Codice Civile art. 2056 - Valutazione dei danni.

Mauro Di Marzio

Valutazione dei danni.

[I]. Il risarcimento dovuto al danneggiato si deve determinare secondo le disposizioni degli articoli 1223, 1226 e 1227.

[II]. Il lucro cessante è valutato dal giudice con equo apprezzamento delle circostanze del caso [113 c.p.c.].

Inquadramento

La disciplina del quantum del risarcimento del danno extracontrattuale è dettata dall'art. 2056 c.c. essenzialmente attraverso il rinvio ad alcune delle disposizioni concernenti il risarcimento del danno da inadempimento contrattuale: il fondamentale art. 1223 c.c., che, nel commisurare la misura del danno tanto alla perdita subita (danno emergente) come al mancato guadagno (lucro cessante), circoscrive l'obbligazione risarcitoria gravante sul danneggiato alle conseguenze «immediate e dirette» dell'inadempimento (e, dunque, nel comparto aquiliano, della lesione dell'interesse protetto in conseguenza della condotta lesiva posta in essere dal danneggiante), ponendo così, accanto a quello della causalità materiale, la regola della causalità giuridica; l'art. 1226 c.c. che affida alla valutazione equitativa del giudice la liquidazione del danno che non può essere provato nel suo preciso ammontare; il non meno importante art. 1227 c.c., che, nei suoi due commi, regola per un verso il concorso colposo del creditore (qui del danneggiato) e per altro verso esclude in se stesso l'obbligo risarcitorio per i danni che il creditore (qui il danneggiato) avrebbe potuto evitare con l'ordinaria diligenza.

Ben si comprende viceversa l'omesso richiamo dell'art. 1224 c.c., che concerne i danni nelle obbligazioni pecuniarie, i quali presuppongono per l'appunto la violazione dell'obbligazione di pagamento di una somma certa, liquida ed esigibile, mentre l'obbligazione risarcitoria cui si riferisce l'art. 2056 c.c. è per definizione illiquida, fintanto che non intervenga la liquidazione operata dal giudice (Franzoni, 17). Altrettanto comprensibile è il mancato rinvio all'art. 1225 c.c., che limita il risarcimento, nel campo contrattuale, al di fuori dell'ipotesi di dolo, «al danno che poteva prevedersi nel tempo in cui è sorta l'obbligazione», giacché il limite della prevedibilità è connaturato alla struttura della responsabilità contrattuale, la quale ben può comportare un fisiologico scarto temporale tra il sorgere dell'obbligazione ed il verificarsi dell'inadempimento, sicché la norma è volta a circoscrivere la responsabilità risarcitoria da inadempimento contrattuale al rischio volontariamente assunto in sede di stipulazione (v. sul tema Salvi, 1068; Franzoni, 24).

Il danno risarcibile

Mentre il nesso di causalità materiale, ossia la relazione fattuale che deve sussistere, ai fini dell'integrazione della fattispecie aquiliana, tra la condotta del danneggiante ed il danno, disciplinato dagli artt. 40-41 c.p., i quali adottano il criterio della consequenzialità tra azione od omissione ed evento, con la precisazione concernente le condotte di segno negativo secondo cui non impedire un evento che si ha l'obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo, regolando altresì il rilievo del concorso di cause preesistenti, simultanee o sopravvenute, obbedisce nel settore civile alla regola del «più probabile che non» (Cass. n. 21619/2007; Cass. S.U., n. 576/2008; in dottrina v. Capecchi, Il nesso di causalità, Padova, 2012), l'art. 2056 c.c., per il tramite dell'art. 1223 c.c., pone la regola della causalità giuridica, e cioè identifica le conseguenze dannose suscettibili di risarcimento, le quali sono limitate alle sole conseguenze immediate e dirette. In tal modo, il legislatore ha inteso escludere dall'ambito della risarcibilità — secondo il modello della c.d. regola di Pothier: v. Franzoni, 37 — le conseguenze anormali, ossia quelle il cui verificarsi non può ritenersi, secondo un criterio di regolarità ancorato all'id quod plerumque accidit, insito nell'illecito (Realmonte, 205).

Posta la distinzione tra causalità materiale e causalità giuridica occorre da un lato considerare il nesso causale che deve sussistere tra comportamento ed evento (elemento della fattispecie), la cui sussistenza era necessaria affinché possa configurarsi responsabilità, dall'altro lato il nesso causale che, collegando l'evento al danno (effetto della fattispecie), consente l'imputazione delle singole conseguenze dannose ed ha la funzione di delimitare a valle i confini della responsabilità (Rossetti, 460),

Con specifico riguardo la causalità giuridica, di cui in questa sede occorre occuparsi, si deve prendere atto che la formula delle conseguenze «immediate e dirette» è stata oggetto di una progressiva erosione, pacifico essendo che la risarcibilità si estende ai danni mediati e indiretti, giacché l'art 1223 c.c. deve essere interpretato non letteralmente bensì nel senso che il nesso causale tra il fatto illecito e l'evento dannoso può anche essere indiretto e mediato, e ciò si verifica allorquando il fatto commissivo o omissivo, pur non producendo di per se quelle determinate conseguenze pregiudizievoli, abbia tuttavia posto in essere uno stato di cose tali che senza di esso quel pregiudizio non si sarebbe prodotto (così testualmente in massima già Cass. n. 274/1962). Di guisa che, ad esempio, ai prossimi congiunti (nella specie, coniuge) delle vittime di lesioni colpose, spetta anche il risarcimento del danno morale, non essendo a ciò di ostacolo l'argomento della causalità diretta ed immediata di cui all'art. 1223 c.c., in quanto detto danno trova causa efficiente nel fatto del terzo, sicché il suo carattere immediato e conseguenziale legittima il congiunto iure proprio ad agire contro il responsabile dell'evento lesivo (Cass. n. 1516/2001).

Per la sussistenza della causalità giuridica, in definitiva, è necessario e sufficiente che i danni «si presentino come effetto normale secondo il principio della c.d. regolarità causale, con la conseguenza che, ai fini del sorgere dell'obbligazione di risarcimento, il rapporto fra illecito ed evento può anche non essere diretto ed immediato, se, ferme restando le altre condizioni, il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo, sempre che, nel momento in cui si produce l'evento causante, le conseguenze dannose di esso non appaiano del tutto inverosimili» (Cass. n. 16163/2001).

In tale prospettiva la S.C. impiega talora il criterio della prevedibilità (Cass. n. 7801/1986; Cass. n. 567/1983), occorrendo tuttavia precisare che la prevedibilità di cui si discorre si colloca dal versante del rapporto causale, e non della verifica del profilo soggettivo della colpa, né tantomeno della prevedibilità alla quale si riferisce l'art. 1225 c.c., inapplicabile alla responsabilità contrattuale (Berti, 90), risolvendosi pertanto nell'applicazione di regole statistiche e probabilistiche dirette a stabilire la normalità della concatenazione causale (Franzoni, 53)

L'art. 2056 c.c., attraverso il richiamo all'art. 1223 c.c., mira a circoscrivere il risarcimento alla perdita subita ed al mancato guadagno, che specificatamente conseguono, in base all'id quod plerumque accidit, e cioè secondo una valutazione operata ex ante, ad un fatto dannoso del tipo di quello effettivamente verificatosi.

In applicazione della regola così riassunta, la S.C. ha ritenuto la sussistenza del nesso di causalità tra un sinistro stradale e le perdite patrimoniali subite dal marito della danneggiata, il quale aveva scelto il prepensionamento anticipato per poter assistere la moglie, vittima dell'incidente, essendo stata nella specie dimostrata la necessarietà e proporzionalità di quel comportamento, rispetto alle oggettive esigenze del coniuge infortunato (Cass. n. 60/1991, in Giust. civ., 1991, I, 3019, con nota di Fedi, Nesso di causalità: nuove prospettive della giurisprudenza di cassazione). È stato parimenti riconosciuto il risarcimento per le spese sostenute dai familiari della vittima di un fatto illecito per partecipare alle esequie del loro congiunto, in quanto normali e doverose secondo la coscienza sociale ed il costume, pur trattandosi di danni indiretti, giacché nondimeno derivanti dal fatto illecito in base ad un nesso di regolarità casuale (Cass. n. 10528/2011). Viceversa, facendo applicazione del criterio della normalità, è stato escluso dall'ambito delle conseguenze risarcibili il furto di un veicolo lasciato in strada in quanto già danneggiato in conseguenza di un sinistro (Cass. n. 4661/1984).

