale in ragione di disfunzioni procedimentali addebitabili all'Istituto, salva, in tal caso, la possibilità di chiedere il risarcimento del danno cagionato dal comportamento dell'Istituto (Cass. IV, n. 20604/2014). Il principio appena esposto, circa la tutela risarcitoria ex art. 2043 c.c., è stato applicato anche da Cass. IV, n. 2804/2003 ad una fattispecie nella quale il privato aveva presentato domanda di pensione di vecchiaia respinta dall'Inps dopo circa un anno per avere il richiedente un rapporto di lavoro in atto. Il privato aveva allora richiesto che la precedente domanda fosse qualificata come richiesta di pensione di anzianità. Di fronte al diniego dell'Istituto – motivato sul rilievo che, alla data della seconda domanda, non sussistevano, a causa del sopraggiunto mutamento della normativa di settore, i requisiti per il conseguimento della richiesta prestazione previdenziale – il privato aveva agito in giudizio, deducendo a fatto costitutivo della pensione di anzianità il comportamento dell'Inps, che non lo aveva avvisato, nel prescritto termine, dell'incongruenza rappresentata dalla presentazione della domanda di pensione di vecchiaia in costanza di attività lavorativa, così impedendogli di rimediare tempestivamente all'errore, prima del sopravvenire della nuova disciplina legislativa prevedente requisiti più restrittivi per l'accesso alla pensione. La tutela aquiliana del diritto di credito reca altresì inevitabili corollari in tema di applicabilità di regimi presuntivi, come statuito da Cass. III, n. 22402/2011. Nel caso in cui la lesione della pretesa creditoria, in ipotesi da prestazione lavorativa del dipendente, derivi da un fatto per la cui imputabilità la legge preveda uno speciale criterio di imputazione – come nel caso dell'art. 2054, comma 2, c.c. – quello stesso criterio trova in particolare applicazione anche nella causa promossa dal creditore nei confronti del responsabile del fatto illecito. Non essendovi ragioni per limitarne l'applicabilità al solo caso della domanda proposta direttamente dalla vittima primaria, in quanto il fatto genetico del danno è il medesimo anche per gli altri soggetti danneggiati. Ne consegue, nell'ipotesi di operatività del citato art. 2054 c.c., che il diritto al risarcimento del terzo titolare del diritto di credito è soggetto allo stesso termine di prescrizione (nella specie, due anni ex art. 2947 comma 2 c.c.) ed alle stesse condizioni di proponibilità contemplate dalla legge per far valere i diritti derivanti dai danni da circolazione stradale (nella specie, richiesta ex art. 22 l. n. 990/1969, ratione temporis applicabile). Tutela del credito nel contratto di locazioneLa tutela aquiliana del diritto di credito trova applicazione giurisprudenziale anche in merito alle posizioni del locatore e del conduttore. Con riferimento alla prima, difatti, costituisce lesione del credito ogni evento che consista materialmente nella sottrazione del bene (per distruzione, danneggiamento, etc.) dedotto in obbligazione. Sicché, ove esso investa beni immobili oggetto di locazione, il locatore ha diritto a conseguire un risarcimento commisurato all'incidenza negativa esercitata da tale evento sul suo diritto a riscuotere il canone locatizio. Il principio di cui innanzi è stato di recente applicato dalla Suprema Corte in un caso nel quale era stato accertato che l'allagamento di locali commerciali oggetto di distinte locazioni, attribuibile alla condotta colposa del condominio, aveva determinato, in un caso, una riduzione percentuale del canone, in ragione della minore fruibilità dell'immobile locato, e, nell'altro, il recesso del conduttore. Di conseguenza, il risarcimento dovuto al locatore era stato (correttamente) commisurato, rispettivamente, alla parte di canone non più corrisposta dal conduttore e ai canoni non percepiti dal locatore successivamente al rilascio dell'immobile e fino alla data di decorrenza di un successivo contratto di locazione (Cass. III, n. 24851/2014). Con riferimento alla tutela aquiliana del diritto di credito nascente in capo