Codice di Procedura Penale art. 643 - Riparazione dell'errore giudiziario.

Paola D'Ovidio
aggiornato da Francesco Agnino

Riparazione dell'errore giudiziario.

1. Chi è stato prosciolto in sede di revisione [637], se non ha dato causa per dolo o colpa grave all'errore giudiziario, ha diritto a una riparazione commisurata alla durata dell'eventuale espiazione della pena o internamento e alle conseguenze personali e familiari derivanti dalla condanna [314].

2. La riparazione si attua mediante pagamento di una somma di denaro ovvero, tenuto conto delle condizioni dell'avente diritto e della natura del danno, mediante la costituzione di una rendita vitalizia. L'avente diritto, su sua domanda, può essere accolto in un istituto, a spese dello Stato.

3. Il diritto alla riparazione è escluso per quella parte della pena detentiva che sia computata nella determinazione della pena da espiare per un reato diverso, a norma dell'articolo 657, comma 2.

Inquadramento

L'errore è insito nell'uomo, nella fallibilità quale componente imprescindibile della natura umana in ogni sua manifestazione, e quindi anche in quella relativa all'amministrazione della giustizia.

Partendo da tale constatazione si è condivisibilmente sostenuto che sembra «saggio e ragionevole» arrendersi all'inevitabilità dell'errore giudiziario (Callari, 42; Dalia 145), il quale «è come una gran nube che oscura il cielo del diritto processuale penale» (Carnelutti, 277).

Il concetto di errore giudiziario implica una patologia del processo tale da condurre ad un giudizio finale contrario a giustizia: ciò avviene allorché la c.d. realtà processuale, fondata sulle prove e sugli indizi raccolti dagli inquirenti, non viene a coincidere con la realtà storica, vale a dire con la realtà dei fatti così come effettivamente accaduti. Questa divergenza può dipendere da diversi fattori, quali, ad esempio, gli errori dei testimoni nella percezione della verità, gli errori compiuti dagli investigatori nella fase delle indagini, la frode architettata dagli autori del delitto, gli errori commessi dai periti nell'espletamento delle indagini tecniche, l'errore compiuto dal giudice nell'esercizio del metodo di ragionamento induttivo, i condizionamenti del giudice derivanti da pregiudizi personali più o meno consapevoli o da giudizi della stampa che anticipano quelli processuali (Imposimato, 6).

Il riconoscimento dell'errore giudiziario, quale accadimento naturale nell'esperienza processuale, ha posto, sin da tempi risalenti, la connessa questione della riparazione di tale errore, la quale è stata variamente risolta nelle diverse epoche storiche in ragione dei contesti politici e culturali di riferimento. Significative testimonianze risalgono già al periodo preunitario, laddove il codice penale del granduca Leopoldo di Toscana del 1786, all'art. 46, riconosceva il diritto all'indennizzo in favore di coloro che «per le circostanze dei casi o certe combinazioni fatali, si sono trovati, senza dolo o colpa di alcuno, sottoposti ad essere processati criminalmente e molte volte ritenuti in carcere... e poi riconosciuti innocenti e come tali assolti».

In seguito, fu il codice del 1913 (artt. 551, 552 e 553 c.p.p.) a prevedere una riparazione di tipo pecuniario a favore del condannato, successivamente riconosciuto innocente in seguito ad un giudizio di revisione, purché fosse stato prosciolto dopo aver scontato tre anni di pena restrittiva della libertà personale, e solo a condizione che l'istante si trovasse in uno stato di bisogno: la fonte dell'indennizzo non era, dunque, ravvisata nell'erroneità della sentenza che aveva cagionato l'ingiusta restrizione della libertà personale, bensì nella condizione economica personale e familiare dell'avente diritto che poteva accedere al beneficio economico solo in quanto bisognoso.

Con l'entrata in vigore della Costituzione del 1948, il diritto alla riparazione economica, a seguito del riconoscimento dell'erroneità di una sentenza, riceve copertura costituzionale in forza dell'art. 24, comma 4 Cost., a mente del quale la «legge determina le condizioni e i modi per la riparazione dell'errore giudiziario».

Nel successivo codice penale del 1930 (artt. 571-574 c.p.p.) si registrano alcune modifiche dell'istituto, in particolare riducendo a tre mesi il periodo minimo di detenzione richiesto quale condizione per proporre la domanda di riparazione, ma il riconoscimento del diritto alla riparazione pecuniaria rimane subordinato alle condizioni economiche dell'istante, richiedendo anche tale disciplina che quest'ultimo versi in uno stato di bisogno per sé o per la propria famiglia.

Si tratta dunque di una riparazione a titolo di «soccorso» da parte dello stato caritatevole nei confronti del condannato successivamente riconosciuto innocente, laddove il soggetto è considerato portatore di un interesse, sì giuridicamente protetto, ma qualificato come mero interesse legittimo.

Solo con la legge n. 504/1960 (che ha modificato gli artt. 571-574 c.p.p. e ha aggiunto l'art. 574-bis nel codice del 1930) l'errore giudiziario viene ad assumere la fisionomia del diritto soggettivo, con il riconoscimento all'istante, che sia stato assolto in sede di revisione, il diritto ad «un'equa riparazione», prescindendo dallo stato di bisogno, richiesto invece quale elemento condizionante dalla precedente legislazione.

Il concetto di «equa riparazione» è stato espressamente riaffermato nell'art. 2 della l. n. 481/1965 (Nuove norme in tema di revisione delle sentenze penali), per essere poi eliminato nella nuova formulazione dell'istituto, disciplinato infine dall'art. 643 c.p.p. dell'attuale codice di procedura penale.

Nell'evoluzione della normativa in tema di riparazione dell'errore giudiziale una significativa influenza hanno avuto le fonti sovranazionali, ed in particolare, l'art. 5, paragrafo 5, della Convenzione Europea dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (ratificata con l. n. 848/1955), il quale dispone che «ogni persona vittima di arresto o di detenzione... ha diritto ad una riparazione», e l'art. 9, paragrafo 5, del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici (reso esecutivo con l. n. 881/1977) che, a sua volta, prevede che «chiunque sia stato vittima di arresto o detenzione illegali ha diritto ad un indennizzo».

In tale contesto è intervenuta la legge-delega n. 81/1987 che, nel delegare al governo l'emanazione del nuovo codice di procedura penale in attuazione dei principi della Costituzione e nel rispetto delle norme delle convenzioni internazionali, ratificate dall'Italia, relative ai diritti della persona e al processo penale, all'art. 2, comma 1 n.100, ha previsto, accanto alla riparazione dell'errore giudiziario (già disciplinata dal codice previgente), anche la riparazione per ingiusta detenzione, ciò che lascia intendere una volontà del legislatore delegante di escludere sostanziali differenziazioni tra custodia cautelare ed esecuzione di pena detentiva.

