Codice Civile art. 2043 - Risarcimento per fatto illecito.

Laura Mancini
aggiornato da Francesco Agnino

Risarcimento per fatto illecito.

[I]. Qualunque fatto doloso o colposo [1176], che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno [7, 10, 129-bis, 840, 844, 872 2, 935 2, 939 3, 948, 949, 1440, 1494 2, 2395, 2504-quater, 2600, 2818, 2947; 185 2, 198 c.p.; 22 ss. c.p.p.; 55, 60, 64 2, 96, 278 c.p.c.]  12.

 

[1] In tema di responsabilità per danno da prodotto difettoso v. art. 114 d.lg. 6 settembre 2005, n. 206; in tema di danno ambientale v. art. 300 d.lg. 3 aprile 2006, n. 152; in tema di assicurazione obbligatoria della responsabilità civile v. gli artt. 170-172 d.lg. 7 settembre 2005, n. 209.

[2] Per la responsabilità civile della struttura e dell'esercente la professione sanitaria, v. art. 7 l. 8 marzo 2017, n. 24

Inquadramento

Il nesso di causalità è il rapporto che intercorre tra due fatti in forza del quale il primo costituisce l'antecedente necessario del secondo.

La nozione di causalità nell'ambito della responsabilità civile va ricostruita in coerenza con la funzione normativa dell'illecito extracontrattuale, che è quella di consentire l'imputazione ad un soggetto di un fatto produttivo di un danno ingiusto.

In mancanza di una definizione legislativa, essa va desunta dalla lettura sistematica delle disposizioni del titolo IX del libro IV del codice civile e, in particolare, dalla formulazione letterale dell'art. 2043 c.c., in cui l'impiego dell'espressione «cagiona ad altri un danno ingiusto» attesta la collocazione del nesso di causalità tra gli elementi strutturali del fatto illecito. Il Legislatore impone, dunque, la sussistenza di un collegamento eziologico tra il «fatto doloso e colposo» e il «danno ingiusto», nozione quest'ultima che nella stessa fattispecie dell'art. 2043 c.c. risulta distinta da quella di danno oggetto dell'obbligazione risarcitoria cui si fa riferimento nella parte finale della norma. Il nesso che collega tale danno al fatto illecito è, infatti, disciplinato da una diversa disposizione, l'art. 1223 c.c., applicabile alla responsabilità extracontrattuale in forza del rinvio contenuto nell'art. 2056 c.c. (Franzoni, 35).

Nella struttura dell'illecito aquiliano il nesso di causalità assume, dunque, una duplice rilevanza quale fattore oggettivo di imputazione del fatto produttivo del danno all'autore e quale criterio di attribuzione e di delimitazione delle conseguenze pregiudizievoli risarcibili che da esso derivano.

Nel delineare la nozione di nesso causale quale elemento strutturale dell'illecito aquiliano, la giurisprudenza di legittimità nega l'automatica trasponibilità in sede civile dell'elaborazione della dottrina e della giurisprudenza penalistiche, evidenziando come la responsabilità penale si incentri sull'esigenza dell'imputazione soggettiva ed oggettiva al reo del fatto — reato, così che assume rilevanza l'accertamento dell'elemento materiale costituito da condotta, evento e nesso di causalità, mentre la responsabilità civile si incentra sul danno ingiusto e non sul fatto illecito, il quale assume il ruolo mediato di presupposto per l'imputazione del danno all'autore. La risarcibilità del danno postula, infatti, l'accertamento di una delle fattispecie di responsabilità di cui agli artt. 2043 e ss. c.c. la cui struttura consta di una condotta connotata da dolo o colpa o di una situazione o relazione in forza della quale è possibile individuare il soggetto responsabile, e di un evento ad esse collegato da un nesso causale.

In tale contesto il danno assume una duplice valenza, ossia di evento lesivo causato dalla condotta o dalla situazione normativamente prevista e di conseguenza risarcibile da quest'ultimo derivante. Il danno oggetto dell'obbligazione risarcitoria è esclusivamente il danno conseguenza del fatto lesivo di cui l'evento lesivo è elemento costitutivo.

La causalità assume una connotazione diversa in relazione ai due momenti in cui si articola l'accertamento del danno, ovvero nella verifica della sussistenza di un fatto lesivo idoneo ad ascrivere la responsabilità ad un determinato soggetto e nell'individuazione dei pregiudizi risarcibili che ne costituiscano la conseguenza (Cass.S.U., n. 582/2008; Cass. n. 21255/2013;Cass. n. 22857/2019).

Evento di danno e danno conseguenza

L'enucleazione di due autonomi nessi di causa – connotati da distinte finalità e discipline – si correla alla diversità ontologica che nella struttura dell'illecito aquiliano contraddistingue il danno ingiusto rispetto al danno oggetto dell'obbligazione risarcitoria.

Il primo, denominato dalla dottrina «evento di danno», coincide con l'evento lesivo di una situazione giuridica soggettiva considerata dall'ordinamento giuridico come meritevole di tutela e di norma consiste in un'ingiusta modificazione esteriore, materiale o giuridica, della sfera giuridica della vittima causalmente riconducibile ad una condotta umana connotata da dolo o colpa, ovvero ad una situazione di fatto o di diritto tipizzata (es. il rapporto di custodia con la cosa o l'animale (artt. 2051 e 2052 c.c.), l'esercizio di attività pericolosa (art. 2050 c.c.), la proprietà dell'edificio (art. 2053 c.c.) o del veicolo (art. 2054 c.c.), il rapporto di preposizione (art. 2049 c.c.), ecc.) dalla quale il Legislatore fa discendere la responsabilità oggettiva o per colpa presunta di un determinato soggetto.

Il concetto di evento di danno — che va distinto da quello di «danno evento», con il quale parte della dottrina identifica il pregiudizio in re ipsa, ovvero connaturato alla stessa lesione e in quanto tale non necessitante di specifica dimostrazione ai fini della tutela risarcitoria —, costituisce elemento fondamentale nella struttura dell'illecito perché vale ad identificare la lesione dell'interesse meritevole di tutela secondo l'ordinamento giuridico – elemento funzionale di ogni situazione giuridica soggettiva (diritto soggettivo, personale o reale, interesse legittimo, possesso, ecc.) riconosciuta dalla legge — senza il quale un danno risarcibile non è ipotizzabile (Forchielli, 30).

Deve ritenersi irrilevante il fatto che manchi un'espressa previsione normativa di tale componente dell'illecito in quanto il suo duplice ruolo di elemento terminale della verifica dell'imputazione del fatto all'autore ai fini dell'accertamento della responsabilità e di presupposto dal quale origina la valutazione del pregiudizio risarcibile si ricava in via interpretativa dalla lettura coordinata delle norme del titolo IX che contengono il termine «danno». Tale espressione è impiegata con diversi significati: come perdita patrimoniale nell'art. 1223 c.c. (richiamato dall'art. 2056 c.c.), come evento lesivo di un interesse protetto dall'ordinamento giuridico nella prima parte dell'art. 2043 c.c., come perdita non patrimoniale nell'art. 2059 c.c., come danno da risarcire negli artt. 2055 comma2, 2056 e 2057 c.c.

Coincidono, invece, con l'evento di danno e vanno, quindi, intese come risultato finale causalmente riconducibile ad una condotta umana o ad altra situazione di fatto o di diritto prevista dalla legge quale presupposto della responsabilità le espressioni «fatto dannoso» (artt. 2045,2046 e 2055 c. 1 c.c.), «fatto illecito» (artt. 2048 e 2049 c.c.), «danno cagionato» (artt. 2044,2047 comma 1, 2048,2050,2051,2052 e 2053 c.c.), «danno prodotto» (art. 2054 comma 1 c.c.), danno «derivato» (art. 2054 comma 4 c.c.), (Franzoni, 49).

In alcune fattispecie di responsabilità l'evento è descritto e tipizzato dalla norma (è il caso dell'art. 2053 c.c. in cui l'evento di danno coincide con la rovina, ovvero dell'art. 2054 c.c. in cui l'evento viene descritto come lesione alle cose o alle persone), mentre in altre è indicato genericamente («fatto dannoso», «danno derivato», «danno prodotto»).

Nei primi casi, una volta dimostrato il verificarsi dell'evento come descritto dalla legge, occorre soltanto accertare che un nesso causale sussista tra detto specifico evento e la lesione subita dal danneggiato. Negli altri la funzione della causalità è, invece, quella di collegare oggettivamente alla condotta o alla posizione del responsabile l'evento di danno come di volta in volta effettivamente concretizzatosi.

In tale verifica un ruolo decisivo, ai fini dell'identificazione dell'evento di danno rilevante, assumono i criteri di imputazione della responsabilità, così che nell'illecito doloso l'evento va identificato con quello previsto e voluto dall'agente, nell'illecito colposo in quello prevedibile ed evitabile da parte del responsabile alla stregua del modello di diligenza di volta in volta applicabile, nelle fattispecie di responsabilità oggettiva l'evento di danno è l'ultimo della sequenza di eventi scaturenti dalla situazione fondante la responsabilità, non interrotta dal caso fortuito o dagli altri fatti oggetto della prova liberatoria previsti nelle singole fattispecie di illecito (Gorla, 1951, 416).

Dall'evento di danno va, invece, distinto il danno risarcibile o danno conseguenza (Visintini, 3), che consiste nell'insieme delle concrete conseguenze pregiudizievoli derivanti dalla lesione di un interesse giuridicamente protetto, e precisamente nella riduzione o compromissione del modo in cui detto interesse al conseguimento o alla conservazione delle svariate utilità sottese alla situazione giuridica soggettiva e da essa garantite veniva concretamente attuato dal titolare anteriormente all'illecito.

Il danno è, in definitiva, il risultato materiale o giuridico in cui si concreta la lesione di un interesse giuridicamente apprezzabile (Bianca, 123) e può concretizzarsi in una perdita di natura patrimoniale (art. 1223 c.c.) o non patrimoniale (art. 2059 c.c.).

Affinché sorga l'obbligazione risarcitoria di cui alla seconda parte dell'art. 2043 c.c. deve sussistere un nesso causale anche tra l'evento di danno e il danno conseguenza oggetto della riparazione: il danno deve, infatti, essere conseguenza immediata e diretta dell'evento di danno (art. 1223 c.c.).

La distinzione tra evento di danno e danno conseguenza è recepita anche dalla giurisprudenza di legittimità, la quale ha in più occasioni delineato le due nozioni al fine di evidenziare la duplicità dei nessi di causa rilevanti nel giudizio di responsabilità. È stato, in particolare, evidenziato che, perché sorga l'obbligazione risarcitoria, occorre non soltanto un fatto lesivo, retto dalla causalità materiale, ma anche un danno conseguenza di questo, retto dalla causalità giuridica, la cui imputazione presuppone il riscontro di alcuna delle fattispecie normative ex artt. 2043 c.c. (Cass. n. 4043/2013).

La ricostruzione del nesso eziologico sussistente tra la condotta del danneggiante e la conseguenza dannosa risarcibile postula, in particolare, la scomposizione del giudizio causale in due autonomi e consecutivi segmenti, il primo, inteso ad identificare il nesso di causalità materiale, che lega la condotta all'evento di danno; il secondo diretto ad accertare il nesso di causalità giuridica che lega tale evento alle conseguenze dannose risarcibili ed è disciplinato dall'art. 1223 c.c. che pone esso stesso una regola eziologica (Cass. n. 21255/2013;  Cass., n. 22857/2019).

Così si è affermato che il danno all'immagine ed alla reputazione, inteso come "danno conseguenza", non sussiste in re ipsa, dovendo essere allegato e provato da chi ne domanda il risarcimento. Pertanto, la sua liquidazione deve essere compiuta dal giudice, con accertamento in fatto non sindacabile in sede di legittimità, sulla base non di valutazioni astratte, bensì del concreto pregiudizio presumibilmente patito dalla vittima, per come da questa dedotto e dimostrato, anche attraverso presunzioni gravi, precise e concordanti, che siano fondate, però, su elementi indiziari diversi dal fatto in sé (Cass. n. 2968/2021).

Causalità materiale e causalità giuridica

La nozione di causalità nella responsabilità civile non può, dunque, considerarsi unitaria in quanto assume rilevanza, sul piano della morfologia dell'illecito aquiliano, quale collegamento oggettivo che avvince sia la condotta – o la situazione oggettiva o soggettiva contemplata dalle fattispecie di responsabilità oggettiva o per colpa presunta del titolo IX del libro IV del codice civile – all'evento di danno, sia quest'ultimo alle conseguenze pregiudizievoli di natura patrimoniale e non patrimoniale che fondano l'obbligazione risarcitoria; mentre dal punto di vista funzionale costituisce fattore di imputazione della responsabilità, nel primo caso, e criterio di delimitazione e quantificazione del danno risarcibile, nel secondo.

Le differenze strutturali e funzionali del nesso eziologico nei due momenti dell'illecito così idealmente scomposto giustificano l'elaborazione dottrinaria di due distinti concetti di causalità contraddistinti da autonomi criteri di accertamento.

Si parla, in particolare, di causalità materiale o naturale o di fatto, nel primo caso, e di causalità giuridica nel secondo (Gorla, 1951, 407; Franzoni, 67).

L'indagine sulla sussistenza di un nesso di causalità materiale tra il fatto imputabile all'autore e l'evento di danno assume una portata preliminare rispetto alla verifica della causalità giuridica e, secondo l'opinione maggioritaria della dottrina, va condotta alla stregua delle teorie elaborate dalla dottrina penalistica in relazione agli artt. 40 e 41 c.p. (Visintini, 5; Capecchi, 2005, 53).

La causalità giuridica è, invece, regolata dai criteri desumibili dagli artt. 1223,1227 c. 2 e dall'art. 1225 c.c. (quest'ultimo applicabile alla sola responsabilità per inadempimento), nonché, secondo una parte della dottrina (Visintini, 8), dalla regola equitativa della compensatio lucri cum damno (cfr. infra).

Costituisce principio ampiamente condiviso anche in giurisprudenza quello per il quale nel sistema della responsabilità civile la causalità assolve alla duplice finalità di fungere da criterio di imputazione del fatto illecito e di regola operativa per il successivo accertamento dell'entità delle conseguenze pregiudizievoli del fatto. Essa va, pertanto, scomposta nelle due fasi corrispondenti al giudizio sull'illecito, nell'ambito del quale va verificata la sussistenza di un nesso tra la condotta o altra situazione rilevante e l'evento, e al giudizio sul danno da risarcire, in cui deve, invece, essere accertato il nesso di causalità tra l'evento e le singole conseguenze dannose, ai fini della delimitazione di quali tra queste siano risarcibili.