Attraverso il combinato disposto degli artt. 2056 e 1223 c.c. la risarcibilità trova applicazione anche nei riguardi dei danni futuri. Una delle più comuni fattispecie in cui essi si presentano è quella delle lesioni subite dallo studente a causa dell'illecito altrui, con la conseguente esigenza, in sede giudiziale, di valutare il rilievo dei postumi permanenti di esse sulla capacità di reddito del soggetto (p. es. Cass. n. 3949/2007, secondo cui, se lo studente è vittima di lesioni, il danno patrimoniale si determina in base al lavoro che presumibilmente egli farà). Detto risarcimento è stato riconosciuto anche in favore del genitore (ed in altre occasioni del coniuge) della vittima delle lesioni, per la perdita del futuro apporto economico, il che trova conforto nell'affermazione di principio secondo cui il genitore di persona minore d'età, deceduta in conseguenza dell'altrui atto illecito, ai fini della liquidazione del danno patrimoniale futuro provocato dalla perdita degli alimenti che il minore avrebbe potuto erogare in loro favore, devono provare che, sulla base dell'insieme delle circostanze attuali, sia pronosticabile che in futuro essi si possano trovare in uno stato di indigenza tale da aver bisogno della corresponsione di alimenti senza che nessun altro possa prestarli. Parimenti, per dar prova della frustrazione dell'aspettativa ad un contributo economico da parte del familiare prematuramente scomparso, hanno l'onere di allegare e provare che il figlio deceduto avrebbe verosimilmente contribuito ai bisogni della famiglia. A tal fine la previsione va operata sulla base di criteri ragionevolmente probabilistici, non già in via astrattamente ipotetica, ma alla luce delle circostanze del caso concreto, conferendo rilievo alla condizione economica dei genitori sopravvissuti, alla età loro e del defunto, alla prevedibile entità del reddito di costui, dovendosi escludere che sia sufficiente la sola circostanza che il figlio deceduto avrebbe goduto di un reddito proprio (Cass. n. 4791/2007; Cass. n. 18490/2006; Cass. n. 8333/2004).

Il concorso di colpa

L'art. 2056 c.c. richiama inoltre l'art. 1227 c.c., il quale pone due regole diverse: al primo comma regola l'ipotesi in cui il danno non si sarebbe verificato senza il concorso della vittima, disponendo che in tal caso il risarcimento debba essere ridotto secondo la gravità della colpa e l'entità delle conseguenze che ne sono derivate; al secondo comma regola l'ipotesi in cui il danno, inteso quale danno evento, ossia la lesione dell'interesse giuridico protetto, sia integralmente addebitabile al danneggiante, ma il danneggiato non abbia evitato conseguenze invece evitabili con una condotta diligente, nel qual caso la norma esclude il risarcimento dei danni che la vittima avrebbe potuto evitare: sicché può dirsi che il danneggiato ha il dovere di adottare le misure opportune per ridurre o per non aggravare le conseguenze dannose del fatto illecito (Cass. n. 20684/2009).

Secondo l'opinione prevalente in dottrina e condivisa dalla giurisprudenza, inoltre, tanto il primo, quanto il secondo comma dell'art. 1227 c.c. attengono non alla colpa della vittima, ma al nesso di causalità e, in particolare, il primo alla causalità materiale, ossia al nesso tra condotta illecita e danno, il secondo la causalità giuridica, ossia al criterio di individuazione delle conseguenze risarcibili (Rossetti, 479; contra Bianca, 426).

Il comportamento del danneggiato incide cioè causalmente sulla stessa configurabilità dell'illecito recidendo il nesso di causa tra condotta e danno (Cass. n. 23919/2013; Cass. n. 11946/2013). Con riguardo al secondo comma, in particolare, la condotta del danneggiato va a collocarsi tra il danno evento già determinatosi per esclusiva responsabilità del danneggiante, cagionando danni ulteriori ed interrompendo in tal modo il nesso tra questi ultimi e il comportamento del danneggiante (Cass. n. 6430/1980), di guisa che il comportamento successivo del danneggiato esclude la responsabilità del danneggiante solo ove costituisca causa unica ed esclusiva dell'evento dannoso, elidendo ogni rapporto causale con il fatto precedente (Cass. n. 10607/2010).

È fermo, in giurisprudenza, il principio secondo cui il parametro della diligenza applicabile sia ai sensi del primo che del secondo comma dell'art. 1227 c.c. non comprende attività che siano gravose o eccezionali ovvero comportino rilevanti rischi o sacrifici (Cass. n. 2855/2005; Cass. n. 6735/2005; Cass. n. 2422/2004). Quanto all'estensione del dovere del danneggiato di attivarsi per ridurre le conseguenze dannose dell'evento, afferma nondimeno la S.C. che esso può imporre al danneggiato, entro i limiti detti, anche l'adozione di una condotta attiva o positiva (Cass. n. 26639/2013). Pertanto, non rientrano nell'ambito della diligenza richiesta al danneggiato le attività che comportino ad esempio esborsi apprezzabili di danaro ovvero altre condotte onerose, sempre che il facere non si giustifichi in forza dell'id quod plerumque accidit (Cass. n. 10895/2010; Cass. n. 20684/2009).

Sul piano processuale merita ancora rammentare che il concorso di colpa di cui al primo comma della norma citata è rilevabile d'ufficio, mentre la sussistenza della fattispecie di cui al secondo comma deve essere oggetto di una specifica eccezione (da ult. Cass. n. 15750/2015; Cass. n. 9137/2013).

La valutazione equitativa del danno

L'art. 2056 c.c. richiama ancora l'art. 1226 c.c., concernente la liquidazione equitativa del danno che non possa essere provato nel suo preciso ammontare.

Quantunque il secondo comma dell'art. 2056 c.c. si soffermi espressamente sulla liquidazione del lucro cessante, da valutarsi con equo apprezzamento, non si dubita che il rinvio all'art. 1226 c.c. debba essere inteso in senso onnicomprensivo e che, in altri termini, il giudice possa esercitare potere di liquidazione equitativa non solo per il lucro cessante, ma anche per il danno emergente (Franzoni, 451).

La S.C. ha in proposito chiarito che l'espressione danno che «non può essere provato nel suo preciso ammontare» va riferita alle ipotesi in cui la prova del danno sia oggettivamente impossibile, ovvero estremamente difficoltosa, sicché la liquidazione equitativa non può mai trovare applicazione al fine di supplire al mancato assolvimento dell'onere probatorio gravante sulla parte (Cass. n. 2022/2014; Cass. n. 10607/2010; Cass. n. 13288/2007).

Il ricorso alla valutazione equitativa del danno, d'altro canto, presuppone che sia certa nell'an, l'esistenza del danno sempre che, come si è detto, la precisa determinazione di esso sia impossibile ovvero particolarmente difficile (Cass. n. 4948/2013; Cass. n. 2247/2011; Cass. n. 9244/2007).

In presenza dei presupposti per la liquidazione equitativa, il giudice deve effettuarla d'ufficio anche senza che occorra una domanda in tal senso da parte del danneggiato (Cass. n. 11331/2009; Cass. n. 17492/2007).

La valutazione equitativa del giudice dà luogo ad un giudizio di diritto, riguardante l'entità del pregiudizio (Cass. n. 20990/2011; Cass. n. 11202/1994), di guisa che il controllo su di essa in sede di legittimità va fatto ai sensi del n. 3 dell'art. 360 c.p.c.

Il giudice del merito è tenuto a motivare la liquidazione equitativa del danno indicando i criteri adoperati e gli elementi valorizzati (Cass. n. 3191/2006; Cass. n. 22895/2005).

Fattispecie

Esaminati in generale i temi posti dall'esegesi dell'art. 2056 c.c., sembra opportuno, tenuto conto della tendenza della giurisprudenza ad evolversi, rammentare alcune delle decisioni intervenute in tempi recenti su questioni di particolare rilievo pratico. Danno biologico. Così come non è consentito liquidare due volte il medesimo danno non patrimoniale, sol chiamandolo con nomi diversi, allo stesso modo non è consentito negare il risarcimento di due danni diversi, sol perché li si chiami con nomi identici. Ne consegue che il giudice chiamato a liquidare il danno non patrimoniale alla salute, quando sia allegata e provata l'esistenza d'un danno permanente e d'un periodo di invalidità temporanea, deve monetizzare tanto l'uno quanto l'altro di tali pregiudizi, avendo essi effetti e contenuto diverso, ed a nulla rilevando la identità della loro natura giuridica. La liquidazione del danno biologico permanente si distingue concettualmente in due fasi: dapprima individuare le conseguenze "ordinarie" del pregiudizio, cioè quelle che qualunque vittima di lesioni analoghe non potrebbe non patire; e quindi le eventuali conseguenze peculiari, cioè quelle che non sono immancabili, ma si sono verificate solo nel caso specifico. Le prime andranno monetizzate con un criterio uguale per tutti; le seconde con criterio ad hoc e scevro da qualsiasi automatismo. Quando il giudice di merito liquida il danno biologico col criterio cd. «a punto variabile», nel motivare la propria decisione non può limitarsi a generici ed oscuri richiami alle «tabelle», ma deve indicare:il valore monetario di base del punto ed il grado di invalidità permanente; il coefficiente di abbattimento in funzione dell'età della vittima; le ragioni per le quali ha ritenuto di variare o non variare il risarcimento standard (Cass. n. 16788/2015).

