Codice Civile art. 2043 - Risarcimento per fatto illecito.

Fabio Antezza

Risarcimento per fatto illecito.

[I]. Qualunque fatto doloso o colposo [1176], che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno [7, 10, 129-bis, 840, 844, 872 2, 935 2, 939 3, 948, 949, 1440, 1494 2, 2395, 2504-quater, 2600, 2818, 2947; 185 2, 198 c.p.; 22 ss. c.p.p.; 55, 60, 64 2, 96, 278 c.p.c.]  12.

 

[1] In tema di responsabilità per danno da prodotto difettoso v. art. 114 d.lg. 6 settembre 2005, n. 206; in tema di danno ambientale v. art. 300 d.lg. 3 aprile 2006, n. 152; in tema di assicurazione obbligatoria della responsabilità civile v. gli artt. 170-172 d.lg. 7 settembre 2005, n. 209.

[2] Per la responsabilità civile della struttura e dell'esercente la professione sanitaria, v. art. 7 l. 8 marzo 2017, n. 24

Inquadramento

La tematica della responsabilità nelle professioni tecniche si inserisce in quella più generale inerente la responsabilità professionale, tanto verso il cliente quanto verso soggetti terzi. Necessita valutarne sia i profili contrattuali sia quelli aquiliani, con quanto ne consegue in termini di differente disciplina sostanziale oltre che di eventuali ripercussioni sul versante processuale. In questa sede si tratteranno i profili inerenti soprattutto le responsabilità inerenti la progettazione e la direzione dei lavori, con particolare riferimento alle professioni di ingegnere, architetto e geometra. Dalla natura contrattuale del rapporto tra il professionista ed il cliente ne discende la natura altrettanto contrattuale della relativa responsabilità, con riferimento all'inadempimento delle nascenti obbligazioni che, normalmente, sono di mezzi e non di risultato.

Con riferimento alle prestazioni d'opera intellettuale, in particolare dell'ingegnere ma non solo, occorre però tenere conto della frequente commistione delle diverse obbligazioni in capo al professionista (in ipotesi anche in capo a distinti soggetti in vista dello stesso scopo finale), le quali possono caratterizzarsi in termini di obbligazioni di mezzi, talune, e di risultato, altre (come precisa Cass. S.U., n. 15781/2009). Il processo di erosione della distinzione tra obbligazioni di mezzi e quelle di risultato origina proprio (anche) dalla risoluzione di questioni giuridiche inerenti la responsabilità professionale dell'ingegnere, quale progettista o direttore dei lavori, con particolare riferimento altresì all'applicazione o meno della disciplina della denuncia dei vizi e delle difformità ex art. 2226 c.c. Sul punto intervengono nel 2005 le citate Sezioni Unite le quali chiariscono che le disposizioni dell'art. 2226 c.c., in tema di decadenza e prescrizione dell'azione di garanzia per vizi dell'opera, sono inapplicabili alla prestazione d'opera intellettuale, in particolare alla prestazione del professionista che abbia assunto l'obbligazione della redazione di un progetto di ingegneria o della direzione dei lavori (ovvero l'uno e l'altro compito). Ciò attesa l'eterogeneità della prestazione rispetto a quella manuale, cui si riferisce l'articolo da ultimo citato, quindi norma non considerabile tra quelle richiamate dall'art. 2230 c.c.

In ordine alla responsabilità (anche) nelle professioni tecniche, in linea con l'orientamento di cui innanzi, la Suprema Corte chiarisce il criterio per la valutazione della diligenza qualificata del professionista, ex artt. 1176 comma 2 e 2236 c.c., ritenendola speciale, rafforzata e di contenuto tanto maggiore quanto più sia specialistica e professionale la prestazione richiesta. Essa Precisa altresì che l'art. 2236 c.c. non esonera affatto il professionista-debitore da responsabilità nel caso di insuccesso di prestazioni complesse ma si limita a dettare un mero criterio per la valutazione della sua diligenza (Cass. S.U., n. 15781/2005; Cass. III, n. 16275/2015; Cass. III, n. 16254/2012). Gli esposti principi in tema di diligenza qualificata sono applicati dalla giurisprudenza di legittimità anche in merito all'incarico di redazione di progetto edilizio esecutivo, con riferimento all'individuazione dei percorsi amministrativi per ottenere il relativo titolo autorizzativo dell'opera, oltre che in ordine alla responsabilità del direttore dei lavori non progettista a seconda che operi su incarico dell'appaltatore o del committente.

Rileva nella specie altresì la c.d. responsabilità decennale dell'appaltatore, ex art. 1669 c.c., in ragione dell'attuale interpretazione della norma di riferimento, in ordine all'attività tecnico-professionale del progettista e del direttore dei lavori, in ipotesi anche concorrente o con quella dell'appaltatore o con quella del committente ovvero con quella del costruttore-venditore.

Il tecnico potrebbe difatti essere chiamato a rispondere nei confronti del proprio cliente (appaltatore o committente) ovvero nei confronti di terzi, con quanto ne conseguirebbe in termini di responsabilità contrattuale o extracontrattuale.

Sin da ora preme però evidenziare che Cass. S.U., n. 7756/2017, nel risolvere la differente questione dell'applicabilità dell'art. 1669 c.c. anche alle ipotesi di interventi di modificazione e di riparazione di immobili già esistenti, sembrerebbe fornire spunti di riflessione in senso contrario rispetto alla natura extracontrattuale della detta responsabilità, ancorché in via incidentale e quale obiter.

(alcune) Professioni tecniche: natura e responsabilità

La tematica della responsabilità nelle professioni tecniche si inserisce in quella più in generale inerente la responsabilità professionale, tanto verso il cliente quanto verso soggetti terzi, e, quindi, necessiterà valutarne sia i profili contrattuali sia quelli aquiliani, con quanto ne consegue in termini di differente disciplina sostanziale oltre che di eventuali ripercussioni sul versante processuale.

In questa sede si tratteranno profili inerenti soprattutto le responsabilità per progettazione e la direzione dei lavori, con particolare riferimento alle professioni di ingegnere, architetto e geometra, in quanto «regolamentate» (ovvero «protette» o «organizzate»). Trattasi difatti di professioni organizzate in ordini professionali ed i cui esercizi sono riservati ai relativi iscritti. In particolare la trattazione muoverà dalla figura dell'ingegnere, in quanto in merito ad essa si registra la maggiore produzione giurisprudenziale e dottrinale, ma i relativi principi saranno suscettibili di applicazione anche con riferimento alle altre due citate figure professionali.

Con riferimento ai tre settori di specializzazione della professione dell'ingegnere (ingegnere civile e ambientale, ingegnere industriale ed ingegnere dell'informazione) le due dette attività (progettazione e direzione dei lavori) sono difatti una costante, come emerge anche dagli artt. 45 e 46 del d.P.R. n. 328/2001, recante modifiche ed integrazioni della disciplina dei requisiti per l'ammissione all'esame di Stato e delle relative prove per l'esercizio di talune professioni nonché della disciplina dei relativi ordinamenti (inerente anche l'attività dell'architetto).

Successivamente alla disamina della responsabilità del professionista «tecnico» in termini contrattuali, derivante dall'inadempimento del contratto di prestazione d'opera intellettuale (professionale), ed alla disamina dei suoi rapporti con la P.A., si considererà la natura della responsabilità di tale tipologia di professionista nei confronti dei terzi oltre che la c.d. «responsabilità aggravata», ex art. 1669 c.c. Preliminarmente necessità però evidenziare la rilevanza della differente competenza professionale tra professionisti tecnici e le conseguenze sul contratto concluso con il cliente.

Il progetto redatto da un geometra in materia riservata alla competenza professionale degli ingegneri è illegittimo, a nulla rilevando né che sia stato controfirmato da un ingegnere né che un ingegnere esegua i calcoli del cemento armato e diriga le relative opere. Il professionista competente deve essere titolare della progettazione, assumendosi la relativa responsabilità. Ne consegue che, nella suddetta ipotesi, il contratto concluso tra il geometra ed il cliente è radicalmente nullo ed al primo non spetta alcun compenso per l'opera svolta, ai sensi dell'art. 2231 c.c (Cass. II, n. 6402/2011; si veda altresì Cass. II, n. 17020/2006, con particolare riferimento ai limiti legali della competenza del geometra circa la progettazione, la direzione e la vigilanza in merito a strutture in cemento armato, concludendo sempre in termini di nullità del contratto concluso in violazione degli stessi; argomenta negli stessi termini anche da Cass. II, n. 5891/1995, la quale esclude profili di incostituzionalità, con riferimento agli artt. 3 e 25 Cost., della normativa inerente le differenti attribuzioni dei geometri rispetto a quelle degli ingegneri). Sul punto torna nuovamente Cass. II, n. 2913/2020, nel ritenere nullo il contratto di affidamento della direzione dei lavori di costruzioni civili ad un geometra, ove la progettazione richieda l'esecuzione, anche parziale, dei calcoli in cemento armato, attività demandata agli ingegneri, attese le limitate competenze attribuite ai geometri dall'art. 16 del r.d. n. 274 del 1929 (in senso conforme la precedente Cass. II, n. 5871/2016).

In ordine ai rapporti tra professionista tecnico e P.A. conferente l'incarico a seconda che si tratti di progettazione o di direzione dei lavori, la giurisprudenza di legittimità chiarisce che l'incarico per la progettazione di opera pubblica affidato a libero professionista non determina l'instaurazione di un rapporto di servizio con l'ente pubblico committente. Esso difatti non implica l'inserimento del professionista privato nell'apparato organizzativo e/o nell'iter procedimentale della P.A. né l'esercizio, da parte di costui, di poteri propri della P.A., diversamente da quanto avviene nell'attività del direttore dei lavori, ove viene in rilievo anche l'imputabilità in via diretta ed immediata alla P.A. dell'attività con rilevanza esterna del soggetto, il quale assume la rappresentanza del committente. L'attività del progettista assume altresì rilevanza pubblica solo in forza dell'approvazione del progetto da parte dell'ente pubblico committente. Ne deriva che, con riferimento alla responsabilità per danni cagionati all'amministrazione dal progettista nell'esecuzione dell'incarico affidatogli, sussiste la giurisdizione del giudice ordinario e non quella della Corte dei conti (Cass.S.U. , n. 3165/2011 e Cass.S.U., n. 5781/2004; nello stesso senso si veda Cass. S.U., n. 340/2003).

L'esistenza di una relazione funzionale tra l'autore dell'illecito causativo di un danno patrimoniale e l'ente pubblico che subisce tale danno, quale presupposto per un addebito di responsabilità amministrativa, devoluto alla cognizione della giurisdizione contabile, è configurabile non solo quando tra i due soggetti intercorra un rapporto di impiego in senso proprio ma anche quando sia comunque ravvisabile un rapporto di servizio in senso lato, tale cioè da collocare il soggetto preposto in condizione di compartecipe dell'attività amministrativa dell'ente pubblico preponente. Ne consegue che, qualora la P.A. abbia affidato in appalto l'esecuzione di un'opera pubblica con contratto regolato dal capitolato generale dello Stato (d.P.R. n. 1063/1962 e relativo regolamento), il rapporto di servizio sussiste anche nei confronti del direttore dei lavori, a nulla rilevando che le relative funzioni siano state affidate a privati estranei agli uffici tecnici dell'ente.

Così argomentando la Suprema Corte ha ritenuto devoluta alla giurisdizione della Corte dei Conti il giudizio di responsabilità per il danno cagionato dal direttore dei lavori in relazione alla totale inutilizzabilità della rete idrica e fognaria di un Comune, atteso il rapporto di servizio configurabile tra il suddetto ente pubblico e il direttore dei lavori, a nulla rilevando che questi ultimi risultassero finanziati da altro ente. L'individuazione del soggetto pubblico che subisce il danno non va difatti compiuta con riguardo all'ente materialmente deputato al finanziamento bensì con riguardo al destinatario finale delle somme, il quale, per effetto dell'illecito, viene privato della utilitas che gli sarebbe derivata da una corretta realizzazione dell'opera pubblica (Cass. S.U., n. 515/2000; nello stesso senso anche Cass. S.U., n. 188/1999, con riferimento ad incarico di direzione dei lavori affidato in ordine ad opera pubblica appaltata da un'amministrazione comunale).

Natura e contenuto della prestazione tecnico-professionale

Dalla natura contrattuale del rapporto tra il professionista ed il cliente ne discende la natura altrettanto contrattuale della relativa responsabilità, con riferimento all'inadempimento delle nascenti obbligazioni che, normalmente, sono di mezzi e non di risultato.

Il professionista, assumendo l'incarico, si impegna ad espletare la sua attività ponendo in essere tutte le condizioni tecnicamente necessarie a consentire al cliente la realizzazione dello scopo perseguito ma (normalmente) non il conseguimento effettivo di tale risultato.

Nelle obbligazioni di mezzi, difatti, la prestazione dovuta prescinde da un particolare esito positivo dell'attività del debitore, il quale, quindi, adempie esattamente ove svolga l'attività richiesta nel modo dovuto (nel caso di prestazioni professionali, non solo prudente e diligente ma anche perita). In tali ipotesi è lo stesso comportamento del debitore ad essere in obbligazione, sicché la diligenza (nella specie, anche la perizia) è tendenzialmente considerata quale criterio determinativo del contenuto del vincolo. Ne consegue altresì che il risultato è caratterizzato dalla aleatorietà in quanto dipendente dal comportamento del debitore ma anche da altri fattori esterni, oggettivi o soggettivi (ex plurimis, proprio con riferimento a responsabilità professionale: Cass. S.U., n. 15781/2005, con riferimento alla prestazione d'opera di ingegnere; Cass. III, n. 8826/2007, ancorché in merito ad attività medica).

Per converso, nelle obbligazioni di risultato ciò che rileva è il conseguimento di esso, laddove la diligenza opera quale parametro di valutazione e controllo del comportamento del debitore, sicché è il risultato al quale mira il creditore ad essere dedotto in obbligazione e non il comportamento del debitore (ex plurimis, Cass. S.U., n. 15781/2005, cit.).

Con particolare riferimento alle prestazioni d'opera intellettuale e, quindi, anche a quelle inerenti le professioni tecniche (tra le quali dell'ingegnere, del geometra e dell'architetto), occorre però tenere conto della frequente commistione delle diverse obbligazioni in capo al professionista (in ipotesi anche in capo a distinti soggetti in vista dello stesso scopo finale), le quali possono caratterizzarsi in termini di obbligazioni di mezzi, talune, e di risultato, altre (come precisa Cass. S.U., n. 15781/2005, proprio in tema di responsabilità professionale dell'ingegnere).

Questa considerazione, in aggiunta ad argomentazioni dottrinali contrarie alla detta distinzione, conduce anche la giurisprudenza ad una rivisitazione della struttura del rapporto obbligatorio con riferimento alle prestazioni d'opera intellettuale ed alla conseguente responsabilità professionale (Cass. S.U., n. 15781/2005).

La distinzione tra le due tipologie di obbligazioni, pur conservando la funzione descrittiva innanzi evidenziata, è difatti superata, in precedenza, quanto meno in tema di riparto dell'onere probatorio, già in forza di un arresto delle Sezioni Unite del 2001, che conferma la centralità del principio della vicinanza della prova, senza distinzione tra obbligazioni di mezzi ed obbligazioni di risultato (Cass. S.U., 13533/2001).

Successivamente il principio di cui innanzi è ulteriormente applicato, proprio con riferimento alle responsabilità professionali, in virtù di un intervento nomofilattico delle Sezioni Unite del 2008. Esse difatti chiariscono che l'inadempimento rilevante nell'ambito dell'azione di responsabilità per risarcimento del danno nelle obbligazioni c.d. di comportamento (o di mezzi) non è qualunque inadempimento bensì solo quella causa (o concausa) efficiente del danno (Cass. S.U., n. 577/2008, in materia di responsabilità medica ed in particolare della struttura sanitaria per danni da emotrasfusioni). L'impostazione tradizionale, fondante sulla distinzione tra obbligazioni di mezzi ed obbligazioni di risultato non è immune da profili problematici, specialmente se applicata proprio alle ipotesi di prestazione d'opera intellettuale, in considerazione della struttura stessa del rapporto obbligatorio e tenendo conto, altresì, che un risultato è dovuto in tutte le obbligazioni.

In realtà, precisa La Suprema Corte, in ogni obbligazione si richiede la compresenza sia del comportamento del debitore che del risultato, anche se in proporzione variabile, con la conseguenza che in ciascuna obbligazione assumono rilievo tanto il risultato pratico da raggiungere attraverso il vincolo quanto l'impegno che il debitore deve porre per ottenerlo.

Dalla casistica giurisprudenziale emergono spunti interessanti in ordine alla dicotomia tra obbligazione di mezzi e di risultato, spesso utilizzata al fine di risolvere problemi di ordine pratico, quali la distribuzione dell'onere della prova e l'individuazione del contenuto dell'obbligo, ai fini del giudizio di responsabilità. Operandosi non di rado, per ampliare la responsabilità contrattuale del professionista, una sorta di metamorfosi dell'obbligazione di mezzi in quella di risultato, attraverso l'individuazione di doveri di informazione e di avviso, definiti accessori ma integrativi rispetto all'obbligo primario della prestazione, ed ancorati a principi di buona fede, quali obblighi di protezione, indispensabili per il corretto adempimento della prestazione professionale in senso proprio (per un esempio di tale attività giurisprudenziale si veda, per quanto riguarda la responsabilità professionale del medico, Cass. III, n. 9471/2004).

Ne consegue che, per valutare l'adempimento da parte del professionista, necessita muovere dal criterio della diligenza esigibile, ai sensi degli artt. 1176 comma 2 e 2236 c.c. che, in quanto rapportata alla natura dell'attività esercitata, è quella del professionista di preparazione tecnica e di attenzione medie con particolare riferimento alla specifica attività espletata (ex plurimis, con riferimento all'attività professionale: Cass. S.U., n. 15781/2005, in ordine alla professione di ingegnere; Cass. III, n. 13007/2016, con riferimento alla responsabilità del commercialista; Cass. III, n. 16990/2015, relativamente alla responsabilità del notaio; Cass. II, n. 16023/2002, con riferimento alla responsabilità dell'avvocato).

La dottrina tradizionale riconduce quelle professionali nell'abito della categoria delle obbligazioni di mezzi e non di risultato, facendone discendere la natura di responsabilità di tipo soggettivo fondata sulla colpa (D'Amico, 105). Ne consegue la riconducibilità della mancata realizzazione del risultato a causa non imputabile al debitore, sul quale graverebbe il solo onere probatorio di dimostrare la condotta diligente e perita (in quanto adottata in base a cognizioni tecniche inerenti la qualificazione professionale posseduta), in base alla natura dell'attività intellettuale richiesta ed alle relative regole dell'arte (in termini generali, per l'utilità della distinzione tra obbligazioni di mezzi ed obbligazioni di risultato, si veda, diffusamente, Trimarchi).