al conduttore in forza di contratto di locazione, la Suprema Corte ha indicato in maniera specifica i relativi presupposti, tanto in termini generali quanto con particolare riferimento ai diritti di credito nascenti dal contratto di locazione. In particolare la tutela risarcitoria è stata subordinata alla ricorrenza di un duplice ordine di situazioni giuridiche. In primo luogo, la sussistenza di una connessione oggettiva tra evento imputabile al terzo e lesione del credito, la quale si verifica ogni qualvolta l'evento consista materialmente nella sottrazione al godimento (in ipotesi, per distruzione, danneggiamento, eccetera) di una cosa dedotta in obbligazione, ovvero nella morte o nella lesione (provocata) al debitore, con la conseguente impossibilita della prestazione da lui dovuta. In secondo luogo necessita la sussistenza di una condotta dolosa o colposa del terzo che, per la natura particolare del credito e le circostanze della sua costituzione, della sua permanenza e della sua realizzazione, «deve imputabilmente comprendere anche il pregiudizio del credito». In particolare, il conduttore titolare del diritto di godimento sulla cosa presa in locazione, è legittimato ad esperire l'azione risarcitoria aquiliana nei confronti del terzo che abbia precluso o menomato il godimento della cosa locata con la sua condotta illecita (contra ius e non iure), producendo un danno ingiusto a carico del conduttore (Cass. I, n. 2938/1978). Proprio in forza della ratio sottesa alla tutela aquliana del diritto di credito (come innanzi evidenziata), la Suprema Corte chiarisce che, comunque, l'area di applicazione della responsabilità extracontrattuale per la lesione del diritto di credito, anche nascente da contratto di locazione, va circoscritta ai danni che hanno direttamente inciso sull'interesse oggetto del diritto. Cass. III, n. 7337/1998, in particolare, ha riconosciuto in capo alla ricorrente, titolare di un'azienda commerciale, e conduttrice dell'immobile in cui si svolgeva la relativa attività, che aveva richiesto la condanna dei proprietari delle terrazze sovrastanti il negozio al risarcimento dei danni subiti a seguito di infiltrazioni di acqua, l'interesse al ripristino del godimento dell'immobile. Ciò però con il limite della risarcibilità del solo danno per il mancato uso per il quale la locazione era stata stipulata, con esclusione dei danni derivanti da un eventuale deprezzamento dell'immobile, che riguardavano direttamente il proprietario (in senso conforme, circa il diritto enunciato, Cass. IV, n. 12941/1999). Con quanto innanzi detto deve coordinarsi la disciplina del contratto di locazione. Sicché, anche se è vero, in base all'art. 1585 comma 2 c.c., che il locatore non è tenuto a garantire il conduttore dalle molestie di fatto di terzi, a fronte delle quali lo stesso conduttore può agire in nome proprio contro il terzo, occorre precisare che detta norma disciplina i rapporti tra il locatore ed il conduttore e che la facoltà dello stesso conduttore di agire personalmente contro il terzo, non essendo certo un suo obbligo, non esclude il ricorso ad altri strumenti di tutela giuridica. Sulla scorta di tale presupposto ed in forza del principio (anche costituzionale) della libertà economica, di cui agli artt. 41 Cost. e 1321 c.c., 1322 c.c. e 1372 c.c., la giurisprudenza di legittimità ammette la possibilità per le parti di un rapporto di locazione abitativa di risolvere il rapporto consensualmente, in caso di gravi molestie arrecate da un terzo al conduttore e tali da pregiudicare il normale godimento dell'immobile, sussistendo, in tale ipotesi, la legittimazione del locatore ad agire in giudizio contro il terzo ai sensi dell'art. 2043 c.c. (Cass. III, n. 2530/2006, Cass. III, n. 15170/2003). Lesione del credito e titoli di creditoL'ormai da tempo affermato principio per il quale la lesione da parte di un terzo di un diritto di credito, come quella di un diritto assoluto, può cagionare un danno ingiusto risarcibile ex art. 2043 c.c. è fatto proprio dalla costante giurisprudenza di legittimità