Legge - 13/04/1988 - n. 117 art. 5 - Ammissibilità della domanda1.

Paola D'Ovidio
aggiornato da Francesco Agnino

Ammissibilità della domanda1.

[1. Il tribunale, sentite le parti, delibera in camera di consiglio sull'ammissibilità della domanda di cui all'articolo 2.

2. A tale fine il giudice istruttore, alla prima udienza, rimette le parti dinanzi al collegio che è tenuto a provvedere entro quaranta giorni dal provvedimento di rimessione del giudice istruttore.

3. La domanda è inammissibile quando non sono rispettati i termini o i presupposti di cui agli articoli 2, 3 e 4 ovvero quando è manifestamente infondata.

4. L'inammissibilità è dichiarata con decreto motivato, impugnabile con i modi e le forme di cui all'articolo 739 del codice di procedura civile, innanzi alla corte d'appello che pronuncia anch'essa in camera di consiglio con decreto motivato entro quaranta giorni dalla proposizione del reclamo. Contro il decreto di inammissibilità della corte d'appello può essere proposto ricorso per cassazione, che deve essere notificato all'altra parte entro trenta giorni dalla notificazione del decreto da effettuarsi senza indugio a cura della cancelleria e comunque non oltre dieci giorni. Il ricorso è depositato nella cancelleria della stessa corte d'appello nei successivi dieci giorni e l'altra parte deve costituirsi nei dieci giorni successivi depositando memoria e fascicolo presso la cancelleria. La corte, dopo la costituzione delle parti o dopo la scadenza dei termini per il deposito, trasmette gli atti senza indugio e comunque non oltre dieci giorni alla Corte di cassazione che decide entro sessanta giorni dal ricevimento degli atti stessi. La Corte di cassazione, ove annulli il provvedimento di inammissibilità della corte d'appello, dichiara ammissibile la domanda. Scaduto il quarantesimo giorno la parte può presentare, rispettivamente al tribunale o alla corte d'appello o, scaduto il sessantesimo giorno, alla Corte di cassazione, secondo le rispettive competenze, l'istanza di cui all'articolo 3.

5. Il tribunale che dichiara ammissibile la domanda dispone la prosecuzione del processo. La corte d'appello o la Corte di cassazione che in sede di impugnazione dichiarano ammissibile la domanda rimettono per la prosecuzione del processo gli atti ad altra sezione del tribunale e, ove questa non sia costituita, al tribunale che decide in composizione intieramente diversa. Nell'eventuale giudizio di appello non possono far parte della corte i magistrati che abbiano fatto parte del collegio che ha pronunziato l'inammissibilità. Se la domanda è dichiarata ammissibile, il tribunale ordina la trasmissione di copia degli atti ai titolari dell'azione disciplinare; per gli estranei che partecipano all'esercizio di funzioni giudiziarie la copia degli atti è trasmessa agli organi ai quali compete l'eventuale sospensione o revoca della loro nomina. ] 

 

Inquadramento

L'abrogazione dell'art. 5 della legge 117/1988 è stata una delle più rilevanti e discusse novità della riforma della legge Vassalli ad opera del Legislatore del 2015.

Tale norma prevedeva una fase preliminare del giudizio sulla domanda risarcitoria proposta nei confronti dello Stato, preordinata al controllo della sussistenza dei termini o dei presupposti per la proposizione dell'azione, come previsti dagli artt. 2, 3 e 4 (quali ad esempio, il previo esperimento degli ordinari mezzi di impugnazione avverso il provvedimento ritenuto dannoso, ovvero il rispetto dei termini decadenziali), nonché alla verifica della non «manifesta infondatezza» della pretesa.

Una volta introdotto il giudizio, alla prima udienza il giudice istruttore doveva, quindi, rimettere le parti dinanzi al collegio per un sindacato preventivo sull'ammissibilità della domanda, sul quale il collegio doveva a sua volta provvedere entro quaranta giorni dal provvedimento di remissione del giudice istruttore (così l'abrogato art. 5, comma 2).

L'inammissibilità della domanda risarcitoria nei confronti dello Stato veniva dichiarata dal Tribunale con decreto motivato, impugnabile con i modi e le forme di cui all'articolo 739 del codice di procedura civile innanzi alla Corte d'appello, la quale pronunciava anch'essa in camera di consiglio, con decreto motivato, entro quaranta giorni dalla proposizione del reclamo. Contro il decreto di inammissibilità della Corte d'appello poteva essere proposto ricorso per Cassazione.

Non era, invece, impugnabile il decreto che avesse dichiarato l'ammissibilità della domanda, in quanto caratterizzato dalla provvisorietà e pertanto insuscettibile di acquistare autorità di giudicato, posto che l'eventuale insussistenza dei presupposti dell'azione, ovvero la manifesta infondatezza della stessa, potevano comunque essere accertati e dichiarati dal Tribunale anche nella successiva fase.

Sia la Corte d'appello che la Corte di cassazione erano dotate non solo di poteri rescindenti, ma anche di poteri rescissori, sicché, in caso di accoglimento dell'impugnazione, non solo annullavano il provvedimento di inammissibilità ma potevano effettuare anche le valutazioni di merito, sia pure generali e astratte, proprie della fase di ammissibilità, rimettendo all'esito gli atti, per la prosecuzione del giudizio, ad altra sezione del Tribunale o al Tribunale in diversa composizione, che provvedeva all'istruzione ed alla decisione nel merito, secondo le comuni regole del codice di procedura civile.

La finalità del giudizio preventivo di ammissibilità era quella di consentire di «chiudere» le cause all'evidenza infondate, perché prive dei requisiti minimi di sostanza e/o di forma, in modo più agile ed in tempi più rapidi rispetto a quelli che sarebbero stati possibili ricorrendo alle regole ordinarie del rito processuale civile.