Altra dottrina, che sembra progressivamente informare la giurisprudenza anche in tema di responsabilità professionali, assume invece posizioni critiche sull'utilizzo della distinzione tra obbligazioni di mezzi e di risultato (al di là della rilevanza dogmatica e classificatoria). Essa, ancorché operante soltanto all'interno della categoria delle obbligazioni di fare (a differenza che in Francia dove rappresenta una summa divisio valida per tutte le obbligazioni), origina contrasti sia in ordine all'oggetto o contenuto dell'obbligazione sia in relazione all'onere della prova e, quindi, in definitiva, allo stesso fondamento della responsabilità del professionista.

La distinzione tra le obbligazioni di mezzi e le obbligazioni di risultato non si fonderebbe quindi sulla diversità di oggetto delle obbligazioni, assistendosi ad una scissione tra interesse primario del creditore e risultato dovuto dal debitore, concretizzandosi nel comportamento idoneo al raggiungimento del risultato voluto dal creditore, con l'unica effettiva differenza da individuarsi nella sola diversa identificazione dei temi di prova dell'inadempimento (Mengoni, 185-280; Piraino, 2008, 115; Piraino, 2011, 576).

In generale, quindi, anche con riferimento alle prestazioni d'opera intellettuale (professionale) ma non solo, autorevole dottrina, ritenendo che non sussistano obbligazioni con riferimento alle quali il debitore debba assicurare il risultato a prescindere dalla diligenza dallo stesso esigibile, essendo la diligenza regola generale del diritto delle obbligazioni, sostiene che la distinzione tra le due obbligazioni rilevi sull'oggetto del giudizio d'impossibilità della prestazione ex art. 1218 c.c. Nelle obbligazioni di mezzi, in particolare, il debitore sarebbe liberato nel caso di impossibilità della specifica attività dedotta in obbligazione (sempre strumentale al soddisfacimento dell'interesse/risultato creditorio). Per converso, nelle obbligazioni di risultato la liberazione del debitore consegue alla prova dell'impossibilità della realizzazione della finalità dedotta in obbligazione mediante qualunque condotta strumentale ad essa esigibile dal creditore (Bianca, 1993, 74).

Argomentando nei detti termini, l'orientamento da ultimo considerato, conclude nel senso che anche nelle obbligazioni nascenti da contratto di prestazione d'opera intellettuale, il fine del creditore, dedotto in obbligazione, non si identifica nella mera conformità della condotta del debitore alle regole di diligenza e di perizia del tecnico di media attenzione e preparazione bensì nelle conseguenze positive per il cliente che dovrebbero derivare dall'opera secondo un nesso di derivazione naturale, nel rispetto delle regole dell'arte ed in assenza di fattori imprevedibili ed inevitabili tali da rendere impossibile il conseguimento del risultato (Castronovo, 117-121, per il quale è necessaria la valorizzazione del criterio della diligenza, quale regola tecnica del professionista medio; Di Majo, 1998, 40, in generale, sulla distinzione tra obbligazioni di mezzi e di risultato; si veda anche, con riferimento all'origine francese della distinzione, Viney, 628; sempre circa la generale distinzione tra le due tipologie di obbligazioni, si vedano, tra i tanti: De Lorenzi, 397; Mengoni, 185-280, e Sicchiero, 2322, il quale, dopo attenta disamina delle contrapposte tesi dottrinali, anche francesi, circa la distinzione tra obbligazioni di mezzi e di risultato, con particolare riferimento alle attività professionali, propone una ricostruzione alternativa che si fonda sulla diversa distinzione tra obbligazioni governabili ed obbligazioni non governabili; con particolare riferimento alle implicazioni della distinzione tra le due tipologie di obbligazioni circa l'attività professionale tecnica di ingegnere e di architetto, si vedano, rispettivamente, Rinaldi, 3 gennaio 2017, e Rinaldi, 20 gennaio 2017; per gli obblighi di informazione caratterizzanti l'attività professionale – in specie del notaio – si veda, per tutti, Celeste, 386; per il dialogo dottrinal-giurisprudenziale circa la natura dell'obbligazione del professionista, tra obbligazione di mezzi ed obbligazione di risultato, con particolare riferimento alle conseguenze in tema di riparto dell'onere probatorio ed all'attuale diversità dell'elaborazione giurisprudenziale in merito all'atteggiarsi del detto riparto – in specie circa la responsabilità medica e dell'avvocato –, si veda Scalia-Centofanti, 242).

L'erosione con particolare riferimento alla direzione dei lavori ed al progetto di ingegneria.

Il processo di erosione della distinzione tra obbligazioni di mezzi e quelle di risultato, come detto, origina proprio (anche) dalla risoluzione di questioni giuridiche inerenti la responsabilità professionale dell'ingegnere, quale progettista o direttore dei lavori, con particolare riferimento altresì all'applicazione o meno della disciplina della denuncia dei vizi e delle difformità ex art. 2226 c.c.

Prima del richiamato intervento delle Sezioni Unite del 2005, difatti, l'orientamento dominante della giurisprudenza di legittimità sosteneva la natura di obbligazione di risultato con riferimento all'incarico di progettazione e la natura di obbligazione di mezzi in ordine all'incarico di direzione dei lavori, con conseguente distinzione circa l'oggetto dell'obbligazione, il comportamento del professionista e la valutazione di esso ai fini del giudizio di responsabilità verso il cliente. Nel caso di incarico di direzione dei lavori, implicante obbligazione di mezzi, la diligenza era ritenuta non solo elemento e parametro di valutazione della condotta del debitore ma anche oggetto stesso dell'obbligazione, andando quindi esente il professionista in forza della mera dimostrazione di aver adottato un comportamento diligente ex art. 1176 comma 2 c.c., con conseguente caratterizzazione del riparto dell'onere probatorio.

Per converso, per l'incarico di progettazione oggetto dell'obbligazione, sempre secondo il detto orientamento prima dominante, era ritenuto il risultato progettuale, con conseguente valutazione dell'adempimento del creditore in base al raggiungimento del risultato, costituendo la diligenza solo parametro di valutazione del comportamento del debitore ed un mezzo per conseguire il risultato. Sicché, il creditore, attore in risarcimento danni, avrebbe dovuto dimostrare il dato oggettivo della mancata realizzazione del progetto ed era legittimato il ricorso all'eccezione di inadempimento di cui all'art. 1460 c.c. Si argomentava in particolare dal disposto di cui all'art. 2230 comma 1 c.c., per il quale al contratto d'opera professionale si applicano oltre agli artt. 2229 e ss. c.c. (relativi alle opere intellettuali) anche le norme previste per il contratto d'opera (artt. 2222 e ss. c.c.), in quanto compatibili con queste e con la natura del rapporto. Il progetto era quindi ritenuto assimilabile ad un'opera manuale (si vedano, per il detto orientamento in principio dominante, ex plurimis: Cass. II, n. 1294/2003; Cass. II, n. 15124/2001; Cass. I, n. 1530/1996; Cass. II, n. 12820/1992; si veda, per l'applicabilità dell'art. 1460 c.c., ex plurimis, Cass. I, n. 22487/2004).

Importante conseguenza della distinzione di cui innanzi, che ha poi costituito specifico motivo di intervento delle citate Sezioni Unite del 2005, ineriva l'applicabilità della disciplina dei vizi e delle difformità dell'opera, di cui all'art. 2226 c.c. Essa era ritenuta difatti operante solo con riferimento all'incarico di progettazione, proprio perché implicante un'obbligazione di risultato ed assimilabile ad un'opera manuale, e non anche con riferimento all'incarico di direzione dei lavori, in quanto fonte di obbligazione di mezzi e non di risultato. Erano fatte salve le ipotesi di cumulo in capo al medesimo professionista (ingegnere, geometra o architetto) dei due incarichi di progettazione e di direzione dei lavori, ritenendo il detto cumulo fonte di obbligazione di mezzi, con conseguente inapplicabilità della disciplina di cui all'art. 2226 c.c. (si vedano, ex plurims, Cass. II, n. 1294/2003; Cass. II, n. 12820/1992).

Il contrapposto orientamento invece riteneva che l'art. 2226 c.c. non fosse applicabile al contratto di prestazione di opera professionale intellettuale. Essa, pur in ipotesi concretizzandosi in una cosa visibile, quale appunto il progetto, ha comunque per oggetto la prestazione di un bene immateriale in relazione al quale non sono percepibili, come invece per i beni materiali, le difformità o i vizi eventualmente presenti. Il complesso di grafici, disegni, e calcoli rappresenta, infatti, solo il corpus mechanicum in cui la prestazione intellettuale si estrinseca, onde essere utilizzata dal committente (si veda, ex plurimis, per le decisioni antecedenti all'intervento nomofilattico delle sezioni Unite del 2005: Cass. II, 4704/1997).

Come evidenziato nel paragrafo precedente, sul punto intervengono nel 2005 la Sezioni Unite con argomentazioni tali da continuare il processo di erosione della rilevanza della distinzione tra obbligazioni di mezzi ed obbligazioni di risultato. Esse, sulla specifica questione in esame, chiariscono difatti che le disposizioni dell'art. 2226 c.c., in tema di decadenza e prescrizione dell'azione di garanzia per vizi dell'opera, sono inapplicabili alla prestazione d'opera intellettuale, in particolare alla prestazione del professionista che abbia assunto l'obbligazione della redazione di un progetto di ingegneria o della direzione dei lavori (ovvero l'uno e l'altro compito), attesa l'eterogeneità della prestazione rispetto a quella manuale, cui si riferisce l'articolo da ultimo citato, quindi norma non considerabile tra quelle richiamate dall'art. 2230 c.c. La Suprema Corte esclude altresì che il criterio risolutivo ai fini dell'applicabilità delle predette disposizioni alle prestazioni in questione possa essere costituito dalla distinzione tra obbligazioni di mezzi ed obbligazioni di risultato, invece priva di incidenza sul regime di responsabilità del professionista, in considerazione anche della frequente commistione, rispetto alle prestazioni professionali in questione, delle diverse obbligazioni in capo al medesimo o a distinti soggetti in vista dello stesso scopo finale, a fronte della quale una diversità di disciplina normativa risulterebbe ingiustificata (Cass. S.U., n. 15781/2005).

Nel caso di ritardo nella consegna di immobile conseguente all'inadempimento di incarico d'opera professionale (nella specie, progettazione e direzione dei lavori di costruzione) il danno subito dal proprietario non può ritenersi sussistente in re ipsa, atteso che tale concetto giunge ad identificare il danno con l'evento dannoso ed a configurare un vero e proprio danno punitivo, ponendosi così in contrasto sia con l'insegnamento delle Sezioni Unite della S.C. (Cass. S.U.,   n. 26972/2008) secondo il quale quel che rileva ai fini risarcitori è il danno-conseguenza, che deve essere allegato e provato, sia con l'ulteriore e più recente intervento nomofilattico (Cass. S.U., n. 16601/2017) che ha riconosciuto la compatibilità del danno punitivo con l'ordinamento solo nel caso di espressa sua previsione normativa, in applicazione dell'art. 23 Cost.; ne consegue che è onere del proprietario provare di aver subito un'effettiva lesione del proprio patrimonio per non aver potuto locare l'immobile ovvero per aver perso l'occasione di venderlo a prezzo conveniente o per aver sofferto altre situazioni pregiudizievoli, con valutazione rimessa al giudice del merito, che può al riguardo avvalersi di presunzioni, sulla base però di elementi indiziari allegati dallo stesso danneggiato, diversi dalla mera mancata disponibilità o godimento del bene (nei detti termini sostanzialmente si esprime Cass. III, n. 31233/2018).

Nella materia che ci occupa, Cass. III, n. 25780/2019 è intervenuta in tema di responsabilità solidale del progettista e del collaudatore.

In merito, per la responsabilità solidale dei danneggianti, l'art. 2055, comma 1, c.c., secondo il Giudice di legittimità, richiede solo che il fatto dannoso sia imputabile a più persone, ancorché le condotte lesive siano fra loro autonome e pure se diversi siano i titoli di responsabilità di ciascuna di tali persone ed anche nel caso in cui siano configurabili titoli di responsabilità contrattuale ed extracontrattuale, atteso che l'unicità del fatto dannoso considerata dalla norma suddetta deve essere riferita unicamente al danneggiato e non va intesa come identità delle norme giuridiche da essi violate (ex plurimis, anche Cass. III, n. 1070/ 2019). Ciò che rileva, dunque, è l'unicità del fatto dannoso, non già l'identità delle condotte lesive, che ben possono essere non solo diverse tra loro, ma altresì prive di collegamento psicologico (Cass. III, n. 18899/2015). Dai principi di cui innanzi la statuizione in esame ritiene che correttamente dunque è istituito un vincolo di solidarietà tra la condotta del progettista e quella del collaudatore, quando entrambe abbiano contributo al medesimo evento (nella specie, il crollo di un capannone), poco importando che il titolo di tale contributo possa dirsi diverso.

Parimenti, il vincolo di responsabilità solidale fra l'appaltatore ed il progettista e direttore dei lavori, i cui rispettivi inadempimenti abbiano concorso in modo efficiente a produrre il danno risentito dal committente, trova fondamento nel principio di cui all'art. 2055 c.c., il quale, anche se dettato in tema di responsabilità extracontrattuale, si estende all'ipotesi in cui taluno degli autori del danno debba rispondere a titolo di responsabilità contrattuale. In questi termini dispone Cass. II, n. 18289/2020 (per la quale, peraltro, In tema di appalto, gli edifici e le altre cose immobili “destinate per la loro natura a lunga durata” menzionate dall'art. 1669 c.c. sono suscettibili di identificazione attraverso il riferimento all'art. 812 c.c. che, rimandando a immobili e costruzioni incorporate al suolo non a scopo transitorio, senz'altro ricomprende nel proprio perimetro anche i bacini idrici) e nello stesso senso, in precedenza, Cass. II, 29218/2017 .  Quest'ultima, in applicazione del detto principio, ha confermato la sentenza di merito, che aveva riconosciuto la responsabilità solidale del progettista e direttore dei lavori e dell'appaltatore per i difetti della costruzione che avevano determinato infiltrazioni d'acqua, ponendo a carico del primo l'identica obbligazione risarcitoria del secondo, avente ad oggetto le opere necessarie all'eliminazione dei vizi ed all'esecuzione dell'opus a regola d'arte).

In tema di appalto, la consegna del bene all'appaltatore non fa venir meno il dovere di custodia e di vigilanza gravante sul committente, sicché questi resta responsabile, alla stregua dell'art. 2051 c.c., dei danni cagionati ai terzi dall'esecuzione dell'opera salvo che provi il caso fortuito, quale limite alla detta responsabilità oggettiva, che può coincidere non automaticamente con l'inadempimento degli obblighi contrattualmente assunti nei confronti del committente bensì con una condotta dell'appaltatore imprevedibile e inevitabile nonostante il costante e adeguato controllo (esercitato – se del caso – per il tramite di un direttore dei lavori). In applicazione del principio Cass. III, n. 7553/2021, ha confermato la sentenza di merito che aveva accertato la responsabilità solidale del committente per i danni cagionati a terzi nell'esecuzione di un'opera pubblica, ritenendo irrilevante, ai fini della prova liberatoria ex art. 2051 c.c., il mero inadempimento dell'appaltatore agli obblighi contrattualmente assunti nei  confronti del committente. La citata Statuizione si pone nella scia interpretativa di Cass. II, n. 11671/2018 la quale, ribadendo quanto statuito da Cass. III, n. 15734/2011, ha rricordato che nel caso di appalto che non implichi il totale trasferimento all'appaltatore del potere di fatto sull'immobile nel quale deve essere eseguita l'opera appaltata, non viene meno per il committente e detentore del bene il dovere di custodia e di vigilanza e, con esso, la conseguente responsabilità ex art. 2051 c.c. che, essendo di natura oggettiva, sorge in ragione della sola sussistenza del rapporto di custodia tra il responsabile e la cosa che ha determinato l'evento lesivo. Nel caso specifico è stato ritenuto che il lastrico solare, indipendentemente dalla sua consegna all'appaltatore, rimanga sempre nella disponibilità del condominio committente per via della sua funzione primaria di copertura e protezione delle sottostanti strutture murarie.

In merito alla responsabilità professionale del collaudatore in corso d'opera è invece intervenuta Cass. III, n. 12869/2021, con riferimento alla l.r. Campania n. 9 del 1983. Dall'oggetto della normativa, che concerne la vigilanza sulle costruzioni, sopraelevazioni, ampliamenti e riparazioni ai fini della prevenzione del rischio sismico (art.1), nonché dagli specifici compiti, di preventivo calcolo e di successivo controllo, attribuiti a tale figura professionale (art.5) si desume in particolare che il presupposto necessario dell'insorgere della fattispecie di responsabilità è costituito dall'avvenuto inizio dei lavori dal momento che sia l'esercizio della vigilanza che la previa effettuazione dei calcoli statici, oltre al controllo dei particolari esecutivi non possono essere esigibili e valutabili prima dell'inizio della costruzione, dell'ampliamento o della ristrutturazione, non potendo il collaudatore non può essere chiamato a rispondere per I danni conseguenti ad attività compiute nell'ambito del cantiere ma estranee alle specifiche prestazioni a lui demandate.

Diligenza, prudenza, perizia e limitazione di responsabilità

Il rigoroso criterio di accertamento della colpa professionale, di cui all'art. 1176 comma 2 c.c., implica che la nozione di professionista (anche tecnico) medio, secondo il costante insegnamento della Suprema Corte, sottende un professionista «bravo, serio, preparato, zelante ed efficiente», cioè non già il professionista mediocre bensì quello di elevata professionalità (ex plurimis, in tema di responsabilità medica, Cass. III, n. 24213/2015; Cass. III, n. 17143/2012).

Per negligenza deve difatti oggi intendersi la violazione di regole sociali (nella specie caratterizzanti anche l'attività del notaio) e non solo la mera disattenzione. L'imprudenza è intesa quale violazione delle modalità imposte delle regole sociali per l'espletamento di certe attività mentre l'imperizia implica violazione delle regole tecniche di settori determinati della vita di relazione (nella specie quelle inerenti le regole tecniche sottese all'attività professionale in esame), non essendo più connessa alla mera insufficiente attitudine all'esercizio di arti e professioni (ex plurimis, Cass. III, n. 9471/2004, in materia di responsabilità professionale – nella specie, medica).