Si è, quindi, affermata, anche in giurisprudenza, l'idea per la quale nel giudizio di responsabilità civile possono individuarsi due distinti nessi di causa, il primo dei quali, detto di causalità materiale che avvince la condotta all'evento lesivo e che presenta rilevanti analogie con quello delineato negli artt. 40 e 41 c.p.; e il nesso di causalità, che trova il proprio fondamento normativo negli artt. 1223 e 2056 c.c., a mente dei quali anche in materia di illecito extracontrattuale il danno deve comprendere le perdite che siano conseguenza immediata e diretta del fatto lesivo (c.d. causalità giuridica) (Cass. n. 21619/2007; Cass. S.U., n. 582/2008; Cass. n. 4043/2013; Cass. n. 21255/2013;  Cass. n. 22857/2019).

Il primo di tali nessi di causalità costituisce il presupposto per l'imputazione della responsabilità, e il secondo consente di individuare le perdite risarcibili ed assolve alla specifica funzione di delimitare, sotto il profilo quantitativo, le conseguenze pregiudizievoli dell'accertata responsabilità. I criteri normativi attraverso i quali è possibile delimitare il danno risarcibile sono dettati, oltre che dall'art. 1223 c.c., dagli artt. 1223,1226,1227 c.c. dettati in materia di responsabilità per inadempimento ed applicabili alla responsabilità extracontrattuale in forza del rinvio contenuto nell'art. 2056 c.c. (Cass.S.U. n. 582/2008).

Le teorie sulla causalità materiale

La funzione della causalità materiale nella responsabilità civile è, dunque, quella di discernere tra più fatti, possibili cause efficienti dell'evento di danno che si è verificato, la circostanza ritenuta giuridicamente rilevante per il suo determinarsi.

La verifica della causalità è, dunque, un problema eminentemente giuridico, ancorché non specificamente regolamentato dal codice civile.

Difatti, l'art. 2043 c.c. postula già risolto il problema della causalità, mentre l'art. 1223 c.c. fornisce un'indicazione alquanto generica.

Neanche le disposizioni del codice penale e, segnatamente, gli artt. 40 e 41 c.p., ancorché specificamente dedicate alla causalità, offrono regole certe e condivise, tanto che hanno dato luogo ad un'imponente elaborazione teorica ed all'affermazione di numerose ipotesi ricostruttive (Ricco', 2010) di cui la dottrina civilistica è stata da sempre tributaria.

Tra le opinioni sviluppate dal pensiero giuridico in ambito penale, ancora oggi seguite, con opportuni adattamenti, dagli studiosi della responsabilità civile, vi è la teoria condizionalistica o della condicio sine qua non o dell'equivalenza causale elaborata in Germania alla fine del XIX secolo (Fiandaca, 1988, 119), secondo la quale l'antecedente di un determinato evento è considerato causa dello stesso se, eliminato mentalmente, viene meno lo stesso evento.

L'applicazione rigorosa di tale criterio mostra i suoi limiti nel momento in cui conduce all'individuazione di un numero infinito di cause per ciascun evento, con conseguente proliferazione dei soggetti responsabili e si pone in contrasto con la funzione selettiva del diritto in forza della quale non tutti i fatti naturali possono essere causa di responsabilità, ma solo quelli previsti dall'ordinamento giuridico.

Sono stati, così, proposti dei correttivi intesi a limitare la capacità espansiva della teoria condizionalistica pura e a selezionare nell'indefinita serie di antecedenti che hanno prodotto l'evento quelli che l'ordinamento reputa produttivi di una qualche forma di responsabilità.

Si sono, quindi, affermate una serie di teorie accomunate da tale finalità.

Tra queste vanno menzionate: a) la teoria della c.d. causalità efficiente, per la quale gli antecedenti di un evento devono essere così classificati: causa efficiente (la causa che produce un evento), condizione (permette alla causa efficiente di operare), occasione (coincidenza, circostanza più o meno favorevole) (Capecchi, 94); b) la teoria della causalità adeguata o della regolarità causale, per la quale, ai fini dell'attribuzione della responsabilità, è necessario che le conseguenze della condotta dell'agente apparissero prevedibili nel momento in cui la stessa condotta è stata posta in essere. È, quindi, necessario che sussista una regolarità causale del verificarsi degli eventi, in base ad un giudizio di tipo statistico ed una prognosi postuma (secondo una parte degli interpreti da condursi ex ante e in concreto, secondo altri ex ante , ma in astratto). All'esito di tale verifica devono essere escluse dall'imputazione causale le conseguenze del tutto atipiche (Capecchi, 2005, 78); c) la teoria della causalità umana, elaborata quale correttivo alla teoria della causalità adeguata e, in particolare, per sopperire alla mancata inclusione tra gli antecedenti giuridicamente rilevanti di quelle condizioni che si presentano prive di adeguatezza o regolarità causale rispetto all'evento che l'agente abbia perseguito, ma di inverosimile realizzabilità alla stregua dell'antecedente posto in essere. Tale teoria mira ad escludere dal novero degli eventi in senso giuridico altrimenti imputabili all'agente, non quelli semplicemente anormali, ma solo quelli che sfuggono alla ponderazione dell'uomo (Ricco', 2010, 158; Capecchi, 2005, 97); d) la teoria condizionalistica orientata secondo il modello di sussunzione sotto leggi scientifiche di copertura, elaborata al fine di perfezionare la teoria condizionalistica attraverso l'individuazione di una legge scientifica universale di copertura che valga a giustificare l'assunto per il quale in concreto un dato antecedente ha rappresentato una condizione necessaria dell'evento; e) la teoria dello scopo della norma violata, secondo la quale per accertare la sussistenza di un nesso causale tra la condotta in contrasto con una determinata norma e l'evento occorre verificare se l'evento ricada nel suo ambito di protezione (Capecchi, 103).

Nella copiosa elaborazione in materia vanno, altresì, ricordate la teoria dell'imputazione obiettiva dell'evento, in base alla quale si richiede, ai fini del giudizio di responsabilità, non solo o non tanto un nesso causale di tipo materiale, ma una valutazione di attitudine della condotta censurata ad aumentare il rischio di produzione dell'evento dannoso (oltre i limiti del c.d. rischio consentito) (Ricco', 2010, 158); la teoria della causa agevolatrice, per la quale costituisce antecedente causale rilevante ai fini dell'imputazione dell'evento anche l'attività od inattività che non costituisce causa materiale o effettiva dell'evento dannoso, ma inadempimento delle norme aventi lo scopo di impedirlo.

Ai fini dell'accertamento del nesso di causalità materiale la giurisprudenza prevalente accede alla teoria condizionalistica desumibile dagli artt. 40 e 41 c.p., secondo la quale un evento è da considerare causato da un altro se, ferme restando le altre condizioni, il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo. Corollario di tale assunto è il principio dell'equivalenza delle cause posto dall'art. 41 c.p., in base al quale, se la produzione di un evento dannoso è riferibile a più azioni od omissioni, deve riconoscersi ad ognuna di esse efficienza causale.

Tale principio trova un temperamento nella regola desumibile dal secondo comma dell'art. 41 c.p., in base al quale l'evento dannoso deve essere attribuito esclusivamente all'autore della condotta sopravvenuta, se questa risulti tale da rendere irrilevanti le altre cause preesistenti, ponendosi al di fuori delle normali linee di sviluppo della serie causale già in atto (Cass. n. 27168/2006; Cass. n. 19297/2006; Cass. n. 5254/2006; Cass. n. 268/1996).

La stessa giurisprudenza ha, tuttavia, evidenziato che non è sufficiente tale relazione causale per determinare una causalità giuridicamente rilevante, dovendosi, all'interno delle serie causali così determinate, dare rilievo a quelle soltanto che, nel momento in cui si produce l'evento causante non appaiano del tutto inverosimili, ma che si presentino come effetto non del tutto imprevedibile, secondo il principio della c.d. causalità adeguata o quella similare della c.d. regolarità causale (Cass. n. 4791/2007; Cass. n. 15384/2006; Cass. n. 21020/2006; Cass. n. 17152/2002; Cass. S.U., n. 576/2008; Cass. S.U., n. 581/2008; Cass. S.U., n. 582/2008; Cass. S.U., n. 584/2008; Cass. n. 26042/2010; Cass. n. 10607/2010; Cass. n. 16123/2010; Cass. sez. lav., n. 8885/2010; Cass. n. 8430/2011; Cass. n. 15453/2011; Cass. n. 25133/2017; Cass. n. 30775/2017; Cass. n. 2480/2018; Cass. n. 2483/2018; Cass. n. 27724/2018; Cass. n. 9315/2019; Cass. S.U., n. 13246/2019).

Secondo la teoria della regolarità causale, la responsabilità può essere affermata solo per le conseguenze della condotta, attiva o omissiva, che, nel momento in cui venga posta in essere, e alla stregua di una valutazione ex ante (c.d. prognosi postuma), appaiono sufficientemente prevedibili, mentre deve essere esclusa per le conseguenze assolutamente atipiche o imprevedibili (Cass. S.U., n. 582/2008).

La giurisprudenza maggioritaria assume, tuttavia, che tale valutazione prognostica non deve essere confusa con il giudizio di prevedibilità prevenibilità che vale a connotare la verifica della colpa.

La prevedibilità che caratterizza il giudizio causale è, infatti, obiettiva e va esaminata in astratto e non in concreto ed il metro di valutazione da adottare non è quello della conoscenza dell'uomo medio, ma delle migliori conoscenze scientifiche del momento (Cass. S.U., n. 582/2008).

Secondo la teoria della causalità adeguata, ai fini della verifica del nesso eziologico, l'evento deve essere prevedibile non già da parte dell'agente, ma alla stregua di regole statistiche e scientifiche, alla luce delle quali deve apparire non improbabile.

Per la Suprema Corte il criterio della regolarità causale è, in definitiva, la misura della relazione probabilistica in astratto — ossia svincolata da ogni riferimento all'agente concreto ed ai doveri di comportamento sullo stesso gravanti – tra comportamento ed evento dannoso.

L'accertamento della causalità materiale

Per l'orientamento maggioritario della dottrina civilistica i principi generali che regolano la causalità di fatto sono anche in materia civile quelli delineati dagli artt. 40 e 41 c.p. interpretati alla luce della teoria della regolarità causale (Alpa, T. dir. priv., VI, 14; Franzoni, 67; De Cupis, 228).

Altri autori propongono, invece, un'applicazione delle norme e delle teorie penalistiche sulla causalità parziale, ossia limitata alle sole fattispecie di responsabilità per fatto illecito e non anche a quelle di responsabilità oggettiva (Trimarchi, 197).

Un'opinione minoritaria ha, invece, ritenuto di individuare negli artt. 1221,1227 e 2055 c.c. alcuni indici dai quali desumere una disciplina civilistica dell'accertamento del nesso causale del tutto autonoma dal sistema delineato dagli artt. 40 e 41 c.p. (Forchielli, 72).

Secondo tale impostazione le suddette disposizioni del codice civile sono espressione dell'accoglimento, da parte del Legislatore, della teoria della condicio sine qua non, in quanto attribuiscono rilevanza causale a qualunque antecedente che abbia svolto un ruolo anche minimo nel prodursi del danno.

Attesterebbe, in particolare, il recepimento di tale spiegazione causale l'art. 1221 c.c., che disciplina la c.d. perpetuatio obligationis, secondo il quale il debitore che è in mora non è liberato per la sopravvenuta impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile, se non prova che l'oggetto della prestazione sarebbe ugualmente perito presso il creditore, in quanto, alla stregua della sua previsione, il debitore non è tenuto al risarcimento ogniqualvolta il danno si sarebbe, comunque, prodotto anche senza il contributo causale della sua condotta. L'art. 2055 c.c. sarebbe, invece, espressione del principio dell'equivalenza causale in quanto «la solidarietà prevista dall'art. 1294 rappresenta un effetto che discende dal conforme impegno assunto dallo stesso coobbligato o quantomeno dalla valutazione oggettiva e probabilistica che sta alla base del principio dispositivo della volontà contrattuale. Per contro nel campo della responsabilità extracontrattuale, il criterio della solidarietà non sembra poter altrimenti spiegarsi se non come coerente corollario del principio della condicio sine qua non» (Forchielli, 83).

La dottrina in esame ritiene, inoltre, che nel codice civile sarebbe rinvenibile anche una disciplina organica del concorso di più cause nella produzione del medesimo evento, distinta a seconda che venga in rilievo un concorso di una causa imputabile con una concausa naturale (o comunque non imputabile); oppure si verifichi il concorso di cause imputabili a soggetti diversi. Nel primo caso sarebbe applicabile l'art. 2055 comma 1 c.c., il quale, recependo la teoria della condicio sine qua non, attribuisce l'intera responsabilità al danneggiante che abbia posto in essere anche solo una causa marginale del prodursi del danno; nel secondo caso sarebbe, invece, applicabile l'art. 1227 c.c., che farebbe riferimento a un criterio cronologico, ovvero alla teoria della c.d. causa prossima, in base alla quale coloro che hanno determinato le diverse cause sono corresponsabili se l'operare delle cause loro imputabili è contemporaneo; qualora, invece, vi sia una successione cronologica nell'operare delle diverse cause, la responsabilità dovrebbe ricadere solo sul soggetto cui sia imputabile la causa prossima all'evento, ossia quella che ha operato per ultima (Forchielli, 71).

La tesi appena delineata è stata sottoposta a critica in quanto ritenuta in contrasto con l'orientamento prevalente della dottrina e della giurisprudenza secondo il quale solo in relazione al primo comma dell'art. 1227 c.c. può discorrersi di causalità (c.d. materiale), mentre il secondo comma presuppone già risolto il problema della causalità materiale e si riferisce al successivo rapporto tra evento dannoso e pregiudizi che ne conseguono.

In dottrina è stato, poi, affermato che la causalità non può essere correttamente intesa se non si considera che la sua prova ha una diversa rilevanza negli illeciti colposi rispetto agli illeciti non colposi (Carbone, 161).