In tema di risarcimento del danno biologico, ove la persona offesa sia deceduta per causa non ricollegabile alla menomazione risentita in conseguenza dell'illecito, l'ammontare del danno spettante agli eredi del defunto iure successionis va parametrato alla durata effettiva della vita del danneggiato, e non a quella probabile, in quanto la durata della vita futura, in tal caso, non costituisce più un valore ancorato alla mera probabilità statistica, ma è un dato noto (Cass. n. 679/2016, che ha confermato la sentenza di merito, la quale, dopo avere escluso che la morte del danneggiato fosse riconducibile con certezza, o anche con congrua probabilità, al trattamento sanitario ricevuto dallo stesso danneggiato due anni prima del decesso, dal quale era conseguita una menomazione permanente, aveva ritenuto che il danno biologico trasmissibile iure hereditatis dovesse calcolarsi non sulla base della aspettativa di vita media, bensì dell'effettiva vita residua goduta dal danneggiato).

In tema di danno biologico è precluso il ricorso in via analogica al criterio di liquidazione del danno non patrimoniale da micropermanente derivante dalla circolazione di veicoli a motore e natanti ovvero mediante il rinvio al decreto emanato annualmente dal Ministro delle attività produttive, mentre è congruo il riferimento ai valori inclusi nella tabella elaborata, ai fini della liquidazione del danno alla persona, dal Tribunale di Milano, in quanto assunti come valore equo, in grado di garantire la parità di trattamento in tutti i casi in cui la fattispecie concreta non presenti circostanze idonee ad aumentarne o a ridurne l'entità. (Cass. n. 13982/2015, concernente risarcimento del danno connesso all'aggravamento delle condizioni di salute, derivato dall'adibizione del ricorrente, avente qualifica di operaio, ad attività lavorative incompatibili con la patologia di cui era affetto, nota all'ente pubblico datore di lavoro). In caso di illecito lesivo dell'integrità psico-fisica della persona, la riduzione della capacità lavorativa generica, quale potenziale attitudine all'attività lavorativa da parte di un soggetto che non svolge attività produttive di reddito, né è in procinto presumibilmente di svolgerla, è risarcibile quale danno biologico, che ricomprende tutti gli effetti negativi del fatto lesivo che incidono sul bene della salute in sé considerato. Qualora, invece, a detta riduzione della capacità lavorativa generica si associ una riduzione della capacità lavorativa specifica che, a sua volta, dia luogo a una riduzione della capacità di guadagno, detta diminuzione della produzione di reddito integra un danno patrimoniale. Ne consegue che non può farsi discendere in modo automatico dall'invalidità permanente la presunzione del danno da lucro cessante, derivando esso solo da quella invalidità che abbia prodotto una riduzione della capacità lavorativa specifica. Detto danno patrimoniale deve essere accertato in concreto attraverso la dimostrazione che il soggetto leso svolgesse, o presumibilmente in futuro avrebbe svolto, un'attività lavorativa produttiva di reddito, e inoltre attraverso la prova della mancanza di persistenza, dopo l'infortunio, di una capacità generica di attendere ad altri lavori, confacenti alle attitudini e condizioni personali e ambientali dell'infortunato, e altrimenti idonei alla produzione di altre fonti di reddito, in luogo di quelle perse o ridotte. La prova del danno grava sul soggetto che chiede il risarcimento e può essere anche presuntiva, purché sia certa la riduzione della capacità di guadagno (Cass. n. 2758/2015).

La perdita della capacità di procreare del genitore cagiona al figlio del danneggiato principale la lesione dell'interesse, costituzionalmente protetto dall'art. 29 Cost., a stabilire un legame affettivo con uno o più fratelli e, quindi, un danno non patrimoniale risarcibile, sempre che vi siano elementi, anche presuntivi, sufficienti a far ritenere che tale legame sarebbe stato acquisito e che la sua mancanza abbia determinato un concreto pregiudizio (Cass. III, n. 17554/2020, che ha cassato con rinvio la sentenza d'appello che aveva rigettato la domanda risarcitoria escludendo la risarcibilità del danno patito dalla figlia minore, sebbene fosse emerso che, prima della compromissione della capacità riproduttiva, i genitori condividessero il progetto di creare una famiglia più numerosa).

I postumi di carattere estetico conseguenti ad un fatto lesivo della persona possono ricevere un autonomo trattamento risarcitorio, sotto l'aspetto strettamente patrimoniale, quando provochino ripercussioni negative su un'attività lavorativa già svolta o su un'attività futura, precludendola o rendendola di più difficile conseguimento, in relazione all'età, al sesso del danneggiato ed ad ogni altra utile circostanza particolare; in tutti gli altri casi, il danno estetico non potrà mai essere considerato una voce di danno a sé, aggiuntiva ed ulteriore rispetto al danno biologico (Cass. III, n. 14246/2020).

Invalidità permanente. L'invalidità permanente è suscettibile di valutazione soltanto dal momento in cui, dopo il decorso e la cessazione della malattia, l'individuo non abbia riacquistato la sua completa validità con relativa stabilizzazione dei postumi, derivandone la conseguenza che il danno biologico di natura permanente deve essere determinato soltanto dalla cessazione di quello temporaneo (Trib. Lucca 27 gennaio 2017).

Micropermanenti. In caso di incidente stradale, va liquidato anche il danno morale, ancorché conseguente a lesioni di lieve entità (micropermanenti), purchè si tenga conto della lesione in concreto subita, non sussistendo alcuna automaticità parametrata al danno biologico, e il danneggiato è onerato dell'allegazione e della prova, eventualmente anche a mezzo di presunzioni, delle circostanze utili ad apprezzare la concreta incidenza della lesione patita in termini di sofferenza e turbamento (Cass. n. 339/2016).

Danno non patrimoniale. In tema di risarcimento del danno non patrimoniale l'onere di allegazione va adempiuto in modo circostanziato, non potendosi risolvere in mere enunciazioni generiche, astratte o ipotetiche. In particolare le allegazioni che devono accompagnare la proposizione di una domanda risarcitoria non possono essere limitate alla prospettazione della condotta in tesi colpevole della controparte, ma devono includere anche la descrizione delle lesioni, patrimoniali e/o non patrimoniali, prodotte da tale condotta, dovendo l'attore mettere il convenuto in condizione di conoscere quali pregiudizi vengono imputati al suo comportamento e ciò a prescindere dalla loro esatta quantificazione e dall'assolvimento di ogni onere probatorio al riguardo (Cass. n. 9377/2016).

Danno morale. Il danno morale, pur costituendo un pregiudizio non patrimoniale al pari di quello biologico, non è ricompreso in quest'ultimo e va liquidato autonomamente, non solo in forza di quanto normativamente stabilito dall'art. 5, lett. c), d.P.R. 3 marzo 2009 n. 37, ma in ragione della differenza ontologica fra le due voci di danno, che corrispondono a due momenti essenziali della sofferenza dell'individuo: il dolore interiore e la significativa alterazione della vita quotidiana (Cass. n. 16197/2015).

Perdita del rapporto parentale. La perdita di una persona cara implica necessariamente una sofferenza morale, la quale non costituisce un danno autonomo, ma rappresenta un aspetto — del quale tenere conto, unitamente a tutte le altre conseguenze, nella liquidazione unitaria e omnicomprensiva — del danno non patrimoniale. Deriva da quanto precede, pertanto, che è inammissibile, costituendo una duplicazione risarcitoria, la congiunta attribuzione, al prossimo congiunto di persona deceduta in conseguenza di un fatto illecito costituente reato, del risarcimento a titolo di danno da perdita del rapporto parentale e del danno morale (inteso quale sofferenza soggettiva, ma che in realtà non costituisce che un aspetto del più generale danno non patrimoniale). L'unitarietà non esclude, peraltro, una separata considerazione dei vari effetti del danno, ma esige che tutte le componenti siano valutate, sia pure una sola volta, in modo complessivo. In particolare ai fini della liquidazione del danno non patrimoniale da perdita di persona cara, costituisce indebita duplicazione di risarcimento la congiunta attribuzione del danno morale — non altrimenti specificato — e del danno da perdita del rapporto parentale, poiché la sofferenza patita nel momento in cui la perdita è percepita, e quella che accompagna l'esistenza del soggetto che l'ha subita, altro non sono che componenti del complesso pregiudizio che va integralmente, ma unitariamente ristorato (Cass. n. 238/2017). Determina indebita duplicazione di risarcimento la congiunta attribuzione del c.d. danno morale — non altrimenti specificato — e del c.d. danno da perdita del rapporto parentale, poiché la sofferenza patita nel momento in cui la perdita è percepita e quella che accompagna l'esistenza del soggetto che l'ha subita altro non sono che componenti del complesso pregiudizio, che va integralmente, ma unitariamente ristorato (Cass. n. 25351/2015). In materia di liquidazione equitativa del danno non patrimoniale da perdita del rapporto parentale, non è adeguatamente motivata la sentenza del giudice di merito che, facendo applicazione dei parametri previsti al riguardo dalle tabelle elaborate dal Tribunale di Milano, abbia liquidato, per il pregiudizio subito dai genitori in ragione della nascita di un feto morto, una somma pari ai valori più elevati della forbice risarcitoria ivi contemplata, senza considerare che essa, in quanto dichiaratamente calcolata in ragione della qualità e quantità della relazione affettiva con la persona perduta, non è di per sé utilizzabile nel caso del figlio nato morto, dove tale relazione è solo potenziale (Cass. n. 12717/2015). Sulla fattispecie è stato affermato che, nella liquidazione del danno non patrimoniale da perdita del rapporto parentale per il parto di un feto morto, il giudice di merito, nell'applicare i parametri delle tabelle elaborate dal tribunale di Milano, può operare la necessaria personalizzazione, in base alle circostanze del caso concreto, riconoscendo ai danneggiati una somma inferiore ai valori minimi tabellari in considerazione della mancata instaurazione di una relazione affettiva, in quanto tale circostanza non è riconducibile alle tabelle ed esprime il differente caso di una relazione soltanto potenziale (Cass. III, n. 22859/2020).