Emblematicamente, autorevole dottrina evidenzia che la diligenza ha la funzione di misurare l'obbligo al quale il soggetto è tenuto, riscontrando che in merito alle responsabilità professionali (nella specie, medica) la giurisprudenza si orienta in termini rigorosi circa la valutazione della diligenza (Bianca, 1990, 478). La diligenza del professionista consiste nel rispetto di quel complesso di norme/tecniche che caratterizzano l'esecuzione di una prestazione d'opera intellettuale (in merito si veda, diffusamente, Di Majo, 1988; per il modo di atteggiarsi della diligenza qualificata nelle prestazioni d'opera intellettuale, con particolare riferimento all'attività professionale tecnica di ingegnere e di architetto, si vedano, rispettivamente, Rinaldi, 3 gennaio 2017, e Rinaldi, 20 gennaio 2017).

In ordine alla responsabilità (anche) nelle professioni tecniche, in linea con l'orientamento di cui innanzi, la Suprema Corte chiarisce il criterio per la valutazione della diligenza qualificata del professionista, exartt. 1176 comma 2 e 2236 c.c., ritenendola speciale, rafforzata e di contenuto tanto maggiore quanto più sia specialistica e professionale la prestazione richiesta. Essa precisa altresì che l'art. 2236 c.c. non esonera affatto il professionista-debitore da responsabilità nel caso di insuccesso di prestazioni complesse ma si limita a dettare un mero criterio per la valutazione della sua diligenza (ex plurimis: per quanto riguarda le professioni tecniche, Cass. S.U., n. 15781/2005; in merito ad attività di progettazione di ingegnere o di architetto, Cass. III, n. 1627572015; in ordine ad attività di progettazione eseguita da un ingegnere; Cass. III, n. 13007/2016 e Cass. III, n. 14639/2015, con riferimento alla responsabilità del commercialista; Cass. III, n. 16990/2015, in ordine all'attività del notaio; Cass. II, n. 14597/2004 e Cass. II, n. 16023/2002, con riferimento alla responsabilità professionale dell'avvocato, nonché, in termini generali circa la diligenza qualificata ex art. 1176 comma 2 c.c. ed i suoi rapporti con l'art. 2236 c.c., ancorché nella specie in materia di contratto di appalto, Cass. III, n. 16254/2012).

Al professionista (ancor più se specialista), difatti, è richiesta una diligenza «particolarmente qualificata» dalla perizia e dall'impiego di strumenti tecnici adeguati al tipo di attività da espletare ed allo standard professionale della categoria di appartenenza. L'impegno dovuto dal professionista, pur se superiore a quello del comune debitore, va considerato corrispondente alla diligenza non del buon padre di famiglia bensì a quella normale in relazione alla specifica attività professionale o lavorativa esercitata, in quanto deve impiegare perizia e mezzi tecnici di cui allo standard di categoria. Sicché, è proprio il detto standard che concorre a determinare il contenuto della perizia dovuta e la corrispondente misura dello sforzo di diligenza adeguato per conseguirlo oltre che del relativo grado di responsabilità (Cass. III, n. 7682/2015, in materia di responsabilità professionale – medica sul punto si veda, più di recente, anche Cass. III, n. 11208/2017, con particolare riferimento alla diligenza esigibile, ex art. 1176 comma 2 c.c., da una struttura sanitaria altamente specializzata nell'attività da compiere, anche con riferimento al contenuto dell'obbligo di informazione al fine di garantire la libertà di autodeterminazione del paziente).

In questi termini si veda, proprio con riferimento alle attività tecnico-professionali (ingegnere ed architetto) Cass. S.U., n. 15781/2005, per la quale la distinzione tra obbligazioni di mezzi e di risultato non ha incidenza sul regime di responsabilità, essendo richiesto al professionista di attestarsi a parametri molto rigidi di professionalità, in quanto il suo standard di diligenza è cresciuto, comprimendo di conseguenza l'area della colpa grave circa i problemi tecnici di speciale difficoltà di cui all'art. 2236 c.c.

Nel detto concetto di diligenza qualificata rientrerebbero poi, per giurisprudenza dominante, anche i c.d. obblighi intermedi, tra i quali l'obbligo di informazione, anche se una parte della giurisprudenza non li colloca nell'ambito dell'oggetto della prestazione d'opera professionale, ritenendoli rilevanti quali obblighi di buona fede oggettiva o correttezza, in forza di un generale principio di solidarietà sociale (art. 2 Cost.) che, se violato, implica il sorgere di responsabilità (contrattuale ma anche, in ipotesi, extracontrattuale). Tali obblighi si concretizzano anche nel mantenere un comportamento leale, osservando obblighi di informazione e di avviso nonché di salvaguardia dell'utilità altrui, nei limiti dell'apprezzabile sacrificio, dalla cui violazione conseguono profili di responsabilità in ordine a falsi affidamenti anche solo colposamente ingenerati da terzi (ex plurimis, tra le più recenti: Cass. III, n. 16990/2015, circa la responsabilità del notaio; Cass. III, n. 7682/2015, con riferimento alla responsabilità professionale del medico; in termini generali, in ordine ai limiti dell'appezzabile sacrificio, Cass. S.U., n. 28056/2008).

In tema di responsabilità professionale, in definitiva, la relazione tra gli artt. 1176 e 2236 c.c. è di integrazione per complementarietà e non già per specialità, cosicché vale come regola generale quella della diligenza del buon professionista (art. 1176 comma 2 c.c.), con riguardo alla natura dell'attività prestata. Nel caso in cui la prestazione implichi invece la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà opera la successiva norma dell'art. 2236 c.c., delimitando la responsabilità professionale al dolo o alla colpa grave e non anche alla colpa lieve. Sicché, solo attraverso l'integrazione delle due citate norme potrà operarsi una valutazione complessiva della condotta del professionista.

Tale rapporto è tradizionalmente letto dalla Suprema Corte nel senso che la responsabilità del professionista presuppone la violazione dei doveri inerenti allo svolgimento della professione, tra i quali il dovere di diligenza da valutarsi in riferimento alla natura della specifica attività esercitata, che comporta anche il rispetto degli accorgimenti e delle regole tecniche obbiettivamente connesse all'esercizio della professione e ricomprende, pertanto, anche la perizia.

La limitazione di responsabilità di cui all'art. 2236 c.c. opera quindi solo ove il caso concreto richieda un impegno intellettuale superiore a quello professionale medio, con conseguente presupposizione di preparazione e dispendio di attività anche esse superiori alla media (ex plurimis, Cass. III, n. 16990/2015, anche se con riferimento alla professione del notaio).

Il detto riferimento ai problemi tecnici di speciale difficoltà, poi, non ricomprende solo la necessità di risolvere problemi insolubili o assolutamente aleatori ma anche l'esigenza di affrontare problemi tecnici nuovi, di speciale complessità, che richiedano un impegno intellettuale superiore alla media, o che non siano ancora adeguatamente studiati dalla scienza.

In applicazione del principio, proprio con riferimento ad un caso di attività tecnico-professionale, la Suprema Corte ha confermato la sentenza di merito che aveva riconosciuto la responsabilità di un ingegnere, redattore di un progetto di sopraelevazione di un fabbricato, di cui aveva garantito la fattibilità, senza avere acquisito una completa conoscenza delle strutture di fondazione né dell'originario progetto dell'edificio, ravvisando in tale contegno gli estremi della colpa grave (Cass. III, n. 16275/2015).

La distinzione fra prestazione di facile esecuzione e prestazione implicante soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà rileva, in definitiva, soltanto ai fini della valutazione del grado di diligenza (rectius: perizia) e del corrispondente grado di colpa, spettando invece al professionista (anche tecnico), che invochi la limitazione di responsabilità in esame, la prova della particolare difficoltà della prestazione, in conformità con il principio di generale «favor» per il creditore danneggiato cui l'ordinamento è informato. Per esso chi agisce in giudizio, deducendo l'inesatto adempimento dell'obbligazione professionale, deve difatti provare il contratto (o il «contatto sociale qualificato», ove rilevante) ed allegare l'inadempimento del professionista, restando a carico dell'obbligato l'onere di provare l'esatto adempimento (sull'onere probatorio si veda, per il professionista avvocato, Cass. II, n. 5928/2002 e per gli altri professionisti – anche tecnici – si vedano i riferimenti di seguito riportati nel presente paragrafo ed in quello specificamente riguardante tale tematica; per la responsabilità da «contatto sociale» del geometra si veda Cass. II, n. 29711/2020, che ha ribadito il principio per il quale la cosiddetta responsabilità da «contatto sociale», soggetta alle regole della responsabilità contrattuale, pur in assenza d'un vincolo negoziale tra danneggiante e danneggiato, è configurabile non in ogni ipotesi in cui taluno, nell'eseguire un incarico conferitogli da altri, nuoccia a terzi, come conseguenza riflessa dell'attività così espletata, ma soltanto quando il danno sia derivato dalla violazione di una precisa regola di condotta, imposta dalla legge allo specifico fine di tutelare i terzi potenzialmente esposti ai rischi dell'attività svolta dal danneggiante, tanto più ove il fondamento normativo della responsabilità si individui nel riferimento dell'art. 1173 c.c. agli altri atti o fatti idonei a produrre obbligazioni in conformità dell'ordinamento giuridico).

La giurisprudenza di legittimità chiarisce però che la limitazione della responsabilità alla sola colpa grave (oltre che al dolo), di cui all'art. 2236 c.c., opera con riferimento al solo parametro della perizia.

Ciò è affermato, proprio in tema di limitazione della responsabilità professionale ritenendo che essa, a norma dell'art. 2236 c.c., si applichi nelle sole ipotesi che presentino problemi tecnici di particolare difficoltà e che, in ogni caso, attenga esclusivamente all'imperizia e non all'imprudenza o alla negligenza. Ne consegue che risponde anche per colpa lieve il professionista che, nell'esecuzione della sua prestazione, provochi un danno per omissione di diligenza o per comportamento imprudente (ex plurimis, proprio con riferimento alla responsabilità professionale: in merito a quella del notaio, Cass. III, n. 22398/2011, Cass. II, n. 4427/2005, Cass. II, n. 1228/2003 e Cass. III, n. 5946/1999; in ordine alla responsabilità medica, Cass. III, n. 4797/2007, Cass. III, n. 9085/2006, Cass. III, n. 11440/1997; con riferimento a quella dell'avvocato, Cass. III, n. 6937/1996).

L'operatività della limitazione della responsabilità di cui all'art. 2236 c.c.alla sola ipotesi dell'imperizia, è avallata anche dalla Consulta (Corte cost., n. 166/1973). Essa, nel non ritenere fondata, in relazione all'art. 3 Cost., la questione di legittimità costituzionale degli artt. 589 e 42 c.p., nella parte in cui consentono che nella valutazione della colpa professionale il giudice attribuisca rilevanza penale soltanto a gradi di colpa di tipo particolare, precisa che il differente trattamento giuridico riservato al professionista la cui prestazione d'opera implichi la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, e ad ogni altro agente che non si trovi nella stessa situazione, non può dirsi collegato puramente e semplicemente a condizioni (del soggetto) personali o sociali. La deroga alla regola generale della responsabilità penale per colpa ha difatti in sé una sua adeguata ragione di essere e poi risulta ben contenuta, in quanto è operante, ed in modo restrittivo, in tema di perizia e questa presenta contenuto e limiti circoscritti.

Sul versante processuale, Cass. II, n. 18275/2014 ritiene che nel giudizio di responsabilità per inadempimento contrattuale del professionista (nella specie, fondato sull'asserita insufficienza dell'opera di un ingegnere edile nell'approntare i rimedi preventivi alle infiltrazioni d'acqua in un fabbricato), non costituisce mutamento della domanda ma semplice emendatio libelli l'allegazione di profili di inadeguatezza della prestazione diversi da quelli inizialmente prospettati (nella specie, relativi alla mancata previsione di un fenomeno di risalita per capillarità d'acqua), restando immutato il fatto giuridico invocato a causa petendi del risarcimento.

La dottrina concorda con la giurisprudenza nel ritenere che la limitazione di responsabilità di cui all'art. 2236 c.c., alle sole ipotesi di dolo o colpa grave in caso di prestazione implicante risoluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà, riguardi soltanto la competenza tecnica, applicandosi, di conseguenza, alle sole ipotesi di imperizia e non anche di imprudenza e negligenza (Zana, 1991, 4; Zana, 1987, 162, il quale evidenzia che l'art. 2236 c.c. integra la codificazione di una regola giurisprudenziale consolidatasi nella vigenza del precedente codice, facendo riferimento anche a Cass. S.U., 8 marzo 1937, in Resp. civ. e prev., 1937, 314; Perulli, 592, che evidenzia la necessità, nell'applicazione della norme di cui all'art. 2236 c.c., di considerare l'esistenza di specializzazioni in determinate materie, negli stessi termini, in precedenza ma con particolare riferimento al professionista legale, Pensa, 39).

Tale limitazione non opera, peraltro, nel caso di professionista generico che consapevolmente, nella risoluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà, non consulti il professionista specialista, salvo che la stessa difficoltà non sia riconoscibile dal professionista medio o nona sia possibile ricorrere allo specialista ovvero che la difficoltà comunque sussista anche per i professionisti di livello superiore a quello medio (Cattaneo, 76). La stessa definizione di speciale difficoltà, riferita ai problemi tecnici di cui al citato art. 2236 c.c., non è definibile in termini generali ed astratti ma solo con riferimento al caso concreto ed in merito alla qualificazione soggettiva del professionista (Giacobbe, 1084). Sicché, il rapporto tra le due norme, gli artt. 1176 comma 2 e 2236 c.c., deve intendersi in termini non di specialità bensì di complementarietà, cioè nel senso che le due norme si integrerebbero.

Diligenza qualificata e progetto edilizio esecutivo.

Gli esposti principi in tema di diligenza qualificata sono applicati dalla giurisprudenza di legittimità anche in merito all'incarico di redazione di progetto edilizio esecutivo e con riferimento all'individuazione dei percorsi amministrativi per ottenere il relativo titolo autorizzativo dell'opera. Rientrano difatti nell'obbligo di diligenza a carico del prestatore di opera professionale, in forza degli artt. 1176 comma 2 e 2236 c.c., sia il risultato finale mirante a soddisfare l'interesse del creditore (committente) sia i mezzi necessari per realizzarlo, tramite l'adozione di determinate modalità di attuazione che esigono il rispetto delle regole professionali in funzione del raggiungimento del risultato finale.

il progetto in oggetto, sino a quando non materialmente realizzato, costituisce una fase preparatoria, strumentalmente preordinata alla concreta attuazione dell'opera. ma sul piano tecnico-giuridico, il progettista deve pur sempre assicurarne la conformità alla normativa urbanistica ed individuare in termini corretti la procedura amministrativa da utilizzare, così da assicurare la preventiva e corretta soluzione dei problemi che precedono e condizionano la realizzazione dell'opera richiesta dal committente (ex plurimis: Cass. II, 23342/2013; Cass. I, n. 2257/2007; Cass. I, n. 22487/2004; Cass. II, n. 11728/2002). Spetta quindi al professionista anche la scelta del percorso amministrativo da seguire per ottenere il titolo autorizzativo all'esecuzione dell'opera di cui al progetto esecutivo, in relazione al tipo di intervento edilizio progettato, trattandosi di attività qualificata da una specifica competenza tecnica e non mero adempimento burocratico (Cass. II, 23342/2013, con riferimento ad ottenimento di nulla osta da parte del Genio Civile al fine degli adempimenti relativi alla normativa antisismica).

Sicché, quando il contratto d'opera concerne la redazione di un progetto edilizio destinato all'esecuzione, tra gli obblighi del professionista rientra quello di redigere un progetto conforme, oltre che alle regole tecniche, anche alle norme giuridiche che disciplinano le modalità di edificazione su di un dato territorio, in modo da non compromettere il conseguimento del provvedimento amministrativo che abilita all'esecuzione dell'opera, essendo questa qualità del progetto una delle connotazioni essenziali di un tale contratto di opera professionale. Ne consegue, chiarisce Cass. II, n. 23342/2013, che il mancato perfezionamento dell'iter amministrativo (nella specie necessario per garantire l'idoneità sotto il profilo sismico dell'edificio progettato, come previsto dalla normativa vigente), compromettendo il positivo esito della procedura amministrativa volta ad assicurare la realizzazione dell'opera, integra inadempimento caratterizzato da colpa grave e quindi fonte di responsabilità del progettista nei confronti del committente per il danno da questi subito in conseguenza della mancata o comunque ritardata realizzazione dell'opera. Nella specie è stata ritenuta non corretta la decisione del giudice di merito che, per escludere la colpa del professionista, aveva definito gli adempimenti di cui innanzi di ordine burocratico e, come tali, atti necessariamente riservati alla committente, facendo leva su una lettura formalistica degli obblighi di spettanza del progettista – nominato anche direttore dei lavori –, per il cui compimento occorreva dunque, a detta del giudice di merito, una espressa delega della committente per l'attivazione della procedura avanti al Genio Civile. Per converso, la Suprema Corte ha considerato quella attività ricompresa nell'originario mandato perché rispondente alla normativa edilizia di riferimento (sullo stesso solco dell'orientamento di cui innanzi si colloca anche Cass. II, n. 8014/2012).

Sempre con particolare riferimento al rispetto della normativa urbanistica, che chiarito da Cass. II, n. 8058/2023, Sussiste la responsabilità dell'architetto, dell'ingegnere o del geometra, il quale, nell'espletamento dell'attività professionale consistente nell'obbligazione di redigere un progetto di costruzione o di ristrutturazione di un immobile, non assicuri la conformità dello stesso alla normativa urbanistica, in quanto l'irrealizzabilità del progetto per inadeguatezze di natura tecnica costituisce inadempimento dell'incarico e consente al committente di rifiutare di corrispondergli il compenso, ovvero di chiedere la risoluzione del contratto. Né la responsabilità del professionista viene meno e può riconoscersi il suo diritto ad ottenere il corrispettivo ove la progettazione di una costruzione o di una ristrutturazione in contrasto con la normativa urbanistica sia oggetto di un accordo tra le parti per porre in essere un abuso edilizio, spettando tale verifica al medesimo professionista, in forza della sua specifica competenza tecnica, e senza che perciò possa rilevare, ai fini dell'applicabilità dell'esimente di cui all'art. 2226, comma 1, c.c., la firma apposta dal committente sul progetto redatto (in merito al contratto di prestazione d'opera professionale avente ad oggetto la progettazione di un edificio in tutto o in parte non conforme alla vigente disciplina edilizia ed alla circostanza per cui esso non è di per sé nullo per contrasto con le norme imperative e con l'ordine pubblico, e neanche per impossibilità dell'oggetto, essendo la prestazione cui è contrattualmente vincolato il progettista eseguibile anche dal punto di vista giuridico, si veda, ex plurimis, Cass. II, n. 240/2019).  Il professionista autore di un progetto edilizio per l'edificazione di una costruzione che si riveli in violazione delle distanze legali è responsabile dei danni conseguentemente patiti dai committenti, essendo questi ultimi eziologicamente correlati al suo inadempimento. Così Cass. 14527/2023 che ha cassato (con rinvio) la sentenza di merito che aveva escluso, ai sensi dell'art. 2236 c.c., la responsabilità di un architetto per l'avvenuta progettazione di un edificio in violazione dell'art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968, sul presupposto che rientrasse nel sapere specialistico del professionista avvedersi del contrasto della normativa urbanistica locale – cui si era uniformato – con quella sovraordinata nazionale.