Tale meccanismo consentiva di porre un freno a possibili abusi del giudizio di responsabilità, facilmente realizzabili attraverso la strumentale proposizione di azioni pretestuose o addirittura ritorsive intentate dalle parti rimaste insoddisfatte dall'esito del giudizio che le aveva interessate.

Ciò realizzava una duplice tutela, da un lato favorendo il buon andamento e l'efficienza dell'apparato giudiziario, dall'altro assicurando una maggior serenità di giudizio al magistrato e, quindi, l'autonomia ed l'indipendenza nell'esercizio della funzione giudiziaria.

La giurisprudenza costituzionale nella vigenza dell'art. 5, l. n. 117/1998 ed il conforme orientamento della S.C.

Nel regime anteriore alla emanazione della legge n. 117 del 1988, la Cortecostituzionale, nel dichiarare non fondata la questione di legittimità costituzionale, in relazione all'art. 28 della Costituzione, degli artt. 55 e 74 c.p.c. nella loro originaria formulazione, aveva affrontato il problema del rapporto tra la responsabilità dello Stato e quella del magistrato verso i terzi alla luce dell'art. 28 Cost. affermando, da un canto, che la particolare formulazione di tale norma, con il rinvio alle leggi ordinarie civili, penali ed amministrative, e la singolarità della funzione giurisdizionale, potevano certo legittimare condizioni e limiti alla responsabilità diretta del giudice (senza però giungere ad escluderla del tutto), e chiarendo, sotto altro profilo, che la responsabilità dello Stato e del magistrato erano parallele ma potevano essere non simmetriche, nel senso cioè che, così come si era ritenuto per gli altri impiegati dello Stato, era possibile desumere da altre norme o principi dell'ordinamento una responsabilità dello Stato anche nei casi in cui non fosse prevista la responsabilità del magistrato secondo la ristretta disciplina dettata dagli (allora vigenti) artt. 55, 56 e 74 c.p.c. (Corte cost. n. 2/1968, in Giur.it., 1968, I, 1, 912 con nota di Duni, in Giur.cost., con nota di Casetta e in Foro amm., 1968, II, 193 con nota di Capotosti).

Sulla stessa scia, la successiva sentenza con la quale la Consulta aveva ammesso il referendum abrogativo degli artt. 55, 56 e 74 c.p.c. lasciando intendere, però, che l'eventuale effetto abrogativo del referendum (e la consequenziale caducazione delle norme che ponevano condizioni e limiti all'azione di responsabilità del magistrato, in primis quella che subordinava l'esperimento dell'azione all'autorizzazione ministeriale), pur non potendo essere valutato ai fini dell'ammissibilità del referendum stesso, avrebbe dovuto essere seguito dall'introduzione di una normativa altrettanto compatibile con le garanzie costituzionali.

Nella motivazione di tale sentenza si legge che l'art. 28 Cost. consente scelte plurime, anche se non illimitate, in quanto la peculiarità delle funzioni giudiziarie e la natura dei relativi provvedimenti suggeriscono condizioni e limiti alla responsabilità dei magistrati, specie in considerazione dei disposti costituzionali appositamente dettati per la Magistratura (artt. 101 e 113), a tutela della sua indipendenza e dell'autonomia delle sue funzioni. Viene, inoltre, precisato, quanto all'eventualità che un favorevole risultato del referendum non accompagnato da un immediato intervento del legislatore dia luogo a situazioni normative non conformi alla Costituzione, che la prospettata illegittimità costituzionale delle possibili conseguenze, pur non potendo esser presa in considerazione e vagliata al fine di pervenire ad una pronuncia di inammissibilità del quesito referendario, potrebbe comunque dar luogo, se e quando si realizzi, ad un giudizio di legittimità costituzionale, nelle forme, alle condizioni e nei limiti prescritti (Corte cost. n. 26/1987).

La prima occasione in cui la Consulta ha avuto modo di esprimersi sulla funzione del giudizio preventivo di ammissibilità, come introdotto dall'art. 5 della legge Vassalli, si ebbe poco dopo l'approvazione di tale legge, nell'ambito di una complessa sentenza che concerneva diverse questioni di legittimità costituzionale, tutte attinenti alla nuova legge in materia di responsabilità civile derivante dall'esercizio delle funzioni giudiziarie, l. n. 117/1988.

In particolare, il Giudice delle legge, nel ritenere priva di fondamento la censura secondo la quale la proposizione di un'azione di risarcimento di danni verso lo Stato, riferita ad una determinata causa, potrebbe turbare l'imparzialità del giudice riguardo a cause analoghe o nelle quali sia parte colui che abbia promosso il giudizio di responsabilità, sottolineava come, tra l'altro, la previsione del giudizio di ammissibilità della domanda garantisse adeguatamente il giudice dalla proposizione di azioni manifestamente infondate, che possono turbarne la serenità, impedendo, allo stesso tempo, di creare con malizia i presupposti per l'astensione e la ricusazione (Corte cost. n. 18/1989).

Circa un anno dopo, fu proposta la questione di legittimità costituzionale dell'art. 19 della stessa legge n. 117/1988, fondata sul rilievo che tale norma, avendo stabilito l'irretroattività della nuova disciplina, non aveva previsto alcun meccanismo di «filtro» per quei giudizi che, essendo stati proposti dopo l'abrogazione dell'art. 56 c.p.c. (che subordinava l'azione all'autorizzazione ministeriale) a seguito del referendum del 1987 (con effetti dal 7 aprile 1998 ex art. 2 l. n. 332/1987) e prima dell'entrata in vigore della legge Vassalli (16 aprile 1988), si collocavano in un periodo temporale nel quale non operava alcun tipo di vaglio preventivo dell'azione di responsabilità civile.