Convivente more uxorio. Il convivente more uxorio, che agisca per il risarcimento del danno riflesso in caso di lesioni arrecate al compagno, deve offrire specifiche allegazioni circa la qualità di convivente, il pregiudizio patito, la gravità dell'offesa (Cass. n. 4386/2016).

Danno da morte. In caso di sinistro mortale in conseguenza di incidente stradale, che abbia determinato il decesso non immediato della vittima, al danno biologico terminale, consistente in un danno biologico da invalidità temporanea totale (sempre presente e che si protrae dalla data dell'evento lesivo fino a quella del decesso), può sommarsi una componente di sofferenza psichica (danno catastrofico), sicché, mentre nel primo caso la liquidazione può essere effettuata sulla base delle tabelle relative all'invalidità temporanea, nel secondo la natura peculiare del pregiudizio comporta la necessità di una liquidazione in base ad un criterio equitativo puro, che tenga conto della enormità del pregiudizio, giacché tale danno, sebbene temporaneo, è massimo nella sua entità ed intensità, tanto da esitare nella morte (Cass. n. 13198/2015, che ha accolto il ricorso avverso la sentenza di merito che aveva proceduto alla simbolica liquidazione, quale danno biologico terminale patito dalla vittima, rimasta in vita 3 giorni, della somma di euro 1.000,00).

Tabelle in generale. Nel caso in cui, dopo la pubblicazione della pronuncia di primo grado, sia intervenuta una variazione dei criteri di liquidazione del danno non patrimoniale individuati nelle tabelle generalmente in uso negli uffici giudiziari di merito e che prevedano modalità diverse di commisurazione del medesimo danno tali da comportare un incremento dell'importo risarcibile, il danneggiato è legittimato ad impugnare la sentenza deducendo che il quantum liquidato in prime cure non comprende il ristoro del danno da perdita o riduzione del rapporto parentale, o che l'importo liquidato per il danno da morte del congiunto è inferiore al valore minimo determinato nelle nuove tabelle (Cass. n. 25485/2016). In tema di danno iure hereditatis da lucida agonia, al fine di addivenire ad una liquidazione avulsa da criteri meramente discrezionali, sono utilizzabili le tabelle di recente elaborazione da parte dell'Osservatorio su Giustizia Civile del Trib. di Milano (Trib. Pavia 26 gennaio 2017). In tema di valutazione del danno biologico, il principio secondo cui l'equità va intesa non solo come «regola del caso concreto», ma anche come «parità di trattamento», trova adeguata applicazione anche attraverso l'utilizzo dei parametri contenuti nella tabella del Tribunale di Roma, elaborata in relazione alla media dei risarcimenti liquidati in loco, secondo un sistema in cui viene individuato un valore base del danno biologico che viene integrato, in un'ottica di ampia personalizzazione, attraverso il potere equitativo del giudice che non può prescindere dal caso concreto e dai fatti allegati e provati nel procedimento (Trib. Roma 15 gennaio 2016).

Tabelle milanesi. Qualora non sussistano particolari circostanze idonee a giustificarne l'abbandono, le Tabelle elaborate dal Tribunale di Milano vanno adottate in tutti gli Uffici Giudiziari quale parametro di conformità della valutazione equitativa del danno non patrimoniale alle disposizioni di cui agli artt. 1226 e 2056 c.c. a garanzia di una congrua liquidazione del pregiudizio concretamente subito all'integrità psico-fisica e di una uniformità di trattamento di casi analoghi (App. Roma 21 dicembre 2016). In tema di liquidazione del danno alla persona e con riferimento ai criteri di cui alle cd. «tabelle milanesi», che non costituiscono fatto notorio, non soddisfa l'onere di autosufficienza di cui all'art. 366, comma 1, n. 6, c.p.c., il ricorso per cassazione che si limiti ad riportare le somme pretese in applicazione delle stesse, omettendo di indicarle specificamente tra i documenti ex art. 369, comma 2, c.p.c., e di individuare l'atto con il quale siano state prodotte nel giudizio di merito ed il luogo del processo in cui risultino reperibili; né è ammissibile la loro successiva produzione ex art. 372, comma 2, c.p.c., non trattandosi di documenti relativi all'ammissibilità del ricorso (Cass. n. 12288/2016). In tema di applicazione delle cd. tabelle milanesi di liquidazione del danno, qualora dopo la deliberazione della decisione e prima della sua pubblicazione, sia intervenuta una loro variazione, deve escludersi che l'organo deliberante abbia l'obbligo di riconvocarsi e di procedere ad una nuova operazione di liquidazione del danno in base alle nuove tabelle, la cui modifica non integra uno ius superveniens né in via diretta né in quanto e possano assumere rilievo, ai sensi dell'art. 1226 c.c., come parametri doverosi per la valutazione equitativa del danno non patrimoniale alla persona (Cass. n. 9367/2016). Ai fini della liquidazione del danno non patrimoniale i parametri delle tabelle di Milano sono da prendersi a riferimento da parte del giudice di merito quale criterio di riscontro e verifica della liquidazione di inferiore ammontare cui sia diversamente pervenuto, essendo incongrua la motivazione che non dia conto delle ragioni della preferenza assegnata ad una quantificazione che, avuto riguardo alle circostanze del caso concreto, risulti sproporzionata rispetto a quella cui l'adozione dei parametri suddetti consenta di pervenire (Cass. n. 2167/2016, concernente fattispecie in cui la Corte di merito non aveva dato adeguatamente conto dei criteri posti a base del procedimento valutativo seguito per giungere all'adottata liquidazione, omettendo ogni indicazione in ordine al parametro standard adottato). Nella liquidazione del danno non patrimoniale, l'applicazione di criteri diversi da quelli risultanti dalle tabelle predisposte dal Tribunale di Milano può essere fatta valere in sede di legittimità, come vizio di violazione di legge, soltanto quando in grado di appello il ricorrente si sia specificamente doluto della mancata liquidazione del danno in base ai valori delle tabelle milanesi ed abbia altresì versato in atti dette tabelle (Cass. n. 126/2016, che ha ritenuto inammissibile il motivo di ricorso avverso la pronuncia sulla liquidazione del danno non patrimoniale proposto dalla parte che non lo aveva sollevato nel giudizio d'appello, né aveva depositato in quel grado di giudizio le tabelle milanesi). In tema di risarcimento del danno da sinistro stradale, la questione dell'applicabilità delle c.d. tabelle di Milano presuppone che tale questione sia già stata posta nei gradi di merito, non potendo l'originaria carenza di invocazione delle tabelle medesime essere sanata in sede di legittimità (Cass. n. 9134/2015). La rivalutazione monetaria e gli interessi costituiscono una componente dell'obbligazione di risarcimento del danno e possono essere riconosciuti dal giudice anche d'ufficio e in grado di appello, pur se non specificamente richiesti, atteso che essi devono ritenersi compresi nell'originario petitum della domanda risarcitoria, ove non ne siano stati espressamente esclusi (Cass. n. 8705/2015).

Danno biologico differenziale. Per calcolare il cd. danno biologico differenziale, spettante alla vittima nei confronti del terzo civilmente responsabile, dall'ammontare complessivo del danno biologico deve essere detratto non già il valore capitale dell'intera rendita costituita dall'Inail, ma solo il valore capitale della quota di essa destinata a ristorare il danno biologico (App. Torino 6 luglio 2016).