anche con riferimento ai titoli di credito. Si guardi, solo esemplificativamente, Cass. I, n. 13673/2011, che ha cassato (con rinvio) la decisione di merito che aveva in astratto escluso, senza verificare in concreto, l'eventuale rilevanza della dedotta violazione di norme sulla circolazione di un assegno agli effetti della ipotizzata responsabilità extracontrattuale di due istituti di credito, ritenendo che tali irregolarità rilevassero esclusivamente sul piano del rapporto contrattuale fra banca e cliente. Diverse sono le statuizioni in tema di responsabilità della banca per incauto pagamento di assegno bancario, cioè avvenuto al di fuori delle condizioni di legge ed a persona estranea e non autorizzata all'incasso. In tal caso la banca girataria per l'incasso e la banca trattaria possono essere chiamate a rispondere nei confronti del prenditore del titolo, essendo costui tutelato in ordine al fatto che l'assegno circoli secondo la disciplina sua propria e che la banca non paghi a chi non è legittimo prenditore, con ciò pregiudicando il diritto del prenditore medesimo di soddisfarsi per il suo credito, sia tramite l'adempimento del trattario sia con l'azione cartolare nei confronti del traente e dei giranti, oltre che, ove sussista, con l'azione causale. In applicazione del diritto la Suprema Corte ha ritenuto configurabile responsabilità extracontrattuale in capo alla banca negoziatrice, girataria per l'incasso, allorché abbia consentito al procuratore infedele del legittimo prenditore di operare oltre i limiti della procura, permettendogli, mediante l'accreditamento dell'importo del titolo girato per l'incasso direttamente sul di lui conto personale, di realizzare l'indebita appropriazione in danno del legittimo prenditore (Cass. I, n. 27378/2005, in Foro it., 2007, 1, 255, con commento di Sabbatini, nella specie la Suprema Corte ha anche chiarito che in tema di assegno bancario, la limitazione della responsabilità del trattario, secondo quanto prevede il secondo comma dell'art. 1992 c.c., ai casi di mala fede o colpa grave, non opera ove la banca sia chiamata a rispondere in via extracontrattuale, in tal caso essendo sufficiente la colpa lieve; si veda più di recente, Cass. I, n. 17269/2013 per la quale, la regola della valenza come quietanza della girata dell'assegno alla banca trattaria – art. 18 comma 5 del r.d. 21 dicembre 1933, n. 1736 – suppone che l'assegno sia stato pagato o accreditato allo stesso autore della girata, non esentando la banca da responsabilità per il pagamento a favore di soggetto diverso dal legittimo portatore dell'assegno). In senso difforme si è posta la più risalente Cass. I, n. 218/1997. Per essa l'emissione di un assegno bancario non instaura alcun rapporto, cartolare od extracartolare, fra il prenditore del titolo e la banca trattaria, la quale, salve le conseguenze inerenti al contratto di provvista con l'emittente, è arbitra, verso il richiedente, di effettuare o meno il pagamento. Dall'esclusione di un diritto del prenditore al pagamento della banca trattaria consegue il difetto di legittimazione del primo ad agire contro la seconda, non solo con riguardo ad una domanda rivolta a conseguire il pagamento rifiutato ma anche con riguardo ad una domanda che ne invochi la responsabilità per aver incautamente pagato a persona estranea e non autorizzata all'incasso. Mancando l'indicato diritto viene difatti meno la configurabilita di un danno extracontrattuale risarcibile per effetto di quel colposo comportamento. I medesimi principi operano nel caso in cui la pretesa risarcitoria sia avanzata non contro la banca trattaria ma contro altra banca, la quale, girataria del titolo «per l'incasso», ne abbia incautamente corrisposto il controvalore a persona diversa dal legittimo prenditore, in quanto la girata, sia piena che per l'incasso, non vale difatti ad inserire il giratario nel rapporto fra traente e prenditore e non attribuisce a quest'ultimo alcun diritto verso il giratario stesso. Contrasto in sede di legittimità, ancorché risolto dalle Sezioni Unite, si