La risposta della Corte costituzionale fu nel senso di dichiarare l'illegittimità costituzionale dell'art. 19, comma secondo, nella parte in cui, quanto ai giudizi di responsabilità civile dei magistrati, relativamente a fatti anteriori al 16 aprile 1988, e proposti successivamente al 7 aprile 1988, non prevedeva che il Tribunale competente verifichi con riti camerale la non manifesta infondatezza della domanda ai fini della sua ammissibilità. In sostanza, si trattava di una pronuncia additiva che introduceva un filtro laddove mancava.

In particolare, la Consulta, dopo aver ricordato di aver già ribadito (il riferimento è alle sentenze Corte cost. n. 2/1968 e Corte cost. n. 26/1987, sopra menzionate), anche in sede di giudizio di ammissibilità del referendum abrogativo, la indispensabilità di un «filtro» a garanzia della indipendenza e autonomia della funzione giurisdizionale, osservava che la mancata previsione nel contesto dell'art. 19 della l. n. 117/1988, di una norma a tutela dei valori di cui agli artt. 101 a 113 Cost. determina un vulnus, prima ancora che dei suddetti parametri, del principio di non irragionevolezza implicato dall'art. 3 Cost.

Invero, si legge nella motivazione di tale sentenza, che un meccanismo di «filtro» della domanda giudiziale, diretta a far valere la responsabilità civile del giudice, assume rilievo costituzionale perché un controllo preliminare della non manifesta infondatezza della domanda, portando ad escludere azioni temerarie e intimidatorie, garantisce la protezione dei valori di indipendenza e di autonomia della funzione giurisdizionale, sanciti negli artt. da 101 a 113 della Costituzione nel più ampio quadro di quelle condizioni e limiti alla responsabilità dei magistrati che la peculiarità delle funzioni e la natura dei relativi provvedimenti suggeriscono.

La Consulta concludeva, pertanto, affermando che l'art. 19 andava dichiarato incostituzionale «per un equo bilanciamento degli interessi giustapposti, della indipendenza ed autonomia della funzione giurisdizionale e della giustizia da rendersi al cittadino per danni derivantigli dall'esercizio di quella funzione» (Corte cost. n. 468/1990).

Il principio è ribadito anche nella sentenza della Corte cost. n. 298/1993, la quale ha dichiarato manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 51 n. 3 c.p.c., prospettata dal giudice remittente in riferimento agli artt. 3, 97, 101 e 105 della Cost., per non essere previsto dalla norma censurata alcun meccanismo di preventiva valutazione della manifesta infondatezza della «causa pendente», in modo da evitare l'automatismo dell'astensione nei casi di lite artificiosamente preordinata a provocare l'astensione del giudice non gradito. Nella motivazione di tale sentenza, infatti, si sottolinea, sia pure al solo fine di rilevare la diversità di ratio della norma in quell'occasione sottoposta al vaglio di costituzionalità rispetto alla disciplina dettata dall'art. 5 l. n. 117/1988, che la previa delibazione da quest'ultima prevista circa la eventuale inammissibilità per manifesta infondatezza della domanda di risarcimento dei danni assertivamente provocati nell'esercizio dell'attività giurisdizionale, trova la sua ragion d'essere nella peculiare ed autonoma esigenza di evitare che la possibilità di un indiscriminato ingresso di pretese risarcitorie (seppure nei confronti dello Stato, ma con azione di rivalsa nei confronti del giudice) induca remore o timori nell'esercizio dell'attività giurisdizionale per il rischio di azioni temerarie od intimidatorie.

In senso analogo si è, poi, espressa anche la Corte di cassazione, la quale ha affermato che, in materia di responsabilità civile dei magistrati, la previsione di un giudizio di ammissibilità per l'azione risarcitoria diretta, agli effetti dell'art. 5 l. n. 117/1988, costituisce attuazione delle previsioni di cui agli artt. 101 e ss. della Costituzione in tema di tutela della funzione giurisdizionale, e segnatamente dei principi di autonomia e indipendenza del giudice, che contribuiscono all'identificazione della stessa forma repubblicana dello Stato. Ne deriva che, come ha ulteriormente precisato la Corte, il meccanismo del filtro di ammissibilità, salvi i casi di costituzione di parte civile nel processo penale e di sentenza penale passata in giudicato, di cui all'art. 13 della stessa legge n. 117 del 1988, assume rilievo costituzionale, poiché finalizzato ad escludere azioni risarcitorie temerarie ed intimidatorie proposte direttamente nei confronti del singolo funzionario. Detta prospettiva non è stata mutata dal diritto eurounitario, in quanto l'interpretazione della legge n. 117 del 1988 ad opera della Cgue (CGUE 24 novembre 2011 in C-379/10; CGUE 30 settembre 2003 in C-224/01, e CGUE 13 giugno 2006 in C-173/03) non si pone in contrasto con la tutela dei principi di autonomia ed indipendenza del giudice, risultando questi posti su di un piano differente da quello cui attiene la responsabilità dello Stato per l'illecito comunitario, comunque distinta dalla responsabilità personale del magistrato (Cass. n. 41/2014, in Danno e resp. 2015, 1, 15, con nota di Angeletti).

Questioni di costituzionalità dopo l'abrogazione del c.d. filtro di ammissibilità e la risposta della Corte cost.

A breve distanza dall'entrata in vigore della legge n. 18 del 2015, l'abrogazione del c.d. «filtro» di inammissibilità ha formato oggetto di questione di costituzionalità sollevata da quattro diversi Tribunali.

Le relative ordinanze di remissione propongono profili di incostituzionalità per lo più analoghi e, comunque, tutti fondati su una lettura della giurisprudenza costituzionale, seconda la quale la presenza del controllo preliminare di ammissibilità sarebbe da intendersi come una soluzione costituzionalmente obbligata a presidio della serenità e dell'indipendenza del singolo magistrato e dell'esercizio della funzione giurisdizionale.