Ciò non significa che può essere elaborata una teoria bipolare della causalità materiale, la quale rimane, per contro, unitaria (contra, Trimarchi, 225), ma che la diversa incidenza della prova liberatoria nell'ambito dell'illecito comporta che in alcune fattispecie di responsabilità oggettiva, come quelle exartt. 2051 e 2052 c.c., la mancata dimostrazione del fortuito esime il danneggiato dalla dimostrazione di uno specifico nesso causale tra la cosa o l'animale e il danno. Ne deriva che ove, per esempio, nella responsabilità ex art. 2051 c.c. il custode riesca a fornire la prova di un fatto determinato che escluda la riferibilità causale del danno alla cosa, è automatica la pronuncia di responsabilità restando a suo carico la causa ignota. Il danneggiato non ha l'onere di provare lo specifico nesso causale cosa-danno come negli illeciti colposi, ma più semplicemente deve dimostrare che la cosa ha costituito una condizione necessaria per il verificarsi del danno. Spetta, invece, al custode l'onere di dimostrare la specifica causa fortuita capace di escludere l'imputazione causale del danno dal fatto della cosa. In definitiva al danneggiato spetta la prova del semplice ruolo concausale del fatto della cosa e di una idonea causalità giuridica ad essa attribuibile.

Come si è già detto, la teoria causale maggiormente seguita in giurisprudenza è quella della causalità adeguata, in base alla quale un soggetto può essere ritenuto responsabile delle sole conseguenze che appaiano prevedibili nel momento in cui ha agito, mentre non possono essergli imputate le conseguenze atipiche.

Nelle applicazioni giurisprudenziali tale tesi non si contrappone, ma si cumula alla teoria condizionalistica perché postula l'individuazione, attraverso, appunto, il criterio della condicio sine qua non, di tutti gli antecedenti causali, ed una successiva selezione mediante il giudizio di prevedibilità ex ante e in astratto degli antecedenti di cui l'evento costituisca uno sviluppo normale, con esclusione, quindi, di quegli antecedenti di cui lo stesso evento non costituisce evoluzione causale regolare secondo l'id quod plerumque accidit (Cass. S.U., n. 582/2008).

Il nesso causale nella materia di responsabilità civile è, dunque, regolato dal principio di cui agli artt. 40 e 41 c.p. per il quale un evento è da considerarsi causato da un altro se il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo, nonché dal criterio della causalità adeguata, sulla base del quale, all'interno della serie causale, occorre dar rilievo solo a quegli eventi che non appaiano — ad una valutazione ex ante — del tutto inverosimili, allorché, alla stregua di una prognosi postuma, l'evento costituisca uno sviluppo normale, probabile e prevedibile della condotta ovvero del fatto cui l'ordinamento riconduce la responsabilità oggettiva o per colpa presunta.

Secondo tale impostazione l'accertamento del collegamento tra un fatto imputabile all'agente e l'evento va, dunque, condotto alla stregua di una valutazione di probabilità.

In punto di regola probatoria da seguire nell'accertamento del nesso di causa la giurisprudenza civile si è, infatti, discostata da quella penale secondo la quale è necessaria una prova «oltre il ragionevole dubbio» (Cass. pen. S.U., n. 30328/2002), e, facendo leva sulla diversità dei valori in gioco nel processo civile e in quello penale, ha fatto proprio lo standard di certezza probabilistica della preponderanza dell'evidenza o del «più probabile che non», (il principio è stato definitivamente affermato da Cass. S.U., n. 582/2008, in cui è stato confermato l'orientamento interpretativo fatto proprio da Cass. n. 21619/2007; Cass. n. 9238/2007; Cass. n. 19047/2006; CGCE, n. 295/2006; CGCE, n. 12/2005. Tra le pronunce successive a quella a sezioni unite del 2008 che hanno ribadito il principio, Cass. n. 10741/2009; Cass. n. 1135/2011; Cass. n. 12686/2011; Cass. n. 11789/2016).

Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno, inoltre, precisato che la regola probatoria della certezza probabilistica in materia civile non può essere ancorata esclusivamente alla determinazione quantitativa — statistica delle frequenze di classi di eventi (c.d. probabilità quantitativa o pascaliana), che potrebbe anche mancare o essere inconferente, ma va verificata riconducendone il grado di fondatezza all'ambito degli elementi di conferma (e nel contempo di esclusione di altri possibili alternativi) disponibili in relazione al caso concreto (c.d. probabilità logica o baconiana) (Cass. S.U., n. 582/2008).

Dopo l'arresto delle Sezioni unite del 2008, il principio è stato più volte ribadito, anche con riferimento alla responsabilità omissiva, con l'ulteriore precisazione secondo la quale la verifica del nesso causale tra condotta omissiva e fatto dannoso si sostanzia nell'accertamento della probabilità positiva o negativa del conseguimento del risultato idoneo ad evitare il rischio specifico di danno, riconosciuta alla condotta omessa, da compiersi mediante un giudizio controfattuale, che pone al posto dell'omissione il comportamento dovuto. Secondo la Suprema Corte, tale giudizio deve essere effettuato sulla scorta del criterio del "più probabile che non", conformandosi ad uno standard di certezza probabilistica che, in materia civile, non può essere ancorato alla determinazione quantitativa-statistica delle frequenze di classi di eventi (cd. probabilità quantitativa o pascaliana), la quale potrebbe anche mancare o essere inconferente, ma va verificato riconducendone il grado di fondatezza all'ambito degli elementi di conferma (e, nel contempo, di esclusione di altri possibili alternativi) disponibili nel caso concreto (cd. probabilità logica o baconiana) ( Cass. n. 47/2017; Cass. n. 23917/2018 ).

Con riguardo all'onere della prova della sussistenza del nesso causale in materia di responsabilità aquiliana, spetta all'attore, in ossequio al principio generale sancito dall'art. 2697 c.c., dimostrarne la sussistenza. Ciò non toglie che debba ritenersi ampiamente ammesso il ricorso alla prova presuntiva, che il giudice può utilizzare anche in via esclusiva (Cass. S.U., n. 6572/2006) per la formazione del suo convincimento, secondo le regole di cui all'art. 2727 c.c. Il principio assume particolare rilevanza soprattutto con riferimento alle fattispecie in cui l'accertamento del nesso di causalità risulti particolarmente complesso e neanche la consulenza tecnica d'ufficio sia in grado di pervenire a risultati affidabili (c.d. causa ignota), perché in tal caso l'impossibilità di fornire una prova attendibile sulla derivazione causale dell'evento di danno dalla condotta, conduce all'esclusione della responsabilità dell'autore di quest'ultima (Cass. n. 19872/2014).

La causalità giuridica

Secondo l'opinione prevalente nella dottrina italiana, ispirata alla teoria tedesca della Doppelter Kausalnexus (Gorla, 1951, 407), l'accertamento del nesso di causa si distingue in due momenti:

a) la ricerca di un collegamento materiale tra la condotta e l'evento (c.d. causalità di fatto o causalità materiale);

b) la ricerca di un collegamento giuridico tra il fatto dannoso e le sue conseguenze (c.d. causalità giuridica).

Come già evidenziato, solo in relazione al secondo nesso viene in rilievo l'art. 1223 c.c.

Tale ricostruzione postula la distinzione tra la lesione, da un lato, e le conseguenze pregiudizievoli che ne derivano, dall'altro.

Se la causalità materiale entra nella struttura dell'illecito divenendo criterio di imputazione del danno, la causalità giuridica riguarda la determinazione del danno risarcibile, ossia la selezione delle conseguenze dannose che si reputano cagionate dalla lesione.

Tale concezione dualistica del nesso causale si fonda sull'idea per cui è lo stesso danno che si scinde in due distinte nozioni: l'evento lesivo qualificato dall'aggettivo ingiusto e la conseguenza pregiudizievole, o perdita, riferito al contenuto dell'azione risarcitoria.

Alla tesi dualistica, cui, come si è già detto, accede la dottrina maggioritaria (Trimarchi, 198; Franzoni, 60 e ss.; Alpa, 68; Realmonte, 81), si contrappone una teoria monistica che nega la scissione concettuale tra evento e conseguenze pregiudizievoli e la distinzione tra causalità di fatto e causalità giuridica (Carnelutti, Foro it., 1952, IV, 97; Forchielli, 2000, 785 e ss; Patti, 90; Scognamiglio, 628).

Alla stregua della prima delle impostazioni richiamate il giudizio di condanna al risarcimento del danno deve, dunque, essere scomposto logicamente in due operazioni distinte.

L'operazione con la quale si identifica e si determina il danno è soggetta, come più volte evidenziato, si principi della causalità giuridica come desumibili dall'art. 1223 c.c.

Tra il fatto inteso come evento di danno ed il danno inteso come perdita patrimoniale o non patrimoniale risarcibile deve sussistere un rapporto di causa — effetto in forza del quale il secondo appaia riconducibile al primo.

Tale nesso non attiene, però, alla realtà naturalistica, ma è un criterio giuridico di selezione del danno risarcibile.

La regola principale per compiere la selezione dei danni risarcibili è quella in forza della quale sono ritenute rilevanti le conseguenze immediate e dirette dell'inadempimento o dell'illecito in quanto si riflettano sul patrimonio ovvero su valori non patrimoniali del creditore-danneggiato.

Il criterio attraverso il quale selezionare le conseguenze immediate e dirette viene unanimemente identificato in quello della regolarità causale, il quale prevede che si debba rispondere delle conseguenze che si pongono in rapporto di regolarità causale con un dato fatto, cioè che ne costituiscono conseguenze normali secondo l'id quod plerumque accidit.

Tale standard di accertamento va distinto da quello proposto dalla teoria della causalità adeguata per la quale ciascuno è responsabile soltanto delle conseguenze della sia condotta che appaiono prevedibili al momento in cui ha agito, escludendosi la responsabilità per tutte quelle conseguenze assolutamente atipiche.

Una parte della dottrina (Geri, 198) ha, infatti, operato una distinzione tra i concetti di prevedibilità e di probabilità che sono, rispettivamente, alla base del giudizio di imputazione causale della responsabilità alla stregua della teoria della causalità adeguata e della determinazione del danno risarcibile alla stregua della causalità c.d. giuridica.

La nozione di regolarità causale si fonda su un dato di esperienza secondo il quale la continuata e costante osservazione del susseguirsi di avvenimenti fra loro collegati rende l'uomo pressoché sicuro che dato un certo antecedente, ad esso seguirà un determinato evento a sua volta necessario antecedente e così via.

Se è vero che la regolarità causale deriva dall'osservazione dei fenomeni naturali, ossia dei fattori materiali esterni alla persona e, quindi, la loro probabilità appartiene ad un accertamento oggettivo, è altrettanto vero che si tratta pur sempre di un giudizio formulato dall'uomo.

In altre parole probabilità e prevedibilità sono entrambe il risultato di una valutazione dell'uomo aventi la prima carattere induttivo e la seconda deduttivo.

La prima si fonda su una constatazione dell'accadere dei fatti nella realtà; la seconda su di un procedimento sillogistico. I due ragionamenti sono intimamente collegati tra loro perché non può esservi prevedibilità se non vi è una somma di esperienze sulla probabilità di un determinato fenomeno.

Un fenomeno, invero, è tanto più prevedibile quanto più probabile e viceversa (Geri, 198; Capecchi, 86).

Le valutazioni che sono alla base del giudizio di prevedibilità nella verifica del nesso causale e nel giudizio sull'elemento soggettivo sono, tuttavia, diverse: la colpa, in quanto elemento soggettivo si fonda su una valutazione di prevedibilità in concreto, mentre la prevedibilità che è alla base della causalità adeguata è di tipo astratto e si fonda sulla migliore scienza ed esperienza (Capecchi, 89).

Anche in giurisprudenza è accolto il principio per il quale la regola sancita dall'art. 1223 c.c. mira ad adeguare l'ammontare del risarcimento ai danni effettivamente subiti e ad impedire che il danneggiato possa conseguire un arricchimento ingiustificato. Per ottenere questo risultato deve essere svolto un giudizio ipotetico che permetta di risalire alle conseguenze immediate e dirette secondo l'id quod plerumque accidit, attraverso una comparazione tra la situazione patrimoniale successiva all'illecito e la situazione che si sarebbe avuta in assenza di esso (Cass. n. 21619/2007).

Considerata la formulazione elastica del criterio delle conseguenze immediate e dirette sancito dall'art. 1223 c.c., la giurisprudenza ha elaborato una serie di regole utili a selezionare l'area del danno risarcibile attraverso la causalità giuridica.

Si tratta:

a) del criterio della normalità desunto dalle massime di esperienza e dalle regole probabilistiche e statistiche. Alla stregua di tale parametro è risarcibile anche il danno mediato o indiretto purché sia prodotto da una sequela di eventi che traggono origine dal fatto originario (Cass. n. 15274/2006; Cass. n. 16163/2001; Cass. n. 5913/2000);

b) del criterio della prevedibilità. La prevedibilità è qui impiegata in un'accezione distinta rispetto alla prevedibilità della colpa, ed è intesa in modo rigorosamente oggettivo che consente di capire se sia normale che una sequela di avvenimenti già in atto si possano produrre gli sviluppi successivi (Cass. n. 10072/2010; Cass. n. 21178/2011).

La prima delle regole richiamate deve essere desunta dai canoni dell'esperienza e da regole probabilistiche e statistiche. Quando ad un certo evento appare normale, statisticamente dimostrabile che seguirà una certa conseguenza tale ultima conseguenza deve essere considerata danno risarcibile (Cass. n. 15274/2006).

La prevedibilità impiegata nella determinazione del danno risarcibile è, invece, intesa in senso rigorosamente oggettivo e consente di verificare se sia normale che da una sequenza di avvenimenti già in atto possano prodursi sviluppi successivi.

Il danno conseguenza per ritenersi risarcibile deve, infatti, essere una conseguenza normale dell'antecedente costituito dall'evento di danno.

Essa è, dunque, diversa dalla prevedibilità della colpa perché prescinde dal parametro della diligenza dell'uomo medio ed attiene all'applicazione di regole statistiche e probabilistiche necessarie per stabilire se sussista un nesso tra un danno evento e una certa perdita patrimoniale o non patrimoniale.

Concorso di cause e interruzione del nesso causale

Secondo l'orientamento maggioritario della dottrina e della giurisprudenza l'accertamento del nesso di causalità materiale si fonda, dunque, sugli artt. 40 e 41 c.p.