è altresì registrato in merito alla responsabilità della banca per negoziazione di assegno non trasferibile. In merito, l'orientamento poi non condiviso delle Sezioni Unite, sostiene che la responsabilità nei confronti del beneficiario di un assegno circolare non trasferibile in cui incorre la banca girataria per l'incasso qualora, violando l'obbligo di diligente accertamento dell'identità e della legittimazione del presentatore del titolo, paghi l'assegno a persona diversa dal predetto (artt. 43 ed 86 del r.d. n. 1736/1933), non ha natura né extracontrattuale, non conseguendo dalla violazione di una norma di condotta, né contrattuale, poiché non sussiste tra dette parti alcun rapporto negoziale, dato che detta banca è estranea sia alla convenzione di assegno sia al rapporto di emissione del medesimo. Essa costituirebbe invece violazione di un'obbligazione ex lege, riconducibile, in base all'art. 1173 c.c., ad ogni altro atto o fatto idoneo a costituire fonte di obbligazione in conformità dell'ordinamento giuridico, siccome derivante dalla violazione dell'obbligo posto a suo carico dall'art. 43 del citato r.d., di pagare l'assegno esclusivamente all'intestatario, titolare del diritto di agire per il risarcimento del danno eventualmente subito. Ne conseguirebbe che siffatto diritto sarebbe soggetto alla prescrizione ordinaria decennale (Cass. I, n. 19512/2005, in Nuova giur. civ. comm., 2006, 7/8, 885, con commento di Venturiello). Per la natura contrattuale, argomentando dall'inadempimento di mandato, si esprime invece Cass. I, n. 18543/2006. Per essa in capo alla banca girataria per l'incasso, la quale, avendo ricevuto l'assegno bancario non trasferibile, non dal prenditore dell'assegno ma (in violazione del divieto di cui al citato art. 43) dal terzo beneficiario di una girata, abbia accettato da questo l'incarico di incassare il titolo presso la banca trattaria, è configurabile una responsabilità contrattuale per inadempimento del mandato nella specie la banca, dopo aver accreditato, salvo buon fine, la somma portata dal titolo sul conto corrente del beneficiario della girata, aveva stornato la predetta somma, comunicando di non aver potuto presentare l'assegno alla banca trattaria e di essere impedita a procedere all'incasso in conseguenza dello smarrimento del titolo. Altra giurisprudenza argomenta nei termini di responsabilità extracontrattuale. In realtà essa prende il considerazione il caso (differente) nel quale l'assegno circolare non trasferibile non sia mai pervenuto nella materiale disponibilità del beneficiario, per essere stato sottratto subito dopo la sua spedizione da parte del richiedente. In tale ipotesi nessuna azione compete al predetto beneficiario, nei confronti della banca emittente, essendo indispensabile, per l'esperimento delle azioni cartolari, non solo la documentazione del titolo ma anche la sua materiale consegna ad opera del richiedente. Sussisterebbe invece, per tale orientamento, la legittimazione dell'indicato richiedente a proporre azione risarcitoria, nei confronti della banca, tendente a far valere la responsabilità extracontrattuale della stessa, trattandosi di azione erga omnes, per violazione della clausola di intrasferibilità dell'assegno e del conseguente diritto del richiedente a che il titolo non sia pagato a persona diversa dall'intestatario, fondato sulla natura pubblica del servizio di pagamento degli assegni circolari, che non rappresenta un mero servizio di cassa svolto in favore della clientela e nell'esclusivo interesse di questa (si vedano Cass. III, n. 7366/2000 e Cass. I, n. 1641/1996). Il contrasto è composto dalle Sezioni Unite nel 2007, con orientamento seguito anche nell'attualità. La responsabilità della banca negoziatrice per avere consentito, in violazione delle specifiche regole poste dal citato art 43, l'incasso di un assegno bancario, di traenza o circolare, munito di clausola di non trasferibilità, a persona diversa dal beneficiario del titolo, ha natura contrattuale, nei confronti di tutti i soggetti nel cui interesse quelle