A seguito dell'esercizio del potere legislativo così ricevuto, l'attuale codice di procedura penale, introdotto con d.P.R. n. 447 del 22 settembre 1988, prevede due tipi di riparazione dell'errore, rispettivamente quello per ingiusta detenzione, disciplinato dagli artt. 314 e 315 c.p.p. (inseriti nel capo VIII del libro IV del c.p.p., intitolato alla «Riparazione per ingiusta detenzione») e quello della riparazione dell'errore giudiziario strictu sensu inteso, disciplinato dagli artt. 643-647 c.p.p. (inseriti nel titolo IV del libro IX, intitolato alle «Revisioni»).

Si tratta di due istituti che si fondano su presupposti diversi e per i quali sono previste differenti modalità di esercizio del diritto, ma che condividono lo scopo di mitigare le conseguenze degli errori verificatisi nel corso dello svolgimento dell'attività giudiziaria.

La figura della riparazione per ingiusta detenzione, che può definirsi una species del genus della riparazione dell'errore giudiziario, la cui introduzione nel codice del 1988 ha rappresentato una novità nel nostro ordinamento, non abbraccia tutte le ipotesi di carcerazione ingiusta, ma riguarda solo i provvedimenti cautelari restrittivi della libertà personale, ossia dei casi in cui la limitazione della libertà personale sia stata disposta ai sensi degli artt. 284 (arresti domiciliari), 285 (custodia cautelare in carcere e 286 (custodia cautelare in luogo di cura) c.p.p.. A fronte di tali provvedimenti, il diritto ad una “equa riparazione» dell'errore sarà invocabile non solo in caso di un errore di diritto sostanziale, concretizzatasi nell'aver erroneamente ritenuto sussistente il fumus del reato oggetto dell'indagine preliminare (art. 314, comma 1, c.p.p.), ma anche nell'ipotesi di un errore di diritto di natura soltanto formale, consistito nell'essere stata emessa o mantenuta una misura restrittiva della libertà personale al di fuori delle condizioni di applicabilità previste dal codice di rito (art. 314, comma 2, c.p.p.).

Il comma 3 dell'art. 314 c.p.p. estende il medesimo diritto anche alla persona nei cui confronti sia pronunciato decreto motivato di archiviazione del procedimento ovvero sentenza di non luogo a procedere.

I commi 4 e 5 dello stessa norma escludono la riparazione pecuniaria nei casi di custodia cautelare computabile nella misura di altra pena inflitta o da infliggere, ovvero quando sia stata inflitta in forza di altri titoli custodiali, nonché per intervenuta abolitio criminis relativamente alla parte di pena anteriore all'abrogazione normativa.

Ai sensi dell'art. 315 c.p.p., la domanda di riparazione deve essere proposta, a pena di inammissibilità, entro due anni dal giorno in cui la sentenza di proscioglimento o di condanna è divenuta irrevocabile, la sentenza di non luogo a procedere è divenuta inoppugnabile o è stata effettuata la notificazione del provvedimento di archiviazione alla persona nei cui confronti è stato pronunciato a norma del comma 3 dell'articolo 314. È inoltre fissato un tetto massimo entro il quale deve essere contenuta nell'entità massima della riparazione, pari a 516.456,90 euro. Si applicano, in quanto compatibili, le norme sulla riparazione dell'errore giudiziario, di cui agli artt. 643-647 c.p.c..

Queste ultime norme riguardano l'errore giudiziario in senso proprio. In base all'art. 643 c.p.p., chi è stato prosciolto in sede di revisione ex art. 630 c.p.p., se non ha dato causa per dolo o colpa grave all'errore giudiziario, ha diritto ad una riparazione commisurata alla durata dell'eventuale espiazione della pena o internamento e alle conseguenze personali e familiari derivanti dalla condanna. Tale riparazione può consistere in una somma di denaro o, tenendo conto delle condizioni dell'avente diritto e della natura del danno, in una rendita vitalizia.

L'avente diritto, su sua domanda, può essere accolto in un istituto, a spese dello Stato. Il diritto alla riparazione è escluso per quella parte della pena detentiva che sia computata nella determinazione della pena da espiare per un reato diverso, a norma dell'articolo 657, comma 2, c.p.p..

L'esperibilità dell'azione ex art. 643 c.p.p. è dunque subordinata al passaggio in giudicato della sentenza di condanna ed al positivo esperimento di un giudizio di revisione, mentre l'entità della riparazione è commisurata ex lege a due precisi parametri, quali la durata dell'eventuale espiazione della pena (ai cui fini deve essere presa in considerazione non solo la durata dell'effettiva carcerazione, ma anche quella delle eventuali misure alternative o accessorie comminate) e le conseguenze personali e familiari derivanti dalla condanna.

Il pregiudizio, tuttavia, è considerato in re ipsa, sicché non vi è necessità di provarlo in giudizio, come invece normalmente avviene secondo le comuni regole di diritto civile (Bonaccorsi, 272-273). La sua quantificazione, inoltre, è tendenzialmente senza limitazione, a differenza di quanto avviene per la riparazione della ingiusta detenzione, il cui importo massimo, come già ricordato, soggiace al tetto di euro 516.456,90.

Ai sensi dell'art. 644 c.p.p., il diritto alla riparazione ex art. 643 c.p.c. è esteso anche ai familiari, (tassativamente elencati dalla norma nel coniuge, gli ascendenti, i discendenti, i fratelli e le sorelle, gli affini entro il primo grado e le persone legate da vincolo di adozione) di colui che, ingiustamente condannato, sia deceduto prima di vedere riconosciuto il proprio diritto; a tale soggetti spetta, a titolo di riparazione, una somma che non può superare quella che sarebbe stata liquidata al prosciolto e che deve essere ripartita equitativamente in ragione delle conseguenze derivate dall'errore a ciascuna persona. Sono esclusi dal diritto alla riparazione le persone che si trovino nella situazione di indegnità di cui all'art. 463 c.c..

Il diritto alla riparazione è subordinato alla presentazione, a pena di inammissibilità, della domanda entro due anni dal passaggio in giudicato della sentenza di revisione, domanda che l'istante deve presentare per iscritto, unitamente ai documenti ritenuti utili, personalmente o per mezzo di procuratore speciale, nella cancelleria della Corte di appello che ha pronunciato la sentenza.

Il procedimento e la decisione in ordine alla riparazione sono previsti dall'art. 646 c.p.p. e la domanda è esaminata dalla stessa Corte di appello, con decisione in camera di consiglio nel rispetto delle forme previste dall'art. 127 c.p.p.. Se il caso in questione rientra tra quelli previsti dall'art. 630, comma 1, lett. d), lo Stato, se ha già provveduto alla corresponsione del quantum della riparazione, si surroga ex art. 1203 c.c. e fino alla concorrenza della somma corrisposta, nel diritto al risarcimento dei danni contro il responsabile, come previsto dall'art. 647 c.p.p..