Su tali basi, la prima ordinanza di remissione poneva la questione di legittimità costituzionale dell'art. 3, comma 2, della l. n. 18/2015, che ha abrogato l'art. 5 della legge n. 117 del 1988 (il c.d. «filtro» di ammissibilità), per contrasto con gli artt. 101, 104, e 113 della Cost., nonché, per analoghi motivi, degli artt. 4 e/o 7 della l. n. 117/1988, così come modificati dalla legge n. 18/2015, nella parte in cui non prevedono che il Tribunale competente a decidere sull'azione di risarcimento proposta contro lo Stato, e/o il Tribunale competente a decidere sull'azione di rivalsa dello Stato nei confronti del magistrato, verifichi con rito camerale la non manifesta infondatezza della domanda ai fini della sua ammissibilità (Trib. Treviso, ord. 8 maggio 2015, n. 218)

Solo dopo pochi giorni veniva emessa un'altra ordinanza di remissione alla Corte costituzionale, con la quale, proponendo analoga questione, si osservava, tra l'altro, che l'eliminazione del vaglio preventivo di ammissibilità offriva ad una parte, priva di remore o anche solo particolarmente determinata, la duplice alternativa di condizionare la valutazione del giudice, (possibilità vieppiù concreta dopo l'introduzione della nuova ipotesi di illecito del travisamento del fatto o delle prove) o di provocare la sua astensione, e con essa la dilatazione dei tempi di definizione del giudizio a quo, anche attraverso l'avvio di un procedimento disciplinare nei confronti del giudice stesso. Quest'ultimo profilo deriva dalla circostanza che, a seguito dell'abrogazione dell'art. 5 della legge 117/1988, con l'art. 6 della l. n. 15/2014 è stata anche abrogata la parte dell'art. 9, comma 1, della legge Vassalli che ricollegava l'inizio del procedimento disciplinare, per i fatti che avessero dato causa all'azione di risarcimento, alla comunicazione da parte del tribunale del provvedimento che aveva ritenuto ammissibile la domanda risarcitoria; è rimasta invariata invece la parte di tale disposizione che prevede il dovere per il Procuratore Generale presso la Corte di cassazione di esercitare l'azione disciplinare nei confronti del magistrato per i predetti fatti. In sostanza, avrebbe in tal modo l'avvio obbligatorio del procedimento disciplinare in ragione della proposizione della domanda risarcitoria avverso lo Stato, comunque non assoggettata al filtro di ammissibilità (Trib. Verona III, ord. 12 maggio 2015, n. 198).

Dopo neppure un anno la medesima questione veniva proposta, con motivazioni assai simili, anche dal Tribunale di Catania (Trib. Catania II, ord. 6 febbraio 2016, n. 113).

Invero, nessuna delle tre ordinanze di remissione sopra richiamate è stata emessa nell'ambito di un giudizio risarcitorio ai sensi della legge n. 117 del 1988.

Tuttavia, ai fini della rilevanza della questione, la quale implica che il processo pendente non possa essere definito indipendentemente dalla soluzione della questione sollevata, i giudici remittenti hanno richiamato le statuizioni della stessa Consulta, a mente delle quali debbono ritenersi influenti sul giudizio anche le norme che, pur non essendo direttamente applicabili nel giudizio a quo, attengono allo status del giudice, alla sua composizione nonché, in generale, alle garanzie e ai doveri che riguardano il suo operare. L'eventuale incostituzionalità di tali norme è destinata ad influire su ciascun processo pendente davanti al giudice del quale regolano lo status, la composizione, le garanzie e i doveri: in sintesi, la «protezione» dell'esercizio della funzione, nella quale i doveri si accompagnano ai diritti (Corte cost. n. 18/1989).

La quarta ordinanza di remissione alla Corte costituzionale, invece, veniva emessa proprio nell'ambito di un giudizio risarcitorio proposto nei confronti del Presidente del Consiglio dei Ministri per il fatto di alcuni magistrati di tribunale e di corte di appello, ai sensi della legge n. 117 del 1988.

In quel giudizio, in quanto promosso dopo l'entrata in vigore della legge n. 18/2015 anche se per fatti commessi in precedenza, trovava applicazione la norma che ha previsto l'abrogazione del c.d. filtro di ammissibilità, secondo in principi indicati dalla Corte di cassazione in punto di applicabilità della norma abrogatrice in discorso (Cass. n. 25216/2015).

I parametri costituzionali che, secondo il giudice remittente, sarebbero risultati violati dall'abrogazione del filtro dovevano essere individuati negli artt. 111 e 3 Cost., 101 e 104 Cost. e 25 Cost.

L'ordinanza prende le mosse da due premesse volte a sottolineare come la norma abrogatrice del filtro non rispondesse a nessuna delle due finalità della riforma, espressamente dichiarate all'art. 1 della legge n. 18 del 2015 (rendere effettiva la disciplina che regola la responsabilità civile dello Stato e del Magistrati e l'appartenenza dell'Italia all'Unione europea).

In primo luogo, infatti, non risulterebbe pertinente invocare le pronunce della Corte di Strasburgo ed il diritto dell'Unione europea, in quanto il giudice europeo non aveva posto la questione della responsabilità del singolo magistrato, ma quella dello Stato giudice in relazione alla sola violazione manifesta del diritto europeo, e le pronunce dei giudici di Strasburgo non imponevano alcuna modifica della legge n. 117/1988 dal punto di vista processuale.

In secondo luogo, neppure risulterebbe soddisfatto il profilo di effettività, pure indicato dall'art. 1 della riforma del 2015, quale finalità orientatrice della stessa. Dalla lettura dei lavori preparatori della riforma, invero, emergerebbe che il filtro di ammissibilità sia stato abolito nell'ottica di rendere più effettiva la tutela del cittadino, sul rilievo che la stragrande maggioranza delle azioni di responsabilità civile magistrati, nel vigore della Legge Vassalli, sono state dichiarate inammissibili in sede di filtro (e di quelle inammissibili molte sono state rigettate) e che, pertanto, proprio il mezzo processuale utilizzato (il filtro, appunto) fosse la causa della frequente dichiarazione di inammissibilità dei ricorsi in materia. In proposito, il giudice remittente affermava di ritenere, invece, che il filtro favorisca una tutela dei diritti «effettivi» delle parti, in quanto la sua abrogazione procrastina soltanto l'inevitabile dichiarazione di inammissibilità delle domande inammissibili e svolge un'azione moltiplicatrice dei ricorsi strumentali.

