Codice Civile art. 2697 - Onere della prova.

Rosaria Giordano

Onere della prova.

[I]. Chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento [115, 116 c.p.c.].

[II]. Chi eccepisce l'inefficacia di tali fatti ovvero eccepisce che il diritto si è modificato o estinto deve provare i fatti su cui l'eccezione si fonda.

Inquadramento

L'art. 2697 c.c. sancisce la regola di giudizio dell'onere della prova stabilendo che colui il quale vuole far valere un diritto in giudizio deve dimostrare i fatti costitutivi posti a fondamento dello stesso, mentre spetta a chi eccepisce l'inefficacia di tali fatti ovvero che il diritto si è modificato o estinto provare i fatti sui quali si fonda la propria eccezione.

Tale regola aurea in tema di riparto dell'onere probatorio tra le parti del giudizio, assume un'importanza fondamentale, assurgendo a criterio di «decisione» dei fatti controversi, nell'ipotesi di mancata prova.

L'onere della prova può in alcuni casi essere attenuato in considerazione di alcuni principi generali come negativa non sunt probanda ovvero il criterio di vicinanza della prova stessa.

Declinazioni per certi versi opposte del principio del riparto dell'onere probatorio tra le parti si registrano nella responsabilità contrattuale e nella responsabilità extracontrattuale.

Premessa

L'art. 2697 c.c. sancisce la regola di giudizio dell'onere della prova stabilendo che colui il quale vuole far valere un diritto in giudizio deve dimostrare i fatti costitutivi posti a fondamento dello stesso, mentre spetta a chi eccepisce l'inefficacia di tali fatti ovvero che il diritto si è modificato o estinto provare i fatti sui quali si fonda la propria eccezione.

Tale regola aurea in tema di riparto dell'onere probatorio tra le parti in giudizio, assume un'importanza fondamentale, assurgendo a criterio di « decisione » dei fatti controversi, nell'ipotesi di mancata prova. In sostanza, infatti, è l'art. 2697 c.c. a ripartire tra le parti in causa il c.d. rischio della mancata prova dei fatti allegati.

Il divieto di non liquet posto in capo al giudice determina, infatti, in ogni sistema giuridico, l'esigenza di individuare una regola di giudizio che ripartisca il rischio della mancata prova tra le parti, affinché, nell'ipotesi in cui manchi, anche in via presuntiva, la dimostrazione dell'esistenza di un fatto idoneo a produrre determinate conseguenze giuridiche, la carenza di prova venga posta a carico della parte alla quale spettava l'onere di dimostrare la sussistenza di tale fatto (Micheli 1942, 1 ss.). Del resto, negli ordinamenti giuridici moderni la c.d. regola di giudizio fondata sull'applicazione dei principi in tema di onere della prova nel senso, positivizzato dall'art. 2697 c.c., che a ciascuna parte spetta l'onere di dimostrare l'esistenza dei fatti costitutivi della propria pretesa costituisce portato del principio di legalità ed è, sotto un profilo più generale, espressione di una regola di civiltà giuridica in forza della quale il rischio della mancata prova non può essere addossato al convenuto ovvero all'accusato, analogamente a quanto avveniva nel processo medievale (Verde 1972, 438 ss.).

Infatti, come ha ripetutamente evidenziato la stessa S.C., ai sensi dell'art. 2697 c.c., l'onere della prova relativo ai fatti costitutivi del diritto per cui si agisce grava sull'attore, laddove l'onere del convenuto di dimostrare l'inefficacia dei fatti invocati dalla controparte sorge esclusivamente dopo che l'attore ha provato l'esistenza dei fatti costitutivi (Cass. n. 13390/2007). Infatti, l'onere probatorio del convenuto in ordine alle eccezioni da lui proposte sorge in concreto solo quando l'attore abbia, a sua volta, fornito la prova dei fatti posti a fondamento della domanda, sicché la insufficienza o anche la mancanza delle prova delle circostanze dedotte dal convenuto a confutazione dell'avversa pretesa non vale a dispensare l'attore dall'onere di dimostrare la legittimità e la fondatezza nel merito della pretesa che egli faccia valere (Cass. S.U., n. 1044/2000).

Resta fermo, tuttavia, che, ove il convenuto non si limiti a contestare genericamente l'assunto dell'attore, ma contrapponga ad esso una difesa articolata su fatti diversi da quelli posti a base della domanda, propone un'eccezione in senso sostanziale, di cui è tenuto a fornire la dimostrazione, ex art. 2697 c.c., restando, invece, sottratto all'assolvimento di tale onere probatorio allorquando, pur arricchendo e colorando i fatti narrati dall'attore, si limiti a negare l'esistenza del rapporto con quest'ultimo, senza fornirne una ricostruzione alternativa (Cass. II, n. 440/2017).

Peraltro, la disposizione in esame è «neutra» rispetto alla posizione di attore o convenuto assunta dalle parti nel corso del processo: ciò implica, ad esempio, che anche qualora sia il debitore a proporre azione di accertamento negativo, spetterà al creditore convenuto la dimostrazione dei fatti costitutivi della propria pretesa (Cass. n. 19762/2008).

Tuttavia qualora proponendo un'eccezione di estinzione dell'avversa pretesa creditoria il convenuto abbia assunto una condotta processuale incompatibile con l'insussistenza dei fatti costitutivi di una siffatta pretesa, spetterà al convenuto la dimostrazione in giudizio del fondamento della propria eccezione.

Su un piano generale, in una recente decisione della S.C., si è evidenziato che la violazione dell'articolo 2697 c.c. si configura se il giudice di merito applica la regola di giudizio fondata sull'onere della prova in modo erroneo, cioè attribuendo l'onus probandi a una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione della fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni, mentre per dedurre la violazione del paradigma dell'articolo 115 c.p.c. è necessario denunciare che il giudice non abbia posto a fondamento della decisione le prove dedotte dalle parti, cioè abbia giudicato in contraddizione con la prescrizione della norma: ciò significa che per realizzare la violazione dell'articolo 115 c.p.c. il giudice deve avere giudicato o contraddicendo espressamente la regola di cui alla norma, cioè dichiarando di non doverla osservare, o contraddicendola implicitamente, cioè giudicando sulla base di prove non introdotte dalle parti e disposte invece di sua iniziativa al di fuori dei casi in cui gli sia riconosciuto un potere officioso di disposizione del mezzo probatorio (fermo restando il dovere di considerare i fatti non contestati e la possibilità di ricorrere al notorio, previsto dallo stesso articolo 115 c.p.c.), mentre detta violazione non si può ravvisare nella mera circostanza che il giudice abbia valutato le prove proposte dalle parti attribuendo maggior forza di convincimento ad alcun piuttosto che ad altre, essendo tale attività consentita dal paradigma dell'articolo 116 c.p.c., che non a caso è rubricato “della valutazione delle prove” (Cass. III, n. 5009/2017).

Delimitazione del thema probandum. Principio di non contestazione

Peraltro, le regole in tema di onere della prova dettate dall'art. 2697 c.c. operano soltanto a fronte di fatti controversi che debbano essere dimostrati in giudizio, mentre non costituiscono oggetto di prova, in quanto la stessa sarebbe irrilevanti, i fatti pacifici.

Un interessante dibattito si è sviluppato in relazione ai fatti pacifici in quanto non contestati, sia prima che dopo l'intervento del legislatore sulla questione che, modificando l'art. 115 c.p.c. con la legge 18 giugno 2009 n. 69, ha stabilito che il giudice deve porre a fondamento della decisione anche i fatti non specificamente contestati dalla parte costituita.

Occorre ricordare che la prima rilevante disposizione emanata in tema di non contestazione nel nostro sistema processuale è il terzo comma dell'art. 416 c.p.c. secondo cui nel processo del lavoro il convenuto deve prendere posizione in maniera precisa e non limitata ad una generica contestazione circa i fatti affermati dall'attore a fondamento della domanda. Peraltro, tale previsione non indica quali sono le conseguenze correlate alla mancata osservanza dell'onere del resistente di prendere posizione né contempla, a fortiori, alcuna sanzione sul piano processuale è riconnessa alla violazione del predetto onere nel rito ordinario di cognizione sulla scorta dell'art. 167 c.p.c. Di conseguenza, la giurisprudenza aveva tradizionalmente ritenuto, con riguardo sia al processo ordinario che a quello del lavoro, che la non contestazione rendesse i fatti non controversi espungendoli dal thema probandum e quindi vincolando il giudice a ritenere gli stessi pacifici esclusivamente qualora la stessa fosse esplicita ovvero la difesa venisse impostata su argomenti logicamente incompatibili con il disconoscimento dei fatti dedotti in giudizio dall'altra parte (v., tra le altre, Cass. III, n. 5149/2001; Cass. I, n. 12947/1992).

In via esemplificativa, forme di non contestazione del convenuto erano considerate sia il difetto materiale di contestazione consistente nella mancanza delle negazioni che avrebbero il compito di denunciare l'inesistenza del fondamento dell'azione (Patti 1987, 68 ss.), quindi l'assenza delle c.d. «mere difese», sia l'intrinseca e logica non contestazione desumibile dalle affermazioni di fatti estintivi, impeditivi o modificativi tesi ad elidere gli effetti dei fatti costitutivi della pretesa (cfr. Ciaccia Cavallari 1992, I, 136 ss., la quale rileva che, quindi, in entrambe le ipotesi «condizione del fenomeno in tal guisa registrato è la materiale assenza di un dissenso mirato a denunciare l'inesistenza del fatto che origina il diritto azionato» e critica il tradizionale orientamento della giurisprudenza teso a ravvisare una forma di non contestazione dei fatti costitutivi della domanda anche in una difesa costituita dalla proposizione di eccezioni, logicamente incompatibili con la contestazione stessa dei fatti allegati dall'altra parte. In particolare, è oggetto di critica l'attribuzione ad un dato presuntivo, per il quale la proposizione dell'eccezione di merito presuppone l'esistenza del fatto costitutivo, della valenza di accertamento di quel fatto, esonerando il giudice dal compiere i relativi accertamenti).

Diversamente, non erano considerati sufficienti a produrre l'effetto della non contestazione né il silenzio della parte né la contestazione generica, a fronte dei quali i fatti restavano controversi in giudizio (A.D. De Santis 2008, 562).

In accordo con il richiamato orientamento, quindi, non si poteva ritenere che una contestazione generica da parte del convenuto esonerasse il ricorrente dall'onere di provare i fatti costitutivi dei diritti affermati in giudizio, in accordo con la norma generale di cui all'art. 2697 c.c., né esimesse il giudice dal verificare l'adempimento di tale onere (Cass. sez. lav., n. 6417/1994). In altre parole, la non specificità della contestazione non poteva essere in alcun modo equiparata, neppure nel rito del lavoro in base al disposto del terzo comma dell'art. 416 c.p.c. ad un riconoscimento della fondatezza degli assunti del ricorrente (Cass. sez. lav. n. 5359/1994), non sussistendo nell'ordinamento processuale un onere della parte di contestare specificamente ogni situazione di fatto dedotta ex adverso compiuta (Cass. II, n. 5643/1995). La giurisprudenza si era soltanto spinta, talvolta, ad affermare che una contestazione meramente generica poteva eventualmente integrare violazione del dovere di lealtà processuale, sanzionabile ai sensi degli art. 88 e 92 c.p.c., sottolineando che, comunque, tale condotta processuale poteva per il resto essere discrezionalmente valutata alla stregua di un semplice argomento presuntivo di prova ex art. 116, comma secondo, c.p.c., e quindi quale elemento aggiuntivo ed integrativo rispetto alle altre risultanze probatorie (v., tra le molte, Cass. sez. lav., n. 7630/1996).

Secondo una parte della dottrina, invece, alla non contestazione avrebbe dovuto comunque tributarsi il più pregnante effetto di determinare a carico del convenuto un'inversione dell'onere della prova, rispetto alla regola aurea sancita dall'art. 2697 c.c. secondo cui all'attore compete l'onere di dimostrare la sussistenza dei fatti costitutivi del diritto dedotto in giudizio, fermo restando in ogni caso il potere del giudice di decidere la causa anche in senso diverso dalle allegazioni dell'attore a seguito delle risultanze probatorie emergenti ex actis o a seguito dell'esercizio dei poteri istruttori officiosi del giudice stesso (Fabiani 2003, 1346).

