Legge - 13/04/1988 - n. 117 art. 1 - Ambito di applicazione.

Paola D'Ovidio

Ambito di applicazione.

1. Le disposizioni della presente legge si applicano a tutti gli appartenenti alle magistrature ordinaria, amministrativa, contabile, militare e speciali, che esercitano l'attività giudiziaria, indipendentemente dalla natura delle funzioni, nonché agli estranei che partecipano all'esercizio della funzione giudiziaria.

2. Le disposizioni di cui al comma 1 si applicano anche ai magistrati che esercitano le proprie funzioni in organi collegiali.

3. Nelle disposizioni che seguono il termine "magistrato" comprende tutti i soggetti indicati nei commi 1 e 2.

Inquadramento

L'art. 1 della l. n. 117/1988 (c.d. Legge Vassalli), non modificato dalla novella di cui alla l. n. 18/2015, estende l'applicabilità delle norme dettate dalla medesima legge a tutti gli appartenenti alle magistrature, amministrativa, contabile, militare e speciali, che esercitano l'attività giudiziaria, indipendentemente dalla natura delle funzioni, nonché agli estranei che partecipano all'esercizio della funzione giudiziaria.

Tale disposizione deve essere letta alla luce della complessiva disciplina disegnata dalla l. n. 117/1988 che, ispirandosi al modello del c.d. «doppio binario», ha segnato il momento del passaggio dalla responsabilità del giudice alla responsabilità dello Stato-giudice.

Viene infatti prevista la autonomia della responsabilità dello Stato rispetto a quella del magistrato, in forza della quale il privato danneggiato dallo svolgimento di attività giurisdizionali può agire nei soli confronti dello Stato; quest'ultimo, a sua volta, ove abbia provveduto a risarcire il danno sulla base di un titolo giudiziale o stragiudiziale, è legittimato all'azione di rivalsa verso il magistrato (art. 7, l. 117/1988): per i danni derivanti dall'esercizio di attività giudiziaria posta in essere dai soggetti indicati dalla norma in esame, dunque, la responsabilità diretta grava esclusivamente sullo Stato (salva l'ipotesi del fatto costituente reato), unico soggetto nei confronti del quale il danneggiato può agire in giudizio, ma, in caso di condanna, lo Stato può rivalersi, a determinate condizioni, sul magistrato.

In tale quadro, l'art. 1, assume, quindi, una duplice valenza: quella di indicare i soggetti in relazione ai quali opera la responsabilità diretta ed esclusiva dello Stato nei confronti del danneggiato, nonché quella di individuare, nei medesimi soggetti, i destinatari delle norme sostanziali e processuali che disciplinano le successive azioni di rivalsa (artt. 7 e 8) o di regresso (art. 13), sui quali grava conseguentemente una responsabilità c.d. indiretta (salva l'ipotesi del fatto costituente reato, disciplinata dall'art. 13 cit., in cui è prevista la responsabilità diretta e concorrente del magistrato e dello Stato).

La distinzione, operata dall'art. 1 in discorso tra appartenenti alle diverse magistrature ed «estranei», ricalca la previsione di cui all'art. 102 Cost., intendendo così comprendere, da un lato, i magistrati istituiti e regolati dalle norme sull'ordinamento giudiziario, ossia coloro che esercitano la funzione giurisdizionale in modo continuativo, senza che rilevi la sussistenza di un rapporto d'impiego pubblico ovvero l'esercizio onorario e temporaneo delle funzioni giurisdizionali, e, dall'altro, coloro che sono semplicemente chiamati a svolgere determinate funzioni giurisdizionali, quali membri di organi collegiali specializzati, ovvero come cittadini.

Pertanto, il riferimento agli appartenenti alle diverse magistrature deve intendersi volto a comprendere, in particolare per la magistratura ordinaria, tutti i magistrati appartenenti all'ordine giudiziario e, di conseguenza, anche quelli onorari, tra cui, specificamente, i giudici di pace, i giudici onorari di tribunale ed i vice procuratori onorari.

Sotto diverso profilo, una ulteriore questione interpretativa posta dalla norma in esame, con riguardo agli appartenenti di tutte le magistrature, attiene alla possibilità di ricomprendere o meno nel concetto di «attività giudiziaria» anche le funzioni consultive svolte dai magistrati del Consiglio di Stato e quelle di controllo svolte dai magistrati della Corte dei Conti.