Fuori delle due ipotesi codificate della riparazioni dei danni da ingiusta detenzione (artt. 314 e 315 c.p.p.) e dei danni da errore giudiziario (artt. 343-347 c.p.p.) non vi è spazio per alcun altra responsabilità dello Stato: in particolare, non è contemplata una responsabilità da processo, conseguente cioè al semplice fatto che un innocente abbia subito un processo e sia stato poi assolto in primo grado o nel giudizio di appello. Si profila così una disparità di trattamento tra chi sia stato prosciolto a seguito di un giudizio di revisione e chi sia stato prosciolto a seguito di un ordinario giudizio, sebbene verosimilmente analoghi possono immaginarsi i danni (Chinnici, Un breve «excursus» in materia di riparazione dell'errore giudiziario, in Foro it. 2001, 42).

La disciplina della riparazione degli errori giudiziari e della ingiusta detenzione deve essere tenuta distinta da quella attinente al risarcimento dei danni cagionati nell'esercizio delle funzioni giudiziarie e sulla responsabilità civile dei magistrati, di cui alla l. n. 117/1988, come modificata dalla legge n. 18 del 2015, la quale, all'art. 14, espressamente prevede che «le disposizioni della presente legge non pregiudicano il diritto alla riparazione a favore delle vittime di errori giudiziari e di ingiusta detenzione».

Tale disposizione, come sottolineato dalla Carte di cassazione, è una norma di coordinamento diretta a ribadire la non interferenza tra la normativa recata dalla legge sulla responsabilità civile e le distinte regole dettate per sancire il diritto alla riparazione a favore di errori giudiziari e di ingiusta detenzione (Cass. n. 11825/1995). Pur essendo diversi i presupposti delle due discipline, in quanto la prima presuppone una responsabilità a titolo di dolo o di colpa grave ovvero per diniego di giustizia (come tipizzati all'art. 2 l. n. 117/1988, e ciò anche a seguito delle modifiche apportate dalla l. n. 18/2015), mentre le seconde si basano unicamente sui dati obiettivi contemplati dalle rispettive norme, è comunque possibile che in determinati casi risultino integrate contemporaneamente entrambe le predette fattispecie.

Al riguardo si è ritenuto che se è vero che l'art. 643 c.p.p., comma 1 prende in considerazione, per stabilire l'entità della riparazione per l'errore giudiziario, la "durata della eventuale espiazione della pena o internamento", oltre alle conseguenze personali e familiari derivanti dalla condanna, e non ricomprende invece espressamente le conseguenze derivanti dalla privazione della libertà personale a diverso titolo, tuttavia un'interpretazione riduttiva, fondata esclusivamente sulla lettera della norma indicata, non sarebbe condivisibile. Questa drastica esclusione non si giustificherebbe, tra l'altro, alla luce di un processo di estensione della tutela riparatoria per l'ingiusta detenzione di cui, sono espressione, oltre che l'art. 24 Cost., la L. 4 agosto 1955, n. 848, art. 5, comma 5, Convenzione Europea dei diritti dell'uomo, e l'art. 9, n. 5 del Patto Internazionale dei diritti civili e politici. Nè può ritenersi che la persona prosciolta debba proporre autonomamente due domande se nel processo oggetto della revisione sia intervenuta anche la custodia cautelare: quella per la riparazione dell'ingiusta detenzione e quella per la riparazione dell'errore giudiziario. E' invece parere della Corte che la domanda relativa alla riparazione dell'errore giudiziario possa comprendere anche quella per la riparazione dell'ingiusta detenzione eventualmente subita. Ciò non soltanto per ovvie esigenze di razionalità e semplificazione ma, soprattutto, per una ragione fondata sul tenore dell'art. 657 c.p.p., comma 1 che impone di computare sulla pena definitiva da espiare la custodia cautelare sofferta per lo stesso reato (e anche per altro reato). Si verifica quindi, in sede di esecuzione, una sorta di trasformazione della custodia cautelare anteriormente sofferta in pena definitiva. Non v'è quindi neppure una ragione di coerenza sistematica per escludere che l'espiazione della pena, cui fa riferimento l'art. 643 c.p.p., comma 1, si riferisca anche alla custodia cautelare proprio perché divenuta in sede di esecuzione pena espiata (Cass., pen., n. 10236/2020).

In tema di riparazione dell'errore giudiziario, nel caso di proscioglimento all'esito del giudizio di revisione conseguente alla revoca della sentenza di patteggiamento per contrasto di giudicati, la richiesta di applicazione della pena non costituisce condotta ostativa al riconoscimento del diritto alla riparazione, non essendo causa dell'errore giudiziario (Cass. n. 10423/2023).

La natura della riparazione dell'errore giudiziario, ai confini tra indennizzo e risarcimento

Secondo una risalente dottrina, il diritto alla riparazione per l'ingiusta condanna definitiva deve essere inquadrato nell'alveo della responsabilità dello Stato per atti illeciti, conseguentemente assumendo carattere propriamente risarcitorio: si tratterebbe di una responsabilità di diritto pubblico, comunque imputabile allo Stato in via oggettiva, indipendentemente cioè dall'elemento soggettivo della colpevolezza (Santi Romano, 157 ss.).

Tale opinione veniva a porsi in netta contrapposizione con la tesi espressa all'inizio del secolo scorso da Arturo Rocco, secondo il quale la riparazione dell'errore giudiziario non deve essere ricondotta ad una responsabilità dello Stato, ma costituisce l'adempimento di un obbligo di pubblica assistenza che, in ragione di ciò, presuppone uno stato di bisogno del beneficiario; secondo Rocco, infatti, la condanna dell'innocente non è mai un fatto dello Stato, quanto piuttosto un fatto imputabile «ad un fatale e disgraziato concorso di circostanze». L'orientamento più recente, seguendo le indicazioni giurisprudenziali sul punto, propende tuttavia ad inquadrare il comportamento produttivo di un danno da errore giudiziario nella categoria degli atti leciti dannosi, prodotti contra ius, ma anche iure datum, che, come tali, possono dar luogo soltanto ad un indennizzo in favore del danneggiato. Impostazione, quest'ultima, sulla quale non mancano tuttavia alcune incertezze e perplessità, osservandosi come non sempre il danno provocato nel legittimo e pieno esercizio di un potere dello Stato comporti automaticamente un mero diritto di natura indennitaria (Bonaccorsi, 271), nonchè ravvisando negli arresti della Suprema Corte una tendenza a ricomprendere nella nozione di atto illecito anche le attività illecite poste in essere dai pubblici poteri (quello amministrativo, quello giudiziario e finanche quello legislativo), i quali, tramontate le vecchie immunità, vengono sottoposti ad una responsabilità in buona parte omologata a quella del rapporto fra privati e che prescinde da eventuali addebiti di singoli funzionari (Navarretta, 507).

In tale ottica, vi è chi ha auspicato un superamento delle differenze valutative tra l'area degli indennizzi e l'area della responsabilità civile, soprattutto quando vengano in gioco diritti della persona (Pellecchia, 590).