Negli anni più recenti, peraltro, la giurisprudenza delle Sezioni unite della Corte di Cassazione si era già evoluta verso orientamenti più vicini a quelli codificati dalla riforma di cui alla legge n. 69 del 2009, inaugurando una prassi maggiormente coerente con il principio della ragionevole durata del processo.

In particolare, con la nota pronuncia n. 761 del 2002, avente ad oggetto l'interpretazione dell'art. 416 c.p.c. sull'onere di prendere posizione del convenuto nella memoria difensiva nel processo del lavoro con riguardo ai fatti affermati in ricorso, le Sezioni Unite avevano affermato che il difetto di specifica contestazione dei conteggi elaborati dall'attore per la quantificazione del credito oggetto di domanda di condanna, allorché il convenuto si limiti a negare in radice l'esistenza del credito avversario, può avere rilievo solo quando si riferisca a fatti, non semplicemente alle regole legali o contrattuali di elaborazione dei conteggi medesimi, e sempreché si tratti di fatti non incompatibili con le ragioni della contestazione sull'an debeatur. In secondo luogo le stesse Sezioni unite hanno al contempo precisato che l'omessa contestazione rileva diversamente, a seconda che risulti riferibile a fatti giuridici costitutivi della fattispecie non conoscibili di ufficio, ovvero a circostanze dalla cui prova si può inferire l'esistenza di codesti fatti, in quanto mentre nella prima ipotesi la mancata contestazione rappresenta, in positivo e di per sé, l'adozione di una linea incompatibile con la negazione del fatto e, quindi, rende inutile provarlo, in quanto non controverso, nella seconda ipotesi il comportamento della parte può essere utilizzato dal giudice come argomento di prova ex art. 116, comma secondo, c.p.c. (Cass. S.U., n. 761/2002).

Allo scopo di motivare il revirement espresso da tale decisione, le Sezioni unite avevano osservato, in particolare, che il principio di non contestazione è vincolante per il giudice nelle controversie aventi ad oggetto diritti disponibili e trova fondamento nell'onere di prendere posizione posto in capo al convenuto dall'art. 167 c.p.c. per il processo ordinario di cognizione e dall'art. 416 c.p.c. per il processo del lavoro, onere dal quale deriva il dovere del giudice di astenersi, rispetto ai fatti costitutivi dei diritti, da effettuare ogni controllo probatorio del fatto non contestato che dovrà ritenersi a tutti gli effetti provato. Con riferimento ai fatti secondari, ovvero quelli dedotti al limitato scopo di dimostrare i fatti costitutivi, invece, la non contestazione è un comportamento liberamente apprezzabile per il giudice che può valutarlo alla stregua di un argomento di prova.

Rispetto ai richiamati orientamenti invalsi nella giurisprudenza pregressa, quindi, le Sezioni unite avevano già compiuto prima della riforma che si commenta un importante passo avanti per l'affermazione del principio di non contestazione nel nostro sistema processuale, sancendo invero che, almeno con riguardo ai fatti c.d. principali, il giudice doveva ritenere per dimostrati gli stessi anche a fronte del «silenzio» della parte contro la quale sono affermati, silenzio che secondo la Corte non poteva essere considerato né un comportamento neutro ai fini della prova dei fatti controversi, né un comportamento liberamente valutabile dal giudice come argomento di prova ex art. 116, secondo comma, c.p.c.

Tali principi erano stati quindi estesi anche al processo ordinario di cognizione da una successiva pronuncia della stessa Corte di Cassazione, nella quale si era evidenziato che l'art. 167 c.p.c., imponendo al convenuto l'onere di prendere posizione sui fatti costitutivi del diritto preteso dalla controparte, considera la non contestazione un comportamento univocamente rilevante ai fini della determinazione dell'oggetto del giudizio, con effetti vincolanti per il giudice, che dovrà astenersi da qualsivoglia controllo probatorio del fatto non contestato e dovrà ritenerlo sussistente, in quanto l'atteggiamento difensivo delle parti espunge il fatto stesso dall'ambito degli accertamenti richiesti (Cass. III, n. 10031/2004).

In una successiva decisione, le medesime Sezioni Unite della Corte di Cassazione avevano nondimeno precisato, quanto all'ambito operativo del richiamato principio di diritto, che, tuttavia, intanto la mancata contestazione da parte del convenuto può avere le conseguenze ora specificate, in quanto i dati fattuali, interessanti sotto diversi profili la domanda attrice, siano stati esplicitati in modo esaustivo nel ricorso (o perché fondativi del diritto fatto valere in giudizio o perché rivolti a introdurre nel giudizio stesso circostanze di mera rilevanza istruttoria), non potendo considerarsi dimostrato per effetto della mancata contestazione ciò che non è stato detto, anche perché il rito del lavoro si caratterizza per una circolarità tra oneri di allegazione, oneri di contestazione ed oneri di prova, con la conseguente impossibilità di contestare o richiedere prova — oltre i termini preclusivi stabiliti dal codice di rito — su fatti non allegati nonché su circostanze che, pur configurandosi come presupposti o elementi condizionanti il diritto azionato, non siano stati esplicitati in modo espresso e specifico nel ricorso introduttivo (Cass. S.U., n. 11353/2004).

La novella normativa dell'art. 115 c.p.c. è andata sostanzialmente a codificare, quindi, i risultati interpretativi ai quali era già pervenuta negli ultimi anni la giurisprudenza di legittimità, sancendo che il giudice pone a fondamento della decisione anche i fatti non specificamente contestati dalla parte costituita.

L'onere di specifica contestazione opera, peraltro, soltanto con riferimento ai fatti che rientrano nella sfera di conoscenza o conoscibilità della parte chiamata ad effettuare la contestazione: ad esempio, non si potrebbe richiedere alla compagnia assicurativa convenuta in giudizio per responsabilità civile auto di contestare specificamente le modalità di verificazione del sinistro. Tuttavia è stato precisato, in sede di merito, che l'onere di specifica contestazione dei fatti allegati dall'attore, imposto dall'art. 115 c.p.c. (nella formulazione posteriore alla l. n. 69 del 2009), non può essere «aggirato» attraverso un'immotivata dichiarazione di mancata conoscenza dei fatti (Trib. Cuneo 5 ottobre 2010, in Giur. Merito, 2011, n. 4, 1041, con nota di Demarchi Albengo).

Più in generale, secondo una parte della giurisprudenza di merito edita, il principio di non contestazione, pur se codificato legislativamente solo con la l. n. 69 del 2009 tramite la modifica dell'art. 115 c.p.c., aveva in realtà già da diversi anni trovato cittadinanza nell'ordinamento, in virtù di un'interpretazione sistematica ormai consolidata da parte della S.C., sicché l'intervento legislativo non può essere ricostruito come una vera e propria modifica normativa, ma piuttosto come una mera ricognizione di un precetto già sancito in via interpretativa sulla base del dato normativo pregresso, con la conseguenza che il principio, così come ricostruito dalla giurisprudenza a partire dal 2002, deve essere utilizzato anche nella decisione delle controversie cui la novella del 2009 non è ratione temporis applicabile (Trib. Piacenza 2 febbraio 2010 n. 81, in Giur. Merito, 2010, 1322, con nota di Papagni). Peraltro, sotto quest'ultimo profilo, si è ritenuto, in termini difformi, che l'art. 115 c.p.c., nel testo modificato dalla l. n. 69 del 2009, trova applicazione soltanto nelle controversie instaurate successivamente al 4 luglio 2009, di talché il difetto di contestazione implica l'ammissione dei fatti dedotti in giudizio se si tratta di fatti c.d. principali, ossia costitutivi del diritto azionato, mentre per i fatti c.d. secondari, ossia dedotti in esclusiva funzione probatoria, la non contestazione costituirebbe argomento di prova ai sensi dell'art. 116 comma 2 c.p.c (Trib. Catanzaro II, 18 gennaio 2011).

Funzione del principio di non contestazione è selezionare i fatti pacifici ed a separarli da quelli controversi, per i quali soltanto si pone l'esigenza dell'istruzione probatoria (Cass. n. 21176/2015).

La disposizione in esame è stata modificata dalla l. n. 69/2009, nel senso che non è necessario che siano provati i fatti non specificamente contestati dalle parti costituite. Ne consegue che una contestazione generica — rispetto a fatti oggetto di specifica e puntuale allegazione ad opera dell'altra parte e rientranti nella sfera di conoscibilità di chi è onerato della contestazione — è priva di qualsivoglia effetto.

La novella è evidentemente orientata ad una semplificazione dell'istruttoria in conformità al principio economia processuale.

Invero, nell'assetto novellato, la mancata presa di posizione sui fatti costitutivi del diritto preteso comporta di per sé una linea di difesa incompatibile con la negazione della pretesa, rilevante ai fini della determinazione dell'oggetto del giudizio, con effetti vincolanti per il giudice, che dovrà astenersi da qualsiasi controllo probatorio. Pertanto una contestazione generica non può che produrre l'effetto, proprio per la sua genericità, di determinare una relevatio ab onere probandi e di rendere i fatti allegati del tutto pacifici (Trib. Monza I, n. 498/2014).

In sede applicativa si è rilevato che sebbene il principio della non contestazione di cui alla norma in esame opera solo tra parti costituite, è altresì vero che quando l'atto di citazione riporta in maniera chiara e completa il contenuto dei suddetti documenti (dei punti più significativi dei quali reca altresì trascrizione letterale), con la conseguenza che parte convenuta ha avuto la possibilità concreta di costituirsi in giudizio per contestare il contenuto, la provenienza o la data dei documenti contro la stessa allegati e, restando contumace, ha deliberato di non avvalersi di tale facoltà (Trib. Massa, 21 maggio 2015, n. 562).

È quindi posto in capo agli avvocati il più gravoso onere di indicare specificamente e chiaramente le ragioni, giuridiche e/o di fatto, per le quali viene compiuta la contestazione, la quale dovrà viceversa ritenersi tamquam non esset.

Occorre tener presente che l'onere di contestazione riguarda le allegazioni delle parti e non i documenti prodotti, né la loro valenza probatoria la cui valutazione, in relazione ai fatti contestati, è riservata al giudice (Cass. n. 12748/2016). Invero, per i documenti vi è soltanto l'onere di eventuale disconoscimento, nei casi e modi di cui all'art. 214 c.p.c. o di proporre — ove occorra — querela di falso, restando in ogni momento la loro significatività o valenza probatoria oggetto di discussione tra le parti e suscettibile di autonoma valutazione da parte del giudice (Cass. n. 6606/2016).

Peraltro, nella recente giurisprudenza di legittimità è stato precisato che ai sensi del combinato disposto degli artt. 115, comma 1, e 167, comma 1, l'onere di contestazione specifica dei fatti posti dall'attore a fondamento della domanda opera unicamente nell'ambito del solo giudizio di primo grado, nel quale soltanto si definiscono irretrattabilmente thema decidendum e thema probandum, sicché non rileva a tal fine la condotta processuale tenuta dalle parti in appello (Cass. VI, n. 22461/2015). Analogo principio è stato affermato con riguardo al processo del lavoro ed al disposto dell'art. 416 (Cass. sez. lav., n. 2832/2016).

Il principio di non contestazione opera, tuttavia, indifferentemente, nei confronti del convenuto, come dell'attore. (Cass. n. 8647/2016, la quale, in applicazione di tale principio, la S.C. ha confermato la decisione con cui il giudice di merito, preso atto che, in un giudizio risarcitorio da sinistro stradale, il mancato uso del casco protettivo da parte del danneggiato era stato eccepito da parte convenuta sin dalle sue prime difese, ha ritenuto accertata la circostanza, in difetto di contestazione).

È stato chiarito, anche in sede di legittimità, che anche nei giudizi promossi prima dell'introduzione formale del principio di non contestazione mediante la predetta modifica dell'art. 115, è imposto al convenuto di prendere posizione, in modo chiaro ed analitico, sui fatti posti dall'attore a fondamento della propria domanda, in virtù dell'art. 167, sicché quei fatti debbono darsi per ammessi, senza necessità di prova, quando il convenuto nella comparsa di costituzione e risposta si sia limitato a negare genericamente la “sussistenza dei presupposti di legge” per l'accoglimento della domanda dell'attore, senza alcuna contestazione chiara e specifica della stessa (Cass. n. 19896/2015).