Il primo, rubricato «rapporto di causalità», prevede che «nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se l'evento dannoso o pericoloso, da cui dipende l'esistenza del reato, non è conseguenza della sua azione od omissione». L'art. 41 c.p. rubricato «concorso di cause» prevede al primo comma che «il concorso di cause preesistenti o simultanee o sopravvenute, anche se indipendenti dall'azione del colpevole non esclude il rapporto di causalità fra l'azione od omissione e l'evento», mentre al secondo comma dispone che «le cause sopravvenute escludono il rapporto di causalità quando sono state da sole sufficienti a determinare l'evento». Tale ultima disposizione si articola, dunque, in due fattispecie, nella prima delle quali più cause concorrono a cagionare il medesimo evento, mentre nella seconda una delle cause ha un'efficacia tale da essere da sola idonea a cagionare l'evento producendo, pertanto, l'interruzione del nesso causale tra lo stesso e le altre cause.

Come si è visto, tanto la dottrina quanto la giurisprudenza maggioritarie applicano tali disposizioni facendo propria la teoria condizionalistica combinata con la teoria c.d. della causalità adeguata.

In forza della prima, in presenza di un evento dannoso tutti gli antecedenti senza i quali lo stesso evento non si sarebbe verificato devono essere considerati cause di esso.

Da tale assunto deriva il principio dell'equivalenza delle cause in forza del quale, ove le varie cause concorrenti abbiano determinato una situazione tale per cui, apprezzato ex post , senza ciascuna di esse l'evento, anche se direttamente provocato dall'ultima di dette cause, non si sarebbe verificato, il nesso di causalità non può essere escluso in rapporto a nessuna delle cause stesse. In definitiva, affinché sorga la responsabilità, è sufficiente che l'agente abbia realizzato una condizione qualsiasi dell'evento.

Il presupposto dal quale muove la teoria condizionalistica è che causa di un evento non è mai un solo fatto ma l'insieme delle condizioni necessarie a produrlo (Capecchi, 61).

La considerazione dell'equivalenza dei presupposti causali propria di tale impostazione ha il limite di condurre a conseguenze paradossali (ad esempio nel caso di sinistro cagionato da un automobilista dovrebbe considerarsi causa concorrente alla produzione dell'evento lesivo anche la costruzione dell'automobile).

Il primo temperamento all'eccessivo ampliamento della responsabilità conseguente a tale impostazione è stato individuato dalla dottrina penale nella previsione del secondo comma dell'art. 41 c.p. a mente del quale le cause sopravvenute escludono il rapporto di causalità se sono state da sole sufficienti a provocare l'evento.

Secondo l'orientamento prevalente nella dottrina e nella giurisprudenza civilistiche, tale disposizione deve essere interpretata secondo il criterio teleologico, ossia in funzione dello scopo di limitare la capacità espansiva della teoria condizionalistica (Geri, 108; Scognamiglio, 651).

In quest'ottica il rapporto causale tra evento e danno è governato dal principio dell'equivalenza delle condizioni in forza del quale l'efficienza causale va riconosciuta ad ogni antecedente che abbia contribuito anche in maniera indiretta e remota alla produzione dell'evento, salvo il temperamento desumibile dall'art. 41 c.p., secondo il quale l'idoneità interruttiva del nesso eziologico deve essere attribuita soltanto alla sopravvenienza di un fattore da solo sufficiente a produrre l'evento, tale, quindi, da degradare le cause antecedenti a semplici occasioni.

Si parla, al riguardo, di concorso di cause o di interruzione del nesso causale.

Con tali denominazioni si indicano giudizi fondati sul medesimo procedimento logico (Capecchi, 68).

Nel primo caso si tratta di verificare se una determinata conseguenza sia stata prodotta da una certa causa o se, invece, debba ritenersi che l'operare di altre concause abbia in qualche modo reso irrilevante l'apporto della causa in questione.

Nel secondo caso alcuni antecedenti che hanno contribuito al verificarsi dell'evento si ritengono irrilevanti da un punto di vista giuridico perché, procedendo a ritroso lungo la catena causale, si giunge ad individuare la causa che ha interrotto la serie causale.

Il concorso di cause e l'interruzione del nesso causale costituiscono, in definitiva, il medesimo problema osservato da due diversi angoli prospettici.

Con il primo ci si pone in un'ottica ex post e si ricercano tutte le cause dell'evento provvedendo ad eliminare gli antecedenti che sono cause dal punto di vista naturalistico, ma che il diritto reputa estranee alla produzione dell'evento stesso.

Con il secondo ci si pone in una prospettiva ex ante per valutare l'incidenza di una singola causa su una successiva conseguenza.

Entrambi i metodi di indagine si caratterizzano per il fatto che viene abbandonata la logica puramente naturalistica del giudizio condizionalistico e viene introdotto un giudizio di valori (Scognamiglio, 650; Capecchi, 69).

Difatti la causa sopravvenuta non fa certo venir meno l'incidenza causale degli altri antecedenti dal punto di vista naturalistico, ma li priva di rilevanza sotto il profilo giuridico (Trimarchi, 24).

Quanto alle caratteristiche che deve avere la causa interruttiva, la dottrina civilistica ritiene che l'attitudine ad interrompere il nesso causale non debba essere riconosciuta alle sole cause sopravvenute, come letteralmente previsto dall'art. 41 c.p., ma vada estesa anche a quelle preesistenti (Trimarchi, 115; Forchielli, 103).

La tesi prevalente ritiene che l'art. 41 c.p. preveda una limitazione delle cause di ciascun evento e l'individuazione del criterio per la selezione delle cause rilevanti alla stregua di tale principio è necessariamente giuridica e non logico — naturalistica.

Una delle più importanti teorie elaborate in ragione di tale esigenza è, appunto, la teoria della causalità adeguata o della regolarità causale per la quale ciascuno è responsabile soltanto delle conseguenze della sia condotta che erano prevedibili nel momento in cui ha agito, escludendosi la responsabilità per tutte quelle conseguenze assolutamente atipiche.

Tale concezione non si pone come soluzione giuridica alternativa alla tesi condizionalistica, ma ne costituisce, piuttosto, un correttivo.

In un primo momento opera la verifica logico naturalistica volta ad individuare tutte le cause dell'evento sotto un profilo squisitamente meccanicistico. In un secondo momento, attraverso le regole della causalità adeguata, si procede alla selezione, sub specie iuris , delle sole conseguenze giuridicamente rilevanti della condotta dell'agente, ossia di quelle conseguenze che potevano essere previste nel momento in cui è stata posta in essere.

Ciò, secondo una prima tesi, in base ad un giudizio ex ante, ed in base ad una valutazione oggettiva ex post.

Controverso è se il giudizio di prevedibilità debba avvenire in astratto o in concreto.

Alla seconda ipotesi ricostruttiva è stato obiettato che il giudizio di prevedibilità da essa proposto non si distinguerebbe in alcun modo da quello che contraddistingue la valutazione dell'elemento soggettivo.

Non possono, inoltre, ritenersi fonte di responsabilità tutte le conseguenze che si producono per il concorso di fattori eccezionali (Realmonte, 179).

Un altro criterio basato su di un giudizio di prevedibilità in astratto è quello della c.d. regolarità causale, il quale prevede che si debba rispondere delle conseguenze che si pongono in rapporto di regolarità causale con un dato fatto, cioè che ne costituiscono conseguenze normali secondo l'id quod plerumque accidit.

Si è già visto come tale ultima ricostruzione sia stata oggetto di critiche in quanto propone per il giudizio sulla causalità materiale il medesimo criterio impiegato per decodificare l'espressione normativa «conseguenze immediate e dirette» impiegata nell'art. 1223 c.c. e, quindi, per delimitare le conseguenze risarcibili dell'illecito.

Secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, per l'affermazione di responsabilità di un soggetto è indispensabile che si accerti un nesso di causalità tra l'attività e il danno evento e a tal fine, deve ricorrere la duplice condizione che il fatto costituisca un antecedente necessario dell'evento, nel senso che quest'ultimo rientri tra le conseguenze normali ed ordinarie del fatto, e che l'antecedente medesimo non sia poi neutralizzato, sul piano eziologico, dalla sopravvenienza di un fatto di per sé idoneo a determinare l'evento; pertanto la causa efficiente sopravvenuta che abbia i requisiti del caso fortuito – cioè l'eccezionalità e l'oggettiva imprevedibilità — e sia idonea, da sola, a causare l'evento, recide il nesso eziologico tra quest'ultimo e l'attività pericolosa, producendo effetti liberatori, e ciò anche quando sia attribuibile al fatto del danneggiato stesso o di un terzo (Cass. n. 5254/2006; Cass. n. 5839/2007; Cass. n. 25/2010; Cass. n. 15113/2016; Cass. n. 23450/2018).

È, inoltre, costante in giurisprudenza l'inquadramento del concorso di cause entro la disciplina positiva penalistica e la conseguente affermazione del principio di diritto secondo il quale, qualora l'evento dannoso si ricolleghi a più azioni o omissioni, il problema del concorso delle cause trova soluzione nell'art. 41 c.p.p. — norma di carattere generale, applicabile nei giudizi civili di responsabilità — in virtù del quale il concorso di cause preesistenti, simultanee o sopravvenute, anche se indipendenti dall'omissione del colpevole, non esclude il rapporto di causalità fra dette cause e l'evento, essendo quest'ultimo riconducibile a tutte, salvo che si accerti l'esclusiva efficienza causale di una di esse (Cass. n. 2360/2010; Cass. n. 15537/2011; Cass. n. 18753/2017). Con particolare riferimento al caso in cui una delle cause consista in un'omissione, la Suprema Corte ha affermato che la positiva valutazione sull'esistenza del nesso causale tra omissione ed evento presuppone che si accerti che l'azione omessa, se fosse stata compiuta, sarebbe stata idonea ad impedire l'evento dannoso ovvero a ridurne le conseguenze, non potendo esserne esclusa l'efficienza soltanto perché sia incerto il suo grado di incidenza causale (Cass. n. 2360/2010; Cass. n. 18753/2017).

La giurisprudenza di legittimità ha, inoltre, precisato che qualora la produzione di un evento dannoso possa apparire riconducibile alla concomitanza di più fattori causali, ognuno di questi deve essere autonomamente apprezzato per determinare in che misura abbia contribuito al verificarsi del danno, sia che abbia operato come concausa, sia che abbia dato luogo ad un autonomo segmento causale provocando soltanto un aggravamento delle conseguenze pregiudizievoli (Cass. n. 22801/2017).

Il caso fortuito.

La nozione di caso fortuito è stata — soprattutto nel vigore del codice del 1865, atteso che il codice vigente la menziona solo nell'art. 132 c.c. — abbinata dal Legislatore a quella di forza maggiore, ma in dottrina si è unanimemente sostenuto che non è possibile tracciare una distinzione tra i due concetti, né una differenziazione assume rilevanza pratica, stante l'identità dell'effetto liberatorio che li accomuna.

La nozione di caso fortuito appare nell'ambito della responsabilità extracontrattuale per la prima volta nel codice del 1942 e, segnatamente, nelle fattispecie exartt. 2051 e 2052 c.c., non trovandosi identica espressione nel codice del 1865 (dove, invece, era menzionata nell'art. 1226 c.c. in materia di responsabilità contrattuale), nella vigenza del quale veniva, tuttavia, impiegata dalla dottrina e dalla giurisprudenza quale limite di responsabilità per i danni da cose.

La collocazione sistematica nella disciplina della responsabilità extracontrattuale non consente, tuttavia, di limitare l'indagine a detto ambito, non potendosi attribuire al caso fortuito previsto quale limite alla responsabilità exartt. 2051 e 2052 c.c. autonomia sistematica rispetto alla corrispondente e preesistente figura propria della responsabilità contrattuale.

La dottrina ha tentato di delineare una definizione unitaria di fortuito, caratterizzata dal requisito dell'estraneità in senso oggettivo e dall'assolutezza in senso soggettivo, valida per entrambi i settori, distinguendolo dalla contigua figura, propria della materia delle obbligazioni, della causa non imputabileex art. 1218 c.c.

Secondo un primo orientamento (Fiorentino, 107) il fortuito si distingue dalla causa non imputabile perché designa una causa naturale e non anche cause umane.

Per altra tesi (Candian, 990) la causa non imputabile è l'evento incolpevole di cui il debitore non deve rispondere, mentre il fortuito è lo specifico, tipico evento liberatorio incolpevole ed estraneo sotto il profilo soggettivo alla sfera di azione delle parti.

Secondo tale ultima opinione, la concezione che ritiene sussistenti due nozioni di fortuito, quale fatto impeditivo del comportamento dovuto, da intendersi come assenza di colpa, e quale fatto determinante l'effetto dannoso, cui è estranea la nozione di colpa, non trova conferma nel codice civile, in cui il termine viene impiegato con il medesimo significato sia in materia contrattuale, che extracontrattuale. Non si può stabilire un'antitesi tra il concetto di fortuito enunciato dagli artt. 1693,1784,1787,2051 e 2052 c.c. ed un altro concetto desumibile, in quanto non espressamente formulato, dagli art. 1218 e 1256 c.c., perché tali ultime disposizioni parlano genericamente di causa non imputabile.

Per la tesi in esame l'unitarietà della nozione di fortuito nel codice trova, al contrario, conferma proprio nel fatto che le disposizioni che lo menzionano appartengono ad entrambi i tipi di responsabilità.

Secondo la tesi in esame, incline ad una lettura in chiave soggettivistica del fortuito, tanto nella responsabilità contrattuale, quanto in quella extracontrattuale il fortuito è inteso quale causa di esonero di responsabilità in quanto impeditiva dell'impiego della dovuta diligenza (De Cupis, 1971, 82; Giorgianni, 253).

Altra opinione, di stampo oggettivistico, partendo da un esame delle norme di cui agli artt. 1693,1784,2051 e 2052 c.c., afferma che il fortuito deve essere inteso oggettivamente, come evento imprevisto ed imprevedibile, estraneo alla condotta del soggetto e sostanzialmente diverso dalla causa non imputabile (Valsecchi, 1947, I, 151; Trimarchi, 162). Il fortuito è, in particolare, definito come fatto obiettivo esterno ed estraneo alla sfera del responsabile, di natura straordinaria, connotato da una violenza eccezionale ed assolutamente invincibile escludente la responsabilità sotto il profilo causale.

Il concetto di fortuito è stato, poi, arricchito dell'ulteriore profilo dell'imprevedibilità e dell'inevitabilità, per essere, quindi, identificato con il limite della responsabilità contrattuale coincidente con l'impossibilità della prestazione per causa non imputabile al debitore, ovvero nella responsabilità extracontrattuale con la causa estranea del tutto inevitabile.