Più di un autore, d'altra parte, ha ravvisato nella riparazione per l'errore giudiziario e l'ingiusta detenzione una componente indennitaria e una risarcitoria, quasi si trattasse di un tertium genus rispetto alle due forme di ristoro. Si è in proposito osservato che la riparazione differisce per presupposti e finalità, non solo dal risarcimento, ma anche dall'indennizzo: mentre quest'ultima categoria dogmatica presuppone il sacrificio di un interesse individuale a vantaggio di un interesse pubblico, la riparazione postula la lesione del diritto del singolo cui non corrisponde la tutela di un superiore interesse della collettività, non essendo certo interesse dello Stato che l'innocente venga ingiustamente perseguito o che la limitazione della libertà personale rifugga da concreti e definiti profili di reità; inoltre, a differenza di quanto avviene nel modello tipico di indennizzo, nella riparazione la lesione del diritto individuale non sempre è determinata da un atto legittimo della pubblica autorità, posto che le fattispecie di «ingiustizia formale» ex art. 314, comma 2, c.p.p. sottendono, al contrario, una custodia cautelare disposta o mantenuta in forza di un titolo illegittimo (Turco, 2).

Secondo un consolidato orientamento della Suprema Corte, risalente alla nota sentenza sul caso Barillà, la riparazione per l'errore giudiziario, alla quale è espressamente equiparata la riparazione per l'ingiusta detenzione, non ha natura di risarcimento del danno ma di semplice indennità o indennizzo in base a principi di solidarietà sociale per chi sia stato ingiustamente privato della libertà personale o ingiustamente condannato. La S.C. ha anche precisato che l'origine solidaristica della previsione dei due casi di riparazione non esclude che ci si trovi in presenza di diritti soggettivi qualificabili di diritto pubblico cui si contrappone, specularmente, un'obbligazione dello Stato da qualificare parimenti di diritto pubblico. Secondo il giudice di legittimità, l'esclusione di una tutela obbligata di tipo risarcitorio risponde ad una precisa finalità: se il legislatore avesse costruito la riparazione dell'errore giudiziario, o dell'ingiusta detenzione, come risarcimento dei danni, avrebbe dovuto richiedere, per coerenza sistematica, che il danneggiato dimostrasse anche la colpa o il dolo della P.A. ed il concreto ammontare dei danni subiti. Ciò si sarebbe posto in un quadro di conflitto con l'esigenza (fondata non solo su una precisa disposizione della nostra Costituzione, — art. 24 comma 4 — ma anche sull'art. 5 comma 5 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo e sull'art. 9 n. 5 del Patto internazionale dei diritti civili e politici) di garantire un adeguato ristoro a chi sia stato comunque ingiustamente condannato o privato della libertà personale senza costringerlo a defatiganti controversie sull'esistenza dell'elemento soggettivo di chi aveva agito e sulla determinazione dei danni.

Invero, il generale principio di auto-responsabilità individua come soggetto passivo di un pregiudizio soltanto chi non lo abbia in alcun modo determinato. E la riparazione del pregiudizio, patrimoniale e non patrimoniale, conseguente all'errore giudiziario, non sfugge dall'ambito di operatività del suddetto principio generale. D'altronde, anche al procedimento di riparazione per errore giudiziario, in considerazione delle sue connotazioni civilistiche, sono applicabili, in quanto compatibili, le disposizioni del combinato disposto di cui agli artt. 1227 2056 c.c., in tema di concorso del fatto colposo del danneggiato. Pertanto, come nel procedimento per riparazione per ingiusta detenzione, la condotta lievemente colposa dell'interessato, per quanto non ostativa al riconoscimento del diritto alla riparazione, deve essere valutata dal giudice della riparazione per l'eventuale riduzione della sua entità (Cass., pen., n. 21275 /2014); così, nel procedimento di riparazione per errore giudiziario, la concorrente condotta colposa della vittima dell'errore giudiziario, per quanto non ostativa al riconoscimento del diritto alla riparazione, deve essere valutata dal giudice della riparazione in vista della determinazione del quantum. Tale opzione interpretativa non collide con la natura dell'istituto indennitario, non configurandosi ragioni per elidere la nozione di auto-responsabilità, ponendo a carico della collettività anche quella quota di pregiudizio dipesa dal concorso del danneggiato.

 

Dunque, la riparazione per l'errore giudiziario o per l'ingiusta detenzione viene dalla stessa Cassazione ricondotta in quei casi in cui il pregiudizio deriva da una condotta conforme all'ordinamento, che però ha prodotto un danno che deve comunque essere riparato, per definire la quale si è fatto ricorso alla figura dell'atto lecito dannoso: l'atto viene infatti emesso nell'esercizio di un'attività legittima (e doverosa) da parte degli organi dello Stato anche se, in tempi successivi, ne è stata dimostrata (non l'illegittimità ma) l'erroneità o l'ingiustizia (Cass. pen. n. 2050/2003, con riferimento alla riparazione ex art. 643 c.p.p.; Cass. pen., n. 20916/2005, con riferimento alla riparazione ex artt. 314 e ss.; orientamento consolidato: da ultimo, in senso conforme, Cass. pen. n. 7787/2016).

 

La Corte di cassazione ha avuto modo di precisare che non rientra tra le fattispecie genetiche del diritto all'equa riparazione per l'ingiusta detenzione il caso in cui taluno, legittimamente detenuto in espiazione di pena, soffra ulteriore limitazione della libertà a causa di ritardi nella procedura di applicazione di un decreto di indulto, posto che, in tale ipotesi, non sussiste il requisito del proscioglimento nel merito dall'accusa. Né detto istituto può essere esteso al caso in questione per effetto di interpretazione analogica, in quanto non sussistono gli estremi dell'eadem ratio, nell'un caso vertendosi in ipotesi di accertata innocenza, nell'altro di accertata responsabilità penale; tale caso non può essere sussunto neppure nell'istituto della riparazione dell'errore giudiziario, presupposto del quale è la pronunzia di sentenza (di revisione) che accerti la insussistenza della pretesa punitiva nei confronti del condannato (Cass. pen. n. 1367/1993).

I criteri di liquidazione del danno da errore giudiziario ed ingiusta detenzione

A differenza di quanto previsto dall'art. 571 dell'abrogato c.p.p. e dal vigente art. 314 c.p.p., l'attuale formulazione dell'art. 643 c.p.c. non contiene l'aggettivo «equa» quale criterio qualificante della riparazione. Autorevoli Autori, tuttavia, sostengono che la riparazione dell'errore giudiziario dia comunque luogo ad un giudizio di equità (Cordero, 721; Spangher, 1015, nota 7).

Altra dottrina, invece, in linea con le indicazioni fornite da importanti arresti della Corte di cassazione, ha ritenuto che tale dato testuale consentirebbe di abbandonare la strada della liquidazione meramente equitativa e di ricorrere a criteri di natura risarcitoria, i quali offrono parametri più oggettivi su cui calibrare la quantificazione del danno, consentendo di arginare i rischi di una eccessiva arbitrarietà nella liquidazione del quantum (Bonaccorsi, 274-275).