Perdita della capacità lavorativa. In generale il grado di invalidità permanente determinato da una lesione all'integrità psico-fisica non si riflette automaticamente, né tanto meno nella stessa misura, sulla riduzione percentuale della capacità lavorativa specifica e, quindi, di guadagno della stessa. Comunque, affinché il giudice possa procedere all'accertamento presuntivo della perdita patrimoniale da menomazione della capacita lavorativa specifica, anche nei casi in cui l'elevata percentuale di invalidità permanente renda altamente probabile la menomazione di quella specifica, liquidando poi questa specifica voce di danno patrimoniale con criteri presuntivi, è necessario che il danneggiato supporti la richiesta con elementi idonei alla prova in concreto del pregresso svolgimento di una attività economica o alla prova in concreto del possesso di una qualificazione professionale acquisita e non ancora esercitata (Cass. n. 14517/2015). In altri termini, l'accertamento di postumi, incidenti con una certa entità sulla capacità lavorativa specifica non comporta l'automatico obbligo del danneggiante di risarcire il pregiudizio patrimoniale, conseguenza della riduzione della capacità di guadagno — derivante dalla ridotta capacità lavorativa specifica — e, quindi di produzione di reddito. Detto danno patrimoniale da invalidità deve, infatti, essere accertato in concreto, attraverso la dimostrazione che il soggetto leso svolgesse o — trattandosi di persona non ancora dedita ad attività lavorativa — presumibilmente avrebbe svolto una attività produttiva di reddito. Occorre, in altre parole, la dimostrazione che la riduzione della capacità lavorativa si sia tradotta in un effettivo pregiudizio patrimoniale. A tale fine il danneggiato è tenuto a dimostrare, anche tramite presunzioni, di svolgere una attività produttiva di reddito e di non avere mantenuto, dopo l'infortunio una capacità generica di attendere ad altri lavori confacenti alle sue attitudini personali (Cass. n. 8403/2015).

Il professionista che a seguito di un incidente stradale abbia riportato una invalidità permanente di non modesta entità, non può chiedere, oltre alla personalizzazione del danno biologico, anche il risarcimento per il lucro cessante, se non prova nello specifico il nesso causale tra il calo dei redditi e le lesioni fisiche patite. Ad affermarlo è la Cassazione che respinge il ricorso di un notaio, vittima di un incidente stradale con invalidità permanente del 20% per il riconoscimento del lucro cessante. Per il professionista, la maggiore difficoltà negli spostamenti e il disagio nel mantenere la posizione seduta incidevano nei suoi guadagni. Per la Corte, invece, la flessione registrata nella dichiarazione dei redditi prodotta non può da sola fornire la prova della sussistenza di un nesso causale tra perdite economiche e incidente. In altri termini In presenza di un danno permanente non lieve, avente una incidenza del 20% sulla capacità lavorativa specifica del soggetto, che svolga un lavoro intellettuale, la contrazione della capacità di guadagno non può essere presunta, ma deve essere allegata e provata (Cass. n. 12467/2017). Il danno patrimoniale futuro da perdita della capacità lavorativa specifica, in applicazione del principio dell'integralità del risarcimento sancito dall'artt. 1223 c.c., deve essere liquidato moltiplicando il reddito perduto per un adeguato coefficiente di capitalizzazione, utilizzando quali termini di raffronto, da un lato, la retribuzione media dell'intera vita lavorativa della categoria di pertinenza, desunta da parametri di rilievo normativi o altrimenti stimata in via equitativa, e, dall'altro, coefficienti di capitalizzazione di maggiore affidamento, in quanto aggiornati e scientificamente corretti, quali, ad esempio, quelli approvati con provvedimenti normativi per la capitalizzazione delle rendite previdenziali o assistenziali oppure quelli elaborati specificamente nella materia del danno aquiliano. (Cass. n. 10499/2017, che ha cassato la decisione impugnata, che aveva determinato la quota di reddito perduto da un avvocato, esercente da pochi mesi la professione, sulla base dell'imponibile fiscale dichiarato dal danneggiato nell'anno del sinistro, senza considerare il prevedibile progressivo incremento reddituale che, notoriamente, caratterizza tale attività, moltiplicandola, poi, per il coefficiente di capitalizzazione tratto dalla tabella allegata al r.d. n. 1403/1922, sebbene ancorata a dati non più attuali). Già in precedenza era stato osservato che nel procedere alla liquidazione del danno patrimoniale futuro derivante dalla compromissione della capacità reddituale conseguente ad una lesione biologica, il giudice di merito, ove adotti il criterio della capitalizzazione, ossia del riconoscimento di un capitale che comporti per il danneggiato il conseguimento di un importo pari al reddito man mano perduto, non può impiegare i coefficienti allegati al r.d. 9 ottobre 1922 n. 1403, i quali, essendo fondati su dati risalenti al 1911, forniscono criteri di valutazione non più attendibili e razionali, quantunque il giudice abbia escluso la detrazione della percentuale di abbattimento della rendita per lo scarto fra vita fisica e vita lavorativa (Cass. n. 16197/2015). La liquidazione del danno patrimoniale da incapacità lavorativa, patito in conseguenza di un sinistro stradale da un soggetto percettore di reddito da lavoro, deve avvenire ponendo a base del calcolo il reddito effettivamente perduto dalla vittima, e non il triplo della pensione sociale. Il ricorso a tale ultimo criterio, ai sensi dell'art. 137, c.ass., può essere consentito solo quando il giudice di merito accerti, con valutazione di fatto non sindacabile in sede di legittimità, che la vittima al momento dell'infortunio godeva sì un reddito, ma questo era talmente modesto o sporadico da rendere la vittima sostanzialmente equiparabile ad un disoccupato (Cass. n. 8896/2016). Nel caso di lesioni sofferte da un soggetto minore, al momento del sinistro ancora studente, e che abbiano determinato un'invalidità permanente pari al trenta per cento e, dunque, di non lieve entità, il giudice di merito, investito della domanda di riconoscimento del conseguente danno futuro patrimoniale per perdita di capacità lavorativa generica, non compie un corretto procedimento di sussunzione della fattispecie, allorquando ritenga di procedere alla liquidazione di tale danno all'interno della liquidazione del danno non patrimoniale, essendo tale possibilità limitata, e sempre salvo dimostrazione in senso contrario di una perdita di chance lavorativa futura specifica nonostante la lievità della lesione, soltanto al caso di lesioni personali di lieve entità e peraltro limitatamente all'ipotesi in cui la loro concreta incidenza sulla futura capacità lavorativa pur generica rimanga oscura (Cass. n. 5880/2016).

Fermo tecnico. Il danno da fermo tecnico di un veicolo coinvolto in un sinistro stradale non può considerarsi in re ipsa quale conseguenza automatica dell'incidente e dell'indisponibilità del mezzo, ma dev'essere allegato e dimostrato in ragione dell'effettiva perdita patita da chi invoca il risarcimento (Cass. n. 18773/2016, che ha ritenuto esente da pecche la statuizione del giudice di merito che aveva escluso la risarcibilità di detto pregiudizio in ragione della rilevata rapida attuazione delle opere di riparazione del veicolo, senza che l'attore avesse neppure allegato di aver subìto un danno materiale emergente ulteriore rispetto a quello normalmente discendente dal bisogno di disporre le opere anzidette). Il danno da fermo tecnico, patito dal proprietario di un autoveicolo a causa della impossibilità di utilizzarlo durante il tempo necessario alla sua riparazione, può essere liquidato anche in assenza d'una prova specifica, rilevando a tal fine la sola circostanza che il danneggiato sia stato privato del veicolo per un certo tempo, anche a prescindere dall'uso effettivo a cui esso era destinato. L'autoveicolo, infatti, anche durante la sosta forzata è una fonte di spesa per il proprietario (tenuto a sostenere gli oneri per la tassa di circolazione e il premio di assicurazione), ed è altresì soggetto a un naturale deprezzamento di valore (Cass. n. 16803/2015; Cass. n. 13215/2015).