La S.C. ha inoltre precisato che, ai fini della decisione, il contenuto della contestazione della parte convenuta va desunto dalla comparsa di risposta ovvero dai successivi scritti difensivi, non essendo alla stessa precluso, allorché contesti la sussistenza dei fatti principali posti a fondamento della pretesa dell'attore, dedurne comunque l'infondatezza in via subordinata, senza che ciò implichi il loro riconoscimento (Cass. n. 15772/2016).

Tuttavia, non sussiste l'onere di contestare circostanze di fatto che non siano state, a loro volta, specificamente dedotte dall'altra parte.

Sul punto, la S.C. ha invero evidenziato che in ordine al principio di non contestazione, il sistema di preclusioni del processo civile tuttora vigente e di avanzamento nell'accertamento giudiziale dei fatti mediante il contraddittorio delle parti, se comporta per queste ultime l'onere di collaborare, fin dalle prime battute processuali, a circoscrivere la materia controversa, evidenziando con chiarezza gli elementi in contestazione, suppone che la parte che ha l'onere di allegare e provare i fatti anzitutto specifichi le relative circostanze in modo dettagliato ed analitico, così che l'altra abbia il dovere di prendere posizione verso tali allegazioni puntuali e di contestarle ovvero di ammetterle, in mancanza di una risposta in ordine a ciascuna di esse (Cass. n. 21847/2014).

Sotto altro profilo, l'onere di contestazione sussiste soltanto per i fatti noti alla parte, non anche per i fatti ad essa ignoti (Cass. n. 3576/2013; conf. Trib. Roma VIII, 10 gennaio 2015, n. 451). Ne deriva, ad esempio, che, nell'ipotesi di trafugamento di denaro da una cassaforte, deve escludersi che la linea difensiva assunta dal depositario, sostanziatasi nella negazione della propria responsabilità senza contestare l'entità delle somme asportate, possa assumere valenza probatoria in ordine all'ammontare delle refurtiva, trattandosi di un dato estraneo alla sua sfera di conoscibilità diretta (Cass. n. 14652/2016).

In applicazione del medesimo principio, più di recente la S.C. ha cassato la sentenza di merito che, in un giudizio di impugnativa di licenziamento per crisi aziendale, aveva ritenuto non contestati fatti ignoti al lavoratore, quali la riorganizzazione aziendale con soppressione della sua posizione di lavoro e la ridistribuzione delle mansioni ad altro personale (Cass. n. 87/2019).

È inoltre discusso il momento processuale nel quale la non specifica contestazione rende la stessa irreversibile e, quindi, il fatto non contestato pacifico (v. ampiamente Sassani,11).

Sotto tale profilo, peraltro, la giurisprudenza di legittimità ha optato per la differente scelta interpretativa per la quale il potere di contestazione, concorrendo con quello di allegazione nell'individuazione del thema decidendum e del thema probandum, soggiace agli stessi limiti preclusivi di quest'ultimo, costituiti dall'udienza di trattazione, di cui agli artt. 183 e 420 c.p.c., per il processo del lavoro (Cass. n. 10860/2011).

A riguardo, in sede applicativa, si è osservato che la contestazione tardiva dei fatti ex art. 115 è ammessa, esaurita la fase dell'ammissione delle prove, solo in presenza dei presupposti per la rimessione in termini, sicché la non contestazione è tendenzialmente irreversibile (Trib. Varese I, 14 ottobre 2011, Giur. mer., 2012, n. 1, 94).

Su un piano generale, occorre tener presente, poi, che il difetto di contestazione implica l'ammissione dei fatti dedotti in giudizio se si tratta di fatti c.d. principali, ossia costitutivi del diritto azionato, mentre per i fatti c.d. secondari, ossia dedotti in esclusiva funzione probatoria, la non contestazione può solo costituire argomento di prova ai sensi dell'art. 116, comma 2 (Trib. Catanzaro II, 18 gennaio 2011). In altri termini, la mancanza di specifica contestazione, se riferita ai fatti principali, comporta la superfluità della relativa prova perché non controversi, mentre se è riferita ai fatti secondari consente al giudice solo di utilizzarli liberamente quali argomenti di prova ai sensi dell'art. 116, comma 2, sicché nel giudizio d'impugnazione il riesame dell'accertamento risultante dalla sentenza impugnata è subordinato alla proposizione di specifiche censure solo rispetto ai primi, operando in mancanza la preclusione derivante dal giudicato interno, mentre per i secondi è sufficiente, anche in assenza di contestazione, l'avvenuta impugnazione dell'accertamento riguardante i fatti costitutivi della domanda per la riapertura del relativo dibattito processuale (Cass. I, n. 19709/2015).

Il principio di non contestazione di cui agli artt. 115 e 416, comma 2, c.p.c., riguarda solo i fatti cd. primari, costitutivi, modificativi od estintivi del diritto azionato, e non si applica alle mere difese (fra le quali è da ricondurre anche l'assunto del datore di lavoro di avere stabilito una specifica turnazione fra i propri dipendenti per assecondare una loro richiesta: Cass. n. 17966/2016).

Peraltro, l'onere di contestazione concerne le sole allegazioni in punto di fatto della controparte e non anche i documenti da essa prodotti, rispetto ai quali vi è soltanto l'onere di eventuale disconoscimento, nei casi e modi di cui all'art. 214 c.p.c., o di proporre - ove occorra - querela di falso, con la conseguenza che gli elementi costitutivi della domanda devono essere specificamente enunciati nell'atto, restando escluso che le produzioni documentali possano assurgere a funzione integrativa di una domanda priva di specificità, con l'effetto (inammissibile) di demandare alla controparte (e anche al giudice) l'individuazione, tra le varie produzioni, di quelle che l'attore ha pensato di porre a fondamento della propria domanda, senza esplicitarlo nell'atto introduttivo (Cass. III, n. 3022/2018).

Il principio di non contestazione si applica anche nel processo tributario, ma, attesa l'indisponibilità dei diritti controversi, riguarda esclusivamente i profili probatori del fatto non contestato, e sempreché il giudice, in base alle risultanze ritualmente assunte nel processo, non ritenga di escluderne l'esistenza (Cass. trib., n. 2196/2015).

Casistica

Il principio di non contestazione di cui al novellato art. 115 aveva in realtà già da diversi anni trovato cittadinanza nell'ordinamento, in virtù di un'interpretazione sistematica ormai consolidata da parte della S.C.: pertanto, l'intervento legislativo del 2009 (l. n. 69/2009), non può essere ricostruito come una vera e propria modifica normativa, ma piuttosto come una mera ricognizione di un precetto già sancito in via interpretativa sulla base del dato normativo pregresso. Consegue che il suddetto principio, così come ricostruito dalla giurisprudenza a partire dal 2002, deve essere utilizzato anche nella decisione delle controversie sorte anteriormente al 4 luglio 2009 (Trib. Piacenza, 23 febbraio 2012, n. 114).

L'art. 115, nuova formulazione, trova applicazione ai procedimenti cautelari introdotti successivamente all'entrata in vigore della l. n. 69/2009 (Trib. Catanzaro II, 29 settembre 2009).

Il principio di non contestazione, di cui all'art. 115, comma 1, si applica anche nel processo tributario, ma, attesa l'indisponibilità dei diritti controversi, riguarda esclusivamente i profili probatori del fatto non contestato, e sempreché il giudice, in base alle risultanze ritualmente assunte nel processo, non ritenga di escluderne l'esistenza (Cass. n. 2196/2015).

In materia di ingiunzione civile e opposizione a decreto ingiuntivo, l'opponente ha contestato l'onere di specifica contestazione di cui al novellato art. 115, in mancanza della quale l'opposizione va respinta (Trib. Milano IV, 19 marzo 2015, n. 3666).

L'onere di specifica contestazione dei fatti allegati dall'attore, imposto dall'art. 115 (nella formulazione posteriore alla l. n. 69/2009), non può essere “aggirato” attraverso un'immotivata dichiarazione di mancata conoscenza dei fatti (Trib. Cuneo, 5 ottobre 2010, Giur. mer., 2011, n. 4, 1041).

Posto che l'istituto della non contestazione è oggi generalizzato nel nuovo art. 115 a seguito della l. n. 69/2009, perché l'onere di contestazione sia soddisfatto è richiesta una contestazione che si lasci apprezzare per specificità. È sicuramente “specifica”, anche ai fini dell'art. 186 bis, l'eccezione di intervenuto pagamento del debito allorché il debitore abbia dedotto un fatto estintivo dell'altrui diritto, deducendo la solutio (Trib. Varese I, 1° ottobre 2009).

Nella recente esperienza applicativa, si è ritenuto che in materia di ingiunzione civile e opposizione a decreto ingiuntivo, l'opponente ha l'onere di specifica contestazione di cui alla disposizione in esame ed il mancato assolvimento dello stesso comporta il rigetto dell'opposizione (Trib. Milano IV, 19 marzo 2015, n. 3666).

Il principio di non contestazione, con conseguente “relevatio” dell'avversario dall'onere probatorio, postula che la parte che lo invoca abbia per prima ottemperato all'onere processuale a suo carico di compiere una puntuale allegazione dei fatti di causa, in merito ai quali l'altra parte è tenuta a prendere posizione, sicché la mancata allegazione del preciso luogo in cui si sarebbe verificato un sinistro stradale, dal quale l'attore sostiene di aver riportato danni, esonera il convenuto, che abbia genericamente negato il reale accadimento di tale evento, dall'onere di compiere una contestazione circostanziata, perché ciò equivarrebbe a ribaltare sullo stesso convenuto l'onere di allegare il fatto costitutivo dell'avversa pretesa (Cass. n. 3023/2016).

La non contestazione del convenuto costituisce, anche nelle controversie in tema di riscatto o prelazione agraria, un comportamento univocamente rilevante ai fini della determinazione dell'oggetto del giudizio, con effetti vincolanti per il giudice, che deve astenersi da qualsivoglia controllo probatorio del fatto non contestato acquisito al materiale processuale, ritenendolo sussistente, in quanto l'atteggiamento difensivo delle parti espunge il fatto stesso dall'ambito degli accertamenti richiesti. (Cass. n. 12517/2016, la quale, in applicazione di tale principio, ha ritenuto raggiunta la prova dell'esistenza, in capo al retraente, del requisito della mancata vendita di fondi rustici nel biennio antecedente l'esercizio del riscatto, in quanto circostanza tardivamente e genericamente contestata dalla controparte solo in comparsa conclusionale e senza allegare nessuno specifico atto di disposizione).

Segue. Fatto notorio

L'art. 115, comma secondo, c.p.c. stabilisce inoltre che il giudice può, senza bisogno di prova, porre a fondamento della decisione le nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza.

Nella giurisprudenza di legittimità il fatto notorio è stato definito come quello rientrante nel bagaglio delle normali cognizioni di un individuo medio in determinate condizioni di tempo e luogo, sottolineandosi che, in particolare, il «notorio» oggi ricorre quando una persona di ordinario livello intellettivo e culturale vivente in quel contesto storico ed ambientale, può avere agevole conoscenza del «fatto» ritenuto noto, anche tramite elementi che possono essere tratti dalle correnti informazioni frequentemente diffuse da organi di stampa o radiotelevisivi, la cui opera informativa e divulgativa va ormai riconosciuto, agli effetti dell'art. 115 c.p.c., comma secondo, l'innalzamento della soglia del c.d. «notorio», costituente l'ordinario patrimonio di conoscenza dell'uomo medio, rispetto a precedenti epoche, caratterizzate da un più basso livello socio-culturale generale della popolazione e da minore capacità diffusiva dei mezzi d'informazione di massa (Cass. n. 18748/2010).

Peraltro, il fatto notorio, derogando al principio dispositivo delle prove e al principio del contraddittorio, deve inteso in senso rigoroso, i.e. come fatto acquisito alle conoscenze della collettività con tale grado di certezza da apparire incontestabile (Cass. n. 13234/2010).

Costituisce invero principio incontroverso nella giurisprudenza di legittimità quello secondo cui l'utilizzazione delle nozioni di comune esperienza (fatto notorio), comportando una deroga al principio dispositivo e al contraddittorio, in quanto introduce nel processo civile prove non fornite dalle parti, e relative a fatti dalle stesse non vagliati né controllati, va inteso in senso rigoroso, id est come fatto acquisito dalla collettività con tale grado di certezza da apparire indubitabile e incontestabile. Non si possono, quindi, ritenere rientranti nella nozione di fatti di comune esperienza, intesa quale esperienza di un individuo medio in un dato tempo e in un dato luogo, quegli elementi valutativi che implicano nozioni particolari o anche solo la pratica di determinate situazioni, né quelle nozioni che rientrano nella scienza privata del giudice, poiché questa, in quanto non universale, non rientra nella categoria del notorio, neppure quando derivi al giudice medesimo nella pregressa trattazione di analoghe controversie (Cass. n. 14063/2014).