L'architetto, l'ingegnere o il geometra, nell'espletamento dell'attività professionale consistente nell'obbligazione di redigere un progetto di costruzione o di ristrutturazione di un immobile, è debitore di un risultato, essendo il professionista tenuto alla prestazione di un progetto concretamente utilizzabile, anche dal punto di vista tecnico e giuridico, con la conseguenza che l'irrealizzabilità dell'opera, per erroneità o inadeguatezza del progetto affidatogli, dà luogo ad un inadempimento dell'incarico ed abilita il committente a rifiutare di corrispondere il compenso, avvalendosi dell'eccezione di inadempimento (Cass. II, n, 1214/2017).

Come chiarisce Cass. III, n. 16288/2019, sussiste altresì la responsabilità per inadempimento del professionista, , incaricato del progetto e della direzione dei lavori di ristrutturazione di un'abitazione, il quale, violando gli obblighi informativi posti a suo carico, non abbia avvisato il committente della necessità di presentare la comunicazione della fine dei lavori prima della scadenza della D.I.A. e, senza porsi il problema della mancanza di tale dichiarazione ai fini della commerciabilità dell'immobile, abbia comunque certificato la regolarità delle opere, per poi indicare al committente, per ovviare alle conseguenze derivanti dal proprio inadempimento, la possibilità di ricorrere alla procedura di sanatoria.

La responsabilità del direttore dei lavori non progettista

La Suprema Corte chiarisce che negli appalti di opere edilizie la figura del direttore dei lavori per conto dell'appaltatore è diversa da quella del direttore dei lavori per conto del committente.

Il primo, difatti, essendo collaboratore professionale dell'appaltatore, ha il dovere di provvedere, dal punto di vista tecnico, all'esecuzione dell'opera, organizzando e vigilando che essa si svolga in modo non pericoloso per gli addetti ai lavori ed i terzi. La direzione dei lavori per conto del committente ha invece solo il compito di controllare la corrispondenza dell'opera al progetto, rispondendo dell'adempimento di tale obbligo solo verso il committente, exartt. 1176 c.c. e 2236 c.c. Sicché, ove abbia esercitato il compito suddetto, il direttore per conto del committente non può essere ritenuto responsabile, con l'appaltatore, dei danni derivati al committente dalla difettosa esecuzione dell'opera e dall'imprudente svolgimento dei lavori diretti al compimento di essa (ex plurimis: Cass. II, n. 3051/1980; Cass. II, n. 7245/1998).

In apparente contrasto con il suddetto principio sembrerebbe porsi Cass. II, n. 15124/2001, per la quale in tema di responsabilità conseguente a vizi o difformità dell'opera appaltata, il direttore dei lavori per conto del committente, sebbene presti un opera professionale in esecuzione di un'obbligazione di mezzi e non di risultato, poiché è chiamato a svolgere la propria attività in situazioni involgenti l'impiego di peculiari competenze tecniche, deve utilizzare le proprie risorse intellettive ed operative per assicurare, relativamente all'opera in corso di realizzazione, il risultato che il committente-preponente si aspetta di conseguire. Il suo comportamento deve quindi essere valutato non con riferimento al normale concetto di diligenza, ma alla stregua della diligentia quam in concreto. Costituisce pertanto obbligazione del direttore dei lavori l'accertamento della conformità sia della progressiva realizzazione dell'opera al progetto sia delle modalità dell'esecuzione di essa al capitolato e/o alle regole della tecnica. Conseguentemente non si sottrae a responsabilità ove ometta di vigilare e di impartire le opportune disposizioni al riguardo, nonché di controllarne l'ottemperanza da parte dell'appaltatore e, in difetto, di riferirne al committente (nello stesso senso si veda altresì Cass. II, n. 11359/2000). In particolare l'attività del direttore dei lavori per conto del committente si concreta nell'alta sorveglianza delle opere, che, pur non richiedendo la presenza continua e giornaliera sul cantiere né il compimento di operazioni di natura elementare, comporta il controllo della realizzazione dell'opera nelle sua varie fasi e pertanto l'obbligo del professionista di verificare, attraverso periodiche visite e contatti diretti con gli organi tecnici dell'impresa, da attuarsi in relazione a ciascuna di tali fasi, se sono state osservate le regole dell'arte e la corrispondenza dei materiali impiegati (Cass. II, n. 10728/2008).

In linea con la sentenza da ultimo citata sembrerebbe porsi Cass. II, n. 7180/2000, per la quale, pur trattandosi di obbligazione di mezzi, l'obbligazione gravante in capo al direttore dei lavori non si esaurisce nel riscontro della conformità dell'opera al progetto, giacché egli, come l'appaltatore (e a maggior titolo, attesa la sua preparazione tecnica), è tenuto all'individuazione ed alla correzione di eventuali carenze progettuali che impediscono quella «buona riuscita» del lavoro per la quale egli è tenuto ad adoperarsi. In applicazione del principio la Suprema Corte ha confermato, sul punto, la sentenza di merito che aveva ritenuto la responsabilità del direttore dei lavori per la mancata coibentazione dei pilastri di un edificio, con conseguente condensazione di umidità all'interno degli appartamenti, benché tale accorgimento, non fosse previsto dal progetto.

La Suprema Corte, con un recente arresto del 2016, riconduce però ad unità i due orientamenti, in applicazione dei principi che governano la materia, ritenendo che, pur se sotto diversi angoli visuali, facciano intendere la medesima conclusione, vale a dire che il direttore dei lavori per conto del committente non risponde insieme con l'appaltatore del risultato finale, costituito dall'opus oggetto dell'appalto, diverso e più limitato essendo il suo ambito di responsabilità.

Il direttore dei lavori per conto del committente esercita in luogo del proprio cliente quei medesimi poteri di controllo sull'attuazione dell'appalto che questi ritiene di non poter svolgere di persona. La connotazione precipuamente tecnica di tale obbligazione di vigilanza non lo rende, però, corresponsabile della fattibilità dell'opera insieme con l'appaltatore, il quale soltanto ne risponde nei limiti dei principi elaborati dalla stessa giurisprudenza di legittimità, anche nel caso di progetto redatto da terzi. Sicché, conclude Cass. II, n. 18285/2016, la connotazione precipuamente tecnica di tale obbligazione di sorveglianza lo obbliga a vigilare affinché l'opera sia eseguita in maniera conforme al progetto, al capitolato e alle regole della buona tecnica, ma non lo rende per ciò solo corresponsabile con l'appaltatore per i difetti dell'opera derivanti da vizi progettuali, salvo egli sia stato espressamente incaricato dal committente di svolgere anche l'attività, aggiuntiva rispetto a quella costituente l'oggetto della sua normale prestazione, di verificare la fattibilità e l'esattezza tecnica del progetto.

Il Giudice di legittimità argomenta in particolare dall'assunto per il quale l'obbligo di vigilare affinché l'opera sia realizzata in maniera conforme alle regole dell'arte, al progetto e al capitolato d'appalto, gravante in capo al direttore dei lavori per conto del committente, non reca con sé l'obbligo di rilevare le eventuali carenze o i possibili difetti da cui sia affetto lo stesso progetto, in quanto non gravante neanche in capo al committente perché onere dell'appaltatore. Ne consegue che il committente si autoresponsabilizza solo se, edotto delle carenze o degli errori del progetto, ne richieda egualmente l'esecuzione, riducendo così l'appaltatore a proprio mero nudus minister, il direttore dei lavori (per conto del committente) risponde della fattibilità e dell'esattezza tecnica del progetto solo se ed in quanto sia stato espressamente incaricato dal committente di svolgere anche tale aggiuntiva attività di verifica.

Come innanzi evidenziato, la stessa citata sentenza fa riferimento ai principi che governano la materia sintetizzabili come di seguito.

In tema di contratto di appalto, in primo luogo, la diligenza qualificata ex art. 1176 comma 2 c.c., che impone all'appaltatore (sia egli professionista o imprenditore) di realizzare l'opera a regola d'arte, impiegando le energie ed i mezzi normalmente ed obiettivamente necessari od utili in relazione alla natura dell'attività esercitata, onde soddisfare l'interesse creditorio ed evitare possibili eventi dannosi, rileva anche se egli si attenga alle previsioni di un progetto altrui. Ne consegue, ove sia il committente a predisporre il progetto ed a fornire indicazioni per la sua realizzazione, che l'appaltatore risponde dei vizi dell'opera se, fedelmente eseguendo il progetto e le indicazioni ricevute, non ne segnali eventuali carenze ed errori, il cui controllo e correzione rientra nella sua prestazione. Andrà invece esente da responsabilità l'appaltatore ove il committente, edotto di tali carenze ed errori, richieda di dare egualmente esecuzione al progetto o ribadisca le indicazioni, riducendo così l'appaltatore a proprio mero nudus minister, direttamente e totalmente condizionato dalle istruzioni ricevute senza possibilità di iniziativa o vaglio critico (Cass. II, n. 1981/2016, in senso conforme, Cass. III, n. 12995/2006).

Quasi a conferma delle argomentazioni e conclusioni di cui innanzi, la Suprema Corte chiarisce che, sempre in tema di appalto, il titolare dell'impresa appaltatrice è incompatibile a svolgere l'incarico di direttore dei lavori, atteso che quest'ultimo è un rappresentante del committente preposto a sorvegliare l'esatta esecuzione delle opere (Cass. II, n. 2562/2009). Lo stesso dicasi con riferimento all'amministratore dell'impresa appaltatrice (Cass. II, 19895/2013). A differenza del direttore di cantiere, fiduciario dell'appaltatore il direttore dei lavori (su incarico del committente) è un rappresentante del committente, preposto a sorvegliare l'esatta esecuzione delle opere (Cass. II, 19895/2013).

In caso di opere edilizie da eseguirsi su strutture o basamenti preesistenti o preparati dal committente o da terzi, l'appaltatore viola il dovere di diligenza stabilito dall'art. 1176 c.c. se non verifica, nei limiti delle comuni regole dell'arte, l'idoneità delle anzidette strutture a reggere l'ulteriore opera commessagli, e ad assicurare la buona riuscita della medesima, ovvero se, accertata l'inidoneità di tali strutture, procede egualmente all'esecuzione dell'opera. Anche l'imprevedibilità di difficoltà di esecuzione dell'opera manifestatesi in corso d'opera derivanti da cause geologiche, idriche e simili, specificamente presa in considerazione in tema di appalto dall'art. 1664 comma 2 c.c., legittimante, se del caso, il diritto ad un equo compenso in ragione della maggiore onerosità della prestazione, deve essere valutata sulla base della diligenza media in relazione al tipo di attività esercitata. Sicché, laddove l'appaltatore svolga anche i compiti di ingegnere progettista e di direttore dei lavori, l'obbligo di diligenza è ancora più rigoroso, essendo egli tenuto, in presenza di situazioni rivelatrici di possibili fattori di rischio, ad eseguire gli opportuni interventi per accertarne la causa ed apprestare i necessari accorgimenti tecnici volti a garantire la realizzazione dell'opera senza difetti costruttivi. La maggiore specificazione del contenuto dell'obbligazione non esclude infatti la rilevanza della diligenza come criterio determinativo della prestazione per quanto attiene agli aspetti dell'adempimento, sicché gli specifici criteri posti da particolari norme di settore (es. il riferimento ai c.d. «coefficienti di sicurezza» previsti dalla l. n. 1086/1971 ed il relativo regolamento di attuazione D.M. 16 giugno 1976) non solo non valgono a ridurre o limitare la responsabilità dell'appaltatore ma sono per converso da intendersi nel senso che la relativa inosservanza viene a ridondare in termini di colpa grave dell'appaltatore (Cass. III, n. 12995/2006).

Per la giurisprudenza di legittimità (si veda, ex plurimis, Cass. VI-III, n. 14751/2019), in definitiva, il direttore dei lavori è titolare di un'obbligazione di mezzi e non di risultato fermo restando che, essendo chiamato a svolgere la propria attività in situazioni involgenti l'impiego di peculiari competenze tecniche, il suo comportamento deve essere valutato non con riferimento al normale concetto di diligenza ma alla stregua della diligenza in concreto, posta la necessità di impiegare le proprie risorse intellettive e operative per assicurare, relativamente all'opera in corso di realizzazione e nel perimetro delle sua competenze, il risultato che il committente si aspetta di conseguire (Cass. III, n. 20557/2014, oltre  che Cass. VI-III, n. 14751/2019, cit.). Il direttore assume, pertanto, assume la specifica funzione di tutelare la posizione del committente nei confronti dell'appaltatore, vigilando che l'esecuzione dei lavori abbia luogo in conformità a quanto stabilito nel capitolato d'appalto e quindi al progetto, fermo l'obbligo di intervento quando quest'ultimo presenti riconoscibili fattori di rischio (Cass. III, n. 15732/2018). Ciò posto, non deriva a carico del direttore dei lavori né una responsabilità per cattiva esecuzione dei lavori riferibile all'appaltatore, né un obbligo continuo di vigilanza anche in relazione a condotte marginali; sicché, chiarisce Cass VI- III, n. 14751/2019, in assenza di un qualche indice che faccia supporre che l'appaltatore sia stato sottoposto dal committente a direttive così stringenti da sottrargli qualsiasi possibilità di autodeterminazione, l'appaltatore rimane esclusivo responsabile dell'esecuzione delle opere previste ovvero dei danni conseguenti a negligenza nell'attuazione della medesima (si veda anche la precedente Cass. III, n. 20557/2014, cit.).

Torna nuovamente sul punto Cass. II, n. 2913/2020, per la quale, In tema di responsabilità conseguente a vizi o difformità dell'opera appaltata, il direttore dei lavori, pur prestando un'opera professionale in esecuzione di un'obbligazione di mezzi e non di risultato, è chiamato a svolgere la propria attività in situazioni involgenti l'impiego di peculiari competenze tecniche e deve utilizzare le proprie risorse intellettive e operative per assicurare, relativamente all'opera in corso di realizzazione, il risultato che il committente-preponente si aspetta di conseguire, onde il suo comportamento deve essere valutato non con riferimento al normale concetto di diligenza, ma alla stregua della diligentia quam in concreto. Rientrano, pertanto, nelle obbligazioni del direttore dei lavori, l'accertamento della conformità sia della progressiva realizzazione dell'opera al progetto, sia delle modalità dell'esecuzione di essa al capitolato e/o alle regole della tecnica, nonché l'adozione di tutti i necessari accorgimenti tecnici volti a garantire la realizzazione dell'opera senza difetti costruttivi; sicché non si sottrae a responsabilità il professionista che ometta di vigilare e di impartire le opportune disposizioni al riguardo, nonché di controllarne l'ottemperanza da parte dell'appaltatore e, in difetto, di riferirne al committente.

Danno: nesso causale e riparto dell'onere probatorio

Per la ormai consolidata giurisprudenza di legittimità, la responsabilità (per inadempimento) del prestatore d'opera intellettuale, nei confronti del cliente, per negligente o imperito (ovvero imprudente) svolgimento dell'attività professionale presuppone la prova, oltre che del titolo (contrattuale o da «contatto sociale»), del danno con allegazione dell'inadempimento qualificato, cioè astrattamente idoneo a produrre il danno. In tema di nesso causale oltre che di riparto dell'onere probatorio, con particolare riferimento anche alle responsabilità tecnico-professionali, la giurisprudenza, in attuale continua evoluzione, tende ad applicare le comuni regole caratterizzanti la responsabilità contrattuale, in particolare relativa all'attività professionale. La giurisprudenza di legittimità nell'attualità è infatti giunta a rivisitare la sua impostazione in merito agli effetti, anche in termini di riparto dell'onere probatorio, della distinzione tra obbligazioni di mezzi ed obbligazioni di risultato, con particolare riferimento anche alla materia della responsabilità professionale in oggetto.

Dalla tradizionale distinzione di cui innanzi si argomentava difatti per sostenere che, nelle obbligazioni di mezzi, essendo aleatorio il risultato, incombesse sul creditore l'onere di provare che il mancato risultato fosse dipeso da scarsa diligenza (o perizia o prudenza) e che, nelle obbligazioni di risultato, per converso, incombesse sul debitore l'onere di provare che il mancato risultato fosse dipeso da causa a lui non imputabile.

La distinzione tra le due tipologie di obbligazioni, pur conservando la funzione descrittiva innanzi evidenziata, è invece superata, quanto meno in tema di riparto dell'onere probatorio, già da Cass. S.U., n. 13533/2001, che sancisce il principio della vicinanza della prova, oltre che a partire dalla già citata Cass. S.U., n. 577/2008, anche se con particolare riferimento alla responsabilità professionale medica, e, in termini ancora più generali rispetto all'onere probatorio, da Cass. S.U., n. 15781/2005 proprio con particolare riferimento alle professioni di ingegnere e di architetto (si veda quanto chiarito nei precedenti paragrafi).

La Suprema Corte, con la citata sentenza a Sezioni Unite del 2001, afferma difatti che il meccanismo di ripartizione dell'onere della prova ai sensi dell'art. 2697 c.c., in materia di responsabilità contrattuale, in conformità a criteri di ragionevolezza per identità di situazioni probatorie, di riferibilità in concreto dell'onere probatorio alla sfera di azione dei singoli soggetti e di distinzione strutturale tra responsabilità contrattuale e da fatto illecito, è identico, sia che il creditore agisca per l'adempimento dell'obbligazione, ex art. 1453 c.c., sia che si domandi il risarcimento per inadempimento contrattuale ex art. 1218 c.c., senza che rilevi in alcun modo alla distinzione tra obbligazioni di mezzi e di risultato.