Perdita di chance. In tema di risarcimento del danno, il creditore che voglia ottenere, oltre il rimborso delle spese sostenute, anche i danni derivanti dalla perdita di chance – che, come concreta ed effettiva occasione favorevole di conseguire un determinato bene, non è una mera aspettativa di fatto ma un'entità patrimoniale a sè stante, giuridicamente ed economicamente suscettibile di autonoma valutazione – ha l'onere di provare, benchè solo in modo presuntivo o secondo un calcolo di probabilità, la realizzazione in concreto di alcuni dei presupposti per il raggiungimento del risultato sperato ed impedito dalla condotta illecita della quale il danno risarcibile deve essere conseguenza immediata e diretta (nella specie, relativa alla perdita di chance lavorative future asseritamente subite da un'infortunata in un sinistro stradale, Cass. n. 6488/2017 ha precisato che, configurandosi un danno patrimoniale futuro, come tale diverso ed ulteriore rispetto al danno alla salute, a carattere, invece, non patrimoniale, la perdita di futuri guadagni non può essere desunta in via presuntiva dalla mera esistenza di postumi invalidanti, spettando al danneggiato l'onere di provare, anche presuntivamente, che il danno alla salute gli ha precluso l'accesso a situazioni di studio o di lavoro tali che, se realizzate, avrebbero fornito anche soltanto la possibilità di maggiori guadagni). Il danno da perdita di chance è alternativo rispetto al danno da lucro cessante futuro da perdita del reddito: se c'è l'uno non può esserci l'altro, e viceversa. Pertanto, o la vittima dimostra di avere perduto un reddito che verosimilmente avrebbe realizzato, ed allora le spetterà il risarcimento del lucro cessante; ovvero la vittima non dà quella prova, ed allora le può spettare il risarcimento del danno da perdita di chance (Cass. n. 20630/2016, concernente fattispecie in cui è stato liquidato al danneggiato di sinistro stradale, quindicenne promessa del calcio, il risarcimento del danno patrimoniale da perdita dei redditi futuri, e non la perdita di chance). La perdita di chance costituisce un danno patrimoniale risarcibile, quale danno emergente, qualora sussista un pregiudizio certo (anche se non nel suo ammontare) consistente nella perdita di una possibilità attuale ed esige la prova, anche presuntiva, purché fondata su circostanze specifiche e concrete dell'esistenza di elementi oggettivi dai quali desumere, in termini di certezza o di elevata probabilità, la sua attuale esistenza (Cass. n. 19604/2016, che ha confermato la sentenza impugnata che aveva escluso che la mera appartenenza di un appaltatore al settore degli appalti pubblici fosse tale da concretare una presunzione di perdita altamente probabile della chance di aggiudicarsi altre gare, non potendo ciò desumersi dalla sola qualità soggettiva dell'impresa, senza l'allegazione concreta di domande di partecipazione, nonché di elementi di valutazione circa il possesso di particolari requisiti tecnici e finanziari per partecipare ed aggiudicarsi, con rilevante probabilità, le gare tenutesi nell'arco temporale in discussione). La domanda di risarcimento per la vendita dell'appartamento ad un prezzo di gran lunga inferiore a quello medio di mercato a causa della mancata disponibilità del box auto, concordata inizialmente e dovuta alla irragionevole durata dei lavori condominiali, va inquadrata nella fattispecie del risarcimento del danno da cd. perdita di chance, intesa come concreta ed effettiva occasione favorevole di conseguire un determinato bene e non costituisce una mera aspettativa di fatto, bensì un'entità patrimoniale a sé stante, giuridicamente ed economicamente suscettibile di autonoma valutazione, con ciò che ne consegue sotto il profilo della ripartizione dell'onere probatorio (Trib. Nola 5 luglio 2016). Il danno da perdita di chance di sopravvivenza è danno patrimoniale, che consegue all'omissione della diagnosi di un processo morboso e consiste nell'impossibilità per il paziente di scegliere cosa fare nell'ambito di ciò che la scienza medica suggerisce per garantire la salute fino all'esito infausto. Esso consiste in un danno concreto ed attuale, si trasmette iure hereditario, e la sua quantificazione deve avvenire secondo un criterio equitativo puro. Nel caso di perdita di chance di sopravvivenza, ai familiari della vittima spetta altresì iure hereditario il risarcimento del danno biologico terminale, e iure proprio il risarcimento del danno da perdita del rapporto parentale. Entrambe tali voci di danno vanno liquidate secondo un criterio equitativo puro (Trib. Como 23 giugno 2016). Il danno patrimoniale da perdita di chance è un danno futuro, consistente nella perdita non di un vantaggio economico, ma della mera possibilità di conseguirlo, secondo una valutazione ex ante da ricondursi, diacronicamente, al momento in cui il comportamento illecito ha inciso su tale possibilità in termini di conseguenza dannosa potenziale; l'accertamento e la liquidazione di tale perdita, necessariamente equitativa, sono devoluti al giudice di merito e sono insindacabili in sede di legittimità se adeguatamente motivati (Cass. n. 2737/2015 che ha confermato la sentenza del giudice di merito, che, inquadrata la responsabilità per tardiva trasposizione legislativa delle direttive CEE, relative al compenso in favore dei medici ammessi ai corsi di specializzazione universitari, nell'ambito della responsabilità per inadempimento dell'obbligazione ex lege dello Stato, aveva identificato la chance perduta nella possibilità di godere dei benefici effettivi sullo sviluppo professionale derivanti da una tempestiva attuazione delle direttive ed aveva liquidato il danno in ragione di un criterio prognostico, basato sulle concrete e ragionevoli possibilità di risultati utili).

Responsabilità professionale avvocato. In materia di responsabilità professionale dell'avvocato conseguente alla tardiva impugnazione di una sentenza penale di condanna, alla quale faccia seguito l'impossibilita per il cliente di ottenere in sede di appello una condanna a pena minore, il danno da risarcire in favore del condannato, di natura non patrimoniale, va a ristorare la sofferenza conseguente al protrarsi di una detenzione che non può tuttavia considerarsi ingiusta; il che comporta che i criteri assunti dalla giurisprudenza penale per la liquidazione del danno da ingiusta detenzione (euro 235,83 al giorno) non possono essere acquisiti in modo automatico in sede civile, ma necessitano di un adattamento alla particolarità della situazione, che il giudice di merito è chiamato a compiere, trattandosi di una liquidazione in via equitativa (Cass. n. 12280/2016).

Danno in re ipsa. Nella ipotesi di occupazione sine titulo di un cespite immobiliare altrui, il danno subito dal proprietario per l'indisponibilità del medesimo può definirsi in re ipsa, purché inteso in senso descrittivo, cioè di normale inerenza del pregiudizio all'impossibilità stessa di disporre del bene, senza comunque far venir meno l'onere per l'attore quanto meno di allegare, e anche di provare, con l'ausilio delle presunzioni, il fatto da cui discende il lamentato pregiudizio, ossia che se egli avesse immediatamente recuperato la disponibilità dell'immobile, l'avrebbe subito impiegato per finalità produttive, quali il suo godimento diretto o la sua locazione (Cass. n. 25898/2016). L'utilizzazione in via esclusiva di un bene comune da parte del singolo condomino in assenza del consenso degli altri condomini, ai quali resta precluso l'uso, anche solo potenziale, della res, determina un danno in re ipsa, quantificabile in base ai frutti civili tratti dal bene dall'autore della violazione (Cass. n. 19215/2016). Il danno subito dal proprietario dell'immobile per l'occupazione abusiva dello stesso non può ritenersi in re ipsa e non può coincidere con il semplice evento dell'occupazione. L'occupazione, infatti, non costituisce danno di per sé, bensì è la condotta produttiva del danno; di conseguenza, è onere di chi agisce per il risarcimento provare l'effettiva entità del danno, e cioè l'effettiva lesione derivante, ad esempio, dal non aver potuto locare l'immobile o comunque dal non aver potuto direttamente e tempestivamente utilizzare il bene, ovvero dall'aver perso l'occasione di venderlo a prezzo conveniente o per aver sofferto altre situazioni pregiudizievoli (Trib. Bari 13 settembre 2016). Il danno da occupazione abusiva di immobile (nella specie, terreno privato) non può ritenersi sussistente in re ipsa e coincidente con l'evento, che è viceversa un elemento del fatto produttivo del danno, ma, ai sensi degli artt. 1223 e 2056 c.c., trattasi pur sempre di un danno-conseguenza, sicché il danneggiato che ne chieda in giudizio il risarcimento è tenuto a provare di aver subito un'effettiva lesione del proprio patrimonio per non aver potuto ad esempio locare o altrimenti direttamente e tempestivamente utilizzare il bene, ovvero per aver perso l'occasione di venderlo a prezzo conveniente o per aver sofferto altre situazioni pregiudizievoli, con valutazione rimessa al giudice del merito, che può al riguardo peraltro pur sempre avvalersi di presunzioni gravi, precise e concordanti (Cass. n. 15757/2015). L'accertamento del superamento della soglia di normale tollerabilità di cui all'art. 844 c.c., comporta nella liquidazione del danno da immissioni, sussistente in re ipsa, l'esclusione di qualsiasi criterio di contemperamento di interessi contrastanti, in quanto venendo in considerazione, in tale ipotesi, unicamente l'illiceità del fatto generatore del danno arrecato a terzi, si rientra nello schema dell'azione generale di risarcimento danni di cui all'art. 2043 c.c. (Cass. n. 10169/2015).

Compensatio lucri cum damno. Il risarcimento del danno che compete al proprietario del fondo illegittimamente occupato e destinato ad opera pubblica non può soffrire alcuna limitazione in dipendenza dei vantaggi che derivano al fondo residuo dalla realizzazione dell'opera (cosiddetta compensatio lucri cum damno), poiché il danno patito dal proprietario spossessato consegue direttamente ed immediatamente al fatto illecito costituito dall'occupazione illegittima, in ciò concretandosi ed esaurendosi la fattispecie lesiva del diritto dominicale, mentre il vantaggio conseguente all'aumento di valore del fondo residuo si ricollega all'esecuzione dell'opera pubblica, ossia ad un fatto diverso e successivo rispetto a quello produttivo del danno; inoltre, tale vantaggio non riguarda in via diretta il fondo ablato, ma investe tutti gli immobili ubicati nella zona e, quindi, essendo analogo a quello goduto da altri soggetti, non è consentita la detrazione di quanto dovuto a titolo indennitario o risarcitorio (Cass. n. 19805/2016). In caso di responsabilità medica da emotrasfusione, l'indennità corrisposta al danneggiato ex l. n. 210/1992 deve essere scomputata dalle somme liquidabili a titolo di risarcimento. L'applicazione della compensatio lucri cum damno all'attribuzione indennitaria comporta che si tratti di eccezione in senso lato, come tale rilevabile d'ufficio e proponibile per la prima volta in appello (App. Torino 12 maggio 2016). L'eccezione di compensatio lucri cum damno è un'eccezione in senso lato, vale a dire non l'adduzione di un fatto estintivo, modificativo o impeditivo del diritto azionato, ma una mera difesa in ordine all'esatta entità globale del pregiudizio effettivamente patito dal danneggiato, ed è, come tale, rilevabile d'ufficio dal giudice il quale, per determinare l'esatta misura del danno risarcibile, può fare riferimento, per il principio dell'acquisizione della prova, a tutte le risultanze del giudizio (Cass. III, n. 24177/2020).