Tale ultima tesi propone, dunque, un significato diverso, di esimente soggettiva o oggettiva, a seconda delle fattispecie – di natura contrattuale o extracontrattuale, in cui viene richiamata (Candian, 987).

In dottrina, nell'ambito della fattispecie ex art. 2051 c.c., è stata proposta una tripartizione della nozione di fortuito in fortuito autonomo, fortuito incidente e fortuito concorrente (Balestrieri, 123; Franzoni, 492).

Il primo si riferisce all'ipotesi in cui è lo stesso fortuito che produce il danno indipendentemente dalla cosa (si pensi al fulmine che cade nei pressi di un viale alberato cagionando danni).

Il secondo indica le ipotesi in cui il fortuito, interagendo con la cosa, vede aumentata la propria efficienza eziologica (si pensi all'ipotesi in cui il fulmine colpisce l'albero che cade cagionando danni).

Il fortuito concorrente si ha, invece, quando l'evento fortuito concorre con l'anomalia della res a cagionare l'evento di danno (si pensi al fulmine che colpendo l'albero malato e instabile ne provochi la rovina e, quindi, il danno) (Balestrieri, 125).

Nell'ultima delle ipotesi riportate il fortuito non può ritenersi fattore idoneo ad interrompere il nesso causale perché non vale ad assorbire interamente il verificarsi dell'evento e, quindi, non esime il custode dalla responsabilità ex art. 2051 c.c.

La nozione di caso fortuito quale fattore estraneo è da tempo acquisita anche in giurisprudenza.

Con specifico riferimento alle fattispecie di cui all'art. 2051 c.c., i giudici di legittimità intendono il caso fortuito come fattore che attiene esclusivamente al profilo causale dell'evento dannoso, così che quest'ultimo è riconducibile non alla cosa, ma all'elemento esterno, recante i caratteri dell'imprevedibilità e dell'inevitabilità, tale da far degradare la res a mera occasione nella produzione dell'evento, a nulla rilevando che il danno risulti causato da anomalie o vizi insorti nella cosa prima dell'inizio del rapporto di custodia.

Per caso fortuito deve, dunque, intendersi, secondo la Suprema Corte, un avvenimento imprevedibile, un quid di imponderabile che si inserisce improvvisamente nella serie causale come fattore determinante in modo autonomo l'evento.

Con particolare riguardo ai fenomeni naturali, il carattere eccezionale di un fenomeno, nel senso di una sua ricorrenza saltuaria anche se non frequente, non è sufficiente, di per sé solo, a configurare tale esimente, in quanto non ne esclude la prevedibilità in base alla comune esperienza (Cass. n. 5267/1991; con riferimento alle precipitazioni atmosferiche di eccezionale intensità, Cass. n. 5133/1998).

In tempi più recenti la Suprema Corte ha enunciato il principio secondo il quale la possibilità di invocare il fortuito (o la forza maggiore) deve ritenersi ammessa nel solo caso in cui il fattore causale estraneo al soggetto danneggiante abbia un'efficacia di tale intensità da interrompere tout court il nesso eziologico tra la cosa e l'evento lesivo, di tal che esso possa essere considerato una causa sopravvenuta da sola sufficiente a determinare l'evento (Cass. n. 5877/2016).

Ne deriva che un temporale di particolare forza ed intensità, protrattosi nel tempo e con modalità tali da uscire fuori dai normali canoni della meteorologia, può, in astratto, integrare gli estremi del caso fortuito o della forza maggiore, salva l'ipotesi in cui sia stata accertata l'esistenza di condotte astrattamente idonee una corresponsabilità del soggetto che invoca l'esimente, le quali impongono l'applicazione dell'art. 1227 comma 1 c.c.

La giurisprudenza di legittimità propone un'accezione di fortuito molto ampia, tale da ricomprendere anche il fatto naturale (la c.d. forza maggiore), il fatto del terzo e il fatto dello stesso danneggiato (Cass. n. 20619/2014; Cass. n. 18317/2015; Cass. n. 23584/2013), purché tale fatto costituisca la causa esclusiva del danno.

Con riguardo a tale ultima ipotesi, distingue tra fortuito incidente e fortuito concorrente.

Il primo costituisce causa esclusiva del danno, tale da rendere la cosa mera occasione di esso. All'ipotesi del fortuito incidentale va ricondotto anche il caso in cui l'evento di danno sia da ascrivere esclusivamente alla condotta del danneggiato, la quale abbia interrotto il nesso eziologico tra la cosa in custodia ed il danno stesso (Cass. n. 20317/2005; Cass. n. 23584/2013; Cass. n. 12895/2016;  Cass. n. 9315/2019).

Il secondo è, invece, un fattore che partecipa con la cosa nel processo causativo del danno, affiancandosi al fatto della cosa e non interrompendo il nesso causale, con la conseguenza che la responsabilità del custode in tal caso non può essere esclusa.

Il c.d. fortuito concorrente, pertanto, non assorbe l'intero nesso eziologico ed il custode è ugualmente responsabile, poiché il concorso del fatto naturale è giudicato irrilevante; di conseguenza il fortuito concorrente non costituisce prova liberatoria ai sensi dell'art. 2051 c.c., né è in grado di limitare la condanna al risarcimento del danno ai sensi dell'art. 1227 comma 1 c.c.

Causalità e concorso di responsabilità

Secondo una parte della dottrina (Franzoni, 125 e ss.) una delle espressioni normative del principio di causalità di fatto o materiale e, in particolare, del principio dell'equivalenza delle concause salvo il limite dell'art. 41 c. 1 c.p. è rappresentata dall'art. 2055 c.c. che prevede una forma di responsabilità solidale di chi concorra con altri nella produzione del medesimo fatto dannoso.

Presupposti della responsabilità solidale sono, in particolare, l'unicità del fatto dannoso e la sua imputabilità a più persone. Occorre che vi sia una pluralità di responsabili in relazione al medesimo evento lesivo, senza che le azioni concorrenti rientrino in un piano unitario, ovvero un agire comune dei concorrenti, essendo possibile che ciascuno abbia agito autonomamente ignorando l'agire dell'altro ovvero che ciascuno risponda a diverso titolo (ad es. a titolo contrattuale ed extracontrattuale, a titolo di responsabilità per colpa e oggettiva).

Affinché operi il regime giuridico delineato dalla norma è necessario, altresì, che l'azione di ciascun concorrente si ponga come causa rispetto al danno, così che quest'ultimo sia la risultante del complesso delle azioni od omissioni o delle situazioni di fatto riferibile a ciascuno dei soggetti concorrenti, cui la legge riconduce la responsabilità.

È stato evidenziato che il fatto dannoso prodotto da condotte autonome e distinte, cui fa riferimento la norma in esame, è l'evento di danno.

In altre parole nel concorso di responsabilità e ai fini dell'operatività della solidarietà ex art. 2055 c.c. il danno conseguenza deve essere unitario anche se risultato del concorso di più fatti (De Cupis, 1971, 108).

Si è posto in dottrina il problema della selezione tra la serie indefinita di fatti materialmente determinanti nella produzione l'evento di quelli che assumano rilevanza causale ai fini dell'operatività dell'art. 2055 c.c.

Secondo l'opinione maggioritaria il criterio di individuazione dei responsabili coincide con la causalità di fatto (Franzoni, 128; Salvi, 235).

Occorre, in particolare, muovere dall'evento al fine di stabilire, risalendo fino ai fatti condizionanti, se esso sia il frutto di un'azione singola o di una pluralità di condotte, per poi verificare se lo stesso fatto dannoso sia ad essi imputabile a titolo di dolo o colpa o di responsabilità oggettiva.

L'art. 2055 c.c. pone una regola di responsabilità solidale e non parziaria, così che deve escludersene l'operatività in caso di concorso tra causa umana e fatto naturale.

Quest'ultimo assume rilevanza nel solo caso in cui si atteggia alla stregua di causa esterna ed assorbente nella produzione dell'evento e sia, quindi, tale da interrompere il nesso eziologico con il fatto del soggetto individuabile in base al criterio di imputazione, soggettivo od oggettivo (Franzoni, 134).

Alcuna rilevanza assume, poi, il fatto che il contributo causale di uno dei soggetti concorrenti sia stato di minima entità, potendo tale circostanza assumere rilevanza solo in sede di regresso (art. 2055 comma 2 c.c.).

L'unitarietà del fatto dannoso non viene meno neanche nell'ipotesi in cui una delle condotte causative dell'evento di danno sia stata posta in essere in stato di necessità, né, come si è già evidenziato, nel caso in cui il concorso nell'illecito sia imputabile ai diversi soggetti a diverso titolo, ossia a titolo di dolo, colpa o responsabilità oggettiva, ovvero a titolo di responsabilità contrattuale o extracontrattuale.

Al fine di verificare se il fatto dannoso ex art. 2055 c.c. sia il risultato del concorso di più fatti imputabili a più soggetti, occorre procedere attraverso un accertamento ex ante e, quindi, senza vedere nel risultato finale prodotto da tutte le condotte l'elemento di necessaria sintesi di tutti gli antecedenti, ma attribuendo logicamente a ciascun fattore concorrente la propria efficienza causale ove vi sia stata. Occorre partire dal primo evento della serie e risalire fino all'evento conclusivo.

Infine, in applicazione dei criteri dettati dalla teoria della causalità adeguata, occorre verificare se la sequenza causale sia stata regolare, ovvero se l'evento successivo ha rappresentato uno sviluppo normale e non abnorme di quello precedente (Franzoni, 87).

Per poter superare l'equivalenza causale di tutti i fattori muniti di efficienza eziologica rispetto all'evento è necessario che uno di essi rechi in sé i caratteri della causa preesistente, concomitante o sopravvenuta da sola sufficiente a provocare l'eventoex art. 41 comma 2 c.p.

Se tale fattore causale interrompe la connessione tra gli altri fatti e l'evento di danno, relegandoli al rango di mere occasioni, si è in presenza di un'ipotesi di interruzione del nesso causale con la conseguenza che, se la causa da sola sufficiente coincide con un fatto di un terzo imputabile, la responsabilità dovrà essergli ascritta in via esclusiva; se coincide con il fatto dello stesso danneggiato ovvero in un fatto naturale, alcuna responsabilità potrà ritenersi sussistente.

Secondo la giurisprudenza di legittimità ciascuna azione deve costituire la condicio sine qua non del danno, nel senso che senza l'una o l'altra di esse l'evento non si sarebbe verificato, mentre deve attribuirsi il ruolo di causa efficiente esclusiva del danno se il fatto di una persona si inserisca quale causa sopravvenuta nella serie causale e spezzi il nesso eziologico (Cass. n. 17475/2007).

Secondo la Corte di Cassazione mentre l'art. 2043 c.c. fa sorgere l'obbligo del risarcimento dalla commissione di un fatto doloso o colposo, il successivo art. 2055 c.c., ai fini della solidarietà nel risarcimento, considera, invece, il fatto dannoso e, pertanto, la prima norma si riferisce all'azione del soggetto che cagiona l'evento, e la seconda riguarda la posizione di quello che subisce il danno e in cui favore è stabilita la solidarietà. Ne consegue che l'unicità del fatto dannoso richiesta dall'art. 2055 c.c. per la responsabilità solidale tra gli autori dell'illecito deve essere intesa in senso non assoluto, ma relativo al danneggiato, sicché ricorre tale forma di responsabilità, volta a rafforzare la garanzia del danneggiato e non ad alleviare la responsabilità degli autori dell'illecito, pur se il fatto dannoso sia derivato da più azioni o omissioni, dolose o colpose, costituenti fatti illeciti distinti, e anche diversi, sempre che le singole azioni od omissioni abbiano concorso in maniera efficiente alla produzione del danno, non rilevando che non sia possibile distinguere l'efficienza causale del comportamento di ciascuno nella produzione dell'evento dannoso unitario (Cass. n. 1247/2013).

L'unicità del fatto dannoso, richiesta dall'art. 2055 c.c. ai fini della configurabilità della responsabilità solidale degli autori dell'illecito, va intesa in senso non assoluto, ma relativo, sicché ricorre tale responsabilità, anche se il fatto dannoso sia derivato da più azioni od omissioni, dolose o colpose, costituenti fatti illeciti distinti e anche diversi, sempreché le singole azioni o omissioni, legate da un vincolo di interdipendenza, abbiano concorso in maniera efficiente alla produzione del medesimo evento di danno, a nulla rilevando, a differenza di quanto accade in ambito penalistico, l'assenza di un collegamento psicologico tra le stesse, ovvero le diverse conseguenze dannose derivanti da quell'evento unitario, le quali potranno assumere rilievo ai fini dell'eventuale azione di regresso tra i danneggianti. (Cass. n. 18899/2015).

Tale principio non può trovare applicazione, secondo la Suprema Corte, quando con la condotta del responsabile abbia interagito un elemento naturale.

Quando, infatti, le condizioni ambientali o i fattori naturali che caratterizzano la realtà fisica su cui incide il comportamento imputabile dell'uomo non abbiano potuto dar luogo, senza l'apporto umano, all'evento di danno, l'autore del comportamento imputabile è responsabile per l'intero di tutte le conseguenze da esso scaturenti secondo normalità, atteso che in tal caso non può operarsi una riduzione proporzionale della minore gravità della sua colpa, quanto una comparazione in grado di incidenza eziologica di più cause concorrenti può instaurarsi solo tra una pluralità di comportamenti umani colpevoli e non tra una causa umana imputabile ed una concausa naturale (Cass. n. 13400/2007; Cass. n. 9528/2012). La comparazione tra la causa naturale e la causa umana è funzionale solo a stabilire la valenza assorbente dell'una rispetto all'altra, ma non rileva ai fini della riduzione proporzionale della responsabilità del danneggiante. Ciò in quanto l'accertamento del grado di incidenza eziologica di più cause concorrenti può essere condotto solo con riferimento ad una pluralità di comportamenti umani e non rispetto al concorso di una causa umana e di una causa naturale (Cass. n. 30922/2017).

In base ai principi di cui agli artt. 40 e 41 c.p., qualora la condotta abbia concorso, insieme a circostanze naturali, alla produzione dell'evento, e ne costituisca un antecedente causale, l'agente deve, dunque, rispondere per l'intero danno, che altrimenti non si sarebbe verificato.

Non sussiste, invece, nessuna responsabilità dell'agente per quei danni che non dipendano dalla sua condotta, che non ne costituisce un antecedente causale, e che si sarebbero verificati ugualmente anche senza di essa, né per quelli preesistenti.

Non di meno, il concorso di concause naturali può, talora, assumere rilevanza ai fini della stima del danno (causalità giuridica).