In tema di prova dell'inadempimento di una obbligazione, quindi anche nascente da contratto di prestazione d'opera intellettuale (o da «contatto sociale qualificato»), in virtù del principio da ultimo citato, il creditore che agisca per la risoluzione contrattuale, per il risarcimento del danno ovvero per l'adempimento deve soltanto provare la fonte (negoziale o legale) del suo diritto ed il relativo termine di scadenza, limitandosi alla mera allegazione della circostanza dell'inadempimento della controparte. Graverà invece sul creditore convenuto l'onere della prova del fatto estintivo dell'altrui pretesa, costituito dall'avvenuto adempimento. Identico criterio di riparto dell'onere della prova è applicabile al caso in cui il debitore convenuto per l'adempimento, la risoluzione o il risarcimento del danno si avvalga dell'eccezione di inadempimento, ex art. 1460 c.c., risultando, in tal caso, invertiti i ruoli delle parti in lite, poiché il debitore eccipiente si limiterà ad allegare l'altrui inadempimento ed il creditore agente dovrà dimostrare il proprio adempimento, ovvero la non ancora intervenuta scadenza dell'obbligazione. Anche nel caso in cui sia dedotto non l'inadempimento dell'obbligazione, ma il suo inesatto adempimento, al creditore istante sarà sufficiente la mera allegazione dell'inesattezza dell'adempimento, per violazione di doveri accessori, come quello di informazione, ovvero per mancata osservanza dell'obbligo di diligenza, o per difformità quantitative o qualitative dei beni, gravando ancora una volta sul debitore l'onere di dimostrare l'avvenuto, esatto adempimento.

Nell'affermare il principio di diritto che precede, le Sezioni Unite precisano altresì che esso trova un limite nell'ipotesi di inadempimento delle obbligazioni negative, nel qual caso la prova dell'inadempimento stesso è sempre a carico del creditore, anche nel caso in cui agisca per l'adempimento e non per la risoluzione o il risarcimento (Cass. S.U., n. 13533/2001, cit.).

Sicché, chiariscono nel 2008 le Sezioni Unite, proprio in applicazione del suddetto principio della vicinanza della prova, che, come detto, prescinde nella sua applicazione dalla dogmatica distinzione tra obbligazioni di mezzi ed obbligazioni di risultato, l'inadempimento rilevante nell'ambito dell'azione di responsabilità per risarcimento del danno nelle obbligazioni c.d. di comportamento (o di mezzi) non è qualunque inadempimento bensì solo quella causa (o concausa) efficiente del danno.

L'allegazione del creditore non può dunque attenere ad un inadempimento qualunque esso sia ma ad un inadempimento, per così dire, qualificato, e cioè astrattamente efficiente alla produzione del danno. Competerà al debitore dimostrare che tale inadempimento non vi è proprio stato ovvero che, pur esistendo, non è stato nella fattispecie causa del danno (Cass. S.U., n. 577/2008; si vedano altresì, nel senso che è qualificato l'inadempimento quando è astrattamente idoneo a provocare, quale causa o concausa efficiente, l'evento di danno, ex plurimis, con particolare riferimento alla responsabilità professionale medica, Cass. III, n. 20547/2014, Cass. III, n. 27855/2013).

La natura contrattuale della responsabilità del professionista (quindi anche quello tecnico), in applicazione dei principi di cui alle citate Sezioni Unite del 2008, implica, in definitiva, sotto il profilo del riparto dell'onere probatorio, che incombe in capo all'attore che agisca per il risarcimento del danno l'onere di provare il titolo (il contratto o il «contatto sociale qualificato») ed il danno nonché di allegare (quindi non provare) l'inadempimento qualificato del professionista (cioè astrattamente idoneo a provocare il danno lamentato). A carico del debitore (quindi anche del professionista tecnico) resta invece l'onere di dimostrare che la prestazione è stata eseguita in modo diligente, perito e prudente e che, quindi, l'inadempimento non vi è stato ovvero che il mancato o inesatto adempimento è dovuto a causa a sé non imputabile, in quanto determinato da impedimento non prevedibile né prevenibile con la diligenza nel caso dovuta, cioè rapportata alla concreta attività posta in essere ex art. 1176 comma 2 c.c. Il debitore potrà altresì provare che, se a lui imputabile, l'inadempimento o l'inesatto adempimento non è stato causalmente rilevante (si vedano ex plurimis, con specifico riferimento alla responsabilità professionale: Cass. III, n. 9917/2010, in ordine a quella contrattuale del commercialista; Cass. III, n. 10966/2004, in ordine alla responsabilità dell'avvocato).

Il detto criterio di riparto non muta neanche in ragione dell'eventuale operare della limitazione di responsabilità di cui all'art. 2236 c.c., gravando sul professionista debitore la prova della sussistenza dei presupposti per l'operabilità della norma di cui innanzi (ex plurimis: Cass. III, n. 24791/2008; Cass. III, n. 583/2005).

La diligenza esigibile dal professionista o dall'imprenditore, nell'adempimento delle obbligazioni assunte nell'esercizio delle loro attività, è una diligenza speciale e rafforzata, di contenuto tanto maggiore quanto più sia specialistica e professionale la prestazione a loro richiesta. Nella controversia concernente l'inadempimento contrattuale del professionista, pertanto, questi, per andare esente da un giudizio di condanna, ha l'onere di provare che l'insuccesso è dipeso da causa a lui non imputabile anche quando la prestazione richiestagli richiedeva la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà, posto che problemi speciali esigono dal professionista una competenza speciale. Né a tale conclusione osta l'art. 2236 c.c., il quale non esonera affatto il professionista-debitore da responsabilità nel caso di insuccesso di prestazioni complesse, ma si limita a dettare un mero criterio per la valutazione della sua diligenza (ex plurimis, Cass. III, n. 16254/2012, con riferimento, in generale, alle prestazioni d'opera professionale e, in particolare, nella materia dell'appalto).

Nonostante rimanga immutato il riparto dell'onere probatorio comunque, acclarata la colpa del professionista, il rilievo che la prestazione eseguita comporta la risoluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà può essere compiuto d'ufficio dal giudice sulla base di risultanze istruttorie ritualmente acquisite, non formando oggetto di un'eccezione in senso stretto (Cass. III, n. 25746/2015). La domanda di risarcimento del danno, basata sulla colpa grave, peraltro, contiene quella per colpa lieve, senza che, pertanto, la pronuncia di condanna fondata su colpa lieve del professionista possa dar luogo a vizio di ultrapetizione (Cass. II, n. 8546/2005).

Recentemente la Suprema Corte ha ulteriormente scandito i principi in tema di riparto dell’onere probatoria, anche con riferimento al nesso causale, in materia di responsabilità sanitaria ancorché con specifico riferimento a quella sanitaria. Cass. III, n. 28991/2019, in particolare ha chiarito che in tema di inadempimento di obbligazioni di diligenza professionale sanitaria, il danno evento consta della lesione non dell'interesse strumentale alla cui soddisfazione è preposta l'obbligazione (perseguimento delle "leges artis" nella cura dell'interesse del creditore) ma del diritto alla salute (interesse primario presupposto a quello contrattualmente regolato); sicché, ove sia dedotta la responsabilità contrattuale del sanitario per l'inadempimento della prestazione di diligenza professionale e la lesione del diritto alla salute, è onere del danneggiato provare, anche a mezzo di presunzioni, il nesso di causalità fra l'aggravamento della situazione patologica (o l'insorgenza di nuove patologie) e la condotta del sanitario, mentre è onere della parte debitrice provare, ove il creditore abbia assolto il proprio onere probatorio, la causa imprevedibile ed inevitabile dell'impossibilità dell'esatta esecuzione della prestazione.

In dottrina si prospetta l'applicazione, anche con riferimento alla responsabilità professionale, del principio della «vicinanza della prova», in forza del quale la dimostrazione di determinati fatti deve essere fornita da chi è più vicino ad essi e, quindi, alla loro prova, che permea di sé la responsabilità anche contrattuale. Trattasi di principio già fatto proprio dalla giurisprudenza di legittimità anche con riferimento alla responsabilità professionale, sul presupposto che essa abbia natura contrattuale (da contratto a da «contatto sociale»), laddove, invece, le regole di riparto muterebbero sensibilmente nel caso di responsabilità extracontrattuale. Sicché, graverebbe in capo al cliente, in quanto creditore della prestazione professionale, l'onere di provare non solo il titolo ma anche il non raggiungimento del risultato ovvero la mancata tenuta della condotta (oltre che il danno ed il nesso eziologico) mentre graverebbe sul professionista, in quanto debitore della prestazione professionale, dimostrare l'esatto adempimento mediante la dimostrazione della diligenza e della perizia impiegate e della causa non imputabile (Fortino, 65, anche con riferimento alla responsabilità del professionista legale).

La dottrina pone in evidenza la necessità, sempre più sentita soprattutto dai giudici di merito ma anche dalla Suprema Corte, di adattare alle singole concrete fattispecie oggetto del contendere ai principi della «presunzione di persistenza del diritto insoddisfatto e della «riferibilità o vicinanza o disponibilità della prova», elaborati, in generale, in tema di inadempimento delle obbligazioni, ed in particolare con riferimento alla responsabilità per autolesione dell'alunno, in merito alla tutela reale per il lavoratore ingiustamente licenziato oltre che nella materia della responsabilità professionale. Muovendo dall'art. 1312 c.c. previgente ed analizzando l'attuale art. 2967 c.c. (quale disposizione in bianco), in relazione all'art. 24 Cost., si concorda con la circostanza per la quale il riparto dell'onere probatorio tra creditore-attore e debitore-convenuto debba ritenersi non «cristallizzato» sulla rigida posizione che gli stessi occupano nel rapporto giuridico obbligatorio ma, al contrario, debba ancorarsi alla concreta vicenda oggetto del contendere. Solo così argomentando il principio della riferibilità della prova può essere ricondotto, come insegna la giurisprudenza costituzionale e di legittimità, all'articolo 24 Cost. che connette al diritto di azione in giudizio il divieto di interpretare la legge in modo da renderne impossibile o troppo difficile l'esercizio (Antezza, 2006, 6, 29).

Rimane però il problema, evidenziato dalla detta dottrina, dell'«ancoraggio» della decisione del giudice in merito all'individuazione del soggetto «più vicino alla prova», a parametri non fissi ma comunque tali da non mettere in crisi un altro importante principio giuridico, quello della certezza del diritto. Esso, difatti, si pone a base del giudizio circa la ipotetica accoglibilità della domanda giudiziale che ogni soggetto deve (rectius: dovrebbe) effettuare prima di agire o resistere in giudizio. Per tale tesi, quindi, ci si deve chiedere se in ogni caso di obbligazioni di mezzi, coincidendo l'inadempimento con il difetto di diligenza e/o di perizia (rapportato al risultato voluto dal debitore), la prova sia sempre «vicina» a chi debba eseguire la prestazione. Ci si deve quindi domandare se, perlomeno in alcuni casi, vi sia spazio per opinare diversamente sempre muovendo dalle circostanze concrete, ricordando che l'articolo 24 Cost., oltre a sancire il diritto di agire in giudizio per la tutela dei propri diritti, invocato a giustificazione dell'applicazione dei citati principi in tema di riparto dell'onere probatorio, dispone che la difesa, anche del debitore professionista-convenuto, è diritto inviolabile. Tale diritto rischierebbe quindi di divenire di «impossibile o troppo difficile esercizio» qualora si «cristallizzasse» l'onere della prova dell'adempimento in capo al professionista a prescindere da una attenta considerazione del caso concreto (Antezza, 2006, 6, 29; per il riparto dell'onere probatorio nelle prestazioni d'opera professionale, in particolare in merito alla responsabilità medica per «danno da nascita oltre la volontà del genitore» per mancata diagnosi di malattia del feto, si veda anche Antezza, 2006, 7-8, 15).

La responsabilità ex art. 1669 c.c. (c.d. decennale o aggravata) ed in profili inerenti il professionista tecnico

La c.d. responsabilità decennale dell'appaltatore, ex art. 1669 c.c., in ragione dell'attuale interpretazione della norma di riferimento, è suscettibile di rilevare anche in ordine alla responsabilità tecnico-professionale del progettista e del direttore dei lavori, in ipotesi anche concorrente o con quella dell'appaltatore o con quella del committente ovvero con quella del costruttore-venditore. Il tecnico potrebbe difatti essere chiamato a rispondere nei confronti del proprio cliente (appaltatore o committente) ovvero nei confronti di terzi, con quanto ne conseguirebbe in termini di responsabilità contrattuale o extracontrattuale.

Sin da ora preme però evidenziare che Cass. S.U., n. 7756/2017, nel risolvere la differente questione dell'applicabilità dell'art. 1669 c.c. anche alle ipotesi di interventi di modificazione e di riparazione di immobili già esistenti, sembrerebbe fornire spunti di riflessione in senso contrario, ancorché in via incidentale e quale obiter.

La natura della responsabilità c.d. aggravata.

La responsabilità prevista dall'art. 1669 c.c., secondo un principio consolidato nella giurisprudenza di legittimità, nonostante sia collocata nell'ambito del contratto di appalto, configura un'ipotesi di responsabilità extracontrattuale la quale, pur presupponendo un rapporto contrattuale, ne supera i confini, essendo riconducibile ad una violazione di regole primarie (di ordine pubblico) poste a tutela dell'interesse generale alla sicurezza dell'attività edificatoria (quindi della conservazione e la funzionalità degli edifici), allo scopo di preservare la sicurezza e l'incolumità delle persone (per la natura extracontrattuale della responsabilità in esame si vedano, tra le più recenti, Cass. II, n. 18831/2016; Cass. II, n. 22553/2015; Cass. II, n. 10658/2015; Cass. S.U., n. 2284/2014; per la ratio della responsabilità ex art. 1669 c.c., avente natura extracontrattuale, e per le relative ripercussioni si vedano, per la costante giurisprudenza di legittimità, anche Cass. I, n. 815/2016 e Cass. II, n. 13882/2014).

Da questa configurazione discendono corollari di natura sostanziale e processuale.

Si consideri, a titolo esemplificativo, l'orientamento, pacifico, per il quale la clausola compromissoria riferita genericamente alle controversie nascenti dal contratto cui essa inerisce va interpretata, in mancanza di espressa volontà contraria, nel senso che rientrano nella competenza arbitrale tutte e solo le controversie aventi causa petendi nel contratto medesimo, con esclusione di quelle che hanno, in esso, unicamente un presupposto storico (Cass. VI-III, n. 4035/2017 e Cass. II, n. 1674/2012, nella specie, pur in presenza della clausola compromissoria contenuta in un contratto di appalto, gli attori avevano erroneamente proposto azione di responsabilità extracontrattuale, ex art. 1669 c.c., deducendo gravi difetti dell'immobile da loro acquistato).

In particolare, limitando il riferimento a quanto rileva ai presenti fini, quali corollari della natura della responsabilità rilevano quelli inerenti alla legittimazione sostanziale attiva e passiva, alla rilevanza dell'accettazione delle opere o del collaudo delle stesse, oltre che in relazione al rapporto tra la responsabilità in oggetto e quella di cui agli artt. 1667 e 1668 c.c. ed in particolare tra essa e la responsabilità ex art. 2043 c.c.

Con riferimento alla questione da ultimo evidenziata, rilevando essa anche con riferimento alla responsabilità del progettista e del direttore dei lavori, le due dette disposizioni, sempre secondo la costante giurisprudenza di legittimità, sono tra loro in rapporto di genere a specie, in quanto l'art. 1669 c.c. reca una norma speciale rispetto a quella contenuta nell'art. 2043 c.c., risultando la seconda applicabile quante volte la prima non lo sia in concreto. La natura di norma speciale dell'art. 1669 c.c. rispetto all'art. 2043 c.c. presuppone dunque l'astratta applicabilità delle due norme. Sicché, una volta che la norma speciale non possa essere in concreto applicata, permane l'applicabilità della norma generale, in virtù di una tesi coerente con le ragioni della qualificazione della responsabilità ex art. 1669 c.c. come extracontrattuale, consistenti nell'esigenza di offrire ai danneggiati dalla rovina o dai gravi difetti di un edificio una più ampia tutela (per la tesi del rapporto di genere a specie intercorrente tra le norme di cui agli artt. 2043 e 1669 c.c., ex plurimis, per la costante giurisprudenza di legittimità: Cass. S.U., n. 2284/2014; Cass. I, n. 8520/2006; Cass. III, n. 1748/2005; Cass. III, n. 3338/1999).

Dall'evidenziata configurazione discende, anche per Cass. S.U., n. 2284/2014, che l'art. 1669 c.c. non è norma di favore, diretta a limitare la responsabilità del costruttore, ma mira a garantire una più efficace tutela del committente, dei suoi aventi causa e dei terzi in generale. Il legislatore ha con essa stabilito un più rigoroso regime di responsabilità rispetto a quello previsto dall'art. 2043 c.c., caratterizzato dalla presunzione iuris tantum di responsabilità dell'appaltatore, che è stata tuttavia limitata nel tempo, in virtù di un bilanciamento tra le contrapposte esigenze di rafforzare la tutela di un interesse generale e di evitare che detta presunzione si protragga per un tempo irragionevolmente lungo (nel senso della presunzione di colpa iuris tantum, caratterizzante la responsabilità extracontrattuale di cui all'art. 1669 c.c., oltre alla citata Cass. S.U., n. 2284/2014, si esprime la costante giurisprudenza di legittimità, si vedano, in particolare: Cass. II, n. 9370/2013, la quale precisa che il costruttore-venditore, al fine di superare la presunzione di colpa, anche eventualmente omissiva, è onerato della prova contraria di non aver avuto potere di direttiva o controllo sull'appaltatrice, Cass. I, n. 8520/2006; Cass. III, n. 1748/2005; Cass. III, n. 3338/1999).

Una diversa soluzione è respinta dalla pacifica giurisprudenza di legittimità in quanto comporterebbe una indebita restrizione dell'area di tutela stabilita dalla norma fondamentale in materia di responsabilità extracontrattuale. In palese contrasto con l'armonia del sistema e con le ragioni alla base della previsione della disciplina speciale, essa condurrebbe altresì all'irragionevole risultato di creare un regime di responsabilità più favorevole per i costruttori di edifici, escludendo ogni forma di responsabilità in situazioni che potrebbero ricadere nell'ambito – in linea di principio illimitato – dell'art. 2043 c.c.