Diffamazione a mezzo stampa. In tema di risarcimento del danno causato da diffamazione a mezzo stampa, la liquidazione del danno non patrimoniale presuppone una valutazione necessariamente equitativa, la quale non è censurabile in Cassazione, sempre che i criteri seguiti siano enunciati in motivazione e non siano manifestamente incongrui rispetto al caso concreto, o radicalmente contraddittori, o macroscopicamente contrari a dati di comune esperienza, ovvero l'esito della loro applicazione risulti particolarmente sproporzionato per eccesso o per difetto (Cass. n. 13153/2017). Risponde di diffamazione, non potendo invocare il diritto di cronaca, colui che diffonde pubblicamente la notizia che taluno sia imputato per il reato di bancarotta fraudolenta quando dagli atti processuali risulta invece accusato di bancarotta preferenziale, essendo i due reati oggettivamente diversificati sia sotto il profilo delle condotte illecite considerate, sia nella prospettiva delle sanzioni irrogabili (Cass. n. 20643/2016). In materia di diffamazione a mezzo stampa, in caso di mancata ottemperanza da parte del danneggiante all'ordine del giudice di pubblicare la sentenza su uno o più giornali, il danneggiato ha la facoltà, e non l'obbligo, di provvedere autonomamente a tale pubblicazione a sua cura e spese. Il mancato esercizio di tale facoltà non integra violazione del dovere di attivarsi secondo correttezza alfine di evitare il danno, previsto dall'art. 1227 secondo comma c.c., in quanto tale comportamento corrisponde ad un apprezzabile sacrificio che va oltre i limiti della ordinaria diligenza. Ne consegue che, in caso di mancata ottemperanza da parte del danneggiale all'ordine di pubblicazione della sentenza impartito dal giudice, il diritto del danneggiato al risarcimento del danno derivante dalla mancata pubblicazione non può essere ridotto o escluso per non aver provveduto autonomamente a richiedere la pubblicazione (Cass. n. 2087/2015).

Distruzione di alberi. L'obbligo di risarcimento del danno da fatto illecito contrattuale o extracontrattuale ha per oggetto l'integrale reintegrazione del patrimonio del danneggiato, sicché in caso di distruzione e danneggiamento di alcuni alberi di ulivo a causa di un incendio va riconosciuto non solo il danno (lucro cessante) per la perdita del reddito prodotto dagli ulivi, protratta per la loro prevedibile vita residua, ma anche quello (danno emergente) per la perdita degli stessi alberi e consistente nel valore in sé dei beni (Cass. n. 12284/2016).

Persone giuridiche. In tema di risarcimento del danno non patrimoniale subito dalle persone giuridiche, il pregiudizio arrecato ai diritti immateriali della personalità costituzionalmente protetti, ivi compreso quello all'immagine, può essere oggetto di allegazione e di prova anche attraverso l'indicazione degli elementi costitutivi e delle circostanze di fatto da cui desumerne, sebbene in via presuntiva, l'esistenza (Cass. n. 11446/2017). In materia di responsabilità civile, anche nei confronti delle persone giuridiche ed in genere degli enti collettivi è configurabile il risarcimento del danno non patrimoniale, da identificare con qualsiasi conseguenza pregiudizievole della lesione — compatibile con l'assenza di fisicità del titolare — di diritti immateriali della personalità costituzionalmente protetti, ivi compreso quello all'immagine, il cui pregiudizio, non costituendo un mero danno-evento, e cioè in re ipsa, deve essere oggetto di allegazione e di prova, anche tramite presunzioni semplici. (Cass. n. 20643/2016, concernente sentenza impugnata che aveva liquidato il danno all'immagine in favore di una società operante nella grande distribuzione sulla base della sola considerazione che un tale operatore di mercato «mira a costruirsi una immagine ben riconoscibile»: la S.C. ha ritenuto inidonea tale motivazione, in quanto tautologica e priva di indicazioni dalle quali inferire, anche in via presuntiva, un discredito sociale subito dalla società). In tema di danno non patrimoniale, il pregiudizio risarcibile nei confronti di un ente collettivo si identifica con la lesione dell'interesse, diffuso o collettivo, del quale esso è portatore e garante e coincide, sul piano obiettivo, con la violazione delle norme poste a tutela dell'interesse medesimo, senza che si possa distinguere, a tali fini, tra l'evento lesivo e la conseguenza negativa, in quanto dall'attività di tutela degli interessi coincidenti con quelli lesi o posti in pericolo deriva, in capo all'ente esponenziale, una posizione di diritto soggettivo che lo legittima all'azione risarcitoria (Cass. n. 22885/2015).

Presupposti per la liquidazione equitativa. L'esercizio del potere discrezionale di liquidare il danno in via equitativa conferito al giudice degli artt. 1226 e 2056 c.c. presuppone pur sempre: 1) che sia concretamente accertata l'ontologica esistenza d'un danno risarcibile (al riguardo, l'onere probatorio ricade sul danneggiato); 2) che l'impossibilità (o l'estrema difficoltà) di una stima esatta del danno dipenda da fattori oggettivi e non già (come nel caso di specie) dalla negligenza della parte danneggiata nell'allegare e dimostrare gli elementi dai quali desumere l'entità del danno (Trib. Bari 14 marzo 2016). In sede di liquidazione equitativa del lucro cessante, ai sensi degli artt. 2056 e 1226 c.c., ciò che necessariamente si richiede è la prova, anche presuntiva, circa la certezza della sua reale esistenza e, dunque, la certezza sull'esistenza del pregiudizio subito dal danneggiato, il quale pregiudizio, se sussistente, dà luogo alla liquidazione equitativa del danno qualora vi sia l'impossibilità o la rilevante difficoltà dell'esatta quantificazione di tale pregiudizio, comunque certo nella sua esistenza (App. Palermo 7 marzo 2016). La facoltà di liquidare in via equitativa il danno presuppone che sia accertata l'ontologica esistenza di un danno risarcibile e che vi sia l'impossibilità o l'estrema difficoltà di una stima esatta del danno a causa di fattori oggettivi e non già quale conseguenza della negligenza della parte (Cass. n. 127/2016). In tema di liquidazione del danno non patrimoniale con criterio equitativo, il giudice non è tenuto a fornire una dimostrazione minuziosa e particolareggiata di un univoco e necessario rapporto di consequenzialità di ciascuno degli elementi esaminati e l'ammontare del danno liquidato, essendo sufficiente che il suo accertamento sia scaturito da un esame della situazione processuale globalmente considerata (Cass. n. 22885/2015).