Invero, in tali casi l'applicabilità della speciale disciplina dettata dalla l. n. 117/1988 deve ritenersi esclusa dall'art. 1, trattandosi di attività non giudiziaria che, dunque, non può dar luogo a responsabilità derivante dall'esercizio di «funzioni giudiziarie», alle quali invece si riferisce testualmente anche il titolo della legge Vassalli.

A diversa conclusione dovrebbe pervenirsi con riferimento all'attività dei giudici del Consiglio di Stato che partecipano alla pronuncia sul ricorso straordinario al Capo dello Stato, in ragione del processo di giurisdizionalizzazione che, secondo la prevalente giurisprudenza, ha caratterizzato tale rimedio.

Per quanto riguarda, invece, il novero dei c.d. «estranei» che partecipano all'esercizio della funzione giudiziaria, in esso rientrano i soggetti che, pur non appartenendo alla magistratura professionale, concorrono a formare o formano alcuni organi giudiziari collegiali, quali le sezioni specializzate agrarie, gli organi giudiziari minorili, i tribunali delle acque pubbliche, nonché i giudici popolari, ossia quelli chiamati temporaneamente a comporre le Corti d'Assise.

Il secondo comma dell'art. 1 include nell'area di operatività della disciplina di cui alla legge n. 117 del 1988 anche la responsabilità dei magistrati che esercitano le proprie funzioni «in organi collegiali», indipendentemente dal titolo della loro partecipazione, ma deve ritenersi che rimangano salve le disposizioni particolari ulteriormente previste per gli «estranei».

La distinzione tra appartenenti all'ordine giudiziario e c.d. «estranei» rileva, infatti, ai fini della rivalsa, in quanto la legge ha diversificato i casi nei quali tali soggetti sono chiamati a rispondere del loro operato nei confronti dello Stato, limitando la responsabilità dei giudici popolari soltanto ai casi di dolo, e quella degli altri «estranei» alle sole ipotesi di dolo o negligenza inescusabile per travisamento del fatto o delle prove (art. 7, comma 3, l. n. 117/1988 come modificato dalla novella del 2015: prima di tale modifica gli «estranei» diversi dai giudici popolari, rispondevano in caso di dolo o di errore di fatto c.d. revocatorio).

Ambito di applicazione soggettiva

La giurisprudenza ha in diverse occasioni chiarito che l'art. 1, comma 1, della l. n. 117/1988, nell'estendere le previsioni dettate in tema di responsabilità civile dei magistrati agli «estranei che partecipano all'esercizio della funzione giudiziaria», intende per tali unicamente coloro che, pur non appartenendo all'ordine giudiziario, svolgano nei casi previsti dalla legge funzioni proprie del magistrato giudicante o requirente, sicché tra tali soggetti non rientra il curatore fallimentare, al quale pertanto sono inapplicabili le disposizioni della suddetta legge n. 117 del 1988, poiché egli esercita solo una funzione pubblica nell'interesse della giustizia ma non anche una funzione propriamente giudiziaria nell'accezione individuata nella stessa legge speciale (Cass. n. 11229/2008). In altri termini, i c.d. estranei sono soltanto coloro che esercitano funzioni giudiziarie, sia inquirenti che giudicanti, in senso tipico, pur non essendo parte dell'ordine giudiziario, come nel caso dei giudici onorari o componenti non togati delle corti di assise. Conseguentemente, tra detti «estranei» non rientra neppure l'appartenente alla polizia giudiziaria, il quale non esercita una funzione giudiziaria nel senso innanzi evidenziato, pur svolgendo un'attività di supporto ad essa. (Cass. n. 18170/2010).

Parimenti, deve essere escluso dal novero degli «estranei» il consulente tecnico d'ufficio, in quanto tale soggetto svolge, nell'interesse della giustizia, funzioni ausiliarie del giudice di natura non giurisdizionale: ne deriva che egli risponderà del suo operato in forza delle regole generali in materia di responsabilità (art. 64 c.p.c. e art. 2043 c.c.), risultando obbligato a risarcire i danni cagionati in violazione dei doveri connessi all'ufficio senza che sia ipotizzabile una concorrente responsabilità del Ministero della giustizia.

Così anche l'esperto nominato dal giudice per la stima del bene pignorato, il quale, essendo equiparabile, una volta assunto l'incarico, al consulente tecnico d'ufficio, è soggetto al medesimo regime di responsabilità ex art. 64 c.p.c., senza che rilevi il carattere facoltativo della sua nomina da parte del giudice e l'inerenza dell'attività svolta ad una fase solo prodromica alla procedura esecutiva (Cass. n. 18313/2015).