regole sono dettate e che, per la violazione di esse, abbiano sofferto un danno. La Suprema Corte argomenta in particolare dall'“obbligo professionale di protezione” (obbligo preesistente, specifico e volontariamente assunto), assunto dalla banca ed operante nei confronti di tutti i soggetti interessati al buon fine della sottostante operazione, di far sì che il titolo stesso sia introdotto nel circuito di pagamento bancario in conformità alle regole che ne presidiano la circolazione e l'incasso. Ne deriva che l'azione di risarcimento proposta dal danneggiato è soggetta all'ordinario termine di prescrizione decennale, stabilito dall'art. 2946 c.c. (Cass. S.U., n. 14712/2007 in Corr. giur., 2007, 12, 1706, con commento di Di Majo; si vedano, nello stesso senso, ex plurimis, Cass. III, n. 10534/2015 e Cass. III, n. 7618/2010). Il citato arresto nomofilattico delle Sezioni Unite pur non avendo preso in considerazione tutte le possibili evenienze in materia (o, perlomeno, le più ricorrenti) potrebbe essere suscettibile di applicazione anche oltre la questione specificamene sottoposta, in forza dell'iter logico giuridico seguito ed innanzi esplicitato. A titolo esemplificativo è difatti il caso di evidenziare che (prima del detto intervento del 2007) la Suprema Corte ha ricondotto all'art. 2043 c.c. la responsabilità della banca che, anche solo colposamente, alteri l'ordine cronologico del pagamento, ai rispettivi beneficiari, degli assegni emessi da un proprio correntista, lasciando accantonato un titolo che – pur essendo «coperto» nel momento in cui le era pervenuto – risulti privo di copertura all'atto della registrazione dell'operazione. Trattasi di responsabilità per la lesione del diritto di credito vantato dal prenditore dell'assegno nei confronti del relativo traente. In tali termini si esprime Cass. I, n. 8496/1994, ritenendo nella specie il pregiudizio consistito nel mancato introito dell'importo del titolo, a seguito del protesto dello stesso e del fallimento del traente. Sussisterebbe difatti il requisito dell'ingiustizia del danno, sia in quanto oggetto della lesione è il diritto soggettivo di credito del prenditore del titolo, sia perché, con il descritto comportamento (commissivo e non solo omissivo), l'azienda di credito trattaria risulta aver violato i principi di correttezza e trasparenza dell'attività bancaria e, in particolare, il vincolo d'indisponibilità della «provvista», che è posto al fine di assicurare che gli assegni vengano pagati nel rigoroso rispetto dell'ordine di presentazione (si veda anche Cass. I, n. 15024/2001). Con particolare riferimento alla responsabilità per danni da illecito omissivo, la Suprema Corte, anche nella materia in oggetto, ha ribadito che l'obbligo giuridico di impedire il verificarsi di un evento dannoso può sorgere in capo ad un soggetto non soltanto quando una norma o un preciso dovere negoziale imponga di attivarsi per impedire l'evento ma anche quando si verifichi una specifica situazione che esiga il compimento di una determinata attività a tutela di un diritto altrui. In particolare Cass. III, n. 114484/2004 ha ritenuto conforme al detto principio la sentenza impugnata con la quale era stato ritenuto responsabile del danno subito dall'emittente di un assegno bancario il soggetto che, ricevuta una lettera contenente l'assegno sebbene indirizzata ad altri, invece di restituirla al mittente, l'aveva trattenuta omettendo di custodirla in modo da impedire che il titolo di credito fosse sottratto da terzi frequentatori della propria casa o ivi introdottisi senza il di lui consenso per impossessarsi, a mezzo di ulteriore attività illecita, della somma di cui all'assegno. I principi sottesi alla tutela aquiliana del diritto di credito rilevano infine anche con riferimento all'ipotesi di buoni nominativi e di libretti nominativi o al portatore. In merito, Cass. III, n. 5701/2011 chiarisce che il rilascio del duplicato di taluni di essi (ex art. 15 l. n. 9448/1951) estingue soltanto nei confronti dell'istituto emittente i diritti del detentore, conservando