Concorso di colpa. L'accertamento del concorso del fatto colposo del danneggiato nella produzione del danno, così come la determinazione del grado di efficienza causale di ciascuna colpa, rientrano nel potere di indagine del giudice del merito e sono incensurabili in sede di legittimità, quando siano sorretti da adeguata e logica motivazione (Cass. n. 272/2017 che ha dichiarato inammissibile la censura con la quale l'appaltatore di un'opera pubblica argomentava la propria carenza di responsabilità per il concorso di colpa dell'ente appaltante, anche in ragione di una sentenza della Corte dei conti che aveva condannato per danno erariale progettista e direttore dei lavori e di cui il giudice di merito aveva, in ogni caso, tenuto conto). Non può essere addossata alcuna corresponsabilità per i danni riportati in un sinistro stradale a chi abbia accettato di farsi trasportare da un conducente in stato di ubriachezza, risultato peraltro esente da colpa nella determinazione del sinistro stesso (Cass. n. 1295/2017). In tema di responsabilità civile dei magistrati, l'art. 4, comma 2, l. n. 117/1988, nel consentire l'esercizio dell'azione risarcitoria contro lo Stato solo quando siano stati esperiti i mezzi ordinari di impugnazione e, comunque, quando non siano più possibili la modifica o la revoca del provvedimento, ha inteso precludere quell'azione qualora il rimedio previsto non sia stato utilizzato. La ratio di tale disposizione è nell'intento di dare la prevalenza alla rimozione del provvedimento dannoso e di privilegiare i rimedi endoprocessuali rispetto all'azione risarcitoria, subordinando questa ultima alla circostanza che il danneggiato abbia utilizzato gli strumenti processuali apprestati dall'ordinamento per eliminare o, ameno, ridurre il danno. Se sotto il profilo soggettivo l'esperimento del rimedio costituisce adempimento del dovere di evitare il danno previsto dagli artt. 1227, comma 2, e 2056 c.c., sotto il profilo oggettivo esso costituisce un forma obbligatoria di risarcimento del danno in forma specifica che esclude la possibilità di invocare il risarcimento per equivalente, per modo che non assumono rilevanza le distinzioni di carattere processuale tra rimedi impugnatori e non impugnatori endo ed extra procedimentali, ma rileva esclusivamente il dato sostanziale che l'esercizio del rimedio consenta la rimozione dell'atto lesivo (Cass. n. 932/2017). In materia di responsabilità da sinistro stradale, l'omesso uso del casco protettivo da parte di un motociclista vittima di incidente può essere fonte di corresponsabilità del medesimo, a condizione che tale infrazione abbia concretamente influito sulla eziologia del danno, circostanza che può essere accertata anche d'ufficio dal giudice, giacché riconducibile alla previsione di cui all'art. 1227, comma 1, c.c. (Cass. n. 9241/2016). Qualora la messa in circolazione dell'autoveicolo in condizioni di insicurezza, sia ricollegabile all'azione o omissione non solo del trasportato, ma anche del conducente (che prima di iniziare o proseguire la marcia deve controllare che essa avvenga in conformità delle normali norme di prudenza e sicurezza), fra costoro si è formato il consenso alla circolazione medesima con consapevole partecipazione di ciascuno alla condotta colposa dell'altro e accettazione dei relativi rischi. Si verifica, pertanto, un'ipotesi di cooperazione nel fatto colposo, cioè di cooperazione nell'azione produttiva dell'evento (diversa da quella in cui distinti fatti colposi convergano autonomamente nella produzione dell'evento). In tale situazione, a parte l'eventuale responsabilità verso terzi, secondo la disciplina dell'articolo 2054 c.c., deve ritenersi risarcibile, a carico del conducente del suddetto veicolo e secondo la normativa generale degli artt. 2043,2056 e 1227 c.c., anche il pregiudizio all'integrità fisica che il trasportato abbia subito in conseguenza dell'incidente, tenuto conto che il comportamento dello stesso, nell'ambito dell'indicata cooperazione, non può valere a interrompere il nesso causale fra la condotta del conducente e il danno, né a integrare un valido consenso alla lesione ricevuta, vertendosi in materia di diritti indisponibili (Cass. n. 8054/2016). In tema di responsabilità per fatto illecito doloso, l'art. 1227 c.c., concernente la diminuzione della misura del risarcimento in caso di concorso del fatto colposo del danneggiato, non è applicabile nell'ipotesi di provocazione da parte della persona offesa del reato, in quanto la determinazione dell'autore del delitto, di tenere la condotta illecita che colpisce la persona offesa, costituisce causa autonoma del danno, non potendo ritenersi che la consecuzione del delitto al fatto della provocazione esprima una connessione rispondente ad un principio di regolarità causale (Cass. n. 5679/2016, che ha confermato la sentenza impugnata che aveva escluso la riduzione del risarcimento del danno conseguente a lesioni personali subite all'interno di una discoteca e consumate da «buttafuori»).

Sentenza di condanna generica. La pronuncia di condanna generica al risarcimento ex art. 278 c.p.c. si configura come una mera declaratoria iuris da cui esula qualunque accertamento in ordine alla misura e alla concreta sussistenza del danno, con la conseguenza che il giudicato formatosi sull'an non preclude al giudice della liquidazione di negare la sussistenza stessa del danno; l'esercizio del potere discrezionale di liquidare il danno in via equitativa, conferito al giudice dagli artt. 1226 e 2056 c.c., presuppone che sia provata l'esistenza di danni risarcibili e che risulti obiettivamente impossibile o particolarmente difficile, per la parte interessata, provare il danno nel suo preciso ammontare (Cass. n. 5252/2016).

Responsabilità precontrattuale. La responsabilità precontrattuale prevista dall'art. 1337 c.c., coprendo nei limiti del cd. interesse negativo tutte le conseguenze immediate e dirette della violazione del dovere di comportarsi secondo buona fede nella fase preparatoria del contratto, secondo i criteri stabiliti dagli artt. 1223 e 2056 c.c., si estende al danno per il pregiudizio economico derivante dalle rinunce a stipulare un contratto, ancorchè avente un contenuto diverso rispetto a quello per cui si erano svolte le trattative, se la sua mancata conclusione si manifesti come conseguenza immediata e diretta del comportamento della controparte, che ha lasciato cadere le dette trattative quando queste erano giunte al punto di creare un ragionevole affidamento nella conclusione positiva di esse (Cass. n. 4718/2016).

Ritardato adempimento di obbligazione di valore. La liquidazione del danno da ritardato adempimento di un'obbligazione di valore, ove il debitore abbia pagato un acconto prima della quantificazione definitiva, deve avvenire: a) devalutando l'acconto ed il credito alla data dell'illecito; b) detraendo l'acconto dal credito; c) calcolando gli interessi compensativi individuando un saggio scelto in via equitativa, ed applicandolo prima sull'intero capitale, rivalutato anno per anno, per il periodo intercorso dalla data dell'illecito al pagamento dell'acconto, e poi sulla somma che residua dopo la detrazione dell'acconto, rivalutata annualmente, per il periodo che va da quel pagamento fino alla liquidazione definitiva (Cass. n. 9950/2017). Il risarcimento del danno da illecito aquiliano integra un debito di valore sicché, ove il giudice di merito abbia riconosciuto sulla somma capitale dovuta al danneggiato e liquidata nella sentenza di primo grado gli interessi compensativi al tasso legale, gli interessi per l'ulteriore danno da mancata tempestiva disponibilità dell'equivalente monetario del pregiudizio patito decorrono non dalla pubblicazione della decisione, ma dai singoli momenti nei quali la somma equivalente al bene perduto si incrementa nominalmente, in base ai prescelti indici di rivalutazione monetaria, ovvero ad un indice medio (Cass. n. 12288/2016). Gli interessi sulla somma liquidata a titolo di risarcimento del danno da fatto illecito hanno fondamento e natura diversi da quelli moratori, regolati dall'art. 1224 c.c., in quanto sono rivolti a compensare il pregiudizio derivante al creditore dal ritardato conseguimento dell'equivalente pecuniario del danno subito, di cui costituiscono, quindi, una necessaria componente; ne consegue che nella domanda di risarcimento del danno per fatto illecito è implicitamente inclusa la richiesta di riconoscimento degli interessi compensativi, che il giudice di merito, anche in sede di giudizio di rinvio, deve attribuire, senza per ciò solo incorrere nel vizio di ultrapetizione (Cass. n. 12140/2016). In tema di risarcimento del danno, la liquidazione va effettuata in valori monetari attuali, per cui il riconoscimento degli interessi legali sulle somme rivalutate non richiede una espressa domanda dell'interessato, che resta inclusa in quella di integrale risarcimento inizialmente proposta. Ne consegue che la richiesta avanzata per la prima volta in appello non viola l'art. 345 c.p.c., atteso che nei debiti di valore il riconoscimento degli interessi cd. compensativi costituisce una modalità liquidatoria del possibile danno da lucro cessante, cui è consentito al giudice di far ricorso con il limite dell'impossibilità di calcolarli sulle somme integralmente rivalutate alla data dell'illecito, e che l'esplicita richiesta deve intendersi esclusivamente riferita al valore monetario attuale ed all'indennizzo del lucro cessante per la ritardata percezione dell'equivalente in denaro del danno patito (Cass. n. 25615/2015).

Spese per attività stragiudiziale. In caso di sinistro stradale, ove il danneggiato abbia dato incarico ad uno studio di assistenza infortunistica di svolgere di attività stragiudiziale volta a richiedere il risarcimento del danno asseritamente sofferto, la corrispondente spesa sostenuta non è configurabile come danno emergente e non può, pertanto, essere riversata sul danneggiante o sulla sua compagnia di assicurazione quando sia stata superflua ai fini di una più pronta definizione del contenzioso, non avendo avuto in concreto utilità per evitare il giudizio o per assicurare una tutela più rapida risolvendo problemi tecnici di qualche complessità (Cass. n. 9548/2017).

Danno ambientale. Non residua alcun danno ambientale economicamente quantificabile e quindi risarcibile — né in forma specifica né, a maggior ragione per equivalente — ogniqualvolta, avutasi la riduzione al pristino stato, non persista la necessità di ulteriori misure sul territorio oggetto dell'intervento inquinante o danneggiante, soltanto il costo (ovvero il rimborso) delle quali potrà essere oggetto di condanna nei confronti dei danneggianti (Cass. n. 16806/2015).

Bibliografia

Berti, Il nesso di causalità in responsabilità civile, Milano, 2013; Bianca, Inadempimento delle obbligazioni, in Comm. S.B., Bologna-Roma, 1979; Capecchi, Il nesso di causalità, Padova, 2012; Fedi, Nesso di causalità: nuove prospettive della giurisprudenza di cassazione, in Giust. civ. 1991, I, 3019; Franzoni, Il danno al patrimonio, Milano, 1996; Realmonte, Il problema del rapporto di causalità nel risarcimento del danno, Milano, 1967; Rossetti, Art. 2056 c.c., in Comm. c.c. diretto da Gabrielli, Torino, 2011; Salvi, Risarcimento, in Enc. dir., XL, Milano, 1989.

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