Con particolare riferimento al danno alla salute, la giurisprudenza di legittimità ha, infatti, precisato che, qualora il danneggiato sia affetto da un pregresso stato morboso invalidante e irreversibile, il danno risarcibile deve essere determinato considerando sia la differenza tra lo stato di invalidità complessivamente presentato dal danneggiato dopo il fatto illecito e lo stato patologico preesistente, sia la situazione che si sarebbe determinata se non fosse intervenuto il fatto lesivo imputabile (Cass. n. 27524/2017; Cass. n. 20829/2018). Purtuttavia, laddove l'evidenza probatoria del processo non consenta di stabilire con certezza che, a prescindere dal comportamento imputabile al danneggiante, il pregresso stato di vulnerabilità della vittima si sarebbe comunque evoluto, anche in assenza dell'evento di danno, in senso patologico-invalidante, il giudice, in sede di quantificazione del danno non deve procedere ad alcuna diminuzione del quantum debeatur, posto che, diversamente, darebbe applicazione all'intollerabile principio secondo cui persone che, per loro disgrazia, siano più vulnerabili di altre dovrebbero irragionevolmente appagarsi di una tutela risarcitoria minore rispetto agli altri consociati (Cass. n. 20836/2018).

La causalità nel regresso.

Il secondo comma dell'art. 2055 c.c. ancora la determinazione della quota risarcitoria di ciascun concorrente nell'illecito e, quindi, della misura del diritto di regresso, al duplice criterio della gravità della colpa e dell'entità delle conseguenze che ne sono derivate.

Nel caso in cui, all'esito dell'accertamento di tali parametri indicati dall'art. 2055 c.c., non sia possibile addivenire a tale determinazione, la misura delle singole quote di responsabilità si presume uguale.

I criteri indicati dalla norma sono del tutto eterogenei, attenendo il primo alla morfologia della fattispecie dell'illecito civile e il secondo alle conseguenze che dalla sua integrazione derivano.

Una parte della dottrina identifica, infatti, tali conseguenze nei danni derivanti dalla lesione dell'interesse giuridicamente protetto (Orlandi, 284).

Altri, invece, fanno coincidere le conseguenze con l'evento, ritenendo che la disposizione in esame intenda riferirsi al fatto illecito e non ai danni conseguenza che ne derivano (Gnani, 207).

L'orientamento maggioritario propone, in ogni caso, una considerazione complessiva e unitaria dei criteri, soggettivo ed oggettivo, di ripartizione del debito risarcitorio nei rapporti interni ed una loro conformazione alla giustizia del caso concreto (Salvi, 1225; Franzoni, 159).

Ciò in quanto i due parametri non necessariamente coincidono in concreto, così che si ritiene opportuno procedere ad una compensazione e ad una reciproca correzione nel caso in cui ad un grado lieve della colpa corrispondano conseguenze di notevole entità, laddove, se si tenesse conto di ciascun parametro singolarmente, si potrebbe pervenire a conclusioni abnormi ed inique.

Nel caso in cui concorrano soggetti di cui taluni a titolo di colpa ed altri a titolo di responsabilità oggettiva, una prima tesi (De Cupis, 113), facendo leva sulla nozione di colpa in senso soggettivo, riconosce al concorrente incolpevole sempre e comunque il diritto di regresso per l'intero.

Da altri è stato, invece, posto in luce che se il responsabile a titolo oggettivo non svolge una funzione di garanzia deve valutarsi in concreto l'efficienza causale di ciascun fatto dannoso (Salvi, 1255).

Il diritto di regresso viene, invece, riconosciuto per l'intero al corresponsabile a titolo oggettivo quando rivesta la posizione di garante o sia tenuto per responsabilità indiretta (come nei casi di cui agli artt. 2054 comma 3 c.c., 2047 e 2048 c.c., 2049 c.c.).

In caso di concorso di responsabili per dolo e colpa, si ritiene unanimemente assorbente la presenza del dolo, con la conseguenza che, nei rapporti interni, viene riconosciuto al soggetto in colpa il regresso per intero (Trimarchi, 44).

Per la giurisprudenza di legittimità qualora il fatto dannoso sia imputabile a più persone, il giudice può fare ricorso alla presunzione di uguaglianza delle colpe di cui all'ultimo comma dell'art. 2055 c.c. solo in presenza di una situazione di dubbio oggettivo e reale, configurabile quando non sia possibile valutare neppure approssimativamente la misura delle singole responsabilità (Cass. n. 6400/1990; Cass. n. 6408/1982; Cass. n. 1696/1980).

L'accertamento inteso a determinare la ripartizione interna del debito risarcitorio dei corresponsabili riguarda, in primo luogo, la gravità della colpa.

La Corte di Cassazione, con orientamento costante, afferma che in tema di responsabilità solidale per fatto illecito imputabile a più persone, il vincolo di solidarietà che lega i coautori del fatto dannoso importa che il danneggiato possa pretendere la totalità della prestazione risarcitoria anche nei confronti di uno solo di quei coobbligati, mentre la diversa gravità delle rispettive colpe e l'eventualmente diseguale efficienza causale di esse può avere rilevanza soltanto ai fini della ripartizione interna del peso del risarcimento fra i corresponsabili; conseguentemente, il giudice può e deve pronunciarsi sulla graduazione delle colpe, solo se uno dei detti condebitori abbia esercitato l'azione di regresso nei confronti degli altri, atteso che solo nel giudizio di regresso può discutersi della gravità delle rispettive colpe e delle conseguenze da esse derivate (Cass. n. 2692/1991; Cass. n. 620/1995; Cass. n. 3803/2004).

Esso consiste, pertanto, in una comparazione tra lo standard comportamentale esigibile sulla scorta delle regole cautelari scritte o di esperienza che vengono in rilievo nel caso concreto, e la condotta tenuta dal singolo agente.

Una parte della giurisprudenza di legittimità sostiene che la gravità della colpa cui fa riferimento la norma in esame coincide con l'entità dello scostamento della condotta rispetto a tale modello comportamentale (Cass. n. 1002/2010).

Anche la giurisprudenza propone una considerazione complessiva e unitaria dei due criteri ed una loro conformazione alla giustizia del caso concreto (Cass. n. 2337/1982; Cass. n. 19934/2004; Cass. n. 22336/2007).

L'accertamento del peso risarcitorio gravante su ciascun corresponsabile non può, comunque, prescindere dalla verifica della colpa (Cass. n. 2337/1982; Cass. n. 19934/2004; Cass. n. 22336/2007; Cass. n. 1002/2010).

Tale giudizio coincide con la verifica della misura della diligenza violata, ovvero nell'oggettiva valutazione della conformità del comportamento alla regola di condotta che viene in rilievo nel caso concreto (Cass. n. 1002/2010, cit.).

Il fatto del danneggiato.

Il fatto del danneggiato può costituire un fattore causale concorrente ovvero interruttivo del nesso eziologico tra la condotta – o la situazione da cui l'ordinamento fa scaturire la responsabilità oggettiva — dell'autore e l'evento.

La condotta della vittima vale ad interrompere il rapporto di causalità nel caso in cui si presenti come eccezionale, imprevedibile, anormale ed assorbente e in relazione ad essa il preteso danneggiante non abbia un obbligo legale, contrattuale o tratto dalla comune prudenza, di impedire o prevenire l'evento (Balestrieri, 129).

In tale ultimo caso deve trovare applicazione l'art. 41 comma 2 c.p.

Nel caso in cui la condotta del danneggiato non si imponga con forza propria ed assorbente e, quindi, non valga ad elidere il nesso causale, essa deve essere considerata quale concausa e trova la sua speciale disciplina nell'art. 1227 comma 1 c.c.

Secondo l'impostazione maggioritaria (Bianca, 152) la colpa del danneggiato cui fa riferimento la disposizione normativa non deve essere intesa quale vero e proprio criterio soggettivo di imputabilità, ma quale requisito legale per la rilevanza causale del fatto del danneggiato.

Ai fini del concorso di colpa rileva, infatti, il fatto obiettivamente colposo a prescindere dall'incapacità o da altre esimenti personali di responsabilità (come, ad esempio, lo stato di necessità).

La nozione di colpa, coincidente con quella di omissione della diligenza imposta a tutela di un interesse altrui, può, dunque, essere impiegata in un'accezione diversa, definita come «colpa obiettiva», ovvero come difettoso sforzo diligente a prescindere dalla violazione di un interesse altrui.

Alla stregua di tale nozione il concorrente fatto colposo del danneggiato può essere intravisto: a) nel fatto non conforme a cautela; b) nel fatto inosservante di norme giuridiche; c) nel fatto inosservante di regole tecniche; d) nel fatto inosservante delle regole di condotta imposte al creditore per contratto.

Secondo altra tesi (Franzoni, 22; Salvi, 1256) il primo comma dell'art. 1227 c.c. prevede, innanzitutto, un'ipotesi di concorso di cause e si scinde in due proposizioni prescrittive che attengono ai due momenti essenziali in cui si snoda il giudizio di responsabilità nell'azione risarcitoria

Nella prima parte, costituente una regola di fattispecie, viene descritta, appunto, l'ipotesi del concorso del danneggiato nella causazione del danno evento (se il fatto colposo del creditore ha concorso a cagionare il danno).

Nella seconda parte è individuata una regola di risarcimento e, precisamente, una regola per la delimitazione del danno risarcibile imputabile al danneggiante (il risarcimento è diminuito secondo la gravità della colpa e l'entità delle conseguenze che ne sono derivate).

Il criterio di verifica del primo nesso causale è tratto dalla causalità di fatto o materiale, il secondo dalla causalità giuridicaex art. 1223 c.c.

Sulla scorta di tali considerazioni l'opinione in esame sostiene che il giudice, pur sul presupposto dell'unicità del fatto dannoso, è chiamato a compiere una duplice verifica ai fini dell'esatta determinazione del danno attribuibile al danneggiante: a) la verifica della colpa del danneggiato da intendersi come apporto eziologico nella verificazione dell'evento; b) l'entità delle conseguenze che ne sono derivate.

La spiegazione dell'art. 1227 comma 1 alla stregua del principio di causalità trova, tuttavia, opinioni discordi.

Una parte della dottrina (De Cupis, 224) rinviene, infatti, il fondamento della disposizione nel principio dell'autoresponsabilità.

Altri intravede nella colpa di cui alla disposizione in esame un vero e proprio elemento psicologico. Altra opinione obietta che quella del danneggiato non costituisce vera e propria colpa perché manca dell'antigiuridicità, in quanto il soggetto che reca danno alla propria sfera giuridica non viola alcun dovere giuridico, considerato che ognuno è libero di recare danno a sé stesso e che i consociati non hanno un interesse protetto a che ciò sia vietato (De Cupis, 218).

I due orientamenti in cui confluiscono le diverse teorie, quello causalista e quello non causalista, si scontrano in relazione ad una fattispecie di significativa rilevanza pratica: il concorso di colpa del soggetto incapace.

La giurisprudenza ha ritenuto irrilevante l'incapacità del danneggiato nell'applicazione dell'art. 1227 c.c., sostenendo che il principio dettato da tale disposizione, riferibile anche alla materia del danno extracontrattuale per l'espresso richiamo contenuto nell'art. 2056 c.c., della riduzione proporzionale del danno in ragione dell'entità percentuale dell'efficienza causale del soggetto danneggiato si applica anche quando questi sia incapace di intendere o di volere per minore età o per altra causa, e tale riduzione deve essere operata non solo nei confronti del danneggiato, che reclama il risarcimento del pregiudizio direttamente patito al cui verificarsi ha contribuito la sua condotta, ma anche nei confronti dei congiunti che, in relazione agli effetti riflessi che l'evento di danno subito proietta su di essi, agiscono per ottenere il risarcimento dei danni iure proprio, restando, peraltro, esclusa — ove essi avessero avuto sull'incapace un potere di vigilanza — la possibilità di far luogo ad una ulteriore riduzione del danno risarcibile sulla base di un loro concorso nella sua causazione per culpa in educando o in vigilando.

Sulla scelta tra il criterio della causalità e quello della rilevanza dell'atteggiamento psicologico del danneggiato, si era pronunciata con decisioni difformi la giurisprudenza più risalente, ma il contrasto tra l'indirizzo favorevole all'inapplicabilità della riduzione del risarcimento (Cass. n. 1650/1959; Cass. n. 291/1961) e quello contrario (Cass. n. 2403/1953; Cass. n. 1284/1957; Cass. n. 827/1962), è stato composto dalla sentenza delle Sezioni Unite di n. 351 del 1964, che ha stabilito che il principio di cui all'art. 1227 c.c. della riduzione proporzionale del danno in ragione dell'entità percentuale dell'efficienza causale del comportamento del soggetto danneggiato, si applica pur quando costui sia incapace di intendere o di volere per minore età o per altra causa.

La successiva giurisprudenza di legittimità non si è discostata dal principio fissato nella sentenza delle Sezioni Unite n. 351 del 1964 (Cass. n. 702/1965; Cass. n. 17532/1973; Cass. n. 4691/1992; Cass. n. 4332/1994).

Sulla questione si è pronunciata anche la Corte Costituzionale (Corte cost. ord., n. 14/1985), escludendo che contrasti con il principio di eguaglianza la norma di cui all'art. 1227 c.c. nella parte in cui, nei confronti dell'incapace di intendere e di volere che con la sua condotta abbia concorso a causare il danno complessivamente subito, impedisce la risarcibilità di quella parte del pregiudizio che sia stata causata dal comportamento dello stesso danneggiato.

È, inoltre, acquisita in giurisprudenza l'idea per la quale l'art. 1227 c.c. costituisce estrinsecazione del principio in forza del quale nell'ambito dell'accertamento della causalità nell'illecito occorre distinguere tra la causalità di fatto e la causalità giuridica. In particolare nei suoi due commi la norma sul concorso di colpa del danneggiato reca, secondo la giurisprudenza di legittimità, due distinte disposizioni che disciplinano fattispecie profondamente diverse e con effetti che operano su piani ontologicamente distinti: il primo comma regola il concorso del danneggiato nella produzione del fatto dannoso ed ha come conseguenza una ripartizione di responsabilità, rappresentando un'ipotesi particolare della più generale previsione del concorso di più autori del fatto dannoso (art. 2055 c.c.), nella quale uno dei coautori del fatto dannoso è lo stesso danneggiato che non può più ripetere quella parte del danno dallo stesso causato e che quindi non costituisce un danno ingiusto. Una situazione del tutto diversa è invece disciplinata da secondo comma in cui si fa riferimento ai «danni che il creditore avrebbe potuto evitare usando l'ordinaria diligenza», in cui l'uso del condizionale, con un periodo ipotetico di terzo tipo o dell'irrealtà, esclude che si possa instaurare un problema in termini di causalità, in quanto per i danni che si sarebbero potuti evitare, se il creditore avesse usato l'ordinaria diligenza, si fa ricorso ad un giudizio meramente ipotetico e non causale per ricostruire una realtà che sarebbe stata diversa se il creditore avesse adempiuto all'onere di evitare o di limitare le ripercussioni patrimoniali negative, mediante l'ordinaria diligenza (v., in particolare Cass. n. 3729/1990; Cass n. 4993/2004).