Nel merito della questione, l'ordinanza di remissione, con riferimento ai parametri di cui agli artt. 111 e 3 Cost., l'ordinanza osservava che i l filtro è funzionale all'attuazione del giusto processo in almeno due processi: quello in cui è chiesto il risarcimento ai sensi della legge n. 117/1988 e quello, presupposto, all'interno del quale si sarebbe prodotto il danno.

Nel primo processo, il filtro doveva ritenersi rilevante sotto il profilo della sua ragionevole durata e dell'economia processuale, atteso che, sia il cittadino che si ritiene leso, sia lo Stato, hanno interesse che, in tutti i casi di inammissibilità, la relativa pronuncia pervenga al più presto, o comunque in tempi

ristretti, mentre l'abrogazione del giudizio preventivo di ammissibilità della domanda comporta ora che i tempi per portare ad emersione eventuali profili di inammissibilità sono, in ogni caso, quelli del processo ordinario, sicuramente superiore a quelli del filtro.

Con particolare riferimento al parametro di cui all'art. 3 Cost., si osservava, altresì, che in campo processuale i meccanismi di filtro tendono ad avere sempre maggiore applicazione. Secondo l'ordinanza in discorso, dunque, l'abrogazione appare irragionevole e censurabile anche sotto il profilo della disparità di trattamento, atteso che, mentre nell'ordinamento processuale per ogni tipo di «meta-processo» (ossia di processo sul processo) si introducono filtri, qui lo si abolisce.

In merito a tale valutazione di ragionevolezza l'ordinanza rileva anche una violazione dei parametri di efficienza richiesti dall'art. 97 Cost., dovendosi l'amministrazione della giustizia occupare più a lungo delle cause inammissibili in materia di Responsabilità civile dei magistrati.

In quest'ottica, si osserva, il filtro tutelava la serenità del giudizio e quindi (ed esclusivamente) le buone decisioni, così che un ulteriore possibile rischio dell'abolizione del filtro sono i danni della giurisprudenza «difensiva».

Quanto ai parametri di cui agli artt. 101 e 104 Cost., l'ordinanza richiama la giurisprudenza costituzionale e di legittimità formatasi in materia (v. supra), dalla quale emergerebbe come l'inesistenza del filtro di ammissibilità possa porre in discussione la soggezione dovuta dal giudice alla legge e solo alla legge, senza pressioni indebite.

L'ultimo profilo evidenziato nell'ordinanza di remissione in discorso, è quello della garanzia del Giudice naturale precostituito per legge (art. 25 Cost.).

Il tribunale remittente, invero, dichiarava di condividere l'orientamento di legittimità secondo il quale il giudice per la cui responsabilità, pendente ancora il primo giudizio, venga proposto un ricorso ai sensi della legge n. 117 del 1988, non è obbligato ad astenersi, né può essere ricusato; tuttavia, in sintonia con alcuni dei primi commentatori della riforma, sottolineava come l'assenza del filtro moltiplica anche le ipotesi in cui al magistrato converrà intervenire nel processo proposto ai sensi della legge n. 117/1988 atteso che, non essendo più nettamente distinto l'esame dell'ammissibilità da quello del merito, diminuirebbe la convenienza ad attendere il giudizio di ammissibilità, ciò che comporterebbe il conseguente aumento delle ipotesi in cui il magistrato da estraneo diventa parte del giudizio di responsabilità, con il conseguente obbligo di astensione ex art. 51, comma 1, n. 3 c.p.c. nel processo originario.

In ogni caso, anche quando non sussiste obbligo di astenersi e quindi alcuna causa di ricusazione, il singolo giudice potrebbe ritenere di non avere più la necessaria serenità di giudizio riguardo alla causa, ovvero ravvisare gravi ragioni di convenienza per un'astensione facoltativa.

La proposizione di un ricorso, in un sistema privo di filtro, potrebbe così costituire uno strumento per ottenere la modifica dell'assegnazione della causa, magari dopo che un giudice aveva preso decisioni interinali che facevano presagire la soccombenza di una delle parti (Trib. Genova 10 maggio 2016 n. 130).

Tutte le ordinanze di remissione sono state decise dalla Corte cost. con sentenza del 3 aprile 2017, pubblicata il 12 luglio 2017, dichiarando l'inammissibilità, per difetto di rilevanza nel giudizio a quo, delle questioni sollevate dai Tribunali di Treviso, Verona e Catania (e da quello di Enna) e rigettando la questione proposta dal Tribunale di Genova (Corte cost. n. 164/2017, già riportata sub art. 2, parag. 3.3, con riferimento alla motivazione di inammissibilità).

L'ordinanza di remissione del Tribunale di Genova, invero, non è stata ritenuta coinvolta dai profili di inammissibilità evidenziati, nella citata sentenza n. 164/2017, dalla stessa Corte costituzionale con riferimento alle ordinanze degli altri Tribunali remittenti, in quanto si trattava dell'unica ordinanza, fra quelle esaminate, emessa nell'ambito di un giudizio risarcitorio promosso nei confronti dello Stato ai sensi della legge n. 117 del 1988.