In linea con tale giurisprudenza, si è affermato che devono ritenersi esclusi dalla disciplina della legge n. 117 del 1988 tutti coloro che collaborano con l'autorità giudiziaria ma non svolgono le stesse funzioni del magistrato, e ciò sia che si tratti di organi estranei all'amministrazione della giustizia (quali gli ausiliari), sia che si tratti di figure intranee all'organizzazione giudiziaria (es. cancelliere, ufficiale giudiziario, segretario del pubblico ministero, ecc.), ovvero di organi che forniscono un «servizio giudiziario» in adempimento dei loro fini istituzionali (es. forza pubblica, polizia giudiziaria, amministrazione postale, ecc.).

Tali soggetti, dunque, risponderanno del loro operato in forza delle regole generali in materia di responsabilità (D'Ovidio, 46).

Per quanto riguarda gli appartenenti alla diverse magistrature, devono ritenersi escluse dall'ambito di applicabilità della speciale disciplina sulla responsabilità civile dei magistrati le funzioni consultive svolte istituzionalmente dai magistrati del Consiglio di Stato nonché, analogamente, le funzioni di controllo svolte dai magistrati della Corte dei Conti, in quanto non costituiscono espressione di un esercizio di «attività giudiziarie», mentre sembrerebbe rientrarvi l'attività dei giudici del Consiglio di Stato che partecipano alla pronuncia sul ricorso straordinario al Capo dello Stato, stante la c.d. giurisdizionalizzazione di tale ricorso (D'Ovidio, 116).

Ai fini della applicabilità della legge n. 117 del 1988 ai giudici del Consiglio di Stato che partecipano alla pronuncia sul ricorso straordinario al Capo dello Stato, il prevalente orientamento giurisprudenziale riconduce tale attività tra quelle tipicamente giudiziarie, sul rilievo che la decisione del ricorso straordinario è una decisione di giustizia che presuppone la giurisdizione del giudice amministrativo. La peculiarità che la decisione del ricorso straordinario abbia il contenuto del parere vincolante del Consiglio di Stato e solo la forma del decreto del Presidente della Repubblica, secondo la Corte di cassazione, non è di ostacolo a riferire la decisione stessa al Consiglio di Stato e a riconoscerle lo statuto tipico delle decisioni di quest'ultimo (Cass. S.U., n. 23464/2012; conforme Cass. S.U., n. 2056/2013 e Cass. S.U., n. 1041/2014; Cass. S.U., n. 19786/2015).

Nello stesso senso si è pronunciata l'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, la quale, componendo un contrasto interno alla giurisprudenza amministrativa, ha ritenuto la natura sostanzialmente giurisdizionale del rimedio di cui si discorre e dell'atto terminale della relativa procedura, precisando che non ostano a tale riconoscimento le persistenti peculiarità che il ricorso straordinario presenta rispetto all'ordinario processo amministrativo, con precipuo riferimento al perimetro delle azioni esperibili, alle forme di esplicazione del contraddittorio, alle modalità di svolgimento dell'istruttoria e al novero dei mezzi di prova acquisibili (Cons. St., Ad. plen., n. 9/2013).

In senso contrario il parere delle sezioni consultive del Consiglio di Stato (Cons. St. I e II riun., n. 2131/2012, in Foro it., 2012, III, 525, con nota di D'Angelo; Cons. St. I, n. 1033/2014).

Autorevole dottrina si è tuttavia espressa a favore della natura amministrativa, e non giurisdizionale, del ricorso straordinario, affermando che le caratteristiche di tale rimedio, come delineate dal d.P.R. 24 novembre 1971 n. 1199, non risulterebbero modificate né dalla l. 18 giugno 2009 n. 69, né dal codice del processo amministrativo (Scoca, 2374; Travi, 2013, 483).

La responsabilità del magistrato può essere unipersonale o collegiale, come si desume dal secondo comma dell'art. 1, che dichiara espressamente applicabile la previsione del primo comma anche ai magistrati che esercitano le proprie funzioni in organi collegiali: in tale ultima evenienza rispondono tutti i componenti autori dell'unitaria decisione, anche se andrà valutata, ai fini del contributo causale e psicologico, l'eventuale (facoltativa, dopo la sentenza della Corte cost. n. 18/1989) dissenting opinion formalizzata ai sensi del successivo art. 16, della n. 117/1988.