Invero, il «notorio» è costituito dalle cognizioni comuni e generali in possesso della collettività nel tempo e nel luogo della decisione, senza necessità di ricorso a particolari informazioni o giudizi tecnici (Cass. n. 9705/2004).

Pertanto, il ricorso al fatto notorio attiene all'esercizio di un potere discrezionale riservato al giudice di merito e sindacabile, in sede di legittimità, solo se la decisione della controversia si basi su un'inesatta nozione del notorio — da intendersi come fatto conosciuto da un uomo di media cultura, in un dato tempo e luogo — e non anche per inesistenza o insufficienza della motivazione, non essendo egli tenuto ad indicare gli elementi su cui si fonda la sua determinazione (Cass. I, n. 17906/2015).

Qualora il giudice del merito abbia posto alla base della decisione un fatto qualificandolo come notorio, tale fatto e la sua qualificazione sono denunciabili in sede di legittimità sotto il profilo della violazione dell'art. 115, comma 2 e la Corte di cassazione eserciterà il proprio controllo ripercorrendo il medesimo processo cognitivo dello stato di conoscenza collettiva operato dal giudice del merito (Cass. n. 25218/2011).

Pertanto, poiché la definizione di “notorietà” desumibile dall'art. 115, comma 2, c.p.c. si impone come criterio legale di giustificazione del giudizio di fatto, in quanto è destinata ad individuare le premesse di fatto che possono assumersi per vere anche in mancanza di prova, ne consegue che, nel giudizio di cassazione, il riconoscimento o il disconoscimento di un fatto come notorio può essere censurato solo per vizio di motivazione dipendente dall'erronea determinazione dei criteri di notorietà, mentre sfugge al sindacato di legittimità l'erroneo giudizio sulla notorietà che non sia desumibile dalla motivazione, non dipendendo dall'utilizzazione di criteri impropri (Cass. n. 5089/2016).

Nella medesima prospettiva, attesa l'impossibilità di annoverare tra le nozioni di comune esperienza gli elementi valutativi che richiedono il preventivo accertamento di particolari dati estimativi, si è affermato, sempre in sede di legittimità, che non può essere considerato fatto notorio la determinazione del valore corrente degli immobili (Cass. n. 5232/2008). Sempre sulla scorta del più generale principio per il quale l'utilizzazione delle nozioni di comune esperienza (fatto notorio), comportando una deroga al principio dispositivo e al contraddittorio, in quanto introduce nel processo civile prove non fornite dalle parti, e relative a fatti dalle stesse non vagliati né controllati, va inteso in senso rigoroso, i.e. come fatto acquisito dalla collettività con tale grado di certezza da apparire indubitabile e incontestabile, si è evidenziato che non si possono, quindi, ritenere rientranti nella nozione di fatti di comune esperienza, intesa quale esperienza di un individuo medio in un dato tempo e in un dato luogo, quegli elementi valutativi che implicano nozioni particolari o anche solo la pratica di determinate situazioni, né quelle nozioni che rientrano nella scienza privata del giudice, poiché questa, in quanto non universale, non rientra nella categoria del notorio, neppure quando derivi al giudice medesimo nella pregressa trattazione di analoghe controversie (Cass. n. 10285/2010). In sede di merito si è ritenuto, poi, che non rientrano tra i fatti notori le informazioni pervenute da internet che, sebbene accessibili per la generalità dei cittadini, non costituiscono dati incontestabili nelle conoscenze della collettività (Trib. Mantova 16 maggio 2006, in Giur. Merito, 2007, I, 2569, con nota di Neri).

In una recente pronuncia è stato chiarito che l'esistenza di una segnaletica che avvisi gli utenti della strada della rilevazione a distanza della velocità dei veicoli non può assurgere a fatto notorio quando ne sia a conoscenza solo una comunità ristretta di persone. (Cass. II, n. 5530/2017: nella fattispecie la S.C. ha accolto il ricorso di un automobilista che aveva proposto opposizione a verbale di eccesso di velocità in autostrada accertato mediante Tutor, eccependo la mancata dimostrazione dell'esistenza di una segnaletica che avvisasse gli utenti della strada della presenza del rilevatore di velocità).

Sotto un distinto profilo, la Corte di legittimità è ferma nel ritenere che il ricorso alle nozioni di comune esperienza attiene all'esercizio di un potere discrezionale riservato al giudice di merito, il cui giudizio circa la sussistenza di un fatto notorio può essere censurato in sede di legittimità solo se sia stata posta a base della decisione una inesatta nozione del notorio, da intendere come fatto conosciuto da un uomo di media cultura, in un dato tempo e luogo (Cass. n. 11729/2009). A riguardo, la Suprema Corte ha precisato che, qualora si assuma che il fatto considerato come notorio dal giudice non risponde al vero, ciò può formare esclusivamente oggetto di revocazione, ove ne ricorrano gli estremi e non anche di ricorso per cassazione (Cass. n. 11643/2007).

Qualora il giudice del merito abbia posto alla base della decisione un fatto qualificandolo come notorio, tale fatto e la sua qualificazione sono denunciabili in sede di legittimità sotto il profilo della violazione dell'art. 115, comma 2, c.p.c. e la Corte di cassazione eserciterà il proprio controllo ripercorrendo il medesimo processo cognitivo dello stato di conoscenza collettiva operato dal giudice del merito (Cass. n. 25218/2011).

Su un piano più generale, il ricorso al fatto notorio, ai sensi dell'art. 115 comma 2, c.p.c., attiene all'esercizio di un potere discrezionale riservato al giudice di merito: pertanto, l'esercizio, sia positivo che negativo, di tale potere non è sindacabile in sede di legittimità, ed egli non è tenuto ad indicare gli elementi sui quali la determinazione si fonda, essendo, invece, censurabile l'assunzione, a base della decisione, di un'inesatta nozione del notorio, che va inteso quale fatto generalmente conosciuto, almeno in una determinata zona (cd. notorietà locale) o in un particolare settore di attività o di affari da una collettività di persone di media cultura (Cass. n. 15715/2011).

Il ricorso alle nozioni di comune esperienza comporta una deroga al principio dispositivo ed al contraddittorio, in quanto introduce nel processo civile prove non fornite dalle parti e relative a fatti dalle stesse non vagliati né controllati e, perciò, va inteso in senso rigoroso, ossia quale fatto acquisito alle conoscenze della collettività; pertanto, non configura un fatto notorio la conoscenza che derivi al giudice dalla pregressa trattazione di analoghe controversie, in quanto essa è riconducibile alla scienza privata del giudice (Cass. n. 3980/2004).

In sede di adeguamento del debito risarcitorio ai valori in atto della moneta, il giudice del merito non è tenuto a fornire una specifica motivazione, qualora fissi la percentuale di rivalutazione in conformità degli indici sul costo della vita e sul livello dei prezzi, elaborati e pubblicati dall'Istat, i quali configurano fatti notori (Cass. S.U., n. 5815/1985).

Il rincaro dei prezzi delle case è un fatto notorio, sicché il giudice d'appello, in sede di scioglimento della comunione fra coniugi, può ben porre tale fatto quale fondamento nell'adeguare la stima dell'immobile da dividere, stabilendo un incremento del valore rispetto al giudizio di primo grado (Cass. n. 11141/2009).

La variazione del valore di un immobile in un ben determinato periodo di tempo (nella specie, quadriennale), richiedendo accertamenti circostanziati, anche attraverso pubblicazioni di dati attuariali, non può ascriversi al fatto notorio (Cass. n. 1904/2014).

Costituiscono un fatto notorio, cui il giudice può fare ricorso ex art. 115 per stabilire i proventi mediamente conseguibili con il deposito in danaro in istituti bancari, i tassi di interesse bancario correnti in un determinato periodo (Cass. n. 16132/2005).

Rientra nella comune esperienza, senza bisogno di prove (art. 115), che per l'attività del chirurgo, come per i musicisti e per gli sportivi, è essenziale una adeguata manualità e che la relativa professionalità decade “nisi eam exerceas (Cass. n. 22880/2008).

All'interno di una valutazione unitaria del danno biologico complessivamente inteso la dimostrazione può essere raggiunta anche per il tramite del meccanismo logico di integrazione probatoria della presunzione semplice cosicché il danno esistenziale, quale criterio di liquidazione del più generale danno non patrimoniale — risarcibile ex art. 2059 c.c. — può essere desunto in forza dell'art. 115, comma 2, c.p.c. da massime di comune esperienza (Trib. Arezzo, 4 maggio 2015, n. 479). In accordo con tale impostazione, il danno esistenziale, quale criterio di liquidazione del più generale danno non patrimoniale, risarcibile ex art. 2059c.c., può essere desunto in forza dell'art. 115, comma 2, c.p.c. da massime di comune esperienza, quali la giovane età del danneggiato al momento dell'infortunio (nella specie, venticinque anni) e la gravità delle conseguenze dell'infortunio (nella specie, immobilizzazione su sedia a rotelle) incidenti sulla normale vita di relazione dell'infortunato avuto riguardo alla capacità di procreazione, alla vita sessuale, alla possibilità di praticare sport ed altre analoghe attività (Cass. sez. lav., n. 777/2015).

Le opinioni sociologiche meramente soggettive e regole di parziale valutazione della realtà costituiscono fatti a valenza solo suggestiva, sicché non posseggono un grado di univocità e sicura percezione da parte della collettività da risultare indubitabili e incontestabili e, dunque, non integrano un fatto notorio (Cass. n. 22950/2014).

Regole generali in tema di riparto dell'onere probatorio

L'onere probatorio gravante, a norma dell'art. 2697 c.c., su chi intende far valere in giudizio un diritto, ovvero su chi eccepisce la modifica o l'estinzione del diritto da altri vantato, non subisce deroga neanche quando abbia a oggetto fatti negativi, in quanto la negatività dei fatti oggetto della prova non esclude né inverte il relativo onere, gravando esso pur sempre sulla parte che fa valere il diritto di cui il fatto, pur se negativo, ha carattere costitutivo: tuttavia, non essendo possibile la materiale dimostrazione di un fatto non avvenuto, la relativa prova può esser data mediante dimostrazione di uno specifico fatto positivo contrario, o anche mediante presunzioni dalle quali possa desumersi il fatto negativo (v., tra le altre, Cass. n. 7962/2009).

In sostanza, le difficoltà in ordine alla dimostrazione concreta di un determinato fatto non comportano alcuna deroga all'operatività della regola generale sancita dall'art. 2697 c.c.

Peraltro, nella stessa giurisprudenza di merito, si è al contempo precisato, in senso meno rigoroso, che il principio di cui all'art. 2967 c.c. che distribuisce l'onere della prova, deve essere interpretato adattandolo al caso concreto e ricorrendo a presunzioni qualora ciò sia necessario e conforme all'esperienza positiva. In base a tale impostazione, tutte le volte in cui l'attore si troverà — oggettivamente — nell'impossibilità di offrire la prova positiva così come l'applicazione del principio di cui sopra vorrebbe, si potrà far ricorso e utilizzare a suo favore elementi indiziari da cui possono scaturire anche presunzioni semplici, confermate, tuttavia dalla condotta negativa del convenuto realizzatasi nella mancata allegazione di circostanze che solo lui potrebbe provare e che basterebbero, da sole, a confutare la tesi dell'attore (App. Roma, sez. III, 6 maggio 2008 n. 1864, in Guida al dir., 2008, n. 41, 59).

Sotto un distinto e più generale profilo, soprattutto nel diritto del lavoro la giurisprudenza tende ha individuato un significativo temperamento rispetto alla rigida operatività del meccanismo dell'onus probandi stabilito dall'art. 2697 c.c., onerando della prova di determinati fatti il dominus delle relative informazioni, secondo un criterio di c.d. vicinanza della fonte di prova (Trib. Milano, sez. X, 10 settembre 2007, in Foro padano, 2007, n. 3-4, 546).