Nel motivare la decisione di rigetto della questione di costituzionalità sollevata dal Tribunale di Genova, il giudice delle Leggi ha preliminarmente rammentato come un forte stimolo alla riforma operata dalla legge n. 18 del 2015 sia venuto dalla Corte di Lussemburgo, che ha ripetutamente rimarcato “l'obbligo degli Stati membri di riparare i danni causati ai singoli dalle violazioni del diritto comunitario (ora, dell'Unione europea) commesse da organi giurisdizionali nazionali (anche di ultimo grado): principi con i quali alcune delle limitazioni previste dalla legge n. 117 del 1988 sono state ritenute incompatibili (Corte di giustizia, grande sez.e, sentenza 13 giugno 2006, in causa C-173/03, Traghetti del Mediterraneo spa), tanto da dar luogo all'apertura di una procedura di infrazione, decisa in senso sfavorevole per il nostro Paese (Corte di giustizia, sentenza 24 novembre 2011, in causa C-379/10, Commissione europea contro Repubblica italiana)”. Nel contesto di tali principi, la Corte costituzionale ha sottolineato il rilievo che, ai fini della questione al suo esame, assumevano il principio di equivalenza e quello di effettività.

Ad avviso della Consulta, l'affermazione di tali principi, pur riconosciuti siccome non immediatamente e specificamente pretensivi dell'abolizione del cosiddetto “filtro di ammissibilità” contemplato dall'articolo 5 della legge n. 117 del 1988, ha rappresentato un considerevole mutamento del quadro normativo di riferimento in tema di responsabilità civile dello Stato e del giudice, finendo inevitabilmente per ispirare e permeare l'intervento riformatore, sul punto, della legge n. 18 del 2015.

Su tali premesse, la Corte costituzionale ha osservato come il legislatore abbia ritenuto che, per un verso, l'azione di responsabilità nei confronti dello Stato per i danni conseguenti ad un provvedimento giudiziario non si collocasse in una condizione di equivalenza rispetto alle azioni risarcitorie nei confronti dello Stato in altre materie che non prevedono un simile “filtro” e, per altro verso, che l'esperienza applicativa della legge n. 117 del 1988, arrestando le azioni di danno contro lo Stato in larghissima misura nella fase della delibazione preliminare, non avesse garantito l'effettività del risarcimento per il cittadino danneggiato.

La Corte, inoltre, ha titenuto opportuno sottolineare al riguardo che l'intervento riformatore non era evidentemente limitabile alle sole violazioni del diritto europeo, se non al prezzo di determinare una irragionevole disparità di trattamento rispetto alle violazioni delle norme del diritto nazionale che fossero all'origine, anch'esse, di danno per il cittadino.

Sotto altro profilo, la stessa Corte ha ricordato che nella materia in esame occorre perseguire il delicato bilanciamento tra due interessi contrapposti: da un lato, il diritto del soggetto ingiustamente danneggiato da un provvedimento giudiziario ad ottenere il ristoro del pregiudizio patito, posto che «una legge che negasse al cittadino danneggiato dal giudice qualunque pretesa verso l'amministrazione statale sarebbe contraria a giustizia» (sentenza n. 2 del 1968); dall'altro, la salvaguardia delle funzioni giudiziarie da possibili condizionamenti, a tutela dell'indipendenza e dell'imparzialità della magistratura, «in quanto la peculiarità delle funzioni giudiziarie e la natura dei relativi provvedimenti suggeriscono condizioni e limiti alla responsabilità dei magistrati, specie in considerazione dei disposti costituzionali appositamente dettati per la Magistratura (artt. 101 e 113), a tutela della sua indipendenza e dell'autonomia delle sue funzioni» (sentenza n. 26 del 1987)”.

All'esito di tali osservazioni la Consulta è quindi giunta alla conclusione secondo la quale, in tale cornice di rinnovato bilanciamento normativo − i cui termini sono rimessi alla discrezionalità del legislatore, nei limiti della ragionevolezza − si colloca la scelta legislativa di abolizione del cosiddetto “filtro di ammissibilità”, ritenuta funzionale al nuovo impianto normativo, specie se riguardata alla luce dei già ricordati principi affermati dalla Corte di giustizia dell'Unione europea.

In particolare, secondo la decisione di cui si discorre, non è costituzionalmente necessario che, per bilanciare i contrapposti interessi di cui si è detto, sia prevista una delibazione preliminare dell'ammissibilità della domanda contro lo Stato, quale strumento indefettibile di protezione dell'autonomia e dell'indipendenza della magistratura. Tale esigenza può essere infatti soddisfatta dal legislatore per altra via: ciò è quanto accaduto con la legge n. 18 del 2015, per un verso mediante il mantenimento del divieto dell'azione diretta contro il magistrato e con la netta separazione dei due ambiti di responsabilità, dello Stato e del giudice; per un altro, con la previsione di presupposti autonomi e più restrittivi per la responsabilità del singolo magistrato, attivabile, in via di rivalsa, solo se e dopo che lo Stato sia rimasto soccombente nel giudizio di danno; per un altro ancora, tramite il mantenimento di un limite della misura della rivalsa. Tanto vale, secondo la Consulta, a stornare il paventato pericolo che l'abolizione del meccanismo processuale in esame determini un pregiudizio alla «serenità del giudice» come pure la temuta deriva verso una «giurisprudenza difensiva», ipotesi, questa, che evidentemente oblitera l'elevato magistero proprio di ogni funzione giurisdizionale.

Queste le argomentazioni che hanno portato il Giudice delle Leggi a dichiarare infondate le questioni poste dal Tribunale di Genova “in riferimento ai principi di indipendenza e autonomia della magistratura e di terzietà e imparzialità del giudice, di cui agli articoli 101, 104 e 111 della Costituzione”.

Analogamente, sono state ritenute infondate anche le ulteriori questioni sollevate dal Tribunale di Genova in relazione ad altri parametri di legittimità costituzionale.