La legittimità costituzionale dell'art. 1, comma 2, l. n. 117/1988 e dell'art. 113 c.p.c. nella parte in cui stabiliscono una responsabilità solidale fra tutti i componenti degli organi giudiziari collegiali, ha superato il vaglio della Consulta (Corte cost. n. 18/1989, cit.).

In proposito il Giudice delle leggi ha osservato che la decisione emessa dall'organo giudiziario collegiale, nel nostro ordinamento, tanto in materia civile che penale, è un atto unitario, alla formazione del quale concorrono i singoli membri del collegio, in base allo stesso titolo ed agli stessi doveri. Alla stregua delle regole che caratterizzano il processo, infatti, la decisione, sia essa sentenza, ordinanza o decreto, non rappresenta la somma di distinte volontà e convincimenti dei membri del collegio, ma la loro sintesi, operata secondo la regola maggioritaria, la quale rende la decisione impersonale e imputabile al collegio nel suo insieme.

Per quanto concerne il processo civile, sul quale in particolare si sofferma la sentenza citata, la Consulta ricorda come il meccanismo della votazione comporta che la decisione possa essere, per il formarsi di maggioranze diverse sulle varie questioni, diversa da quella che ciascuno dei membri del collegio avrebbe adottato se fosse stato giudice monocratico, ma la motivazione della sentenza (art. 132 c.p.c.) consiste nella esposizione dei motivi di fatto e di diritto «della decisione», senza che abbiano rilievo e necessità di menzione eventuali opinioni dissenzienti, tanto in relazione alle singole questioni che al decisum, né la circostanza che essa sia estesa dal relatore o, in caso di suo dissenso, dal presidente o da altro giudice che abbia espresso voto conforme alla decisione (artt. 276 c.p.c.; 118 e 119 disp. att. c.p.c.), differenzia la posizione di questi da quella degli altri membri del collegio.

Con specifico riferimento alla funzione del relatore, la Consulta rileva che essa è, sì, caratterizzata da un'attività ulteriore rispetto a quella degli altri membri del collegio, costituita dal dovere di fare la relazione della causa, ma nessuna delle norme che regolano il giudizio collegiale, riserva a lui la disponibilità degli atti di causa e l'esame di essi ai fini del decidere.

In tale contesto normativo, l'avere attribuito, in linea di principio, come il legislatore ha fatto, pari responsabilità ai membri del collegio, per le decisioni prese erroneamente, nelle ipotesi qualificate dall'art. 2 come fattispecie di «colpa grave», non appare affatto in contrasto né con l'art. 3, né con l'art. 28 della Costituzione: infatti, la pari responsabilità è correlata alla parità di doveri di ciascun membro del collegio, sulla quale non incide il compito specifico del relatore di fare la relazione al collegio, ed alla struttura unitaria della motivazione e del decisum degli organi giudiziari collegiali.

Tali principi sono stati successivamente ribaditi dalla stessa Corte costituzionale, la quale ha confermato la legittimità costituzionale degli artt. 1, comma secondo, 2 e 16 della l. n. 117 del 1988, nelle parti in cui prevedono una responsabilità solidale fra tutti i componenti degli organi giudiziari collegiali, ribadendo che la decisione di tali organi è atto unitario, alla formazione del quale i singoli membri del collegio concorrono in posizione di parità.

La questione all'esame della Corte costituzionale, rimessa con ordinanza in data 31 marzo 1989 della Corte d'appello di Roma, riguardava di legittimità costituzionale dell'art. 132, comma 3, c.p.c., nella parte in cui prevede che la sentenza emessa dal giudice collegiale è sottoscritta «soltanto dal presidente e dal giudice estensore»: secondo il giudice a quo, infatti, tale disposizione risultava in contrasto con gli artt. 3 e 28 Cost., in quanto tutti i componenti del collegio sono civilmente responsabili in base alla legge 13 aprile 1988, n. 117, mentre l'omessa previsione della sottoscrizione della sentenza da parte di tutti i componenti ostacolerebbe la possibilità di conoscere la motivazione per il membro del collegio per il quale non è prevista la sottoscrizione, con la conseguente lesione del principio di uguaglianza e la configurazione di una forma di responsabilità oggettiva.

Nel ritenere infondata la questione, la Consulta osservava che la norma impugnata non influisce sulla struttura della decisione collegiale e sul contributo dei singoli membri, né ostacola la cognizione, da parte di tutti i componenti del collegio, del testo della sentenza, poiché anche il componente che non la sottoscrive, ha il diritto-dovere e la possibilità di controllare, prima del deposito, la corrispondenza al decisum, tanto del dispositivo che della motivazione (Corte cost. n. 179/1990).