Invero, la ripartizione dell'onere della prova tra lavoratore, titolare del credito, e datore di lavoro, deve tenere conto, oltre che della partizione della fattispecie sostanziale tra fatti costitutivi e fatti estintivi od impeditivi del diritto, anche del principio — riconducibile all'art. 24 Cost. e al divieto di interpretare la legge in modo da rendere impossibile o troppo difficile l'esercizio dell'azione in giudizio — della riferibilità o vicinanza o disponibilità dei mezzi di prova: conseguentemente laddove i fatti possano essere noti solo all'imprenditore e non anche al lavoratore, incombe sul primo l'onere della prova negativa. Espressione di tale indirizzo giurisprudenziale è specialmente la pronuncia mediante la quale le Sezioni Unite della Corte di legittimità hanno sancito che la prova del requisito c.d. dimensionale ai fini della tutela reale di cui all'art. 18 Statuto dei lavoratori spetta al datore di lavoro in base al principio della c.d. vicinanza della prova (Cass. S.U., n. 141/2006).

Sempre in applicazione del criterio della vicinanza della prova, si è recentemente evidenziato che, in tema di responsabilità medica, la difettosa tenuta della cartella clinica da parte dei sanitari non può pregiudicare sul piano probatorio il paziente, cui anzi, in ossequio al principio di vicinanza della prova, è dato ricorrere a presunzioni se sia impossibile la prova diretta a causa del comportamento della parte contro la quale doveva dimostrarsi il fatto invocato (Cass. III, n. 6209/2016, la quale ha precisato che tali principi operano non solo ai fini dell'accertamento dell'eventuale colpa del medico, ma anche in relazione alla stessa individuazione del nesso eziologico fra la sua condotta e le conseguenze dannose subite dal paziente). Analogamente, la S.C. ha evidenziato che, in tema di contratto di agenzia, la ripartizione dell'onere della prova tra agente e preponente deve tenere conto, oltre della partizione della fattispecie sostanziale tra fatti costitutivi e fatti estintivi od impeditivi del diritto, anche del principio — riconducibile all'art. 24 Cost. e al divieto di interpretare la legge in modo da rendere impossibile o troppo difficile l'esercizio dell'azione in giudizio — della riferibilità o vicinanza o disponibilità dei mezzi di prova. (Cass. sez. lav., n. 486/2016, ha cassato la sentenza di appello che non aveva adeguatamente valutato gli estratti conto del rapporto e il prospetto riepilogativo delle provvigioni, prodotti in giudizio dall'agente con il ricorso introduttivo della causa in primo grado e non tempestivamente contestati dalla società preponente).

Distinta e più generale deroga alla rigida operatività del meccanismo in tema di onere probatorio posto dall'art. 2697 c.c. è costituita dal c.d. principio di acquisizione. Invero, il principio dell'onere della prova non implica affatto che la dimostrazione dei fatti costitutivi del diritto preteso debba ricavarsi esclusivamente dalle prove offerte da colui che è gravato dal relativo onere, senza potere utilizzare altri elementi probatori acquisiti al processo in omaggio al principio di acquisizione, secondo il quale le risultanze istruttorie, comunque ottenute e quale che sia la parte a iniziativa o a istanza della quale sono formulate concorrono tutte, indistintamente, alla formazione del convincimento del giudice, senza che la diversa provenienza possa condizionare tale formazione in un senso o nell'altro (Cass. n. 18647/2010). In altri termini, il principio generale di riparto dell'onere probatorio di cui all'art. 2697 c.c. deve essere contemperato con il principio di acquisizione, desumibile da alcune disposizioni del codice di rito (quale ad esempio l'art. 245, comma secondo, c.p.c.) ed avente fondamento nella costituzionalizzazione del principio del giusto processo, in base al quale le risultanze istruttorie, comunque acquisite al processo, e quale che sia la parte ad iniziativa o ad istanza della quale si siano formate, concorrono tutte alla formazione del convincimento del giudice, di talché la soccombenza dell'attore consegue alla inottemperanza dell'onere probatorio a suo carico soltanto nell'ipotesi in cui le risultanze istruttorie, comunque acquisite al processo, non siano sufficienti per provare i fatti che costituiscono il fondamento del diritto che si intende far valere in giudizio (Cass. n. 15162/2008).

Resta naturalmente fermo che il principio enunciato dall'art. 2697 c.c. non implica che la dimostrazione dei fatti costitutivi del diritto azionato — come degli eventi modificativi o estintivi dello stesso — debba ricavarsi, esclusivamente, dalle prove offerte da colui che è gravato dal relativo onere, senza che possano essere utilizzati altri elementi probatori acquisiti al processo. Al contrario, nel nostro ordinamento processuale vige il principio di acquisizione, secondo il quale le risultanze istruttorie, comunque ottenute e quale che sia la parte ad iniziativa o ad istanza della quale sono state offerte, concorrono tutte, indistintamente, alla formazione del convincimento del giudice, senza che la diversa provenienza possa condizionare tale convincimento in un senso o nell'altro e, quindi, senza che possa escludersi l'utilizzazione di una prova fornita da una parte per trarne elementi favorevoli alla controparte. Deve, inoltre, rammentarsi — per il rilievo che tale precisazione assume ai fini della definizione del procedimento all'attenzione — che anche nell'ordinario giudizio di cognizione è dato porre, a fondamento e base della decisione, le circostanze pacifiche e/o incontestate. Ed a tale ultimo proposito va osservato un dato fatto può ritenersi pacifico ed acclarato — senza necessità di relativa prova — allorquando sia stato esplicitamente ammesso dalla controparte ovvero nelle ipotesi in cui la controparte medesima abbia impostato il proprio sistema difensivo su circostanze ed argomentazioni logicamente incompatibili con il suo disconoscimento (Trib. Roma, sez. III, 13 giugno 2011 n. 12767, in Guida al dir., 2011, n. 32, 81).

L'operatività del principio di acquisizione anche nella fase di gravame implica che il giudice di appello, pur in mancanza di specifiche deduzioni sul punto, deve valutare tutti gli elementi di prova acquisiti, quand'anche non presi in considerazione dal giudice di primo grado, poiché in materia di prova vige il principio di acquisizione processuale, secondo il quale le risultanze istruttorie comunque ottenute, e quale che sia la parte ad iniziativa o ad istanza della quale siano formate, concorrono tutte indistintamente alla formazione del convincimento del giudice (Cass. n. 15300/2011).

Riparto dell'onere della prova nella responsabilità contrattuale

La questione afferente il riparto dell'onere probatorio tra le parti in tema di inadempimento delle obbligazioni è stata risolta dalle Sezioni Unite con l'affermazione del principio, ormai consolidato, in forza del quale in materia di prova dell'inadempimento di una obbligazione, il creditore che agisca per la risoluzione contrattuale, per il risarcimento del danno, ovvero per l'adempimento deve soltanto provare la fonte, negoziale o legale, del suo diritto ed il relativo termine di scadenza, limitandosi alla mera allegazione della circostanza dell'inadempimento della controparte, mentre il debitore convenuto è gravato dell'onere della prova del fatto estintivo dell'altrui pretesa, costituito dall'avvenuto adempimento, ed eguale criterio di riparto dell'onere della prova deve ritenersi applicabile al caso in cui il debitore convenuto per l'adempimento, la risoluzione o il risarcimento del danno si avvalga dell'eccezione di inadempimento ex art. 1460 c.c., risultando, in tal caso, invertiti i ruoli delle parti in lite, poiché il debitore eccipiente si limiterà ad allegare l'altrui inadempimento, ed il creditore agente dovrà dimostrare il proprio adempimento, ovvero la non ancora intervenuta scadenza dell'obbligazione. Parimenti, anche nel caso in cui sia dedotto non l'inadempimento dell'obbligazione, ma il suo inesatto adempimento, al creditore istante sarà sufficiente la mera allegazione dell'inesattezza dell'adempimento (per violazione di doveri accessori, come quello di informazione, ovvero per mancata osservanza dell'obbligo di diligenza, o per difformità quantitative o qualitative dei beni), gravando ancora una volta sul debitore l'onere di dimostrare l'avvenuto, esatto adempimento. Nell'affermare il principio di diritto che precede, le SS.UU. della Corte hanno ulteriormente precisato che esso trova un limite nell'ipotesi di inadempimento delle obbligazioni negative, nel qual caso la prova dell'inadempimento stesso è sempre a carico del creditore, anche nel caso in cui agisca per l'adempimento e non per la risoluzione o il risarcimento: invero, l'esenzione del creditore dall'onere di provare il fatto negativo dell'inadempimento in tutte le ipotesi di cui all'art. 1453 c.c. (e non soltanto nel caso di domanda di adempimento), con correlativo spostamento sul debitore convenuto dell'onere di fornire la prova del fatto positivo dell'avvenuto adempimento, è conforme al principio di riferibilità o di vicinanza della prova. In virtù di tale principio, che muove dalla considerazione che il creditore incontrerebbe difficoltà, spesso insuperabili, se dovesse dimostrare di non aver ricevuto la prestazione, l'onere della prova viene infatti ripartito tenuto conto, in concreto, della possibilità per l'uno o per l'altro soggetto di provare fatti e circostanze che ricadono nelle rispettive sfere di azione ed appare coerente alla regola dettata dall'art. 2697 c.c., che distingue tra fatti costitutivi e fatti estintivi, ritenere che la prova dell'adempimento, fatto estintivo del diritto azionato dal creditore, spetti al debitore convenuto, che dovrà quindi dare la prova diretta e positiva dell'adempimento, trattandosi di fatto riferibile alla sua sfera di azione (Cass. S.U., n. 13533/2001; conf., tra le molte, Trib. Roma IX, 24 gennaio 2017, n. 1157).

Applicando tali principi in una più recente decisione, la S.C. ha osservato che il creditore il quale agisce per il pagamento di un suo credito è tenuto unicamente a fornire la prova del rapporto o del titolo dal quale deriva il suo diritto e non anche a provare il mancato pagamento, poiché il pagamento integra un fatto estintivo, la cui prova incombe al debitore che l'eccepisca; soltanto di fronte alla comprovata esistenza di un pagamento avente efficacia estintiva (cioè puntualmente eseguito con riferimento ad un determinato credito) l'onere della prova viene nuovamente a gravare sul creditore, il quale controdeduca che il pagamento deve imputarsi ad un credito diverso o più antico (Cass. n. 20288/2011).

Nella recente prassi applicativa si è quindi ritenuto che, di fronte alla contestazione di un inadempimento è il convenuto a dover fornire la prova di aver reso la prestazione oggetto dell'obbligazione, non già l'attore a dover provare un fatto negativo (Trib. Roma III, 3 aprile 2017, n. 6620).

In tema di responsabilità contrattuale, è noto che ai sensi dell'art. 1218 c.c. «il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta è tenuto al risarcimento del danno, se non prova che l'inadempimento o il ritardo è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile».

In tema di responsabilità medica, peraltro, in accordo con la giurisprudenza tradizionale, essendo considerata quella del medico un'obbligazione di mezzi e non di risultato, si riteneva spettasse all'attore l'onere di provare il nesso causale tra l'intervento del medico ed il peggioramento delle proprie condizioni di salute (Cass. n. 17306/2006). Tuttavia, tale orientamento è stato superato dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione mediante l'affermazione del diverso principio per il quale nel giudizio avente ad oggetto il risarcimento del danno causato da un errore del medico o della struttura sanitaria, al quale sono applicabili le regole sulla responsabilità contrattuale ivi comprese quelle sul riparto dell'onere della prova, l'attore ha il solo onere — ex art. 1218 c.c. — di allegare e provare l'esistenza del contratto, e di allegare l'esistenza d'un valido nesso causale tra l'errore del medico e l'aggravamento delle proprie condizioni di salute, mentre spetterà al convenuto dimostrare o che inadempimento non vi è stato, ovvero che esso pur essendo sussistente non è stato la causa efficiente dei danni lamentati dall'attore (Cass. S.U., n. 577/2008).

Pertanto, ai fini del riparto dell'onere probatorio, il paziente, in qualità di danneggiato, deve limitarsi a provare il contratto o «contatto sociale» e l'aggravamento della patologia, o l'insorgenza di un'affezione, ed allegare l'inadempimento del debitore, astrattamente idoneo a provocare il danno lamentato, mentre competerà al debitore dimostrare o che tale inadempimento non vi è stato, ovvero che, pur esistendo, esso non è stato eziologicamente rilevante (Trib. Bari II, 10 marzo 2009 n. 827; Trib. Pisa 11 gennaio 2017, n. 90). Resta fermo che il nesso causale fra il comportamento del sanitario ed il danno subito dal paziente è configurabile qualora, attraverso un criterio eminentemente probabilistico, si accerti che l'opera del medico, se correttamente e prontamente prestata, avrebbe evitato il danno. In sostanza è necessario accertare che il comportamento diligente e perito del sanitario avrebbe prevenuto o eliso le conseguenze dannose concretamente verificatesi, secondo un criterio di probabilità non meramente statistica, ma di natura logico – razionale (Trib. Aquila I, 21 marzo 2021, n. 335).