però a quest'ultimo il diritto di agire nei confronti dell'ammortante, facendo valere la propria qualità di titolare del credito attraverso una domanda di adempimento dell'obbligazione (se risultante dal titolo di cui è stato disposto l'ammortamento) o attraverso una domanda di risarcimento del danno, ai sensi dell'art. 2043 c.c. Deve per converso escludersi la configurabilità di un'azione d'indebito arricchimento ai sensi dell'art. 2041 c.c., sia perché difetta il requisito della sussidiarietà, sia perché, in tema di titoli di credito, quando il legislatore ha ritenuto che l'azione esperibile rientri nella previsione di cui all'art. 2041 c.c., lo ha sempre precisato in termini non equivoci. Il decreto di ammortamento in particolare determina l'inefficacia ex nunc del libretto di deposito al portatore ed estingue, ai sensi dell'art. 15 della l. n. 948/1951, i diritti del detentore nei confronti dell'istituto emittente, senza tuttavia pregiudicarne le ragioni verso chi ha ottenuto il duplicato. Nella controversia con l'ammortante il detentore è però tenuto a provare solamente di aver acquistato la titolarità del credito risultante dal libretto anteriormente all'ammortamento e tale onere – soccorrendo le presunzioni di buona fede nel possesso ex art. 1147 c.c. nonché di possesso intermedio ex art. 1142 c.c. – può essere assolto dimostrando di aver posseduto il titolo prima dell'ammortamento stesso. Spetta invece all'ammortante fornire la prova contraria che l'acquisto del possesso era avvenuto in mala fede (Cass. I, n. 15126/2014, in senso conforme si veda Cass. I, n. 15496/2005 la quale infatti precisa che l'ammortamento priva il possessore del libretto della legittimazione cartolare, impedendo l'ulteriore trasferimento del credito secondo le regole sulla circolazione dei titoli di credito, ma non opera retroattivamente, nel senso di rendere inefficaci i trasferimenti operati anteriormente all'ammortamento mediante traditio del libretto). Tutela del credito e venditaIn tema di tutela del credito risarcitorio è sorto nella giurisprudenza di legittimità un contrasto con particolare riferimento al diritto al risarcimento danni causati ad un bene poi venduto ed alla sua eventuale ambulatorietà. Per un primo orientamento, l'acquirente di un bene è legittimato ad agire per il risarcimento del danno prodotto da un terzo anteriormente alla vendita. Dal perfezionamento del trasferimento conseguirebbe difatti la titolarità del diritto di credito anche in mancanza di un'espressa cessione dell'azione ed anche nel caso di mancata conoscenza da parte dell'acquirente della preesistenza del danno. Salvo che, nell'ambito dell'autonomia negoziale delle parti, l'azione non sia stata riservata al venditore (Cass. II, n. 19307/2008). Il contrapposto orientamento argomenta invece dall'assunto per il quale il diritto al risarcimento dei danni cagionati ad un immobile non costituisce un accessorio del diritto di proprietà sull'immobile stesso, trasmissibile automaticamente con la sua alienazione, avendo invece natura personale, in quanto compete esclusivamente a chi, essendo proprietario del bene all'epoca dell'evento dannoso, ha subito la relativa diminuzione patrimoniale. Sicché, il relativo credito, che sorge al momento in cui si verificano i danni, non ha carattere ambulatorio ma è suscettibile soltanto di apposito e specifico atto di cessione ai sensi dell'art. 1260 c.c. (Cass. VI, n. 24146/2014; Cass. II, n. 15744/2009). Il successivo intervento nomofilattico delle Sezioni Unite del 2016 convalida il secondo dei due illustrati orientamento. La Suprema Corte difatti chiarisce che il diritto al risarcimento dei danni subiti da un bene spetta a chi ne sia proprietario al momento del verificarsi dell'evento dannoso, e, configurandosi come un diritto autonomo rispetto a quello di proprietà, non segue quest'ultimo nell'ipotesi di alienazione, salvo che non sia pattuito il contrario (Cass. S.U., n. 2951/2016, in Foro it., 2016, 12, 3947, con commento di Esposito; nello stesso senso ma circa il caso di vendita