La riparazione non comporta anche la restituzione delle somme pagate dalla vittima dell'errore giudiziario a titolo di pena pecuniaria, in quanto tali somme sono rifuse al danneggiato direttamente in sede di giudizio di revisione e non possono, quindi, computarsi nel quantum risarcitorio (Bonaccorsi, 265, anche sub nota 13).

La consolidata giurisprudenza di legittimità, pur esprimendosi nel senso di una costante qualificazione dell'errore giudiziario in termini di atto lecito dannoso, ai fini della liquidazione del danno tende ad una crescente applicazione delle regole di origine aquiliana, in particolare mostrando una propensione alla personalizzazione dell'indennizzo (Cass. pen. n. 43978/2009; Cass. pen. n. 1546/2010; Cass. pen. n. 3371/2010).

Invero, già in occasione della nota vicenda che ha riguardato il caso Barillà, la Suprema Corte (Cass. pen. n. 2050/2003, in Danno e resp. 2005, 966, con nota di Ponzanelli) aveva posto alcuni punti fermi in tema di liquidazione dei danni per la riparazione dell'errore giudiziario, in particolare affermando che: 1) nel procedimento di liquidazione del danno il giudice può utilizzare sia il criterio risarcitorio, con riferimento ai danni patrimoniali e non patrimoniali, sia il criterio equitativo, limitandolo alle voci non esattamente quantificabili (conf. Cass. pen. n. 10878/2012); 2) il giudice è tenuto a risarcire, ricorrendone le condizioni, il danno biologico, quello morale nonché il danno esistenziale, trattandosi di differenti ed autonome categorie, tutte ricomprese nel danno non patrimoniale: 3) sono infatti risarcibili anche i danni non patrimoniali, tra cui il danno esistenziale, il cui fondamento è rintracciabile nell'art. 2059 c.c, consistente nel pregiudizio derivante dalla sottoposizione a processo, con una detenzione e una condanna ad una pena da espiare poi rivelatesi ingiuste, da cui conseguono la privazione della libertà personale, l'interruzione delle attività lavorative e di quelle ricreative, l'interruzione dei rapporti affettivi e di quelli interpersonali, il mutamento radicale peggiorativo e non voluto delle abitudini di vita; 4) nel procedimento per la quantificazione della riparazione dell'errore giudiziario ex artt. 643 e segg. c.p.p., non può applicarsi, in via analogica, la disposizione contenuta nell'art. 315 comma 2 c.p.p., che prevede la fissazione di un tetto massimo per l'entità dell'indennizzo da ingiusta detenzione, in quanto si tratta di una norma di carattere eccezionale, che si giustifica in relazione ad una situazione in cui il titolo privativo della libertà ha carattere provvisorio, soggetto a verifiche successive, ma che non può trovare spazio nel procedimento di riparazione dell'errore giudiziario, le cui conseguenze negative sono ben più gravi, perché provocate da una condanna non più soggetta ad impugnazione e in grado di rimuovere la presunzione di non colpevolezza (in senso conforme già Cass. pen. n. 532/1994).

La giurisprudenza successiva ha dato continuità a tale orientamento, ricordano che, se da un lato la costruzione giuridica dell'istituto in termini di indennizzo da atto lecito costringe il giudice ad utilizzare, prevalentemente se non esclusivamente, criteri equitativi per la liquidazione dell'indennizzo, dall'altro neppure è esclusa la possibilità di utilizzare anche i criteri normativi previsti per il risarcimento del danno. Peraltro, nel caso in cui il giudice utilizzi un criterio esclusivamente equitativo, con una liquidazione globale di tutte le conseguenze dell'errore giudiziario, egli deve esplicitare i criteri o parametri utilizzati che rendano la sua decisione logicamente motivata e trasparente, ancorché fondata esclusivamente sull'equità; qualora invece ritenga di utilizzare i criteri risarcitori, il giudice è comunque tenuto a procedere con il rispetto delle regole civilistiche applicabili al risarcimento del danno, ferma restando la possibilità di applicare criteri equitativi per la liquidazione delle voci di danno che non possano essere provate nel loro preciso ammontare. In conclusione, secondo la Suprema Corte, la liquidazione dell'indennizzo previsto a titolo di riparazione per l'ingiusta detenzione va disancorata da criteri o parametri rigidi (Cass. pen. n. 43978/2009, in motivazione).

Altre importanti sentenze, inoltre, hanno chiarito ulteriori principi fondamentali cui aver riguardo nella liquidazione dell'indennizzo, sia per ingiusta detenzione che per errori giudiziari ex art. 643 c.p.c.

In primo luogo, la liquidazione dell'indennizzo per la riparazione dell'ingiusta detenzione è svincolata da parametri aritmetici o comunque da criteri rigidi, e si deve basare su una valutazione equitativa che tenga globalmente conto non solo della durata della custodia cautelare, ma anche, e non marginalmente, delle conseguenze personali e familiari scaturite dalla privazione della libertà, e ciò sia per effetto dell'applicabilità, in tale materia, della disposizione di cui all'art. 643, comma 1 c.p.p., che commisura la riparazione dell'errore giudiziario alla durata dell'eventuale espiazione della pena ed alle conseguenze personali e familiari derivanti dalla condanna, sia in considerazione del valore «dinamico» che l'ordinamento costituzionale attribuisce alla libertà di ciascuno, dal quale deriva la doverosità di una valutazione equitativamente differenziata caso per caso degli effetti dell'ingiusta detenzione: in applicazione di detto principio la Corte ha confermato la legittimità della liquidazione dell'indennizzo per l'ingiusta detenzione effettuata tenendo conto, fra l'altro, della circostanza che l'imputato, privato della libertà, non fosse stato in grado di interessarsi personalmente alla sua azienda, e del fatto che, per cinque anni, non avesse potuto utilizzare la somma versata a titolo di cauzione al momento della concessione della libertà provvisoria (Cass. pen. S.U., n. 1/1995; conf. Cass. pen. n. 915/1995; Cass. pen. n. 2366/1996; Cass. pen. n. 1134/1997; Cass. pen. n. 40906/2009).

Pertanto, qualora la perdita della libertà, pur limitata nel tempo, abbia avuto effetti devastanti e le conseguenze personali e familiari abbiano assunto rilievo preponderante dovrà darsi prevalenza al criterio equitativo e non al mero criterio aritmetico (Cass. pen. n. 4311/2002).

Peraltro, trattandosi di criteri generali ed astratti, la loro valutazione da parte del giudice non può che essere elastica, ciò che, unitamente alla natura equitativa della medesima valutazione e al fondamento solidaristico dell'istituto, restringe i margini del sindacato di legittimità ai soli casi di liquidazione di un indennizzo completamente ed immotivatamente disancorato dall'elemento temporale: così, ad esempio, la Suprema Corte ha ritenuto che un indennizzo venticinque milioni, riconosciuto ad un primario ospedaliero per una carcerazione di ventisei giorni, non rispettava il principio di proporzionalità con la durata dell'ingiusta detenzione subita (Cass. pen. n. 3536/2000).