Questa impostazione dovrà essere almeno in parte rivisitata a seguito dell'emanazione della legge c.d. Gelli- Bianco (v. Commento all'art. 2043 c.c.).

Casistica

In materia di elementi accidentali del contratto, qualora l'acquisto di un diritto dipenda dal verificarsi di un evento futuro ed incerto rimesso al comportamento volontario di una delle parti (condizione sospensiva potestativa semplice), l'adempimento della condotta determinativa del fatto in questione è elemento costitutivo della fattispecie negoziale attributiva del diritto, sicché l'onere di provare l'avveramento dell'evento condizionante grava su colui che intende far valere quel diritto, in applicazione del principio generale di cui all'art. 2697 c.c. (Cass. III, n. 25597/2016).

Qualora l'azione di simulazione proposta dal creditore di una delle parti di un contratto di compravendita immobiliare fondi su elementi presuntivi che, in ottemperanza a quanto previsto dall'art. 2697 c.c., indichino il carattere fittizio dell'alienazione, l'acquirente ha l'onere di provare l'effettivo pagamento del prezzo, potendosi, in mancanza, trarre elementi di valutazione circa il carattere apparente del contratto; tale onere probatorio non può, tuttavia, ritenersi soddisfatto dalla dichiarazione relativa al versamento del prezzo contenuta nel rogito notarile, in quanto il creditore che agisce per far valere la simulazione è terzo rispetto ai soggetti contraenti (Cass. II, n. 5326/2017).

In tema di legitimatio ad causam, colui che promuove l'azione (o specularmente vi contraddica) nell'asserita qualità di erede di altro soggetto, indicato come originario titolare del diritto, deve allegare la propria legittimazione per essere subentrato nella medesima posizione del proprio autore, fornendo la prova, in ottemperanza all'onere di cui all'art. 2697 c.c., del decesso della parte originaria e della sua qualità di erede, perché altrimenti resta indimostrato uno dei fatti costitutivi del diritto di agire (o a contraddire); per quanto concerne la delazione dell'eredità, tale onere - che non è assolto con la produzione della denuncia di successione - è idoneamente adempiuto con la produzione degli atti dello stato civile, dai quali è dato coerentemente desumere quel rapporto di parentela con il de cuius che legittima alla successione ai sensi degli artt. 565 e ss. c.c. (Cass. II, n. 10519/2024).

In tema di locazione immobiliare, in caso di domanda di risoluzione art. 146 art. 1578 c.c. grava sul conduttore (anche per ovvie ragioni di vicinanza della prova) l'onere di individuare e dimostrare l'esistenza del vizio che diminuisce in modo apprezzabile l'idoneità del bene all'uso pattuito, spettando, invece, al locatore convenuto di provare, rispettivamente, che i vizi erano conosciuti o facilmente riconoscibili dal conduttore, laddove intenda paralizzare la domanda di risoluzione o di riduzione del corrispettivo, ovvero di averli senza colpa ignorati al momento della consegna, se intenda andare esente dal risarcimento dei danni derivanti dai vizi della cosa (Cass. III, n. 3548/2017).

In materia di risarcimento del danno per l'inadempimento o l'inesatto adempimento dell'obbligo del conduttore - previsto dall'art. 1590 c.c. - di restituire la cosa locata nel medesimo stato in cui l'aveva ricevuta, salvo il deterioramento o il consumo risultante dall'uso della stessa in conformità del contratto, incombe sul locatore fornire la prova del fatto costitutivo del vantato diritto, e cioè il deterioramento intervenuto tra il momento della consegna e quello della restituzione dell'immobile, mentre sul conduttore grava l'onere di dimostrare il fatto impeditivo della sua responsabilità, e cioè che il deterioramento si è verificato per uso conforme al contratto o per fatto a lui non imputabile (Cass. III, n. 6387/2018).

In tema di responsabilità del conduttore per ritardato rilascio dell'immobile locato, il maggior dannoexart. 1591 c.c. deve essere provato in concreto dal locatore, anche mediante il ricorso a presunzioni, purché, però, sia dimostrato che il suddetto ritardo abbia concretamente pregiudicato la possibilità di locare a terzi il bene per un canone superiore all'ultimo pattuito con il conduttore inadempiente, non essendo sufficiente la prova del diverso e maggior valore locativo di mercato (Cass. III, n. 23704/2016).

In ipotesi di recesso unilaterale del committente dal contratto d'appalto,ex art. 1671 c.c., grava sull'appaltatore, che chieda di essere indennizzato del mancato guadagno, l'onere di dimostrare quale sarebbe stato l'utile netto da lui conseguibile con l'esecuzione delle opere appaltate, costituito dalla differenza tra il pattuito prezzo globale dell'appalto e le spese che si sarebbero rese necessarie per la realizzazione delle opere, salva la facoltà, per il committente, di provare che l'interruzione dell'appalto non ha impedito all'appaltatore di realizzare guadagni sostitutivi ovvero gli ha procurato vantaggi diversi (Cass. II, n. 8853/2017).

Nel contratto di trasporto di persone, il viaggiatore danneggiato ha l'onere di provare, oltre all'esistenza ed all'entità del danno, il nesso esistente tra il trasporto e l'evento dannoso, mentre incombe al vettore, al fine di liberarsi della presunzione di responsabilità posta a suo carico dall'art. 1681, comma 1, c.c., la prova che l'evento dannoso era imprevedibile e non evitabile usando la normale diligenza, ferma restando la possibilità che l'eventuale condotta colposa del danneggiato assuma rilievo ai sensi della previsione dell'art. 1227 c.c. (Cass. III, n. 249/2017).

Nel contratto di prestazione d'opera intellettuale, come nelle altre ipotesi di lavoro autonomo, l'onerosità è elemento normale, anche se non essenziale, sicché, per esigere il pagamento, il professionista deve provare il conferimento dell'incarico e l'adempimento dello stesso, e non anche la pattuizione di un corrispettivo, mentre è onere del committente dimostrare l'eventuale accordo sulla gratuità della prestazione (Cass. II, n. 23893/2016).

In tema di contratti di somministrazione, la rilevazione dei consumi mediante contatore è assistita da una mera presunzione semplice di veridicità, sicché, in caso di contestazione, grava sul somministrante l'onere di provare che il contatore era perfettamente funzionante, mentre il fruitore deve dimostrare che l'eccessività dei consumi è dovuta a fattori esterni al suo controllo e che non avrebbe potuto evitare con un'attenta custodia dell'impianto, ovvero di aver diligentemente vigilato affinché eventuali intrusioni di terzi non potessero alterare il normale funzionamento del misuratore o determinare un incremento dei consumi (Cass. n. 23669/2016, che, in applicazione del principio, ha cassato la sentenza impugnata che aveva posto a carico del somministrato la mancata prova in ordine al malfunzionamento del contatore, sebbene il somministrante avesse sostituito unilateralmente lo stesso, senza dar modo al fruitore di effettuare alcuna verifica sul suo corretto funzionamento). Più di recente, in sede applicativa, si è osservato che nei contratti di somministrazione di energia e gas naturale, a fronte della contestazione della congruità dei consumi portati dalle bollette e della conformità dei consumi effettivi, spetta al somministrante (società che fornisce il bene all'utente) e non al distributore (società che fornisce il bene per la fornitura agli utenti) la prova del quantum della merce fornita e del quantum del corrispettivo secondo i criteri di riparto stabiliti dagli artt. 1218 e 2697 c.c.: di conseguenza la rilevazione dei consumi mediante contatore è assistita da una mera presunzione semplice di veridicità e la bolletta risulta idonea a dimostrare l'entità dei consumi della somministrazione solo in caso di mancata contestazione da parte dell'utente poiché, in ipotesi contraria, il somministrante deve provare la quantità di consumo registrato, il corretto funzionamento del contatore e la corrispondenza fra quanto riportato in bolletta e quanto emergente dal contatore (Trib. Vibo Valentia I, 29 aprile 2021, n. 321).

Qualora l'azione di simulazione proposta dal creditore di una delle parti di un contratto di compravendita immobiliare fondi su elementi presuntivi che, in ottemperanza a quanto previsto dall'art. 2697 c.c., indichino il carattere fittizio dell'alienazione, l'acquirente ha l'onere di provare l'effettivo pagamento del prezzo, potendosi, in mancanza, trarre elementi di valutazione circa il carattere apparente del contratto; tale onere probatorio non può, tuttavia, ritenersi soddisfatto dalla dichiarazione relativa al versamento del prezzo contenuta nel rogito notarile, in quanto il creditore che agisce per far valere la simulazione è terzo rispetto ai soggetti contraenti (Cass. n. 5326/2017).

Il fideiussore che chieda la liberazione della garanzia prestata invocando l'applicazione dell'art. 1956 c.c. ha l'onere di provare, ai sensi dell'art. 2697 c.c., l'esistenza degli elementi richiesti a tal fine, e cioè che, successivamente alla prestazione della fideiussione per obbligazioni future, il creditore, senza la sua autorizzazione, abbia fatto credito al terzo pur essendo consapevole dell'intervenuto peggioramento delle sue condizioni economiche (Cass. n. 23422/2016).

Nei giudizi di risarcimento del danno da responsabilità medica, è onere del paziente dimostrare l'esistenza del nesso causale, provando che la condotta del sanitario è stata, secondo il criterio del "più probabile che non", causa del danno, sicché, ove la stessa sia rimasta assolutamente incerta, la domanda deve essere rigettata (Cass. n. 3704/2018).

In materia di responsabilità  sanitaria, l'inadempimento dell'obbligo di acquisire il consenso informato del paziente assume diversa rilevanza causale a seconda che sia dedotta la violazione del diritto all'autodeterminazione o la lesione del diritto alla salute posto che, se nel primo caso l'omessa o insufficiente informazione preventiva evidenzia ex se una relazione causale diretta con la compromissione dell'interesse all'autonoma valutazione dei rischi e dei benefici del trattamento sanitario, nel secondo l'incidenza eziologica del deficit informativo sul risultato pregiudizievole dell'atto terapeutico correttamente eseguito dipende dall'opzione che il paziente avrebbe esercitato se fosse stato adeguatamente informato ed è configurabile soltanto in caso di presunto dissenso, con la conseguenza che l'allegazione dei fatti dimostrativi di tale scelta costituisce parte integrante dell'onere della prova – che, in applicazione del criterio generale di cui all'art. 2697 c.c., grava sul danneggiato - del nesso eziologico tra inadempimento ed evento dannoso. (cfr. Cass. n. 19199/2018, la quale ha confermato la sentenza di merito con la quale era stata respinta la domanda di risarcimento del danno da perdita del rapporto parentale sul presupposto che non solo gli attori non avevano allegato il presunto dissenso del congiunto, ma dalle risultanze istruttorie erano emersi elementi, come l'assenza di soluzioni terapeutiche alternative e il fatto che in precedenza il paziente si era sottoposto ad interventi analoghi, che deponevano per la presunzione di consenso al trattamento sanitario).

In caso di danno cagionato dall'alunno a se stesso, la responsabilità dell'istituto scolastico e dell'insegnante ha natura contrattuale, atteso che, quanto all'istituto, l'instaurazione del vincolo negoziale consegue all'accoglimento della domanda di iscrizione, e, quanto al precettore, il rapporto giuridico con l'allievo sorge per contatto sociale, sicché si applica il regime probatorio di cui all'art. 1218 c.c., in virtù del quale il danneggiato deve provare esclusivamente che l'evento dannoso si è verificato nel corso dello svolgimento del rapporto, mentre la scuola ha l'onere di dimostrare che l'evento è stato determinato da causa non imputabile né alla scuola né all'insegnante. (Cass. III, n. 3695/2016).