Essendo la ratio dell'art. 1669 c.c. quella di introdurre una più incisiva tutela, è coerente con la medesima l'applicabilità dell'art. 2043 c.c., nel caso di insussistenza delle condizioni previste dalla prima norma. È difatti in generale ammissibile la coesistenza di due azioni diversificate quanto al regime probatorio, potendo peraltro la parte agire non avvalendosi delle facilitazioni probatorie stabilite per una di esse. L'azione ex art. 2043 c.c. sarebbe dunque proponibile nel caso di concreta non esperibilità di quella di cui all'art. 1669 c.c., quindi anche nel caso di danno manifestatosi e prodottosi oltre il decennio dal compimento dell'opera. Nell'ipotesi di esperimento dell'azione disciplinata dall'art. 2043 c.c. non opererebbe però il regime speciale di presunzione della responsabilità del costruttore, che lo onera di una non agevole prova liberatoria. In tal caso, spetterebbe quindi all'attore provare tutti gli elementi richiesti dall'art. 2043 c.c. e, in particolare, anche la colpa del costruttore (Nei termini di cui innanzi si esprime Cass. S.U., n. 2284/2014, oltre che altre precedenti conformi, tra le quali: Cass. I, n. 8520/2006; Cass. III, n. 1748/2005; Cass. III, n. 3338/1999).

Circa la natura, contrattuale o extracontrattuale, della c.d. responsabilità decennale la dottrina è divisa, registrandosi l'orientamento contrattuale, quello extracontrattuale ed uno misto.

Parte della dottrina, che potrebbe ritenersi attualmente ancora dominante, sostiene la natura contrattuale della responsabilità in esame, ancorché nascente ex lege sin dal momento dell'ultimazione dell'opera, operando invece l'art. 1662 comma 2 c.c. nel caso di rovina che si verifichi in corso di esecuzione.

Si argomenta dalla ratio di tutela del mero interesse privato del committente, con riferimento ad immobili per loro natura destinati a lunga durata. La sicurezza dei cittadini sarebbe dunque tutelata solo quale «conseguenza riflessa» ed «involontaria della norma», in quanto «l'appaltatore, in forza della più grave responsabilità porrà maggiore attenzione nella costruzione dell'immobile».

Con particolare riferimento ai rapporti tra gli artt. 1667 e 1668 c.c. e l'art. 1669 c.c., questa dottrina considera gli artt. 1667 e 1668 c.c. eccezionali, rispetto alle regole generali sulla responsabilità nei contratti, ma tali da costituire regole generali in materia di responsabilità dell'appaltatore per i vizi, mentre ritiene la responsabilità ex art. 1669 c.c. essere «sottofattispecie» della ordinaria responsabilità contrattuale dell'appaltatore, costituendo, «solo in questo senso», «figura eccezionale» rispetto agli artt. 1667 e 1668 c.c.

Così argomentando si perviene a ritenere applicabili le due responsabilità, sussistendone i presupposti, ovvero l'una, quella di cui agli artt. 1667 e 1668 c.c., nel caso di insussistenza dei presupposti dell'altra, quella decennale di cui all'art. 1669 c.c., pur escludendo applicazioni analogiche, in ragione della detta eccezionalità della responsabilità contrattuale dell'appaltatore, unitariamente intesa, rispetto alle regole ordinarie della responsabilità contrattuale.

Trattandosi di responsabilità contrattuale, ove la colpa si presume in senso relativo ma in applicazione dei principi generali in materia di responsabilità contrattuale (art. 1218 c.c.) e sempre che il committente provi il fatto dannoso, cioè la rovina, il pericolo di rovina o il grave difetto, quella di cui all'art. 1669 c.c., tutelando il mero interesse privato del committente, opererebbe solo nel caso di vizi occulti e non palesi. Essa non avrebbe quale legittimato sostanziale passivo anche il venditore, salva l'ipotesi di vendita di cosa futura, non avrebbe quali legittimati sostanziali attivi soggetti terzi (rispetto al committente ed ai suoi aventi causa), i quali potrebbero agire, per i danni subiti dopo l'esecuzione, ex art. 2043 e 2053 c.c. (per danni causati a terzi durante l'esecuzione dell'opera si tratterebbe di responsabilità extracontrattuale). L'unica forma di risarcimento sarebbe infatti quella per equivalente, non essendo previste altre forme contemplate ex artt. 1667 e 1668 c.c., quale quella specifica (Rubino-Iudica, 449-476; per la natura contrattuale si vedano altresì: Lamanuzzi, 673; Rizzieri, 516, per il quale si tratterebbe di responsabilità contrattuale volta non a tutelare interesse di ordine pubblico bensì quello particolare del committente e dei suoi aventi causa).

Altra autorevole dottrina, pur propendendo per la natura contrattuale della responsabilità in esame (da colpa contrattuale presunta iuris tantum), con particolare riferimento ai rapporti tra gli artt. 1667 e 1668 c.c. e l'art. 1669 c.c., ritiene «forse un fuor d'opera» il voler stabilire necessariamente un rapporto tra la «speciale responsabilità» di cui all'art. 1669 c.c. e l'altra innanzi citata. La legge avrebbe in particolare inteso disciplinare due fattispecie distinte, non solo per la diversa proiezione nel tempo ma anche perché muovono da presupposti differenti, in quanto i difetti incidono sulla sostanza e sulla stabilità della costruzione e conducono a conseguenze differenti. Pur argomentando nei detti termini non si esclude però il ricorso oltre che alle regole generali sulla «responsabilità dei contratti» alle regole di cui agli artt. 1667 e 1668 c.c., ove non sia dato rinvenire nell'art. 1669 c.c. la soluzione di un particolare problema.

Trattandosi di responsabilità contrattuale la colpa si presume in senso relativo, in applicazione dei principi generali in materia di responsabilità contrattuale (art. 1218 c.c.), vincibile non con la prova di aver usato tutta la diligenza possibile ma con la dimostrazione specifica, attraverso fatti positivi, precisi e concordanti, della mancanza concreta di una propria responsabilità. A titolo esemplificativo, si fa riferimento al caso in cui sia provata la responsabilità esclusiva e non concorrente del committente o del suo direttore dei lavori o anche del progettista, per aver l'appaltatore agito senza alcun margine di autonomia. Potrebbe invece risultare che l'appaltatore, conosciuto il difetto di una delle modalità dell'opera, abbia avvertito, suggerendo inutilmente rimedi, il direttore dei lavori o lo stesso committente, o che il vizio dipenda dalla qualità della materia e l'appaltatore l'abbia tempestivamente segnalato al committente, rendendolo edotto dei pericoli derivati dall'impiego della materia stessa.

Quella di cui all'art. 1669 c.c., tutelando il mero interesse privato del committente, per tale tesi, opererebbe solo nel caso di vizi occulti e non palesi, in quanto eccezionale, non avrebbe quale legittimati sostanziali passivi il venditore, se non di cose future e a determinate circostanze, né il venditore-costruttore ed i tecnici coinvolti nella costruzione, quali il progettista ed il direttore dei lavori, risponderebbero in applicazione dei canoni della disciplina delle professioni intellettuali.

Del pari, sempre secondo tale dottrina, la responsabilità ex art. 1669 c.c. non avrebbe quali legittimati sostanziali attivi soggetti terzi, rispetto al committente ed ai suoi aventi causa ai quali, «eccezionalmente», si estende la legittimazione sostanziale attiva in deroga al principio generale in forza del quale il contratto, di regola, non produce effetti rispetto ai terzi ex art. 1372 c.c. L'unica forma di risarcimento sarebbe infatti quella per equivalente, non essendo previste altre forme di risarcimento, compresa quella specifica consistente nella ricostruzione o nell'eliminazione del grave difetto, salvo che ciò non venga offerto spontaneamente dall'appaltatore ed accolto dal committente (Giannattasio, 225, 231, 236, 238, 244; sembra altresì propendere per la tesi contrattuale, da colpa presunta iuris tantum, anche Musolino, 144, 153, 155, 156, il quale evidenzia altresì il necessario nesso di causalità tra la rovina, il pericolo di rovina o i gravi difetti ed i vizi del suolo o i difetti della costruzione, dovuti a cause originarie e non sopravvenute, sempre che tali difetti o vizi non siano palesi ovvero occulti ma noti al committente, in ragione della natura contrattuale della responsabilità; per l'autore da ultimo citato, infine, i principi di cui all'art. 1667 c.c. opererebbero con riferimento alla responsabilità decennale, in tema di effetti del riconoscimento dei vizi da parte dell'appaltatore oltre che di decorso di nuova responsabilità ex art. 1669 c.c., in caso di riemersione dei difetti successivamente alla loro eliminazione da parte dell'appaltatore).

Pur propendendo per la tesi contrattuale, in dottrina c'è chi sostiene che trattasi di responsabilità avente natura oggettiva ed in particolare fonte di garanzia in senso tecnico. Per tale voce l'art. 1669 c.c. tutela l'interesse generale a che l'opera sia non solo di buona fattura ma anche più solida e duratura, per tale motivo fonte di responsabilità più rigorosa di quella di cui agli artt. 1667 e 1668 c.c., della quale è «sottospecie» pur essendo più ampia e qualificata – «eccezione all'eccezione» – dando luogo ad un'obbligazione ex lege, relativa solo ai vizi occulti. Tale responsabilità sorge altresì nel momento in cui la costruzione è ultimata anche se posta a tutela del committente ed a formazione progressiva, perché condizionata sospensivamente al verificarsi e al manifestarsi dei gravi difetti che presentino pericolo di rovina nel decennio successivo (Vignali, 140, 150, 158, 164, il quale, proprio considerando la responsabilità decennale di natura contrattuale, esclude un rapporto di genere a specie tra gli artt. 2043 e 1669 c.c., ritenendo comunque che le due responsabilità possano convivere).

Altri autori, invece, pur sostengono la natura contrattuale della responsabilità ex art. 1669 c.c., per colpa presunta iuris tantum, chiariscono di porsi, ai fini della risoluzione delle questioni inerenti la responsabilità dell'appaltatore, dal punto di vista pratico dell'operatore giuridico, argomentando quindi dalla natura extracontrattuale della responsabilità ex art. 1669 c.c., in quanto così ritenuta dall'unanime giurisprudenza di legittimità. Ne conseguono l'irrilevanza di modifiche o esclusioni negoziali di responsabilità ex art. 1669 c.c., l'estensione della legittimazione sostanziale passiva anche al costruttore-venditore e, dal lato attivo, a qualsiasi terzo danneggiato, e l'irrilevanza della natura palese del vizio. Il fondamento della responsabilità in esame, definita «particolare», sarebbe però da ricercare «nell'importanza che tali opere attinenti agli immobili hanno nella realtà sociale ed economica, almeno secondo la visione del legislatore del 1942» (Soccini-Ripa, 156)

Altra autorevole dottrina propende per la natura extracontrattuale della responsabilità ex lege in oggetto, di ordine pubblico, in quanto avente la finalità di conciliare prevalenti ragioni di interesse generale all'incolumità con interessi privati dei soggetti (Voltaggio Lucchesi, 56, 69, 74, 79, per il quale, però, la legittimazione sostanziale attiva spetterebbe al committente ed ai suoi aventi causa ma non anche a qualsiasi terzo e la detta responsabilità opererebbe anche in caso di vizi conosciuti o conoscibili da parte del committente ma, in questi ultimi casi, solo in favore degli aventi causa del committente e non anche di quest'ultimo; per la natura extracontrattuale si vedano, altresì: Barbanera, 135; D'Orazio, 859; Piselli, 79).

Una dottrina sostiene infine la natura intermedia della responsabilità ex art. 1669 c.c., norma che avrebbe «natura mista», contrattuale, nei rapporti tra i contraenti, investendo l'esecuzione dell'opera sotto il profilo della sua durata (rovina o difetti entro il decennio), ed extracontrattuale, nei rapporti erga omnes, per i danni che i terzi possano subire per l'inadempienza contrattuale. Si tratterebbe dunque di una responsabilità di ordine pubblico, sancita per ragioni e finalità di interesse generale e privato insieme, al fine di garantire la conservazione dei beni di lunga durata. Ne conseguirebbero, dalla detta doppia natura della responsabilità decennale, ripercussioni anche in merito alla legittimazione sostanziale, attiva e passiva, quest'ultima, in particolare, estesa anche a qualsiasi terzo danneggiato (Pagliara, 221).

Tale tesi della natura intermedia è di recente ripresa e sviluppata da un autore che ne fa derivare la conseguenza per la quale qualsiasi terzo, compreso l'avente causa, sebbene, diversamente dal committente, agendo in via extracontrattuale, potrebbe avvalersi della presunzione relativa di colpa di cui all'art. 1669 c.c. Tale conclusione non sarebbe frutto di applicazione analogica della norma bensì di interpretazione estensiva, in quanto norma non eccezionale non potendo negarsi la qualifica di regolarità ad essa che, nel proprio fondamento, si ispira, fra le altre, ad un'esigenza di garanzia della pubblica incolumità, oltre che degli interessi particolari sottesi all'appalto, integrando, peraltro, gli artt. 1667, 1668 e 1669 c.c., in un «sistema unitario di responsabilità dell'appaltatore» (Polidori, 333, 358).

Altra dottrina, infine, pur non prendendo esplicita posizione in merito, evidenzia il dibattito dottrinale e giurisprudenziale circa la natura della responsabilità decennale ex art. 1669 c.c. e ritiene che si tratti di «sottospecie» della responsabilità ex artt. 1667 e 1668 c.c. e non di ipotesi di responsabilità eccezionale.

Tale responsabilità, difatti, non ricollegherebbe un effetto diverso (come è invece proprio delle norme eccezionali) ma solo un «effetto più ampio sotto il profilo temporale» (prevedendo una durata decennale al posto dei due anni previsti dall'art. 1667 c.c.) e «maggiormente qualificato» (prevedendo che l'appaltatore sia responsabile nei confronti del committente e dei suoi aventi causa laddove l'art. 1667 c.c. fa riferimento generico alla garanzia). I detti effetti, per la dottrina in esame, «non rompono la logica del sistema» e fanno propendere per un rapporto di genere a specie tra gli artt. 1667 e 1668 c.c. e l'art. 1669 c.c., così criticando la tesi della natura eccezionale della responsabilità ex art. 1660.

Ne consegue che, per gli aspetti non appositamente regolati dall'art. 1669 c.c., si applicano anche alla responsabilità decennale le regole comuni di cui agli artt. 1667 e 1668 c.c., salvo per quei punti per i quali la legge ha esplicitamente previsto delle deviazioni e di quelli che implicitamente derivano dalla particolare ragione della norma. I tre articoli da ultimo citati, dunque, sarebbero «disposizioni speciali in tema di inadempimento del contratto di appalto», tali da integrare e non escludere i principi generali in tema di inadempimento contrattuale (AA.VV., in Luminoso, 630).

Ripercussioni della natura extracontrattuale in merito alle legittimazioni (sostanziali) attive e passive.

Cass. II, n. 467/2014, muovendo dalla natura extracontrattuale della responsabilità e dell'evidenziata ratio di tutela dell'interesse generale, conclude nel senso della legittimazione attiva sostanziale anche dell'acquirente, della legittimazione passiva sostanziale, a date circostanze, del venditore-costruttore (nella specie una cooperativa edilizia), del concorso di responsabilitàex art. 1669 c.c. tra venditore ed appaltatore nei confronti dell'acquirente.

Cass. II, n. 9370/2013 ne fa invece discendere la legittimazione passiva sostanziale ex art. 1669 c.c. anche in capo al venditore costruttore, in ipotesi in concorso sia con l'appaltatore che con il progettista ed il direttore dei lavori, che abbia costruito l'immobile sotto la propria responsabilità, allorché lo stesso venditore abbia assunto, nei confronti dei terzi e degli stessi acquirenti, una posizione di diretta responsabilità nella costruzione dell'opera (si vedano, quali precedenti: Cass. II, n. 2238/2012, anche con riferimento alla responsabilità per fatto colpevole degli ausiliari, quali il progettista ed il direttore dei lavori; Cass. II, n. 3702/2011; Cass. I, n. 8520/2006; Cass. II, n. 4622/2002).

Muovendo dalle stesse premesse circa natura e ratio della responsabilità in esame la giurisprudenza di legittimità, ritiene applicabile la c.d. responsabilità aggravata, che dà luogo a debito di valore quindi da liquidarsi avuto riguardo al potere di acquisto della moneta alla data della decisione giudiziale, anche nei confronti del costruttore e non soltanto con riferimento alla costruzione oggetto del contratto ma anche in relazione alla stessa opera che sia stata ricostruita dallo stesso costruttore nell'assolvimento dell'obbligo di «garanzia» (nel caso di specie, muro di cinta dell'edificio) per eliminare i vizi costruttivi. In tale ipotesi, precisa la Suprema Corte, il termine decennale della garanzia dell'appaltatore inizia a decorrere ex novo dall'ultimazione degli interventi ricostruttivi, per effetto del «nuovo rapporto di garanzia» sorto con la ricostruzione, totale o parziale, dell'edificio destinato a lunga durata (Cass. II, n. 13/1993 e, negli stessi termini, più di recente, Cass. II, n. 20853/2009).

Sempre per la natura extracontrattuale si veda, ex plurimis, Cass. II, n. 12895/2003, la quale ne trae argomenti per vagliare i rapporti tra l'azione esperita dal committente e quella esperita dal proprietario. Essa precisa che in materia di appalto, poiché l'art. 1669 c.c. attribuisce espressamente al committente l'azione di responsabilità per i difetti di cose immobili, ivi prevista, la legittimazione di tale soggetto non può essere esclusa per il fatto che, attesa la natura extracontrattuale della responsabilità in argomento, l'azione stessa può essere esperita anche dall'attuale proprietario che non abbia avuto alcun rapporto con l'appaltatore. Si tratta infatti di due legittimazioni che, in astratto, sono concorrenti sicché solo in concreto l'una o l'altra potrebbe essere esclusa, in considerazione del particolare atteggiarsi dell'interesse alla causa (in senso conforme, Cass. II, n. 3221/1999).

Cass. III, n. 11740/2013 , muovendo dalla natura e dalla ratio della responsabilità ex art. 1669 c.c., differenti rispetto a quelle caratterizzanti la responsabilità ex art. 1667 c.c., ritiene che l'obbligazione risarcitoria nascente dall'accertamento della detta responsabilità possa essere assolta in forma specifica, mediante condanna dell'appaltatore all'eliminazione diretta dei vizi della costruzione, o per equivalente pecuniario, mediante condanna dell'appaltatore al pagamento della somma di denaro corrispondente al costo delle opere necessarie per l'eliminazione dei difetti, anche nel caso di aumento dei costi delle materia prima rispetto al costo delle stesse in sede di costruzione. Sarebbe difatti a tale responsabilità applicabile il principio generale di cui all'art. 2058 c.c., riferendosi l'art. 1669 c.c. genericamente alla responsabilità dell'appaltatore (si veda altresì Cass. II, n. 8140/2004, la quale ritiene applicabile la responsabilità in oggetto anche alle ipotesi di gravi difetti quali carenze costruttive dell'opera da intendersi anche inerenti la singola unità abitativa di un immobile; in precedenza, nello stesso senso, Cass. II, n. 1164/1995).