In particolare, è stato dichiarato infondato il dubbio di costituzionalità avanzato dal giudice a quo in relazione all'articolo 3 della Costituzione, sulla base della ritenuta irragionevolezza intrinseca della soppressione del filtro di ammissibilità e della violazione del principio di eguaglianza rispetto alle «pronunce semplificate di inammissibilità» introdotte dal legislatore in rapporto alle impugnazioni ordinarie. Al riguardo, la Consulta ha sottolineato come l'ambito del tutto eterogeneo in cui si muove il raffronto prospettato dal rimettente – e rappresentato dagli artt. 348-bis e 348-ter c.p.c., in relazione all'appello, e dagli articoli 360-bis e 375, primo comma, numeri 1) e 5), c.p.c.., riguardo al ricorso per cassazione – rende la censura priva di fondamento. Infatti, la mera «comunanza logica» evocata dal giudice a quo non potrebbe valere ad accomunare normativamente – e, dunque, a rendere comparabili − strumenti deflattivi e semplificativi innestati dal legislatore nel regime delle impugnazioni civili con l'abrogato meccanismo del “filtro di ammissibilità”, il quale riguardava il giudizio di primo grado, la cui disciplina generale non contempla analoghi meccanismi. E ciò, silegge nella sentenza in commento, anche a prescindere dalla diversità di scopi degli istituti nonché dalla discrezionalità di cui gode il legislatore nelle scelte in materia processuale, il cui limite della manifesta irragionevolezza, ad ogni modo, non è ritenuto dalla Consulta travalicato nl caso in esame, né in senso assoluto, né “per comparazione”.

È stata altresì ritenuta infondata la censura dell'articolo 3, comma 2, della legge n. 18 del 2015 per violazione del principio del giudice naturale precostituito per legge (art. 25 Cost.), che si verificherebbe, secondo il giudice rimettente, perché la contemporanea pendenza del giudizio contro lo Stato e di quello principale – agevolata dall'eliminazione del “filtro di ammissibilità” – indurrebbe il giudice del secondo giudizio ad astenersi o all'astensione addirittura lo obbligherebbe, nel caso in cui intervenisse nel giudizio intentato nei confronti dello Stato. In proposito la Corte costituzionale ha osservato che, a prescindere dalla considerazione che l'identica situazione paventata dal rimettente ben poteva verificarsi anche in vigenza del meccanismo abrogato, secondo la giurisprudenza di legittimità (Cass. S.U. n. 16627/2014), la pendenza della causa di danno contro lo Stato non costituisce motivo di astensione o ricusazione del giudice autore del provvedimento. E ciò – come recentemente affermato dalla Corte di cassazione (Cass. S.U. n. 13018/2015) – neppure nel caso di intervento del magistrato in detta causa: non vi è, infatti, un rapporto diretto parte-magistrato, che valga a qualificare il secondo come debitore, anche solo potenziale, della prima.

Infine, la Consulta ha dichiarato non fondata la questione anche in riferimento all'articolo 111 della Costituzione, sotto il profilo del contrasto con il principio della ragionevole durata del processo. Il giudice a quo – motivando tale dubbio di legittimità costituzionale sulla base dell'assunto che, abolito il filtro preliminare, i tempi per pervenire ad una pronuncia sull'ammissibilità sono invece quelli del processo ordinario, di «lunghezza eccessiva ed irragionevole» − non ha considerato, sottolinea il Giudice delle Leggi, che detto dubbio dovrebbe per ciò stesso inerire a tutti i giudizi civili ordinari se non preceduti da meccanismi di preliminare delibazione della domanda simili a quello contemplato dall'abrogato art. 5 della legge n. 117 del 1988. Ciò che rende, conclude la sentenza in commento, di evidente precarietà logica la premessa argomentativa del rimettente e, dunque, non fondata la questione che da essa si sviluppa”.

Già agli albori della entrata in vigore della novella del 2015, sospetti di incostituzionalità della norma abolitiva del filtro di ammissibilità sono stati espressi in numerosi contributi dottrinari.

Si è in particolare evidenziato che l'eliminazione del filtro di ammissibilità ha ora l'effetto di rendere immediata, per qualsiasi iniziativa giudiziaria diretta a far valere la responsabilità civile del giudice, anche se manifestamente infondata o inammissibile per difetto dei presupposti processuali, ed in ipotesi meramente pretestuosa e strumentale, la possibilità dell'insorgere di una situazione rilevante al fine della astensione e ricusazione del giudice, a seguito del suo intervento in causa. La nuova disciplina processuale, infatti, non consentirebbe più al giudice di «rimanere alla finestra», quantomeno sino all'esito della fase preliminare dell'ammissibilità, e di rinviare così il suo possibile intervento alla eventuale fase successiva di merito (Amoroso, 2015).

Ciò comporterebbe il rischio di un «proliferare di astensioni e ricusazioni», e sarebbe in contrastato con la giurisprudenza costituzionale, dalla quale emergerebbe che condizioni e limiti alla responsabilità dei magistrati sono non solo opportuni, non solo legittimi, ma addirittura indispensabili perché una qualsivoglia disciplina di questa risulti costituzionalmente accettabile (Maccora, 2015).

Si è inoltre sottolineato che la mancanza della preventiva delibazione di ammissibilità appare oggi di dubbia legittimità costituzionale molto più di quanto non lo fosse ai tempi della pronuncia n. 468/1990 della Corte costituzionale, poiché la responsabilità del giudice è stata sensibilmente ampliata dal legislatore del 2015 con l'introduzione, tra i casi di colpa grave di cui all'art. 2, anche della fattispecie del «travisamento del fatto e delle prove» (Amoroso, 2015).