In definitiva il primo comma valorizza la contribuzione causale del danneggiato e prevede una diminuzione del risarcimento nel caso in cui la condotta colposa del danneggiato abbia contribuito causalmente a cagionare l'evento dannoso. Il principio trova frequente applicazione in materia di responsabilità per cose in custodia ex art. 2051 c.c., in relazione alla quale la giurisprudenza di legittimità ha chiarito che la condotta del danneggiato, che entri in interazione con la cosa, si atteggia diversamente a seconda del grado di incidenza causale sull'evento dannoso, in applicazione - anche ufficiosa - dell'art. 1227, comma 1, c.c., richiedendo una valutazione che tenga conto del dovere generale di ragionevole cautela, riconducibile al principio di solidarietà espresso dall'art. 2 Cost., sicché, quanto più la situazione di possibile danno è suscettibile di essere prevista e superata attraverso l'adozione da parte del danneggiato delle cautele normalmente attese e prevedibili in rapporto alle circostanze, tanto più incidente deve considerarsi l'efficienza causale del comportamento imprudente del medesimo nel dinamismo causale del danno, fino a rendere possibile che detto comportamento interrompa il nesso eziologico tra fatto ed evento dannoso, quando sia da escludere che lo stesso comportamento costituisca un'evenienza ragionevole o accettabile secondo un criterio probabilistico di regolarità causale, connotandosi, invece, per l'esclusiva efficienza causale nella produzione del sinistro (Cass. n. 9315/2019; Cass. n. 2480/2018).

Il secondo comma postula che la lesione si sia già verificata e mira a regolamentare i limiti di risarcibilità dei danni ulteriori che aggravano quelli riconducibili, alla stregua della causalità giuridica, al danno evento.

La causalità omissiva

Nel codice civile non si rinviene una disciplina della causalità omissiva e, quindi, anche in relazione a tale ipotesi, il paradigma normativo di riferimento è costituito dall'art. 40 c.p. che al secondo comma stabilisce un'equivalenza tra il non impedire un evento che si ha l'obbligo giuridico di evitare e il cagionarlo.

Ne discende, ancora una volta, la trasposizione in sede civilistica del dibattito dottrinario che nel sistema penalistico è sorto intorno alla qualificazione di tale fattispecie causale.

La discussione giuridica trae origine dal dato per il quale la causalità nell'omissione non può essere ricondotta nell'ambito dei fenomeni naturalistici, così che è escluso che il nesso che lega un'omissione ad un evento lesivo possa essere spiegato in termini di causalità naturalistica o materiale (Balestrieri, 54).

Secondo una primo e maggioritario orientamento della dottrina (c.d. teoria normativa), tra l'omissione e l'evento non sussiste, appunto, un nesso eziologico in senso naturalistico, ma un legame giuridico (Antolisei, 156; Fiandaca-Musco, 441). È il legislatore che, imponendo un determinato obbligo di evitare l'evento lesivo, stabilisce un rapporto di consequenzialità tra la condotta inerte ed inosservante di tale obbligo e l'evento (Matteini Chiari, 317).

Ne consegue, in quest'ottica, che l'accertamento del nesso causale può avvenire solo in termini ipotetici, verificando, cioè, se l'azione doverosa, ove compiuta, avrebbe scongiurato l'evento.

Nell'ambito della dottrina civilistica alcuni autori hanno sottoposto a critica detta impostazione (Realmonte, 70; Trimarchi, 143) evidenziando come la stessa comporti una commistione tra l'accertamento del nesso causale e la verifica dell'antigiuridicità della condotta.

Si è, in particolare, osservato che il comportamento diviene valutabile sotto il profilo causale solo se sia stata già accertata la sua contrarietà ad una previsione normativa.

La minoritaria teoria causalista (Realmonte, 58; Carnelutti, 1 e ss.) riconosce, invece, pari rilevanza causale tanto all'azione, quanto all'omissione.

Secondo tale impostazione possono essere considerate cause di un evento tanto le condizioni positive, rappresentate da condizioni attive, quanto le condizioni negative, costituite da un non facere, in quanto entrambe integrano un comportamento umano contestualizzato nel tempo e nello spazio (Balestrieri, 56).

All'interno di tale filone si possono individuare tre distinte ricostruzioni.

Per una prima tesi, con l'omissione il soggetto tiene un comportamento diverso da quello che avrebbe dovuto tenere (aliud agere).

Secondo altra opinione l'efficienza causale dell'omissione deriva dalla precedente serie eziologica che in ogni caso conduce all'evento.

Per altri il non facere costituisce in sé un'entità reale che preesiste alla norma ed è da questa valutato (Realmonte, 145).

Le tesi richiamate condividono, però, il metodo di accertamento della causalità dell'omissione, consistente con quello della verifica dell'esistenza di una causa interruttiva del nesso causale, impiegata in senso opposto (Balestrieri, 57).

In presenza di una condotta omissiva occorre, infatti, formulare un giudizio ipotetico e verificare se detta condotta omessa, se fosse stata tenuta, avrebbe interrotto il nesso causale (Capecchi, 162).

Viene, a tal fine impiegato, un giudizio controfattuale attraverso il quale si sostituisce mentalmente la condotta dovuta a quella omessa e se ne verifica l'efficacia condizionante la serie causale come verificatasi.

La giurisprudenza di legittimità reputa l'omissione causalmente rilevante soltanto quando si concretizzi nell'omissione di un comportamento imposto da una norma giuridica specifica (omissione specifica), e sempre che la condotta omissiva non sia essa stessa considerata fonte di danno dall'ordinamento (come in ambito penalistico per i reati omissivi propri), ovvero nell'omissione di obblighi di generica prevenzione dell'evento poi verificatosi e, quindi, di un generico dovere di intervento (omissione generica) in funzione dell'impedimento di quell'evento.

Secondo la Suprema Corte, il giudizio relativo alla sussistenza del nesso causale non può, dunque, limitarsi alla mera valutazione della materialità fattuale, perché postula la preventiva individuazione dell'obbligo specifico o generico di tenere la condotta omessa in capo al soggetto.

L'individuazione di tale obbligo ha, quindi, portata pregiudiziale rispetto all'accertamento causale, il quale non può avvenire soltanto su base naturalistica, cioè della constatazione che una condotta è mancata, ma suppone necessariamente un giudizio normativo, che, appunto, deve seguire quello naturalistico ed evidenziare che la condotta non verificatasi e, quindi, il fatto mancante, era dovuta specificamente o genericamente dal soggetto cui viene addebitata la responsabilità (Cass. n. 20328/2006). L'omissione di un certo comportamento rileva, invero, quale condizione determinativa del processo causale dell'evento dannoso, quando si tratti di condotta imposta da una norma giuridica specifica, sicché il giudizio relativo alla sussistenza del nesso causale non può limitarsi alla mera valutazione della materialità fattuale, bensì postula la preventiva individuazione dell'obbligo specifico di tenere la condotta omessa in capo al soggetto (Cass. n. 9067/2018).

La verifica della causalità omissiva consiste, dunque, nell'accertare se l'evento sia effettivamente ricollegabile in tutto od in parte all'omissione, nel senso che esso non si sarebbe verificato se l'agente avesse posto in essere la condotta doverosa impostagli (e, dunque, anche escludendo il rilievo di concause che abbiano potuto rendere irrilevante l'omissione), con l'ulteriore avvertenza che l'evento dannoso deve essere anche riconducibile alla tipologia di eventi che l'obbligo specifico o generico di tenere la condotta omessa intendeva evitare (Cass. n. 12401/2013).

Ne deriva che non può riconoscersi la responsabilità per omissione quando il comportamento omesso, ove anche fosse stato tenuto, non avrebbe comunque impedito l'evento prospettato.

In tal caso la responsabilità non è ravvisabile perché l'omissione, pur sussistente, non è causa del danno lamentato.

Il giudice è, quindi, tenuto ad accertare se l'evento sia ricollegabile all'omissione (causalità omissiva) nel senso che esso non si sarebbe verificato se (causalità ipotetica) l'agente avesse posto in essere la condotta doverosa impostagli, con esclusione di fattori alternativi (Cass. S.U., n. 581/2008; Cass. 12686/2011; Cass. n. 11789/2016).

L'accertamento del rapporto di causalità ipotetica passa attraverso l'enunciato «controfattuale» che pone al posto dell'omissione il comportamento alternativo dovuto, onde verificare se la condotta doverosa avrebbe evitato il danno lamentato dal danneggiato (Cass. n. 15709/2011; Cass. S.U., n. 581/2008).

Causalità e perdita di chance

Nella responsabilità civile la causalità assume rilevanza tanto nell'ipotesi di lesione di un bene interesse meritevole di tutela secondo l'ordinamento giuridico, quanto nell'ipotesi in cui dall'illecito derivi la privazione definitiva o la diminuzione delle possibilità, da parte di un soggetto, di conseguire di una certa utilità.

Quando la possibilità dell'ottenimento di tale risultato favorevole viene meno a causa della condotta colposa di un soggetto si configura la fattispecie del danno da perdita di chance.

Tale figura pretoria assume connotati differenti secondo che il risultato utile compromesso dall'illecito o dall'inadempimento sia di carattere patrimoniale o non patrimoniale.

Nel primo caso viene in rilevo la fattispecie della perdita della possibilità di ottenere un risultato favorevole, con specifico riferimento alle fattispecie del rapporto di lavoro e delle procedure di evidenza pubblica; nel secondo il danno da perdita di chance viene essenzialmente a coincidere con il pregiudizio da perdita della possibilità di sopravvivenza nell'ambito della responsabilità professionale medica.

Al fine di delineare i tratti distintivi della fattispecie, la dottrina distingue una nozione di chance coincidente con il danno evento ed una nozione di chance quale oggetto della perdita (danno – conseguenza), rilevante ai fini della determinazione del quantum.

Per la prima impostazione, denominata teoria ontologica la chance è un bene giuridico autonomo entrato come posta attiva nel patrimonio del danneggiato il cui venir meno determina un danno emergente (Bianca, 178; Franzoni, 83).

In questa prospettiva la lesione della chance costituisce il presupposto della responsabilità e determina un danno emergente concreto, attuale e certo (Gianti, 170) e il danneggiato deve dimostrare che l'utilità sarebbe stata conseguita non con certezza, ma che sussistevano i presupposti per una seria possibilità di ottenerla.

All'alleggerimento dell'onere probatorio con riguardo al nesso causale corrisponde una riduzione quantitativa del risarcimento, il quale non va commisurato all'integrale valore del risultato utile, ma alla percentuale di possibilità di ottenimento dello stesso (Gianti, 171).

Secondo altra impostazione, detta eziologica, la mancata realizzazione del risultato utile è la conseguenza dell'evento lesivo prodottosi così che la perdita di chance integra appunto un danno conseguenza e, segnatamente, un lucro cessante. In quest'ottica l'utilità perduta coincide con un interesse meritevole di tutela secondo l'ordinamento giuridico che il soggetto non ha ancora acquisito ma il cui conseguimento è astrattamente possibile con un grado di possibilità vicino alla certezza e che viene impedito dal fatto illecito altrui (Mastropaolo, X, 1988).

Al fine di ottenere il risarcimento di tale pregiudizio il danneggiato deve dimostrare l'esistenza di un nesso causale tra l'illecito e la perdita di utilità che con ragionevole probabilità si sarebbe verificata attraverso l'introduzione di elementi di prova concreti e certi da cui sia possibile evincere, attraverso un giudizio prognostico di tipo statistico probabilistico (Gianti, 170).

Alla stregua di tale impostazione, la chance costituisce un criterio attraverso il quale verificare la sussistenza o meno del nesso di causalità tra la condotta illecita e il danno inteso come perdita di un risultato finale vicino alla certezza. In definitiva al danneggiato basta provare che il risultato si sarebbe verificato con una percentuale di possibilità oltre il 50% per ottenere il risarcimento del valore economico totale del risultato finale.

Altra opinione ha, tuttavia, evidenziato la difficoltà di stabilire in che cosa si sottanzi il bene giuridico  chance  e in cosa si distingua dall'interesse verso il quale è proiettato e sul quale è ricalcato sotto il profilo contenutistico. Complessa è, inoltre, l'individuazione del confine tra probabilità scarse e, quindi, irrisarcibili, probabilità significative idonee ad integrare un danno da perdita di  chance  risarcibile e probabilità più elevate suscettibili di risarcimento pieno correlato alla lesione del bene giuridico finale ( LA BATTAGLIA ). Secondo tale prospettiva, facendosi coincidere la possibilità di realizzazione del vantaggio con la ragionevole certezza o elevata probabilità di un incremento della sfera patrimoniale del danneggiato, si finisce per sovrapporre impropriamente la nozione di perdita di  chance  a quella di lucro cessante, così che l'impiego dell'espressione “perdita di  chance ” assume una valenza meramente descrittiva delle conseguenze pregiudizievoli causate dal fatto illecito.

Con specifico riferimento alla perdita di chance di natura non patrimoniale, si distingue in dottrina tra danno da impedita guarigione e danno da perdita di chance in senso proprio (Ziviz).

Nel primo caso si è in presenza di un vero e proprio evento di danno rappresentato dal mancato conseguimento del risultato sperato (la sopravvivenza del paziente), il cui verificarsi appariva caratterizzato da un'elevata credibilità logico razionale, con la conseguenza che in caso di decesso le conseguenze pregiudizievoli ad esso conseguenti devono essere integralmente risarcite agli eredi della vittima.

La perdita di chance di sopravvivenza in senso proprio è quella che si verifica quando il paziente, a causa delle gravi condizioni di salute, gode di limitate aspettative di vita e il trattamento sanitario negligente o imperito gli impedisce il pieno sfruttamento di tali possibilità.