... e oggettiva.

Ai sensi e nel vigore degli artt. 55 e 74 c.p.c., poi abrogati a seguito del referendum del 1987 (con effetti dal 7 aprile 1988 ex art. 2 l. n. 332/1987), la disciplina della responsabilità atteneva, in generale, a tutta indistintamente «l'attività giudiziaria» del magistrato (giudice o pubblico ministero) e non soltanto alle sue «attività giurisdizionali».

Conseguentemente, tale disciplina regolamentava non soltanto l'attività connessa all'esercizio di attribuzioni decisorie, ma qualunque attività svolta dal magistrato nel campo giudiziario, a prescindere dalla natura delle funzioni esercitate (giudicante, requirente, inquirente) o dell'attività concretamente svolta nell'esercizio di tali funzioni: ossia, tanto giurisdizionale di cognizione od esecutiva, quanto di volontaria giurisdizione, o, addirittura, amministrativa, quale, ad esempio, quella del giudice delegato alle procedure concorsuali relativa alla direzione ed al controllo dello sviluppo del procedimento, e, talora, anche alla loro gestione attiva, ovvero quella del giudice per i comportamenti posti in essere nell'ambito della sua attività strumentale alla conservazione ed alla manutenzione di un bene sequestrato per il procedimento penale (Cass. n. 11860/1997).

Tali principi non risultano modificati dall'entrata in vigore della legge Vassalli.

Presupposto applicativo dell'art. 1, e quindi dell'intera legge n. 117 del 1988, infatti, non è l'espletamento di funzioni giurisdizionali in senso stretto, bensì l'esercizio in generale di funzioni giudiziarie, con estensione dell'ambito di operatività della disciplina oltre l'attività eminentemente decisoria. Ne consegue che è irrilevante, ai fini risarcitori, l'indagine sulla sussistenza o meno di un vincolo di necessaria occasionalità con l'esercizio della funzione giurisdizionale in senso stretto, potendosi configurare, come desumibile dall'art. 4, comma 2, della legge n. 117 del 1988, che regola anche l'ipotesi in cui non siano previsti rimedi processuali avverso i provvedimenti decisori, un'azione di responsabilità per un fatto che tragga origine esclusivamente da un comportamento o da un atto del magistrato (Cass. n. 41/2014, in Danno e resp., 2015, 15, con nota di Angeletti).

Ciò, peraltro, risponde alla logica ispiratrice della norma, che è concepita tenendo presente che la responsabilità civile dei magistrati può sorgere anche dal compimento di un singolo atto, il quale può essere conclusivo del procedimento davanti al giudice che lo emette (caso classico, la sentenza definitiva), ma può anche avere una valenza solo endoprocedimentale, ossia finalizzata al progredire del giudizio verso la sua naturale conclusione, come ben si evince da alcune pronunce della Corte di cassazione (Cass. n. 76/2001; Cass. n. 18329/2002) nelle quali il provvedimento asseritamente fonte di responsabilità civile riguardava la libertà personale (Cass. n. 4446/2015).

In ogni caso, deve trattarsi di un atto o comportamento posto in essere nell'esercizio della funzione.

La Suprema Corte, invero, ha ritenuto non riconducibile all'esercizio delle funzioni la condotta di un magistrato che, nel corso di una riunione convocata dal capo dell'ufficio, alla quale partecipavano altri magistrati ed avvocati, aveva adottato espressioni offensive nei confronti di un terzo; in un simile caso, pertanto, il soggetto che si afferma danneggiato da una tale condotta può proporre la domanda di risarcimento direttamente nei confronti del magistrato, non applicandosi l'art. 2 della legge n. 117/1988 (Cass. n. 10596/2012).

Infine, merita di essere sottolineato che il magistrato, nell'esercizio delle proprie funzioni, può incorrere in responsabilità non solo in conseguenza dell'adozione di un determinato provvedimento, ma anche attraverso un insieme di atti o provvedimenti preordinati ad un fine unitario, lesivo dei diritti altrui: il perseguimento di un fine unitario, tuttavia, presuppone necessariamente un atteggiamento doloso, con la conseguenza che chi allega di essere stato danneggiato dal magistrato mediante più atti o provvedimenti, ha l'onere di allegare concreti elementi idonei a configurare l'atteggiamento doloso, non essendo a tal fine sufficiente la generica affermazione della mera possibilità di un intento doloso del magistrato (Cass. n. 11229/2008).

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