La responsabilità degli amministratori di società di capitali per i danni cagionati alla società amministrata ha natura contrattuale sicché la società (o il curatore, nel caso in cui l'azione sia proposta ex art. 146 l.fall.) deve allegare le violazioni compiute dagli amministratori ai loro doveri e provare il danno e il nesso di causalità tra la violazione e il danno, mentre spetta agli amministratori provare, con riferimento agli addebiti contestatigli, l'osservanza dei doveri previsti dal nuovo testo dell'art. 2392 c.c., modificato a seguito della riforma del 2003, con la conseguenza che gli amministratori dotati di deleghe (cd. operativi) — ferma l'applicazione della «business judgement rule», secondo cui le loro scelte sono insindacabili a meno che, se valutate «ex ante», risultino manifestamente avventate ed imprudenti — rispondono non già con la diligenza del mandatario, come nel caso del vecchio testo dell'art. 2392 c.c., ma in virtù della diligenza professionale esigibile ex art. 1176, comma 2, c.c. (Cass. I, n. 17441/2016).

La natura contrattuale della responsabilità dell'amministratore sociale consente alla società che agisca per il risarcimento del danno, o al curatore in caso di sopravvenuto fallimento di quest'ultima, di allegare l'inadempimento dell'organo gestorio quanto alla giacenze di magazzino, restando a carico del convenuto l'onere di dimostrare l'utilizzazione delle merci nell'esercizio dell'attività di impresa. (Cass. I, n. 16952/2016, la quale, in applicazione dell'anzidetto principio, ha confermato la sentenza impugnata, che, attraverso l'esame del bilancio sociale, della relazione critica dei sindaci e delle divergenze esistenti con il bilancio fallimentare, aveva affermato la responsabilità dell'amministratore della società fallita quanto alla distrazione del magazzino contestatagli e da lui non convincentemente giustificata).

L'acquirente di biglietto aereo che chieda la condanna dell'agente di viaggi al risarcimento del danno non patrimoniale da «vacanza rovinata» ha l'onere di allegare gli elementi di fatto dai quali possa desumersi l'esistenza e l'entità del pregiudizio, in base alla disciplina codicistica del risarcimento del danno da inadempimento contrattuale (Cass. III, n. 12143/2016).

In tema di intermediazione finanziaria, al riscontro dell'inadempimento degli obblighi informativi a carico dell'intermediario, concernenti la natura, la quantità e la qualità dei prodotti finanziari e la loro specifica rischiosità, consegue l'accertamento in via presuntiva del nesso di causalità tra l'inadempimento e il danno patito dall'investitore, presunzione che spetta all'intermediario superare attraverso la prova di avere correttamente adempiuto, né Ll necessità di dimostrare il puntuale adempimento degli obblighi informativi non viene meno nei riguardi dello “speculatore”, non assumendo alcuna rilevanza la c.d. prova controfattuale, ossia il convincimento relativo all'ininfluenza del comportamento giuridicamente imposto rispetto alla scelta dell'investimento. (Cass. I, n. 4727/2018).

Riparto dell'onere della prova in materia di responsabilità extracontrattuale

L'art. 2043 c.c. stabilisce, in generale, che qualunque fatto doloso o colposo, che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno.

Tale disposizione normativa, è stata tradizionalmente intesa nel senso che in tema di responsabilità extracontrattuale l'attore, ai fini dell'accoglimento della domanda di risarcimento, deve fornire la prova dei fatti costitutivi del diritto dedotto in giudizio, secondo il noto canone onus probandi incumbit ei qui dicit, e dimostrare l'effettiva entità del danno subito (Trib. Nocera Inferiore, I, 13 ottobre 2011 n. 920).

Tale regola generale trova applicazione non soltanto in tema di risarcimento del danno patrimoniale ma anche per colui il quale agisca in giudizio richiedendo il risarcimento del danno non patrimoniale che, pur ormai risarcibile anche oltre i casi previsti dall'art. 2059 c.c., non è mai in re ipsa, ma esige quale danno-conseguenza sempre la prova, che va fornita da parte del danneggiato, delle effettive e concrete ripercussioni che l'illecito ha avuto sulla sua vita personale (App. Milano 14 febbraio 2003, in Giur. Merito, 2003, 1414; conf., tra le molte, Trib. Roma, sez. III, 13 febbraio 2017, n. 2827).

Le Sezioni Unite hanno ribadito, con la pronuncia n. 29672/08, che il danno non patrimoniale costituisce un danno-conseguenza che deve pertanto essere oggetto di specifica allegazione e prova da parte del danneggiato, il quale, in applicazione della regola generale espressa dall'art. 2697 c.c., ha quindi l'onere di dimostrare l'esistenza dei fatti costitutivi posti a fondamento della propria pretesa risarcitoria (cfr., tra le molte, in tema di richiesta di risarcimento del danno non patrimoniale, Cass. n. 10120/2009).

La connotazione del danno non patrimoniale in termini di danno-conseguenza è stata considerata dalla S.C. principio informatore della materia al quale devono conformarsi anche i giudici di pace nel giudizio di equità necessario di cui all'art. 113, secondo comma c.p.c.

Invero, sebbene la S.C. abbia ritenuto nella medesima decisione che nel giudizio secondo equità rimesso dal comma 2 dell'art. 113 c.p.c. al giudice di pace, venendo in rilievo l'equità c.d. «formativa» o «sostitutiva» della norma di diritto sostanziale, non opera la limitazione del risarcimento del danno non patrimoniale ai soli casi determinati dalla legge, prevista dall'art. 2059 c.c., sia pure nell'interpretazione costituzionalmente corretta di tale disposizione, con la conseguenza che il giudice di pace, nell'ambito del solo giudizio d'equità, può disporre il risarcimento del danno non patrimoniale anche al di fuori dei casi determinati dalla legge e di quelli attinenti alla lesione dei valori della persona umana costituzionalmente protetti, è nondimeno necessario che il danneggiato abbia allegato e provato anche attraverso presunzioni il pregiudizio subito, dovendosi escludere che il danno non patrimoniale rappresenti una conseguenza automatica dell'illecito (Cass. n. 4493/2009).

Peraltro, le stesse Sezioni Unite hanno precisato che il danneggiato può comunque fornire la dimostrazione del pregiudizio fornendone la prova in via presuntiva ai sensi dell'art. 2729 c.c.

Come rilevato da autorevole dottrina, le presunzioni costituiscono lo strumento probatorio che consente al giudice di pervenire alla conoscenza di un fatto principale o secondario non tramite la diretta dimostrazione dello stesso bensì attraverso un ragionamento logico idoneo a far ritenere sussistente, partendo dalla conoscenza di un fatto noto, l'esistenza di un fatto ignoto in via di ragionevole certezza (Picardi 2013, § 157.1).

Nella delineata prospettiva, si è osservato, nella giurisprudenza di merito, a seguito dell'orientamento espresso dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione con la sentenza n. 26972 dell'11 novembre 2008, il danno non patrimoniale da lesione alla salute costituisce una categoria ampia ed omnicomprensiva, nella cui liquidazione il giudice deve tenere conto di tutti i pregiudizi concretamente patiti dalla vittima, ma senza duplicare il risarcimento attraverso l'attribuzione di nomi diversi a pregiudizi identici e, sempre in virtù di detta sentenza, sul piano probatorio il danno deve essere allegato e provato, anche a mezzo di presunzioni, dovendosi escludere ogni valutazione di danno in re ipsa (Trib. Teramo, 15 luglio 2009).

Tenuto conto del consolidato orientamento in forza del quale il giudice può ritenere provato un fatto anche sulla scorta di un unico indizio purché esso sia tale da condurlo ad un ragionevole grado di certezza in ordine alla sussistenza del fatto ignoto da dimostrare (Cass. n. 11117/1996), dall'esame della casistica concreta appare confermato che tanto più grave è il danno non patrimoniale lamentato (ad esempio, danno da perdita del rapporto parentale), tanto più l'onere probatorio del danneggiato finirà con il coincidere, in sostanza, con l'onere di allegazione di specifici fatti connotanti gli stati di grave sofferenza di regola derivanti dall'evento dedotto. In tale prospettiva, già prima dell'intervento delle Sezioni Unite, si è ritenuto, nella giurisprudenza di merito, che nel caso di morte di un congiunto, il risarcimento delle voci di danno biologico e «non patrimoniale» è condizionato alla prova (da fornirsi da parte del danneggiato) dell'esistenza di una lesione scaturita quale conseguenza immediata e diretta (art. 1223 c.c.) dalla lesione primaria della posizione soggettiva, fermo restando che: a) la morte di un congiunto conseguente a fatto illecito, configura per i superstiti del nucleo familiare un danno non patrimoniale diretto ed ingiusto, costituito dalla lesione di valori costituzionalmente protetti e di diritti umani inviolabili; b) tale danno può essere riconosciuto sulla base di elementi indiziari e presuntivi; c) la prova del danno morale per morte del congiunto è data dalla dimostrazione sella sussistenza di rapporti con il defunto normali e non di natura ed intensità eccezionali; d) sarà consentito il ricorso a valutazioni prognostiche ed a presunzioni sulla base degli elementi obbiettivi che sarà onere del danneggiato fornire (Trib. Monza 8 maggio 2006, in Giur. Merito, 2007, n. 1, 107).

La distinzione tra danno in re ipsa e danno-conseguenza che deve comunque essere dimostrato, sebbene anche mediante presunzioni, seppure appaia estremamente attenuata nell'ipotesi in cui l'evento sia talmente grave da far ritenere secondo massime d'esperienza consolidate il danno dedotto conseguenza normale dell'illecito, permane ed assume concreta pregnanza se si pensa alla possibilità per l'altra parte di fornire la prova contraria, possibilità che se non sussiste nell'ipotesi di danno in re ipsa, permane pienamente nell'altra, essendo consentito dimostrare, ad es., a fronte della richiesta di risarcimento dei danni per la perdita del rapporto parentale che per peculiari circostanze i rapporti tra il de cuis ed il danneggiato erano interrotti da tempo o, più semplicemente, la mancanza della dedotta situazione di convivenza al momento del fatto.

Nella pratica la ricostruzione del danno non patrimoniale in termini di danno-conseguenza comporta che debba essere tributata peculiare attenzione onde evitare una confusione tra il fatto notorio e le massime di esperienza (cfr. in arg. Calogero 1937, 15 ss.).

In particolare, invero, il fatto notorio (ovvero rientrante nella comune esperienza) è quello ai fini della dimostrazione del quale non occorre ex art. 115 c.p.c., in deroga ai fondamentali principio dispositivo e principio del contraddittorio, alcuna prova e deve quindi essere inteso in senso rigoroso, come fatto acquisito alle conoscenze della collettività con tale grado di certezza da apparire indubitabile e incontestabile, con la conseguenza che non rientrano nella nozione di fatti di comune esperienza, intesa quale esperienza di un individuo medio in un dato tempo e in un dato luogo, quegli elementi valutativi che implicano cognizioni particolari o anche solo la pratica di determinate situazioni, né quelle nozioni che fanno parte della scienza privata del giudice (Cass. n. 1696/2010).

Le massime di esperienza operano, invece, su un piano distinto, in quanto finalizzate a sostenere induttivamente un'argomentazione probatoria, quale la ricostruzione storica ed individuale di un determinato fatto ed il ricorso alle stesse è quindi usuale in tema di prova per presunzioni, essendo detta prova fondata proprio su un ragionamento di tipo inferenziale (Calogero 1937, 106 ss.).

Specialmente nell'ipotesi in cui il danno subito sia meno grave ovvero quando comunque vengano dedotte a fondamento della domanda di risarcimento dei danni non patrimoniali anche questioni afferenti la concreta incidenza negativa sulla vita quotidiana della persona del danno saranno necessari aderendo alla pronuncia delle Sezioni Unite anche ulteriori mezzi istruttori come la prova per testi.

Diversamente, ai fini della dimostrazione del danno alla salute in senso stretto, è necessario un accertamento medico-legale mediante C.T.U. A riguardo, invero, se le Sezioni Unite, nella nota pronuncia più volte richiamata n. 26972/2008, hanno in motivazione sottolineato la valenza soltanto preferenziale dell'accertamento tramite consulenza medica, precisando che il giudice di merito poteva ritenere lo stesso superfluo in caso di ritenuta sussistenza del pregiudizio sulla scorta della documentazione in atti ovvero delle prove orali assunte, non sono mancate prese di posizione più restrittive, a riguardo, anche nella successiva giurisprudenza di legittimità.