Ciò che distingue la riparazione per ingiusta detenzione da quella per errore giudiziario ex art. 643 c.p.p. è che, con riferimento alla prima, il giudice, pur procedendo ad una valutazione equitativa, è vincolato ad un tetto massimo, pari ad euro 516.456,90, stabilito dalla norma. Nel caso dell'errore giudiziario in senso stretto, invece, non vi sono limitazioni in questo senso, e la quantificazione della riparazione è, tendenzialmente, senza alcun limite, anche in ragione del fatto che all'ipotesi prevista dall'art. 643 c.p.p. non può applicarsi, in via analogica, la disposizione contenuta nell'art. 315 comma 2 c.p.p.., che prevede la fissazione del tetto massimo per l'entità dell'indennizzo da ingiusta detenzione, in quanto si tratta di una norma di carattere eccezionale, che si giustifica in relazione ad una situazione in cui il titolo privativo della libertà ha carattere provvisorio, soggetto a verifiche successive, ma che non può trovare spazio nel procedimento di riparazione dell'errore giudiziario, le cui conseguenze negative sono ben più gravi, perché provocate da una condanna non più soggetta ad impugnazione e in grado di rimuovere la presunzione di non colpevolezza (Cass. pen n. 2050/2004).

Nella liquidazione della riparazione per ingiusta detenzione, il parametro aritmetico, al quale riferire la quantificazione dell'indennizzo, è costituito dal rapporto tra il tetto massimo dell'indennizzo di cui all'art. 315, comma 2 c.p.p. e il termine massimo della custodia cautelare di cui all'art. 303, comma 4, lett. c), espresso in giorni, moltiplicato per il periodo, anch'esso espresso in giorni, di ingiusta restrizione subita, mentre il potere di valutazione equitativa attribuito al giudice per la soluzione del caso concreto non può mai comportare lo sfondamento del tetto massimo normativamente stabilito (Cass. S.U. pen. n. 24287/2001; conf. Cass. pen. n. 28334/2003; Cass. pen. n. 29965/2014). Resta fermo il principio secondo quale il parametro aritmetico individuato per determinare la somma dovuta per ogni giorno di detenzione sofferto costituisce solo una base di calcolo la quale può essere aumentata o diminuita con riguardo alle contingenze specifiche del caso concreto, purché non superi il tetto massimo normativamente stabilito (Cass. pen. n. 46772/2013; conf. Cass. pen. 23119/2008; Cass. pen. 34857/2011).

È stato inoltre precisato, con specifico riferimento al tema della riparazione dell'errore giudiziario, che è risarcibile anche il danno da «perdita di chance», consistente nella perdita di una concreta occasione favorevole al conseguimento di un bene determinato o di un risultato positivo, la quale costituisce una situazione soggettiva diversa rispetto a quella relativa al danno cagionato della mancata realizzazione del medesimo risultato, con la precisazione che deve trattarsi di un pregiudizio concreto e attuale e non ricollegato a un'ipotesi congetturale, ravvisabile nell'occasione concreta di ottenere un rapporto di lavoro o di partecipare con esito positivo a un concorso (Cass. pen. n. 24359/2006).

Inoltre, nella liquidazione della somma per la riparazione dell'errore giudiziario, il giudice deve tener conto, oltre che dei pregiudizi derivanti dalla espiazione della pena definitiva, anche di quelli conseguenti alla custodia cautelare subita nel corso del processo, nonché dei pregiudizi riconducibili al processo penale promosso nei confronti dell'istante e non soltanto di quelli riferibili alla ingiusta condanna. In applicazione di tale principio la Suprema Corte ha annullato l'ordinanza impugnata nella parte in cui il giudice di merito aveva ritenuto non risarcibili perché riferite al processo e non all'ingiusta condanna, le seguenti componenti del danno: le spese sostenute per ottenere il dissequestro di due immobili sottoposti a sequestro conservativo e l'estinzione delle procedure esecutive, trattandosi di procedure che, seppure avviate in precedenza, avevano trovato la loro conferma definitiva nella sentenza di condanna; il danno derivante dalla perdita di un'autovettura di proprietà del ricorrente sequestrata e confiscata; la perdita dei risparmi utilizzati per la cura della figlia e per le spese di costituzione di parte civile della medesima (ancora Cass. pen. n. 24359/2006; conforme Cass. pen. n. 26739/2011).

È stato altresì ribadito che, nella liquidazione della somma per la riparazione dell'errore giudiziario, deve tenersi conto di tutte le peculiari sfaccettature di cui il danno non patrimoniale si compone nella sua globalità, avendo in particolare riguardo all'interruzione della attività lavorative e ricreative, dei rapporti affettivi e degli altri rapporti interpersonali, ed al mutamento radicale, peggiorativo e non voluto, delle abitudini di vita (Cass. pen. n. 22688/2009).

Sotto diverso profilo, va ricordato che, ai fini del riconoscimento di un indennizzo per riparazione dell'errore giudiziario, l'ordinamento concede al giudice la facoltà di liquidare una somma di denaro o di costituire una rendita vitalizia, oltre a quella, su richiesta della parte interessata, di disporne il ricovero in un istituto a spese dello Stato: le due forme sono tra loro alternative e non cumulabili e deve pertanto ritenersi erroneo il provvedimento che abbia riconosciuto e quantificato il diritto ad entrambe (Cass. pen. n. 1114/1996; conf. Cass. pen. n. 10878/2012).

Dolo e colpa grave quali cause ostative all'insorgenza del diritto alla riparazione

Il dolo e la colpa grave della vittima dell'errore, previsti come cause ostative al riconoscimento della riparazione sia dall'art. 314 che dall'art. 643 c.p.p., devono essere valutati secondo i normali parametri del diritto civile (Bonaccorsi, 265, nota 11). Il dolo, infatti, non può essere riferito al diritto penale ma soltanto alla teoria generale del negozio giuridico e, pertanto, tale nozione indica qualunque comportamento, anche omissivo, volto, con artifici e raggiri, ad ingannare. La colpa grave, a sua volta, è la negligenza particolarmente grave, l'incuria più grossolana (Leone, 7).

Per quel che riguarda la condotta del danneggiato, si è osservato in dottrina che rileva non solo il comportamento tenuto dal condannato nel periodo antecedente alle indagini ed all'arresto, ma anche la condotta mantenuta durante tutto il corso del procedimento, connotata da noncuranza, negligenza, incuria, indifferenza per quanto dai propria atti possa derivare sul piano penale... sì che la sopravvenuta sentenza penale di condanna possa ritenersi evento prevedibile dalla generalità delle persone di ordinaria esperienza. Peraltro, il concorso della colpa grave del danneggiato non preclude tout court il diritto alla riparazione ex art. 643 c.p.p., ma costituisce un elemento da valutare ai fini di stabilire il quantum da rifondere alla vittima, secondo una regola del concorso di colpa (art. 1227 c.c.) tipica della responsabilità civile (Bonaccorsi, 266, anche sub nota 18).