Secondo tale prospettiva oggetto di compromissione è in questo caso un'attitudine propria della persona, coincidente con la capacità di sopravvivere in presenza di determinati processi patogeni.

La nozione di probabilità non costituisce, pertanto, un bene immateriale oggetti di protezione ma viene utilizzata semplicemente per rappresentare una determinata situazione fisica del soggetto condizionata da una patologia potenzialmente letale (Ziviz).

A differenza del danno da perdita di chance patrimoniale, la vanificazione dell'attitudine alla sopravvivenza deve essere tutelata a prescindere dal grado di possibilità di ottenimento dell'utilità (Pucella, 120; Locatelli, 2008, 2370) e, quindi, anche quando l'esito letale appaia certo.

È stato osservato che il danno da perdita di possibilità di sopravvivenza appena delineato diverge nettamente dalla corrispondente figura di natura patrimoniale, sia sotto il profilo dell'evento che sotto quello del danno conseguenza.

 

Quanto al primo il bene interesse leso dalla condotta colposa del sanitario coincide come si è visto con l'attitudine alla sopravvivenza che è espressione del diritto alla vita del quale gode ogni individuo compreso il paziente che a causa di processi morbosi particolarmente gravi versi in pericolo di morte (Ziviz,).

Secondo altra tesi il diritto leso è, invece, quello alla salute (Pucella, 149).

La lesione della chance di sopravvivenza dà luogo ad una modificazione peggiorativa dello stato di salute del paziente e, quindi, ad un danno conseguenza di natura non patrimoniale da quantificarsi partendo dal valore complessivo della totale soppressione della capacità di sopravvivenza dell'individuo rispetto alla quale il giudice dovrebbe operare una riduzione tale da rispecchiare la limitazione derivante dalla patologia potenzialmente mortale (Ziviz).

Altra opinione ( LA BATTAGLIA ) distingue tra l'ipotesi, identificata dalla giuripsrudenza come perdita di  chance  di sopravvivenza, in cui il peggioramento delle condizioni di vita della vittima nel periodo che la separa dalla morte – che sarebbe comunque giunta per il decorso infausto della malattia - integra semplicemente un danno biologico o morale, avendo la condotta colposa del medico accelerato l' exitus  del paziente procurandogli per tale ragione sofferenze fisiche e morali ulteriori rispetto a quelle comportate dallo stato patologico, e l'ipotesi in cui il paziente perda la possibilità di guarigione o di consistente sopravvivenza. In tale ultimo caso fino    a quando si configuri l'interesse giuridico violato in termini di possibilità di acquisizione di un interesse non patrimoniale ulteriore, rappresentato dalla salute, non può configurarsi una “ “causalità ordinaria” che integri la lesione del primo senza dar luogo alla lesione del secondo. L'omogeneità del bene giuridico leso (declinato come “diminutivo astratto”, nel caso della  chance ) rende impossibile, infatti, una netta separazione (della valutazione) delle possibilità correlate al momento causale, da quelle consustanziali all'evento di danno”. Ne consegue, secondo l'impostazione in esame, “il rischio di considerare come nesso causale tutto ciò che non integra il nesso causale “pieno” come idoneo a fondare un danno da perdita di  chance ” ( LA BATTAGLIA , 365).

Secondo la definizione elaborata dalla giurisprudenza di legittimità, la chance è un'entità patrimoniale a sé stante, giuridicamente ed economicamente suscettibile di autonoma valutazione, onde la sua perdita e, cioè, la perdita della possibilità consistente di conseguire il risultato utile del quale risulti provata la sussistenza, configura un danno concreto ed attuale (in questi termini Cass. n. 4400/2004).

Rispetto a tale tipologia di pregiudizio l'evento di danno non va commisurato alla perdita del risultato, ma alla mera possibilità di conseguirlo, senza che assuma rilevanza il grado di probabilità di ottenerlo.

La chance consiste, infatti, per definizione, in mera possibilità (la cui esistenza sia però provata, sia pure in base a dati scientifici o statistici, come nel caso di specie), così che il nesso causale della perdita di tale occasione rispetto alla condotta riferita al responsabile va accertato prescindendo dalla maggiore o minore idoneità della chance stessa a realizzare il risultato sperato (Cass. n. 23846/2008; Cass. n. 7195/2014), ma considerandola come un bene oggetto di un diritto attuale autonomo e diverso dal diritto alla salute (Cass. n. 21619/2007).

Nell'accertamento del danno da perdita di chance possono, dunque, enuclearsi due distinti momenti, quello della verifica della sussistenza del nesso di causalità tra la condotta e il danno evento e quello della quantificazione del danno, in cui in modo diverso si atteggia il controllo sulle probabilità di verificazione del risultato perduto.

Come osservato dalla Suprema Corte, il primo accertamento va condotto in termini probabilistici, ma esclusivamente al fine di indagare il nesso di causalità materiale tra la situazione fattuale e la perdita della possibilità del risultato utile con applicazione della regola civilistica c.d. del «più probabile che non» (Cass. n. 21255/2013), così che, in questo caso, la ricorrenza del nesso causale può affermarsi allorché l'errore medico ha comportato «più probabilmente che non» la perdita della possibilità di una vita più lunga da parte del paziente, statisticamente accertata, sulla base di indagini epidemiologiche, in caso di diagnosi precoce della patologia.

Nel giudizio di liquidazione del danno da perdita della chance assume, in definitiva, rilievo sia l'aspetto della prossimità della situazione fattuale al conseguimento del risultato sperato, sia il profilo della maggiore o minore idoneità a garantire questo risultato.

Sotto il primo profilo, il valore della perdita dipende dalla sufficienza del comportamento, omesso dal responsabile, a determinare il risultato sperato; sotto il secondo, rileva l'idoneità in concreto della situazione a determinare il risultato sperato, cioè la probabilità o la mera possibilità del raggiungimento del risultato, anche in termini percentuali (Cass. n. 7195/2014).

Con specifico riferimento alla perdita di chance nell'ambito delle procedure di selezione del personale per l'accesso a qualifica superiore, la Suprema Corte ha recentemente affermato che nel caso in cui il datore di lavoro privato non rispetti i principi di correttezza e buona fede, incombe sul lavoratore, che agisca per il risarcimento del danno da perdita di chance, l'onere di provare, seppure in via presuntiva e probabilistica, il nesso causale tra l'inadempimento e l'evento dannoso, ossia la sua concreta e non ipotetica possibilità di conseguire la promozione, qualora la comparazione tra i concorrenti si fosse svolta in modo corretto e trasparente (Cass. sez. lav., n. 4014/2016).

In materia di diritti della persona, anche in giurisprudenza è accolta la distinzione, nell'ambito della categoria del danno da perdita delle chance di sopravvivenza, tra due fattispecie.

Vengono, infatti, in rilievo, da un lato, il caso in cui la condotta colposa del medico ha ridotto, con certezza o con ragionevole probabilità, la speranza di vita futura del paziente; dall'altro, le ipotesi in cui la condotta del medico ha privato il paziente non della salute o della vita, ma della mera possibilità di guarire.

Come da taluni evidenziato, solo in quest'ultimo caso si ravvisa la perdita di una chance vera e propria, ossia la privazione di una pura opportunità di guarigione a prescindere dalle probabilità di verificazione del risultato, perché nel primo caso è ravvisabile un danno certo, anche se futuro, qualificabile in termini di danno da impedita o ritardata guarigione.

L'incidenza della riduzione della probabile durata della vita sulla quantificazione del danno è, inoltre, diversa secondo che il danneggiato sia ancora in vita al momento dell'aestimatio ovvero sia deceduto.

Nella prima la riduzione verosimile della speranza di vita futura può tradursi in un aumento del grado di invalidità permanente (Trib. Monza 18 febbraio 1997), ovvero in un incremento del valore monetario del punto di invalidità.

Laddove la riduzione della speranza di vita non dia luogo, al contempo, ad una maggiore invalidità in senso tecnico, il danno può essere liquidato, comunque, in misura pari alla percentuale di riduzione della speranza ordinaria di vita.

Va, altresì, evidenziato che la ridotta speranza di vita futura nel caso in cui ad essa si abbini ad un danno biologico non comporta una riduzione della misura del risarcimento e, in particolare, del valore monetario del singolo punto di invalidità in quanto il danno, una volta determinato il grado di invalidità permanente, va liquidato secondo i criteri ordinari ossia tenendo conto della durata media della vita.

Se, invece, la vittima muore prima della liquidazione del danno, agli eredi spetta il risarcimento del danno biologico dalla stessa subito per avere vissuto di meno, nel caso in cui la morte sia la conseguenza dell'atto colposo, e, in ogni caso, per avere vissuto in condizioni peggiori rispetto a quelle che sarebbero state assicurate da una diagnosi e terapia tempestivi.

Come chiarito dalla Suprema Corte, integra, infatti, danno alla salute la perdita della qualità di vita conseguente alla ritardata diagnosi di una malattia, così come è risarcibile il danno non patrimoniale conseguente all'impedita possibilità di scegliere tempestivamente «nell'ambito di quello che la scienza medica suggerisce per garantire la fruizione della salute residua fino all'esito infausto, è anche messo in condizione di programmare il suo essere persona e, quindi, in senso lato l'esplicazione delle sue attitudini psico-fisiche» (Cass. n. 23846/2008).

Secondo la pronuncia appena richiamata al danneggiato, se in vita al momento della liquidazione e, in caso di decesso anteriore ad essa, agli eredi della vittima, spetta, infine, il maggior danno derivante dalla sottoposizione a trattamenti chirurgici o terapeutici più invasivi di quelli che avrebbe potuto essere eseguiti in caso di diagnosi più tempestiva.

La più recente giurisprudenza di legittimità ha offerto significativi apporti alla sistemazione del danno da perdita di chance non patrimoniale.

Al fine di enucleare i tratti connotanti della chance non patrimoniale, la Suprema Corte (Cass. n. 05641/2018) ha, innanzitutto, evidenziato l'insufficienza del c.d. “modello patrimonialistico”, che storicamente ha costituito il riferimento teorico dell'evoluzione giurisprudenziale in tema di perdita di chance, ritenendo che esso mal si concilia con la perdita della possibilità di conseguire un risultato migliore sul piano non patrimoniale. La chance patrimoniale presenta, infatti, le caratteristiche dell'interesse pretensivo così come costruito dalla dottrina amministrativa e, quindi, postula la preesistenza di un “quid” su cui sia andata ad incidere sfavorevolmente la condotta colpevole del danneggiante, impedendone la possibile evoluzione migliorativa. La chance “non pretensiva”, invece, pur essendo anch'essa rappresentata, sul piano funzionale, dalla possibilità di conseguire un risultato migliorativo della situazione preesistente, è morfologicamente diversa dalla prima, in quanto si innesta su una pregressa situazione sfavorevole (di norma consistente in uno stato patologico), rispetto alla quale non può rinvenirsi un “quid” inteso come preesistenza positiva. Ne consegue che, in sede risarcitoria, occorre tenere conto di tale diversità, sia pure sul piano strettamente equitativo, ai fini della liquidazione del danno, così che il risarcimento non può essere proporzionale al “risultato perduto”, ma va commisurato, in via equitativa, alla “possibilità perduta” di realizzarlo (intesa quale evento di danno rappresentato in via diretta ed immediata dalla minore durata della vita e/o dalla peggiore qualità della stessa). Tale “possibilità”, per integrare gli estremi del danno risarcibile, deve necessariamente attingere ai parametri dell'apprezzabilità, serietà e consistenza, rispetto ai quali il valore statistico-percentuale, ove in concreto accertabile, può costituire solo un criterio orientativo, in considerazione dell'infungibile specificità del caso concreto.

Con riguardo al nesso causale, la Suprema Corte ha precisato che il giudice deve tenere distinta la dimensione della causalità da quella dell'evento di danno e deve, altresì, adeguatamente valutare il grado di incertezza dell'una e dell'altra, muovendo dalla previa e necessaria indagine sul nesso causale tra la condotta e l'evento, secondo il criterio civilistico del “più probabile che non”, e procedendo, poi, all'identificazione dell'evento di danno, la cui riconducibilità al concetto di chance postula un'incertezza del risultato sperato, e non già il mancato risultato stesso, in presenza del quale non è lecito discorrere di una chance perduta, ma di un altro e diverso danno. Ne consegue che, provato il nesso causale rispetto ad un evento di danno accertato nella sua esistenza e nelle sue conseguenze dannose risarcibili, il risarcimento di quel danno sarà dovuto integralmente.

Circa la distinzione tra tra il danno da perdita di chance di guarigione o sopravvivenza e il danno subito dal malato terminale in conseguenza dell'incompleta informazione da parte del sanitario e consistente in un pregiudizio alla qualità della vita nel tempo conclusivo dell'esistenza, la Corte di cassazione  (Cass. n. 6688/2018) ha chiarito che sul sanitario che esegua un esame diagnostico grava l'obbligo di informare il paziente, in forma completa e con modalità congrue al livello di conoscenze scientifiche dello stesso, sugli esiti dell'accertamento, sul grado di rischio delle patologie riscontrate e sulla necessità ed urgenza di ulteriori approfondimenti diagnostici, dal cui inadempimento può conseguire in capo al paziente un danno da perdita di chance di guarigione o di sopravvivenza. Questo danno presuppone che il paziente, benché malato grave o anche gravissimo, abbia, tuttavia, ancora dinanzi - ove la condotta medica fosse corretta - la possibilità di uscire da tale situazione mediante una guarigione o una sopravvivenza di entità consistente, misurabile in termini di anni (cd. lungo-sopravvivenza), e si distingue dal diverso pregiudizio alla qualità della vita nel tempo conclusivo dell'esistenza, il quale presuppone, invece, che il paziente versi nella condizione di malato terminale, la cui sopravvivenza - sempre nell'ipotesi di condotta medica corretta - sia circoscritta ad un tempo limitato, misurabile in termini di poche settimane o di pochi mesi. Tale ultimo pregiudizio non è riconducibile al danno da perdita di chance in quanto non attiene al mancato conseguimento di qualcosa che il soggetto non ha mai avuto sotto il profilo della mera possibilità di ottenerlo, ma concerne la lesione del diritto relativo a beni che il soggetto già aveva, ovvero il diritto alle cure palliative per mantenere il fisico in uno stato sensorialmente tollerabile, il diritto all'esercizio delle proprie capacità psicofisiche e alla conseguente gestione libera e consapevole di sé stesso e di cui la condotta medica lo ha privato.

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