Ratio e natura della responsabilità in oggetto sono poi presupposti per riconoscere una responsabilità concorrente dell'appaltatore e del committente o esclusiva di quest'ultimo e l'importanza, ai detti fini, della derivazione del danno da carenze o vizi imputabili al progetto e/o alla direzione dei lavori.

Cass. III, n. 11740/2003 chiarisce difatti che, in linea di principio, stante l'autonomia dell'appaltatore nell'esecuzione dell'opera questi è sempre ed in qualsiasi circostanza tenuto ad agire nel rispetto delle regole dell'arte sua ed è, pertanto, responsabile del danno cagionato anche ove soggetto all'ingerenza del committente. Allorché il danno derivi da carenze o vizi imputabili al progetto e/o alla direzione dei lavori, la responsabilità relativa ed il conseguente obbligo risarcitorio incombono ciò non di meno sull'appaltatore quando questi, accortosi del vizio, non lo abbia denunziato tempestivamente al committente manifestando formalmente il proprio dissenso, ovvero quando non abbia rilevato i vizi, pur potendo e dovendo riconoscerli in relazione alla perizia ed alle capacità tecniche da lui esigibili nel caso concreto. Con la responsabilità dell'appaltatore, precisa la detta giurisprudenza, in via eccezionale può «concorrere» quella del committente quando il fatto dannoso sia stato posto in essere a seguito di errori o carenze nel progetto o nella direzione dei lavori. È però necessario che carenze ed errori gli siano imputabilicongiuntamente ai professionisti incaricati, per difetto di diligenza nel controllare che l'opera intellettuale commessa fosse stata compiuta nel rispetto delle particolari norme tecniche della disciplina – e sempre che si versi nell'ipotesi di vizi e violazioni facilmente riconoscibili anche da parte di un profano.

La responsabilità del committente può invece essere considerata «esclusiva» solo quando l'ingerenza, sua e/o del direttore dei lavori da lui nominato, che sia espressamente prevista in contratto, abbiano rigidamente vincolato l'organizzazione e conduzione dei lavori da parte dell'appaltatore sì da neutralizzarne completamente l'autonomia decisionale e da relegarlo nella posizione di un nudus minister (ex plurimis, quali precedenti: Cass. II, n. 1154/2002; Cass. II, n. 1948/2001; Cass. II, n. 13003/2000; Cass. II, n. 8075/1999; Cass. II, n. 851/1999).

Sempre Cass. II, n. 11749/2003 evidenzia altresì che, avendo natura contrattuale (differentemente da quella di cui all'art. 1667 c.c.), la responsabilità decennale in esame prescinde dalla consegna dell'opera e dall'accettazione, formale o tacita, della stessa, che sono manifestazioni di volontà rilevanti nel solo ambito del rapporto contrattuale (in senso conforme, ex plurimis, Cass. II, n. 8689/1998).

In tema di concorso colposo del danneggiato, infine, preme evidenziare che nel caso di gravi difetti di costruzione dell'immobile, le iniziative tecniche ed i lavori volti ad eliminare, ove sia possibile, la causa dei vizi incombono sull'appaltatore. Il committente ha invece solo la facoltà e non l'obbligo di sostituirglisi, debitamente autorizzato, al fine di limitare i danni connessi a riscontrati vizi. Sicché, ove la parte danneggiata non assuma iniziative in tale senso ovvero lo faccia tardivamente in tali comportamenti o scelte non può ravvisarsi il concorso di un fatto colposo del danneggiato suscettibile di limitare la responsabilità dell'autore del danno (Cass. II, n. 11749/2003; in precedenza si vedano, nello stesso senso, Cass. II, n. 12347/1997 e Cass. II, n. 9081/1992).

L'art. 1669 c.c., che si pone in rapporto di specialità con quella generale di cui all'art. 2043 c.c., attribuisce legittimazione ad agire contro l'appaltatore ed eventuali soggetti corresponsabili, non solo al committente ed ai suoi aventi causa (ivi compreso l'acquirente dell'immobile), ma anche a qualunque terzo che lamenti essere stato danneggiato in conseguenza dei gravi difetti della costruzione, della sua rovina o del pericolo della rovina di essi.

In questi termini è la costante giurisprudenza di legittimità, si vedano, ex plurimis: Cass. S.U., n. 2284/2014, per la quale la norma di cui all'art. 1669 c.c., in rapporto di specialità rispetto alla generale fattispecie prevista dall'art. 2043 c.c., è finalizzata ad assicurare una più efficace tutela non solo del committente e dei suoi aventi causa ma dei terzi in generale; Cass. I, n. 8520/2006; Cass. III, n. 1748/2005.

La sentenza da ultimo citata (Cass. III, n. 1748/2005) precisa, altresì, che la chiamata in causa del costruttore, ex art. 1669 c.c., da parte del proprietario dell'immobile, che sia stato convenuto in giudizio dal terzo danneggiato con invocazione della responsabilità ex artt. 2043 e 2051 c.c., ha natura di garanzia impropria. Trattasi difatti di titoli (di responsabilità) distinti, collegati solo indirettamente, introducenti una causa autonoma e scindibile tra committente ed appaltatore in forza di azioni legate tra loro da un vincolo di subordinazione o di pregiudizialità-dipendenza. Ne consegue l'esclusione dell'estensione automatica della domanda originaria dell'attore nei confronti del chiamato e, quindi, della possibilità di emettere direttamente nei confronti del terzo la pronunzia di condanna (nello stesso senso della natura impropria della chiamata in garanzia si veda Cass. II, n. 14449/1999).  

Con particolare riferimento alla legittimazione passiva ed ai rapporti, nell'ambito della responsabilità professionale, tra responsabilità dell'appaltatore e quella de progettista, ancorché, come nella specie, con veste di direttore dei lavori nominato dal committente, si veda, ex plurimis, Cass. II, n. 13882/2014.

Per la citata sentenza del 2014, quando l'opera eseguita in appalto presenta gravi difetti dipendenti da errata progettazione, il progettista è responsabile, con l'appaltatore, verso il committente, ai sensi dell'art. 1669 c.c. A nulla rileva, in contrario, la natura e la diversità dei contratti cui si ricollega la responsabilità, perché l'appaltatore ed il progettista, quando con le rispettive azioni od omissioni – costituenti autonomi e distinti illeciti o violazioni di norme giuridiche diverse – concorrono in modo efficiente a produrre uno degli eventi dannosi tipici indicati nell'art. 1669 c.c., si rendono entrambi responsabili dell'unico illecito extracontrattuale, e rispondono entrambi, a detto titolo, del danno cagionato. Trattandosi difatti di «responsabilità extracontrattuale, specificamente regolata anche in ordine alla decadenza ed alla prescrizione», aggiunge la sentenza in oggetto, «non spiega alcun rilievo la disciplina dettata dagli artt. 2226 e 2330 c.c., e si rivela ininfluente la natura dell'obbligazione – se di risultato o di mezzi – che il professionista assume verso il cliente committente dell'opera data in appalto».

La Suprema Corte precisa altresì che il principio di cui innanzi trova applicazione anche nell'ipotesi in cui venga fatta valere la responsabilità, ex art. 1669 c.c., del direttore dei lavori, tanto più quando (come nel caso di specie sottopostole) il direttore dei lavori sia stato anche progettista (Cass. II, 13882/2014 la quale nell'enunciare il principio, con riferimento alla concorrente responsabilità del progettista, fa esplicito riferimento a quanto statuito da Cass. II, n. 7992/1997, e Cass. II, n. 8016/2012).

In senso conforme, ex plurimis: Cass. II, n. 1154/2002 e Cass. II, n. 1290/2000.

Per la sentenza da ultimo citata l'esito positivo del collaudo di un'opera non esclude la responsabilità dell'appaltatore ai sensi dell'art. 1669 c.c. – norma di garanzia dell'opera nel tempo, mentre il collaudo costituisce prova di tenuta in un unico contesto – e pertanto egli è tenuto a rispondere in caso di gravi difetti nell'esecuzione (nel senso dell'irrilevanza dell'esito positivo del collaudo si veda anche, ex plurimis, Cass. III, n. 7914/2014, dovendo l'appaltatore rispondere, anche dopo il collaudo, oltre che per i vizi occulti anche per la rovina parziale o totale dell'opera, se destinata obiettivamente a lunga durata).

Qualora poi i gravi difetti dipendano altresì da errori del progettista anche costui è responsabile, in concorso e in solido con l'appaltatore, ai sensi del medesimo art. 1669 c.c., per i danni derivatine., Con la conseguenza, precisa sempre Cass. II, n. 1290/20002, che il rapporto processuale tra i predetti condebitori è scindibile e che la notifica della sentenza, da parte del danneggiato, nei confronti dell'uno, non determina la decorrenza del termine breve per impugnare nei confronti dell'altro.

Tale ultimo approdo, circa i profili processuali, è ribadito di recente da Cass. II, n. 18831/2016, la quale, dando dichiaratamente seguito al consolidato orientamento di legittimità, statuisce che l'appaltatore ed il progettista o direttore dei lavori, convenuti in solido per il risarcimento del danno prodotto da rovina e difetti di cose immobili, rivestono posizioni indipendenti. L'ipotesi di responsabilità regolata dall'art. 1669 c.c. ha natura extracontrattuale e conseguentemente nella stessa possono incorrere a titolo di concorso con l'appaltatore che abbia costruito un fabbricato minato da gravi difetti di costruzione, tutti quei soggetti che, prestando a vario titolo la loro opera nella realizzazione di esso, abbiano, per colpa professionale (segnatamente il progettista e/o il direttore dei lavori), concorrono alla determinazione dell'evento dannoso. Sul piano processuale la detta situazione dà luogo a rapporti distinti, tecnicamente a cause scindibili, che rimangono tali anche se trattate congiuntamente. All'interesse sostanziale di ciascuna parte corrisponde necessariamente un interesse autonomo all'impugnazione; sicché, il termine per proporla non può essere unitario ma decorre dalla data delle singole notificazioni a ciascuno dei titolari dei diversi rapporti definiti con l'unica sentenza (nello stesso senso ex plurimis, Cass. III, n. 239/2008)

Sempre con particolare riferimento alla legittimazione sostanziale passiva ed attivaex art. 1669 c.c. ed alla responsabilità concorrente dell'appaltatore e del venditore-costruttore, ancora una volta muovendo dalla natura extracontrattuale della responsabilità e dalla più volte evidenziata ratio, si veda Cass. II, n. 467/2014.

Tale citato arresto giurisprudenziale del 2014 assume rilievo in quanto non si limita a citare precedenti di legittimità sul punto ma mira a ricondurli ad unità, escludendo che il costruttore-venditore possa rispondere, ex art. 1669 c.c., nei confronti dell'acquirente solo nel caso in cui abbia ridotto l'appaltatore a mero nudus minister (potendo ciò rilevare in ai fini dell'eventuale esclusione del concorso della responsabilità dell'appaltatore). Il costruttore-venditore, invece, può rispondere, in concorso con l'appaltatore e verso l'acquirente, nel caso in cui abbia avuto una qualche ingerenza, sorveglianza o influenza nella realizzazione dell'opera, come può avvenire nel caso di sua nomina di direttore dei lavori o di designazione di progettista dalla cui negligenza dipenda, sia pure in concorso con l'appaltatore, il vizio lamentato.

La Suprema Corte chiarisce che l'esposta linea ermeneutica è coerente con la teoria che ha ricondotto l'art. 1669 c.c. nell'alveo della responsabilità extracontrattuale (con presunzione iuris tantum di colpa), al fine di consentire ai danneggiati da gravi difetti (rovina) dell'edificio, una tutela non minore, ma anzi, come vuole il legislatore, rafforzata rispetto a quella che sarebbe loro offerta dall'art. 2043 c.c. Se così non fosse, si aggiunge, i danneggiati si troverebbero paradossalmente preclusa la strada risarcitoria generica proprio da una norma che è stata invece dettata per ampliare gli spazi di tutela (con conseguente necessaria applicazione dei principi ordinari in tema di responsabilità aquiliana circa il presupposto per individuare il concorso del venditore-costruttore).

Così concludendo, la citata Cass. II, n. 467/2014 esplicitamente ritiene di porsi in consapevole contrasto con Cass. I, n. 13158/2002, che, come evidenziato in sentenza, sembra ritenere che il venditore-costruttore risponda, ex art. 1669 c.c., nei confronti dell'acquirente, solo nel caso in cui abbia egli provveduto alla costruzione dell'immobile con propria gestione diretta, ovvero sorvegliando personalmente l'esecutore dell'opera, in modo da rendere l'appaltatore un mero esecutore dei suoi ordini.

In ordine alla tematica della responsabilità del committente e dell'appaltatore per danni cagionati a terzi dall'esecuzione delle opere appaltate, con particolare riferimento all'azione di rivalsa, Cass. III, n. 11194/2019, chiarisce che la regola per la quale risponde il solo appaltatore, ove abbia operato in autonomia con propria organizzazione e apprestando i mezzi a ciò necessari, il solo committente, nel caso in cui si sia ingerito nei lavori con direttive vincolanti, che abbiano ridotto l'appaltatore al rango di nudus minister, mentre rispondono entrambi, in solido, qualora la suddetta ingerenza si sia manifestata attraverso direttive che abbiano soltanto ridotto l'autonomia dell'appaltatore, trova applicazione anche nei rapporti interni tra le parti del contratto di appalto, nell'ipotesi in cui una di esse, sussistendo una responsabilità (esclusiva o concorrente) dell'altra, agisca in rivalsa.

In applicazione del principio di cui innanzi la Suprema Corte ha ritenuto esente da critiche la sentenza che, in sede di rivalsa azionata dal committente nei confronti dell'appaltatore, aveva riscontrato, conformemente all'art. 1227, comma 2, c.c., una corresponsabilità del committente per aver condiviso la scelta operativa di demolire i muri perimetrali della struttura.

Alcuni spunti di riflessione in merito alla natura (extracontrattuale o contrattuale) della responsabilità aggravata.

Come anticipato in premessa, Cass. S.U., n. 7756/2017, nel risolvere una differente questione inerente l'ambito di applicabilità dell'art. 1669 c.c. (rilevante quindi anche con riferimento alla responsabilità professionale del progettista e del direttore dei lavori), sembrerebbe fornire spunti di riflessione in senso contrario rispetto alla tesi della natura extracontrattuale della responsabilità c.d. aggravata, ancorché in via incidentale e quale obiter.

Con ordinanza interlocutoria, Cass. III, n. 12041/2016, rilevando un contrasto in seno alla Suprema Corte, ha rimesso gli atti al Primo Presidente con riguardo alla questione relativa all'applicabilità dell'art. 1669 c.c. con riferimento alle sole ipotesi di costruzione ex novo ovvero anche in ordine ad interventi di ristrutturazione, integranti quindi non nuova costruzione bensì modificazioni o riparazioni.

Da un lato, infatti, secondo un primo orientamento, l'art. 1669 c.c. delimita, «con certa evidenza», il suo ambito di applicazione alle opere aventi ad oggetto la costruzione di edifici o di altre cose immobili, destinate per loro natura a lunga durata, ricomprendendo (per pacifica giurisprudenza) la sopraelevazione di un edificio preesistente (in quanto costruzione nuova ed autonoma) ma non anche le modificazioni o le riparazioni apportate ad un edificio preesistente o ad altre preesistenti cose immobili, destinate per loro natura a lunga durata (si vedano, Cass. II, n. 24143/2007, al cui principio di diritto si riporta la successiva Cass. II, n. 10658/2015).

Il contrapposto orientamento sostiene invece che, ex art. 1669 c.c., possa rispondere anche l'autore di opere su preesistente edificio, allorché queste incidano sugli elementi essenziali dell'immobile o su elementi secondari rilevanti per la funzionalità globale, così integrando i «gravi difetti» richiesti dalla norma (Cass. II, n. 22553/2015).

Le citate Sezioni Unite del 2017 risolvono il contrasto affermando l'applicabilità dell'art. 1669 c.c., ricorrendone tutte le altre condizioni, anche alle opere di ristrutturazione edilizia e, in genere, agli interventi manutentivi o modificativi di lunga durata su immobili preesistenti che (rovinino o) presentino (evidente pericolo di rovina o) gravi difetti incidenti sul godimento e sulla normale utilizzazione del bene, secondo la destinazione propria di quest'ultimo.

Aderendo dichiaratamente all'orientamento meno restrittivo, la Suprema Corte ritiene sostenibile il principio di cui innanzi sulla base di ragioni di interpretazione storico-evolutiva, letterale e teleologica.

L'iter logico-giuridico seguito muove dalla disamina del «gravi difetti» di cui all'art. 1669 c.c. evidenziando che la giurisprudenza di legittimità (in ciò quindi confermata delle stesse Sezioni Unite in esame) ritiene tali anche quelli riguardanti elementi secondari ed accessori (come impermeabilizzazioni, rivestimenti, infissi, etc.), purché compromettenti la funzionalità globale e la normale utilizzazione del bene, secondo la destinazione propria di quest'ultimo. Sicché, da ormai quasi mezzo secolo, per la giurisprudenza è del tutto indifferente che i gravi difetti riguardino una costruzione interamente nuova, mostrandosi di porsi dall'angolo visuale anche degli elementi secondari ed accessori, a prescindere che si tratti della prima realizzazione dell'immobile, essendo ben possibile che l'opus oggetto dell'appalto consista e si esaurisca in questi stessi e soli elementi. A fortiori, proseguono quindi le Sezioni Unite, deve ritenersi che ove l'opera appaltata consista in un intervento di più ampio respiro (come, appunto, una ristrutturazione), quantunque non in una nuova costruzione, l'art. 1669 c.c. sia ugualmente applicabile. In conclusione, considerare anche gli elementi «secondari» ha significato distogliere il focus dal momento «fondativo» dell'opera per direzionarlo sui «gravi difetti» di essa, per desumere i quali è necessario indagare altro, vale a dire l'aspetto funzionale del prodotto conseguito.