Nello stesso senso, si è affermato che, affinché il diritto alla riparazione dell'errore giudiziario ex art. 643 c.p.p. possa ritenersi escluso, è necessario che la condotta del condannato abbia determinato in via esclusiva l'errore giudiziario, non potendo tale condizione ostativa operare in caso di concorso causale. Diversamente da quanto previsto dall'art. 571 c.p.p. abrogato, infatti, il concorso del condannato nella causazione dell'errore in questione, non osta al conseguimento della riparazione, pur non essendo privo di rilevanza in relazione alla quantificazione dello stessa.

Si è anche opportunamente sottolineato il diverso il rilievo dato alla colpa grave dall'art. 643 c.p.p. rispetto alla analoga previsione contenuta nell'art. 314 c.p.p., posto che solo quest'ultima esclude il diritto alla riparazione anche nel caso di mero concorso di colpa del danneggiato (Vassallo, 1112).

In linea con gli orientamenti della dottrina, la giurisprudenza ritiene integrata la colpa grave ostativa al diritto alla riparazione nel caso in cui l'interessato tenga nel corso del processo una condotta caratterizzata da incuria o indifferenza, senza fornire tempestivamente all'autorità giudiziaria elementi a sua disposizione utili per evitare l'errore: tale ipotesi è stata ravvisata nel comportamento di un condannato che non aveva sottoposto ai giudici dei vari gradi del processo, gli argomenti difensivi poi risultati idonei a determinare la sua assoluzione nel giudizio di revisione (Cass. pen. n. 15725/2009).

Non rientrano, invece, nella nozione di colpa grave causativa dell'errore giudiziario, e pertanto impeditiva del correlato diritto alla riparazione, le inefficienze e gli errori della difesa tecnica (nella specie, la mancata richiesta, nel giudizio d'appello, di prova poi risultata determinante ai fini della revisione), che non siano riconducibili direttamente alla condotta dell'imputato (Cass. pen. n. 13739/2011).

Nella quantificazione del risarcimento spettante a titolo di riparazione dell'errore giudiziario il giudice deve verificare se ed in quale misura le conseguenze pregiudizievoli per il richiedente siano state in qualche modo determinate dall'inerzia dell'interessato nel tutelare in sede civile i propri diritti e tenerne conto nella liquidazione del risarcimento: in applicazioni di tale principio la Suprema Corte ha ritenuto ingiustificato il riconoscimento di un elevato risarcimento al condannato, poi prosciolto in sede di revisione, che aveva perso il posto di lavoro, in quanto doveva tenersi conto che lo stesso aveva trascurato un giudizio pendente avanti al Pretore del lavoro, instaurato in opposizione al licenziamento intimatogli per ragioni diverse da quelle per le quali era stato poi condannato, che si era quindi estinto per la sua inerzia, ed aveva altresì omesso di utilizzare gli altri strumenti di tutela dei propri interessi di cui disponeva (Cass. pen. n. 1114/1996).

Si è inoltre precisato, con precipuo riferimento ad una ipotesi di riparazione per l'ingiusta detenzione, che l'aver dato o concorso a dare causa alla custodia cautelare per dolo o colpa grave non opera, quale condizione ostativa al riconoscimento del diritto, qualora l'accertamento della insussistenza «ab origine» delle condizioni di applicabilità della misura avvenga sulla base di una diversa valutazione dei medesimi elementi trasmessi al giudice che ha emesso il provvedimento cautelare, pur precisandosi che in tale ipotesi, il giudice della riparazione è tenuto a valutare, al diverso fine della eventuale riduzione dell'entità dell'indennizzo, anche la condotta colposa lieve. (Cass. pen, n. 34541/2016).

Ove, invece, non ricorra tale ipotesi, la circostanza di avere dato o concorso a dare causa alla custodia cautelare per dolo o colpa grave opera, quale condizione ostativa al riconoscimento del diritto all'equa riparazione per ingiusta detenzione, anche in relazione alle misure venute meno per effetto di una sentenza assolutoria (Cass. pen. n. 51726/2013).

Ancora con riferimento al giudizio di cui all'art. 314 c.p.p., si è affermato che il giudice, ai fini dell'accertamento dell'eventuale colpa grave ostativa al riconoscimento del diritto alla riparazione per l'ingiusta detenzione, può valutare il comportamento silenzioso o mendace, legittimamente tenuto nel procedimento penale dall'imputato, per escludere il suo diritto all'equo indennizzo (Cass. pen. n. 11423/2008; conf. Cass. pen. n. 15140/2008; Cass. pen. n. 40291/2008).

In senso difforme, si è però affermato che il silenzio tenuto dall'indagato (o imputato) non è sindacabile, a meno che sia possibile affermare che egli fosse in grado di fornire una logica spiegazione al fine di eliminare il valore indiziante di elementi acquisiti nel corso delle indagini, in quanto solo in questo caso il mancato esercizio di una facoltà difensiva, quanto meno sub specie di allegazione di fatti favorevoli, vale a far ritenere sussistente una condotta omissiva concorrente al mantenimento della custodia cautelare (Cass. pen., n. 47047/2008), in particolare quando l'interessato non abbia riferito circostanze, ignote agli inquirenti, utili ad attribuire un diverso significato agli elementi posti a fondamento del provvedimento cautelare (Cass. pen., n. 47041/2008; Cass. pen n. 29967/2014; Cass. pen. n. 46423/2015; Cass. pen. n. 25252/2016).

La Corte ha tuttavia precisato che non può ritenersi determinante, a tal fine, la mancata negazione della veridicità di dichiarazioni accusatorie conseguente alla scelta di avvalersi della facoltà di non rispondere in sede di interrogatorio (Cass. pen. n. 44090/2011).

Con altra pronuncia si è precisato che il silenzio, la reticenza e il mendacio dell'indagato in sede di interrogatorio, pur costituendo esercizio del diritto di difesa, possono rilevare sotto il profilo del dolo o della colpa grave nel caso in cui egli sia in grado di indicare specifiche circostanze, non note all'organo inquirente, idonee a prospettare una logica spiegazione al fine di escludere o caducare il valore indiziante degli elementi acquisiti in sede investigativa, che determinarono l'emissione del provvedimento cautelare (Cass. pen. n. 4159/2009).