Tra le altre, si segnala in particolare Cass. 30 aprile 2009 n. 10120, la quale ha affermato che il danno alla salute deve essere provato attraverso l'accertamento medico-legale e non attraverso la prova testimoniale, precisando, peraltro, la peculiare valenza di tale principio nell'ipotesi concreta esaminata, nella quale l'attore aveva agito per il risarcimento dei danni da fumo e assunto di essere già un fumatore e come tale già esposto coscientemente ai rischi e danni da fumo, ma aveva lamentato che il passaggio alle sigarette più leggere — che secondo il messaggio subliminalmente ingannevole (lights) avrebbe dovuto comportargli una riduzione del rischio e del danno da fumo — in effetti non gli ha dato il risultato sperato, essendo danno e rischio da fumo rimasti inalterati.

Casistica

In presenza di fatto illecito di cui siano coautori più persone, ove uno dei condebitori solidali agisca in regresso nei confronti degli altri, l'onere di provare le circostanze idonee a superare la presunzione del pari concorso di colpa, prevista per il caso di dubbio dall'art. 2055, comma 3, c.c, grava, rispettivamente, sull'attore che pretenda il rimborso di una somma superiore alla metà, o sul convenuto che contesti una richiesta pari alla metà, opponendo ad essa la propria totale assenza di colpa, ovvero il grado inferiore di questa (Cass. VI, n. 3626/2017).

La fattispecie del danno da ritardo va pienamente ricondotta allo schema generale dell'art. 2043 c.c., con conseguente applicazione rigorosa del principio dell'onere della prova in capo al danneggiato circa la sussistenza di tutti i presupposti oggettivi e soggettivi dell'illecito, con l'avvertenza inoltre che, nell'azione di responsabilità per danni, il principio dispositivo, sancito in generale dall'art. 2697 comma 1, c.c., opera con pienezza e non è temperato dal metodo acquisitivo proprio dell'azione di annullamento (Cons. St. IV, n. 5497/2016).

In tema di risarcimento del danno, il creditore che voglia ottenere, oltre il rimborso delle spese sostenute, anche i danni derivanti dalla perdita di “chance” – che, come concreta ed effettiva occasione favorevole di conseguire un determinato bene, non è una mera aspettativa di fatto ma un'entità patrimoniale a sè stante, giuridicamente ed economicamente suscettibile di autonoma valutazione – ha l'onere di provare, benchè solo in modo presuntivo o secondo un calcolo di probabilità, la realizzazione in concreto di alcuni dei presupposti per il raggiungimento del risultato sperato ed impedito dalla condotta illecita della quale il danno risarcibile deve essere conseguenza immediata e diretta. (Cass. III, n. 6488/2017: nella specie, relativa alla perdita di “chance” lavorative future asseritamente subite da un'infortunata in un sinistro stradale, la S.C. ha precisato che, configurandosi un danno patrimoniale futuro, come tale diverso ed ulteriore rispetto al danno alla salute, a carattere, invece, non patrimoniale, la perdita di futuri guadagni non può essere desunta in via presuntiva dalla mera esistenza di postumi invalidanti, spettando al danneggiato l'onere di provare, anche presuntivamente, che il danno alla salute gli ha precluso l'accesso a situazioni di studio o di lavoro tali che, se realizzate, avrebbero fornito anche soltanto la possibilità di maggiori guadagni).

In tema di responsabilità medica da nascita indesiderata, il genitore che agisce per il risarcimento del danno ha l'onere di provare che la madre avrebbe esercitato la facoltà d'interrompere la gravidanza — ricorrendone le condizioni di legge — ove fosse stata tempestivamente informata dell'anomalia fetale; quest'onere può essere assolto tramite «praesumptio hominis», in base a inferenze desumibili dagli elementi di prova, quali il ricorso al consulto medico proprio per conoscere lo stato di salute del nascituro, le precarie condizioni psico-fisiche della gestante o le sue pregresse manifestazioni di pensiero propense all'opzione abortiva, gravando sul medico la prova contraria, che la donna non si sarebbe determinata all'aborto per qualsivoglia ragione personale (Cass. S.U., n. 25767/2015; conf. Cass. III, n. 9251/2017, in Ridare.it, 19 maggio 2017, con nota di Scalera).

Nel caso di morte di un prossimo congiunto, un danno non patrimoniale diverso ed ulteriore rispetto alla sofferenza morale (cd. danno da rottura del rapporto parentale) non può ritenersi sussistente per il solo fatto che il superstite lamenti la perdita delle abitudini quotidiane, ma esige la dimostrazione di fondamentali e radicali cambiamenti dello stile di vita, che è onere dell'attore allegare e provare; tale onere di allegazione, peraltro, va adempiuto in modo circostanziato, non potendo risolversi in mere enunciazioni generiche, astratte od ipotetiche (Cass. n. 21060/2016).

In caso di domanda di risarcimento del danno non patrimoniale «da uccisione», proposta «iure proprio» dai congiunti dell'ucciso, questi ultimi devono provare la effettività e la consistenza della relazione parentale, rispetto alla quale il rapporto di convivenza non assurge a connotato minimo di esistenza, ma può costituire elemento probatorio utile a dimostrarne l'ampiezza e la profondità, e ciò anche ove l'azione sia proposta dal nipote per la perdita del nonno; infatti, non essendo condivisibile limitare la «società naturale», cui fa riferimento l'art. 29 Cost., all'ambito ristretto della sola cd. «famiglia nucleare», il rapporto nonni-nipoti non può essere ancorato alla convivenza, per essere ritenuto giuridicamente qualificato e rilevante, escludendo automaticamente, nel caso di non sussistenza della stessa, la possibilità per tali congiunti di provare in concreto l'esistenza di rapporti costanti di reciproco affetto e solidarietà con il familiare defunto (Cass. n. 21230/2016).

In presenza di un danno permanente non lieve, avente una incidenza del 20% sulla capacità lavorativa specifica del soggetto, che svolga un lavoro intellettuale, la contrazione della capacità di guadagno non può essere presunta, ma deve essere allegata e provata (Cass. III, n. 12467/2017, in Ridare.it, luglio 2017, con nota di Scalera).

In tema di responsabilità extracontrattuale per danno causato da attività pericolosa da emotrasfusione, la prova, che grava sull'attore danneggiato, del nesso causale intercorrente tra la specifica trasfusione ed il contagio da virus Hcv, può essere fornita — ove risulti provata l'idoneità di tale condotta a provocare il contagio — anche con il ricorso alle presunzioni, in difetto di predisposizione (o anche solo di produzione in giudizio), da parte della struttura sanitaria, della documentazione obbligatoria sulla tracciabilità del sangue trasfuso al singolo paziente, e ciò in applicazione del criterio della vicinanza della prova (Cass. III, n. 5961/2016).

In tema di sinistro stradale, il danneggiato che agisca per il risarcimento dei danni subiti in conseguenza di una caduta avvenuta, mentre circolava sulla pubblica via alla guida del proprio ciclomotore, a causa di una grata o caditoia d'acqua, è tenuto alla dimostrazione dell'evento dannoso e del suo rapporto di causalità con la cosa in custodia, non anche dell'imprevedibilità e non evitabilità dell'insidia o del trabocchetto, né della condotta omissiva o commissiva del custode, gravando su quest'ultimo, in ragione dell'inversione dell'onere probatorio che caratterizza la responsabilità ex art. 2051 c.c., la prova di aver adottato tutte le misure idonee a prevenire che il bene demaniale presentasse, per l'utente, una situazione di pericolo occulto, nel cui ambito rientra anche la prevedibilità e visibilità della grata o caditoia (Cass. III, n. 11802/2016).

In tema di risarcimento del danno causato da diffamazione a mezzo stampa, la prova del danno non patrimoniale può essere fornita con ricorso al notorio e tramite presunzioni, assumendo, come idonei parametri di riferimento, la diffusione dello scritto, la rilevanza dell'offesa e la posizione sociale della vittima, tenuto conto del suo inserimento in un determinato contesto sociale e professionale (Cass. III, n. 13153/2017). In particolare, l'attore che assume di essere stato leso da una notizia di stampa deve provare il fatto della pubblicazione di una notizia di natura diffamatoria e, a fronte di ciò, spetta al convenuto dimostrare, a fondamento dell'eccezione di esercizio del diritto di cronaca (e della sussistenza della relativa esimente), la verità della notizia, che può atteggiarsi anche in termini di verità putativa, laddove sussista verosimiglianza dei fatti in relazione all'attendibilità della fonte, nel qual caso competerà all'attore l'eventuale dimostrazione della non attendibilità della fonte medesima (Cass. III, n. 12985/2022).

Il danno patrimoniale da mancato guadagno, concretandosi nell'accrescimento patrimoniale effettivamente pregiudicato o impedito dall'inadempimento dell'obbligazione contrattuale, presuppone la prova, sia pure indiziaria, dell'utilità patrimoniale che il creditore avrebbe conseguito se l'obbligazione fosse stata adempiuta, esclusi solo i mancati guadagni meramente ipotetici perché dipendenti da condizioni incerte, sicché la sua liquidazione richiede un rigoroso giudizio di probabilità (e non di mera possibilità), che può essere equitativamente svolto in presenza di elementi certi offerti dalla parte non inadempiente, dai quali il giudice possa sillogisticamente desumere l'entità del danno subito. (Cass. III, n. 24632/2015: in applicazione di tale principio, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva respinto la domanda di risarcimento del danno per erronea inserzione del nominativo della ditta ricorrente sull'elenco telefonico, in assenza della prova di uno sviamento di clientela per tale disguido, tanto più che il recapito telefonico della ditta risultava, chiaramente, in altra parte dello stesso elenco cartaceo e in quello «on line»).

Fattispecie di danno in re ipsa

Soltanto in via eccezionale nell'attuale giurisprudenza di legittimità si riconoscono ipotesi nelle quali il risarcimento del danno è accordato in re ipsa.

In questa prospettiva, si è recentemente affermato che la violazione del diritto di determinarsi liberamente nella scelta dei propri percorsi esistenziali in una condizione di vita affetta da patologie ad esito certamente infausto, coincide con la lesione di un bene di per se´ autonomamente apprezzabile sul piano sostanziale, tale da non richiedere, una volta attestato il colpevole ritardo diagnostico di una condizione patologica, l'assolvimento di alcun ulteriore onere di allegazione argomentativa o probatoria, potendo giustificare una condanna al risarcimento del danno cosi` inferto sulla base di una liquidazione equitativa (Cass. III, n. 7260/2018).

Sulla questione, occorre considerare che da ultimo la Terza Sezione Civile ha rimesso al Primo Presidente, per l'eventuale assegnazione alle Sezioni Unite, la questione di massima di particolare importanza se il danno da illegittima occupazione di immobile sia configurabile come un danno “in re ipsa, nel senso di rapportarsi alla mera circostanza della perdita della disponibilità del bene, ovvero richieda la prova - da fornirsi anche per presunzioni - della concreta intenzione del proprietario di mettere a frutto l'immobile (Cass. III, ord. n. 1162/2022, in Ilprocessocivile.it, con nota di Petrolati).

Bibliografia

Calogero, La logica del giudice e il suo controllo in Cassazione, Padova, 1937; Carnevali, Inadempimento e onere della prova, in Contratti, 2002, 113; Ciaccia Cavallari, La contestazione nel processo civile, I, II, Milano, 1992; De Cristofaro, Mancata o inesatta prestazione e onere probatorio, in Riv. dir. civ. 1994, 567; A.D. De Santis, Sul concetto di «non inequivocabilità» della non contestazione, in Riv. dir. proc. 2008, 560 ss.; Fabiani, Il valore probatorio della non contestazione del fatto allegato, in Corr. Giur., 2003, 1345; Giordano, L'istruzione probatoria nel processo civile, Milano 2013; Mariconda, Inadempimento e onere della prova: le Sezioni Unite compongono un contrasto e ne aprono un altro, in Corr. Giur., 2001, 1565; Micheli, L'onere della prova, Padova 1942; Patti, Delle prove, in Comm. S.B., Bologna-Roma, 1987; Scarpa, Responsabilità contrattuale e onere della prova: l'incertezza probatoria rientra fra i rischi della prestazione?, in Giur. Merito, 2007, n. 1, 248 ss.; Verde, Considerazioni sulla regola di giudizio fondata sull'onere della prova, in Riv. dir. proc. 1972, 438 ss.; Verde, L'onere della prova nel processo civile, Napoli 1984.

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