In termini di interpretazione storica, la Suprema Corte pone in risalto il passaggio dall'art. 1639 del c.c. del 1865 all'attuale art. 1669 c.c., il quale, tra le altre previsioni, in aggiunta rispetto al precedente, contempla anche l'ipotesi dei «gravi difetti». Il mutamento di prospettiva del codice del 1942 è evidente per due ragioni. La prima, d'ordine logico, è che la nozione di «gravi difetti», per la sua ampiezza, è omogenea a qualunque opera, edilizia e non, per cui meglio si presta al riferimento, del pari generico, alle altre cose immobili. In secondo luogo (argomento di indole letterale), mentre nel testo del 1865 il soggetto della seconda proposizione subordinata era l'edificio o altra opera notabile («l'uno o l'altra»), nella frase che vi corrisponde nell'art. 1669 c.c. il soggetto diviene «l'opera», nozione che rimanda al risultato cui è tenuto l'appaltatore (art. 1655 c.c.). Rileva dunque qualsiasi opera su di un immobile destinato a lunga durata, a prescindere dal fatto che, ove di natura edilizia, essa consista o non in una nuova fabbrica. Completano e confermano la validità di tale esito ermeneutico, come chiariscono le Sezioni Unite: l'irrazionalità (non conforme ad un'interpretazione costituzionalmente orientata) di un trattamento diverso tra fabbricazione iniziale e ristrutturazione edilizia, questa non diversamente da quella potendo essere foriera dei medesimi gravi pregiudizi, e la circostanza per la quale costruire, nel suo significato corrente (oltre che etimologico) implica, non l'edificare per la prima volta e dalle fondamenta, l'assemblare tra loro parti convenientemente disposte (cum struere, cioè ammassare insieme)

Ai fini che qui interessano rileva evidenziare che le Sezioni Unite esplicitamente ritengono, per la risoluzione della questione sottopostale, irrilevante la natura extracontrattuale della responsabilità ex art. 1669 c.c., costantemente affermata dalla giurisprudenza di legittimità. La categoria dei «gravi difetti», per le ragioni innanzi esposte, tende difatti a spostare il baricentro della richiamata norma dall'incolumità dei terzi alla compromissione del godimento normale del bene e, quindi, da un'ottica pubblicistica ed aquiliana ad una privatistica e contrattuale. Si considera altresì la maggiore importanza che sul tema della tutela dei terzi emerge dall'esperienza dell'appalto pubblico, con l'espresso riconoscimento dell'azione in capo agli aventi causa del committente, potendo questi agire anche contro il costruttore-venditore (ex plurimis, Cass. II, n. 476/2014; Cass. II, n. 9370/2013; Cass. II, n. 2238/2012 e Cass. II, n. 4622/2002).

Quanto detto, concludono le Sezioni Unite, priva del suo principale oggetto la teoria della responsabilità extracontrattuale ex art. 1669 c.c., insieme ai recenti approdi in tema di efficacia ultra partes del contratto ed alla possibilità che essa operi in favore dei terzi nei casi previsti dalla legge (art. 1372 comma 2 c.c.).

Cass. II, 18891/2017, sembra però non considerare (tanto in un senso quanto nell'altro) gli spunti di riflessione di cui innanzi.

La Suprema Corte, difatti applica il principio di diritto di cui alle citate Sezioni Unite del 2017, circa l'operabilità della responsabilità c.d. aggravata in esame anche con riferimento ad interventi manutentivi o di riparazione, anche nei confronti del venditore. L'azione ex art. 1669 c.c. può quindi essere esercitata anche dall'acquirente nei confronti del venditore che, prima della vendita, abbia fatto eseguire sull'immobile ad un appaltatore, sotto la propria direzione ed il proprio controllo, opere di ristrutturazione edilizia o interventi manutentivi e modificativi di lunga durata, che rovinino o presentino gravi difetti.

Nel motivare l'applicabilità della responsabilità ex art. 1669 c.c. anche al venditore, però, la citata Cass. II, n, 18891/2017, fa esplicito riferimento al consolidato orientamento di legittimità che argomenta dalla natura extracontrattuale della stessa.

Trattasi della tesi per la quale, in ragione della detta natura extracontrattuale, l'azione di responsabilità in esame è esercitabile non solo dal committente nei confronti dell'appaltatore ma anche dall'acquirente nei confronti del venditore che risulti fornito della competenza tecnica per dare, direttamente o tramite il proprio direttore dei lavori, indicazioni specifiche all'appaltatore esecutore dell'opera. Così esercitando un potere di direttiva o di controllo sull'impresa appaltatrice, tale da rendergli addebitabile l'evento dannoso. La detta responsabilità del venditore sarebbe altresì configurabile sia quando questi abbia costruito l'immobile e lo abbia poi alienato all'acquirente, sia quando abbia incaricato un terzo appaltatore della costruzione del bene prima della sua vendita.

Al pari della giurisprudenza, anche per la dottrina pacificamente la responsabilità ex art. 1669 c.c. è applicabile alle ipotesi di ricostruzione o di costruzione di una nuova parte dell'immobile, come nel caso di sopraelevazione, che, dal punto di vista dell'ingegneria, presenti una propria autonomia.

Si fa difatti riferimento proprio all'ipotesi di sopraelevazione di un piano dell'edificio già esistente, precisando che, in casi simili, l'appaltatore risponde solo della parte da lui eseguita e non anche delle parti preesistenti, come nel caso di piani inferiori che rovinino per loro difetto non riconoscibile da un tecnico con conseguente rovina anche del nuovo piano sopraelevato. In tale ultimo caso, però, se si accertasse che l'appaltatore, come tecnico, avrebbe dovuto accorgersi che i piani inferiori non avrebbero consentito la sopraelevazione, egli sarebbe responsabile in caso di mancato avvertimento del committente prima dell'inizio dei lavori. In ogni caso, l'opera deve essere comunque terminata e non in corso di esecuzione, altrimenti troverebbe applicazione la diversa norma di cui all'art. 1662 comma 2 c.c. (Rubino-Iudica, 460; Giannattasio, 225, 230, 232, il quale precisa che la responsabilità si estenderebbe anche alla rovina dei piani preesistenti se «conseguenza diretta ed immediata del difetto della costruzione» – sopraelevazione – eseguita, «anche se non può escludersi il concorso di responsabilità dello stesso committente»; nello stesso senso circa l'operatività della responsabilità in caso di realizzazione di una nuova parte di edificio preesistente, si vedano anche: Soccini-Ripa, 156, 159; Dellacasa, 446, 454; AA.VV., in Luminoso 637; Vignali, 167, nel senso dell'applicabilità alle ipotesi di opera eseguita ex novo dalle fondamenta oltre che a costruzione nuova, con una propria autonomia dal punto di vista tecnico, che si aggiunga ad una costruzione preesistente quale, ad esempio, una sopraelevazione).

In merito all'applicabilità della responsabilità in esame anche alle ipotesi di interventi di modificazione o di riparazione di immobili preesistenti si registrano in dottrina due orientamenti.

Una prima tesi, che sembrerebbe prevalere, argomenta nel senso dell'applicabilità dell'art. 1669 c.c. anche alle ipotesi di cui innanzi, entro determinati limiti.

Essa, che distingue diverse ipotesi, muove dall'assunto in forza del quale il quesito di diritto in oggetto è lo stesso di quello che sorge quando rovina o presenta pericolo di rovina o gravi difetti una parte dell'originaria costruzione ed è lo stesso art. 1669 c.c. che lo fa sorgere, riferendosi anche all'ipotesi che l'immobile rovini «in parte». In primo luogo, a seguito della modifica o della riparazione potrebbe rovinare tutto l'immobile, ovvero presentare pericolo di rovina o gravi difetti, con conseguente operatività dell'art. 1669 c.c., ancorché la parte riparata o modificata, in se stessa ed isolatamene considerata, non abbia importanza tale da poter dare appiglio al detto articolo, purché lo siano le altre parti andate in rovina o rimaste danneggiate.

Nel caso in cui rovini o presenti pericolo di rovina o gravi difetti solo la singola parte riparata o modificata occorre invece verificare la natura della riparazione o della modifica nonché della parte riparata o modificata, con particolare riferimento anche all'importanza di essa rispetto all'economia dell'intero immobile. Non si applicherebbe l'art. 1669 c.c., in particolare, nei casi di riparazioni e modifiche per loro natura non destinate a lunga durata (tali sarebbero, esemplificativamente, quelle ordinarie e non quelle straordinarie) oppure inerenti parti dell'immobile non destinate a lunga durata ovvero di minima importanza rispetto all'intera opera, anche in termini di funzionalità della stessa, mentre lo sarebbe nelle ipotesi inverse. Sarebbe altresì indifferente che la riparazione o la modifica sia estesa a tutto l'immobile o che sia rimasta limitata ad una parte determinata di esso ma con effetti perniciosi tali da risentirne tutto l'immobile. Questi ultimi casi ricorrerebbero, esemplificativamente, nelle ipotesi di riparazione di arcata di un ponte (la quale poi crolli facendo rovinare tutto il ponte) ovvero di riparazione di un soffitto (che poi crolli sfondando il pavimento sottostante) o di riparazione di una finestra che lasci però passare l'umidità esterna e la pioggia, facendo così deteriorare gravemente tutto l'interno della camera.

Tale tesi precisa però che nei detti casi l'appaltatore non è responsabile allorché la rovina, il pericolo di rovina o i gravi difetti della riparazione o della modifica derivino non da vizio della riparazione stessa ma da altre parti preesistenti all'immobile, non riparate o modificate, concludendo che, per la natura stessa del problema, in sede generale non si possono fornire criteri più precisi mentre un apprezzamento pieno potrebbe essere compiuto solo per ciascun caso concreto e con prudente apprezzamento del giudice (Rubino-Iudica, 449, 455, 457, 458; Nello stesso senso si vedano altresì: Dellacasa, 446, 454, il quale, oltre a concordare con l'impostazione di cui innanzi, attribuisce alla «speciale responsabilità» in oggetto la funzione di garantire il committente contro difetti suscettibili di manifestarsi dopo un considerevole periodo di tempo dalla consegna; Soccini-Ripa, 156, i quali evidenziano altresì che «le opere di riparazione o modificazione possono incidere profondamente nella struttura dell'immobile originario, tali da consistere in vere e proprie nuove costruzioni» – facendo riferimento, in via esemplificativa, al rifacimento totale degli interni di un appartamento –, e concludono nel senso che occorre verificare caso per caso l'applicabilità dell'art. 1669 c.c. alle riparazioni e modificazioni, in considerazione dell'entità e della rilevanza di esse ed in particolare della loro destinazione o meno a lunga durata).

Tale interpretazione sarebbe poi in linea con la ratio della fattispecie in quanto volta, perlomeno per la costante giurisprudenza di legittimità, a garantire l'interesse di ordine pubblico alla stabilità e solidità degli immobili destinati ad avere lunga durata, a garanzia dell'incolumità e della sicurezza dei cittadini. Quest'ultima potrebbe difatti essere compromessa anche da interventi di modificazione o riparazione inerenti edifici o altre cose immobili destinate, per loro natura, a lunga durata (Marinucci, 680, il quale adduce anche argomentazioni letterali a supporto dell'assunto; Dellacasa, 446, 454, anche egli non condivide l'opposto orientamento già sotto il profilo esegetico oltre che in forza di un'interpretazione teleologica della norma; Lamanuzzi, 673; Rizzieri, 516; Cagnasso, 174).

L'orientamento opposto, infine, si ritiene essere tale da ingenerare irragionevoli disparità di trattamento suscettibili di tacciare di incostituzionalità, per contrasto con l'art. 3 Cost., la diversa interpretazione della norma di riferimento, in ragione delle differenze di presupposti di operatività della responsabilità decennale e di quella ex artt. 1667 e 1668 c.c., operante anche per le ipotesi di mere modificazioni e riparazioni.

L'art. 1669 c.c. sarebbe difatti applicabile, a titolo esemplificativo, in ipotesi di costruzione ex novo di poggiolo e scale, prima non esistenti, ma non nel caso in cui essi, già esistenti, vengano demoliti, in tutto o in parte, per poi essere ricostruiti, potendo in questo secondo caso, sempre in applicazione del contrapposto orientamento, trovare applicazione la diversa responsabilità di cui all'art. 1667 c.c.

Per tale dottrina, in particolare, «la differenza tra il regime delle due fattispecie è così irragionevole che dalla disposizione, così interpretata, si ricava una norma suscettibile di essere dichiarata costituzionalmente illegittima per contrasto con l'art. 3 Cost.» (Dellacasa, 446, 454, 456, il quale, al prospettato profilo di illegittimità costituzionale inerente l'opposta tesi dell'irrilevanza degli interventi di modificazione o riparazione, aggiunge «una notevole instabilità in sede applicativa», derivante dall'applicazione del contrapposto orientamento, nel caso, esemplificativo, della demolizione di poggiolo e scale per essere ricostruiti su un altro lato dell'edificio, magari riutilizzando gli stessi materiali).

Il contrapposto orientamento argomenta invece dalla natura della norma di cui all'art. 1669 c.c., che, in quanto «di carattere speciale», sarebbe «insuscettibile di interpretazione analogica».

La detta disciplina non potrebbe comunque trovare applicazione quando non ricorra la «costruzione» di un edificio o di altro immobile destinato, per sua natura, a lunga durata ma una semplice riparazione o modificazione, cioè un lavoro di limitata entità, che non impegni la struttura e la stabilità di un edificio. Il riferimento alla «rovina anche parziale» di cui all'art. 1669 c.c., per i sostenitori dell'orientamento in esame, non sarebbe tale da condurre ad una differente interpretazione della norma in quanto «la responsabilità speciale dell'appaltatore» ha sempre riferimento ad una costruzione compiuta dallo stesso appaltatore in esecuzione di quel contratto d'appalto e non ad una riparazione o modificazione, «sempre per l'impossibilità di applicare la norma oltre i casi in essa considerati» (Giannattasio, 225, 231; nel senso dell'inapplicabilità dell'art. 1669 alle ipotesi di modificazione o riparazione si vedano anche: Vignali, 164; Musolino, 155, il quale però non argomenta in merito facendo invece riferimento – in nota n. 22 – ad altra dottrina che ha affrontato la questione).

Il rapporto di specialità tra responsabilità c.d. aggravata e responsabilità c.d. ordinaria.

Circa il rapporto tra gli artt. 1667 e 1668 c.c. e l'art. 1669 c.c., infine, per costante giurisprudenza di legittimità, esso si configura in termini di genere a specie, essendo la responsabilità decennale (art. 1669 c.c.) sottospecie dell'ordinaria responsabilità dell'appaltatore (artt. 1667 c.c. e 1668 c.c.).

In tema di appalto, non sussiste incompatibilità tra le norme di cui agli artt. 1667 c.c. e 1669 c.c., nel senso che il committente di un immobile che presenti «gravi difetti» ben può invocare, oltre al rimedio risarcitorio del danno (contemplato soltanto dall'art. 1669 c.c.), anche quelli previsti dall'art. 1668 c.c. (eliminazione dei vizi, riduzione del prezzo, risoluzione del contratto) con riguardo ai vizi di cui all'art. 1667 c.c., purché non sia incorso nella decadenza stabilita dal detto articolo.

I «gravi difetti» dell'opera si traducono difatti inevitabilmente in «vizi» della medesima, sicché la presenza di elementi costitutivi della prima forma di responsabilità implica necessariamente la presenza di quelli della seconda. Ne consegue che la norma generale continua ad applicarsi anche in presenza dei presupposti di operatività della norma speciale, così da determinare una concorrenza delle due garanzie, quale risultato conforme alla ratio di rafforzamento della tutela del committente sottesa allo stesso art. 1669 c.c., non smentita da alcun dato testuale, logico e sistematico.

Nei termini di cui innanzi si esprime l'attuale giurisprudenza di legittimità.

Si veda, da ultimo, Cass. S.U., n. 7756/2017 la quale evidenzia altresì che la detta specialità si è anche notevolmente attenuata avendo la giurisprudenza di legittimità ammesso, oltre all'azione risarcitoria, anche quelle di riduzione del prezzo, di condanna specifica all'eliminazione dei difetti e di risoluzione, costituenti il contenuto della c.d. garanzia ordinaria dell'appaltatore (si vedano, ex plurimis: Cass. I, n. 815/2016; Cass. II, n. 8140/2004, Cass. II, n. 8294/1999; contra ma più risalenti nel tempo, nel senso della non applicabilità delle azioni tipiche della responsabilità ordinaria dell'appaltatore: Cass. II, n. 2954/1983; Cass. II, n. 2561/1980; Cass. III, n. 1662/1968).

Dai descritti rapporti tra la responsabilità c.d. ordinaria dell'appaltatore e quella c.d. aggravata Cass. II, n. 3702/2011 ne fa in particolare conseguire l'assenza di contrasto dell'art. 1669 c.c. con l'art. 3 Cost., sotto il profilo della irragionevole disparità di trattamento rispetto alla disciplina posta dall'art. 1667 c.c. in tema di prescrizione.

Il committente in particolare non subirebbe alcun deficit di protezione per il fatto che i difetti dell'opera presentino il carattere di particolare gravità indicato dall'art. 1669 c.c. In tema di prescrizione dei diritti del committente nel contratto di appalto, precisa difatti la Suprema Corte, la regola eccezionalmente sancita dall'ultimo comma dell'art. 1667 c.c., secondo cui il committente convenuto per il pagamento può sempre far valere, in via d'eccezione, la garanzia, purché le difformità o i vizi siano stati denunciati entro i termini prescritti, non è applicabile in via analogica alla responsabilità per gravi difetti prevista dall'art. 1669 c.c. Ciò però non in ragione del rapporto tra gli artt. 1667 e 1669 c.c., come detto non in termini di regola ed eccezione, bensì trattandosi di una deroga, quella di cui all'art. 1667 comma 3, seconda parte, c.c., alla norma generale di cui all'art. 2934 c.c. in materia di estinzione dei diritti, secondo la quale la prescrizione estingue il diritto sia se fatta valere in via di azione che in via di eccezione.

Per i riferimenti dottrinali in merito al rapporto tra gli artt. 1667 e 1668 c.c. e l'art. 1669 c.c., si veda il precedente paragrafo «La natura della responsabilità c.d. aggravata».

Si aggiunge, in questa sede, che anche altra dottrina evidenzia il rapporto di genere a specie tra gli artt. 1667 e 1668 c.c. e l'art. 1669 c.c., ritenuto fonte di responsabilità e non di garanzia in senso tecnico, ove la responsabilità di cui alle prime due citate norme è intesa quale speciale e non eccezionale applicazione della comune responsabilità contrattuale per inadempimento totale o parziale. Essa illustra altresì la tesi del carattere di specialità dell'art. 1669 c.c. rispetto all'art. 2043 c.c. oltre che le conseguenze della tesi della natura extracontrattuale della responsabilità decennale, in termini di legittimazione passiva anche del venditore-costruttore (AA.VV., in Cendon 381).

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