In senso ancora parzialmente difforme si colloca quell'orientamento secondo il quale non può attribuirsi rilievo ex se al silenzio serbato nel corso dell'interrogatorio, tenuto conto dell'insindacabile diritto al silenzio attribuito alla persona sottoposta alle indagini e all'imputato, e però il mancato esercizio di una facoltà difensiva da parte dell'interessato, che si risolva nell'omessa allegazione di fatti risolutivamente favorevoli a lui noti, pur non potendo essere da solo posto a fondamento del giudizio di sussistenza della colpa grave, può però valere a far ritenere l'esistenza di un comportamento omissivo causalmente efficiente nel permanere dell'indebita detenzione, del quale può tenersi conto nella valutazione globale della condotta in presenza d'altri elementi di colpa (Cass. pen. n. 26686/2008; conf. Cass. pen. 43309/2008; Cass. pen. n. 7296/2011).

In un peculiare caso in cui il giudice della cognizione aveva successivamente accertato che l'imputato non era imputabile per vizio di mente, pur avendo conservato in parte la sola capacità di intendere la Suprema Corte ha avuto modo di affermare che non integra gli estremi della colpa grave ostativa al diritto all'indennizzo per l'ingiusta detenzione il comportamento del soggetto (presente in giudizio) che, essendo affetto da vizio di mente, non lo abbia rappresentato al giudice. (Cass. pen. n. 14452/2009).

È stato invece ritenuto idoneo ad integrare gli estremi della colpa grave ostativa al diritto all'indennizzo il comportamento del proprietario di una cantina, dove era stata rinvenuta della sostanza stupefacente, che aveva consentito ad altri di utilizzare la cantina, pur essendo consapevole trattarsi di persone dedite allo spaccio di droga. (Cass. pen. n. 11797/2009).

Nel caso di reati contestati in concorso, integra gli estremi della colpa grave ostativa al riconoscimento del diritto alla riparazione per ingiusta detenzione, la condotta di chi abbia tenuto, pur consapevole dell'attività criminale altrui, comportamenti percepibili come indicativi di una sua contiguità (Cass. pen. n. 45418/2010; conf. Cass. pen. n. 37528/2008; Cass. pen. n. 268/1998; Cass. pen. n. 598/194).

Il diritto alla riparazione in caso di morte dell'avente diritto

L'art. 644 c.p.p. prevede che la riparazione pecuniaria, in caso di morte del condannato, anche se avvenuta prima del giudizio di revisione, spetti ai familiari, specificamente individuati dalla medesima norma nelle persone del coniuge, degli ascendenti, dei discendenti, dei fratelli e sorelle, degli affini entro il primo grado e delle persone legate da vincolo di adozione. In tali casi la revisione potrà essere chiesta dagli eredi o da un prossimo congiunto ex art. 632 c.p.p.. Si ritiene che il convivente more uxorio non rientri tra i soggetti aventi diritto alla riparazione, e ciò in ragione della tassatività dell'elencazione contenuta nella disposizione di cui si discorre: in dottrina, tuttavia, è stata sottolineata l'incongruenza di una tale esclusione, in ragione della possibilità, anche per il convivente more uxorio, di proporre la richiesta di revisione nel caso in cui egli sia erede del condannato deceduto in virtù di disposizione testamentaria (Bonilini, 312).

Il diritto alla riparazione riconosciuto ai soggetti indicati dall'art. 644 c.p.p. non è considerato riconducibile alla materia successoria (Spangher, 1020; Scomparin, 324).

La disciplina della riparazione in favore dei familiari dell'avente diritto, in caso di morte di quest'ultimo, è parimenti invocabile sia nei casi di errori giudiziari strictu sensu intesi, che nelle ipotesi di ingiusta detenzione. Le Sezioni Unite della Suprema Corte, infatti, hanno ritenuto l'applicabilità della norma di cui all'art. 644 c.p.p., che disciplina la riparazione dell'errore giudiziario in caso di morte del condannato, anche alla riparazione per l'ingiusta detenzione, sul rilievo della piena compatibilità delle due ipotesi, atteso che gli effetti pregiudizievoli dell'ingiusta detenzione, così come quelli dell'errore giudiziario, sono naturalmente destinati a propagarsi nell'ambito familiare, legittimando, nel caso di morte della persona che ha subito l'ingiusto provvedimento, la pretesa riparatoria dei congiunti. Ciò in quanto, hanno precisato i giudici di legittimità, il rinvio, contenuto nell'art. 315, comma 3, c.p.p. in tema di riparazione per l'ingiusta detenzione, all'applicazione delle norme sulla riparazione dell'errore giudiziario, non è limitato, ancorché la rubrica dell'articolo si riferisca al procedimento, alle sole norme procedimentali, ma riguarda tutte le disposizioni in tema di errore giudiziario, con l'unico limite della compatibilità (Cass. pen. S.U. n. 28/1995; conf. Cass. pen. n. 2825/2000; Cass. pen. n. 1932/2005).

Secondo la Suprema Corte, l'indennizzo spetta, in ipotesi di morte dell'istante, iure proprio, e non iure hereditario alle persone indicate nell'art. 644 comma 1, c.p.p. (Cass. pen. 22502/2007; conf. Cass. pen. n. 23913/2008).

Tuttavia, i giudici di legittimità hanno precisato che i prossimi congiunti del «de cuius», pur essendo legittimati in proprio e non iure hereditario a presentare la relativa istanza, possono far valere in giudizio il danno subito dal defunto; ne consegue che i congiunti subentrati non hanno l'onere di provare il pregiudizio subito nella propria sfera a causa dell'ingiusta detenzione del congiunto, in quanto essi subentrano nel diritto all'indennità dovuta a quest'ultimo e non già ad una nuova e diversa indennità commisurata alle ripercussioni di detta ingiusta detenzione nella propria sfera personale. (Cass. pen. n. 76/2013; conf. Cass. pen. n. 20916/2005).

L'indennizzo spettante, in ipotesi di morte dell'avente diritto, ai prossimi congiunti elencati nell'art. 644, comma 1 c.p.p., deve dunque essere commisurato nel suo complesso al pregiudizio sofferto dalla persona defunta, mentre l'ammontare così determinato deve essere ripartito equitativamente dal giudice in ragione delle conseguenze derivate dall'errore a ciascuna persona (Cass. pen. n. 5637/2013).

Diversa questione è quella, di carattere squisitamente processuale, attinente alla prosecuzione da parte degli eredi di un giudizio di equa riparazione per ingiusta detenzione (o di riparazione di un errore giudiziario, ponendosi in entrambe le ipotesi i medesimi problemi interpretativi) ritualmente instaurato dal de cuius ingiustamente detenuto. In proposito, la Corte di legittimità ha avuto modo di chiarire che gli eredi dell'autore della domanda di riparazione per l'ingiusta detenzione sono legittimati a proseguire il giudizio in caso di decesso dell'interessato nelle more del giudizio, trovando applicazione, dato il carattere economico del «petitum», la disciplina processualcivilistica, che ricollega l'estinzione del processo non alla morte della parte ma alla mancata prosecuzione o riassunzione in termini dello stesso da parte dei successori aventi diritto (Cass. pen n. 268/1998).

Bibliografia

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