del bene e diritto all'indennizzo, si veda Cass. III, n. 13960/2007). Tutela del credito, contratto di mutuo e danno da perdita di chanceIn caso di risoluzione, per inadempimento del mutuatario, di un contratto di mutuo, cui acceda una clausola in forza della quale costui si era impegnato, per la durata del rapporto negoziale, a preferire il mutuante nel caso di sottoscrizione di polizze assicurative, l'agente del mutuante non può agire ai sensi dell'art. 2043 c.c. nei confronti del mutuatario a tutela del proprio credito. Egli difatti non vanta alcun interesse giuridicamente rilevante ma una semplice aspettativa di fatto a maturare ulteriori provvigioni, come tale inidonea a costituire un'entità di natura patrimoniale tutelabile erga omnes, neppure sotto il profilo di danno da perdita di chance (Cass. III, n. 13283/2016). Mandato e lesione del diritto di credito del terzoCass. S.U., n. 9590/2012 applica i principi governanti il mandato, anche per quanto concerne la responsabilità del mandante in relazione all'attività svolta dal mandatario, con particolare riferimento al rapporto (di mandato), conseguente a provvedimento legislativo, intercorrente fra l'Amministrazione statale e la Federazione Italiana Consorzi Agrari. Tale rapporto, precisa la Suprema Corte, non esclude la responsabilità extracontrattuale del mandante in relazione all'attività svolta dal mandatario in nome proprio, per conto e nell'interesse del rappresentato, nel caso di lesione del diritto di credito del terzo contraente. Sempre che emerga una colpevole e negligente inerzia del mandante nel porre in essere le misure necessarie per l'adempimento delle obbligazioni sorte per effetto dell'esecuzione del mandato. Tale responsabilità è individuabile anche nel caso in cui l'inerzia del mandante si sia manifestata nell'omessa adozione di programmati provvedimenti normativi, laddove la relativa previsione possa avere avuto ragionevole incidenza sulla determinazione del terzo contraente alla conclusione dell'accordo rimasto inadempiuto e sia stata comunque dedotta una lesione patrimoniale. In tale ipoterzi è difatti astrattamente configurabile una responsabilità patrimoniale del mandante per effetto della constatata violazione dei principi di correttezza e buona fede. Diritto di credito e sanzioni amministrativeIl Comune non vanta un diritto di credito avente ad oggetto le somme riscosse o da riscuotere all'esito del procedimento per l'applicazione delle sanzioni amministrative di cui alla l. n. 689/1981, né una posizione differenziata, giuridicamente protetta rispetto alle attività demandate al Prefetto nel corso del procedimento stesso. Ne consegue, per la Suprema Corte, che non è tutelabile in via aquiliana la pretesa del Comune di essere risarcito dal Ministero dell'interno per la perdita degli introiti pecuniari derivanti dalla riscossione delle sanzioni amministrative pecuniarie, riconducibili a colpose omissioni ovvero a ritardi nell'adempimento dei compiti affidati al Prefetto nel corso del menzionato procedimento (Cass. III, n. 22401/2011). BibliografiaAfferini, Illecito del terzo e pregiudizio patrimoniale della società, in Nuova giur. civ. comm. 1996, 2; Balzarini, Fatto illecito del terzo lesivo del patrimonio di società ed indirettamente del patrimonio del socio: danni risarcibili e legittimazione soggettiva, in Resp. civ. e prev. 1995, 5; Di Majo, Contratto e torto: la responsabilità per il pagamento di assegni non trasferibili, in Corr. giur. 2007, 12; Esposito, Le sezioni unite sulla negazione della titolarità del diritto controverso, in Foro it. 2016, 12; Frumigli, Danni del socio e danni della società, in Corr. giur. 1995, 9; Sabbatini, La responsabilità della banca per il pagamento di assegni a soggetto non legittimato, in Foro it. 2007, 1; Venturiello, Responsabilità della banca per l'incasso di assegni circolari non trasferibili, in Nuova giur. civ. comm. 2006, 7/8; Vidiri, Sulla mancanza di legittimazione del socio all'azione per danni cagionati da terzi ad una società di capitali, in Giust. civ. 1995, 10. |