Ancora, si è affermato che l'abolizione del filtro esporrebbe direttamente il giudice, sia pure come parte eventuale (ma che diventa litisconsorte processuale necessario quando decida di intervenire nel giudizio, determinandosi così una situazione di litispendenza incompatibile con la titolarità del procedimento), all'iniziativa di parte con ricadute immediate quantomeno sulla serenità di giudizio. Questo altererebbe significativamente il punto di equilibrio faticosamente raggiunto dalla legge del 1988 e porrebbe evidenti ed immediatamente rilevabili problemi di costituzionalità, operando il filtro quale strumento di bilanciamento tra i valori costituzionali sottesi da una parte all'art. 28 e dall'altra agli artt. 101, 104, 108 e 111 Cost., come già affermato dalla stessa Corte, che ne ha riconosciuto non solo la legittimità, ma l'indispensabilità quale opportuno rafforzamento delle cautele nell'accesso al giudizio di responsabilità rispetto al regime riservato in via generale ai pubblici dipendenti. Di qui, venivano avanzate prognosi ottimistiche su un possibile intervento della Corte costituzionale diretto a ristabilire l'equilibrio (Cesqui, 2015).

Ancora, si è osservato come l'eliminazione del filtro appaia in evidente controtendenza rispetto alla proliferazione di strumenti deflattivi, in qualche caso anche molto discutibili, che vanno arricchendo l'ordinamento processuale (Nisticò, 2015, 16).

L'Autore richiama in proposito i rilievi, di analogo tenore, espressi dal Csm, il quale aveva evidenziato nel parere del Csm, del 29 ottobre 2014, sul d.d.l. S.1626, dove si afferma che il disegno riformatore appare in controtendenza rispetto ad un ordinamento che si va evolvendo nel segno della limitazione dell'accesso alla giurisdizione, come da ultimo emblematicamente rappresentato dal d.l. n. 132/2014, ispirato ad una strategia di contenimento della domanda giudiziaria. Alla luce degli argomenti riportati, pare dunque ormai fisiologica la necessità di sistemi processuali limitativi, non solo volti ad evitare l'abuso del diritto alla tutela giurisdizionale, ma anche tali da costituire un possibile vantaggio per il titolare della pretesa sostanziale, rappresentando il modo di soddisfazione della posizione medesima più pronto e meno dispendioso, in vista dell'interesse della funzione giurisdizionale e quindi della collettività tutta (parere CSM, del 29 ottobre 2014, sul d.d.l. S.1626)

Altri contributi, hanno posto in evidenza anche l'inutilità della abrogazione del filtro rispetto alla dichiarata necessità di rendere effettiva la disciplina in tema di responsabilità per danni derivanti dall'attività giudiziaria. Infatti, si è detto, anche in assenza di filtro, quella stessa magistratura che in sede di esame preventivo aveva ritenuto tante domande così manifestamente infondate da non giustificare l'ingresso del giudizio a cognizione piena, quelle stesse domande le avrebbe respinte in seguito al processo. Dunque, il risultato finale, quanto alla responsabilità, sarebbe stato lo stesso, con la sola differenza che, in un sistema già oberato da un eccesso di cause, si sarebbero aggiunti tanti inutili «processi al processo». Il che è insensato, salvo per chi si riprometta la possibilità di clamore mediatico sul «processo al processo» (Trimarchi, 897).

Altra parte della dottrina si è espressa in modo critico nei confronti del c.d. filtro, osservando che esso era stato interpretato dalla giurisprudenza in modo molto restrittivo, caratterizzato da un utilizzo del giudizio di ammissibilità inteso non tanto come un accertamento della sussistenza dei presupposti oggettivi della domanda quanto come un vero e proprio giudizio compiuto e di fatto definitivo sul merito delle denunce, così da trasformarlo, di fatto, da un ragionevole meccanismo di deterrenza nella più efficace causa dell'insuccesso della disciplina. Ciò nonostante, la stessa dottrina non ha approvato la scelta abolitiva, sottolineando che, se era senza dubbio necessario un intervento su questo fronte, la scelta del legislatore di limitarsi, con un tratto di penna, a sopprimere il filtro appare assai sbrigativa e sicuramente problematica dal punto di vista della sua compatibilità con il quadro costituzionale. L'Autore, dunque, conclude ritenendo che, nel cercare il giusto equilibrio tra lo snaturamento del diritto di azione del cittadino e il suo abuso, la riforma sembra essere passata da un eccesso all'altro, e che in tal modo le buone idee rischiano di essere messe in ombra dall'adozione di soluzioni approssimative, talora addirittura grezze, e da una redazione nel complesso assai insoddisfacente, che lascia tratti di indeterminatezza e ambiguità che soltanto la prassi giurisprudenziale, probabilmente, potrà in futuro colmare (Dal Canto, 195-196; concorda sul punto Romboli, 350).

Secondo altro contributo, possono superarsi i dubbi di incostituzionalità con riferimento ai valori di autonomia, imparzialità e indipendenza del giudice, posto che quel che rileva, nell'impianto complessivo della disciplina, è invece la circostanza che il giudice non è mai direttamente coinvolto dal giudizio di responsabilità, che è giudizio nei confronti dello Stato, sia pure riferito ad un atto o fatto compiuto dal magistrato, ed oggi tale coinvolgimento è ancor meno presente di quanto avveniva nel vigore del «filtro». Infatti, se è vero che sono stati ampliati i casi di colpa grave con l'introduzione delle nuove figure del travisamento del fatto e delle prove, nonché della violazione del diritto dell'Unione Europea e dell'emissione di un provvedimento cautelare reale fuori dei casi consentita dalla legge oppure senza motivazione, è anche vero che il loro accertamento nel giudizio di responsabilità dello Stato non si riverbererà automaticamente nei confronti del giudice, neppure nell'ipotesi in cui egli opti per l'intervento volontario in quel giudizio, posto che in ogni caso la eventuale condanna al risarcimento non potrà mai essere emessa nei suoi confronti e che, inoltre, nei casi in cui è prevista l'obbligatorietà dell'azione di rivalsa, (i.e. quelli relativi alla «violazione manifesta» della legge e del diritto dell'unione europea nonché al «travisamento del fatto e delle prove»), gli accertamenti in fatto compiuti del giudizio nei confronti dello Stato-giudice saranno solo parzialmente coincidenti con quelli necessari a fondare una responsabilità del magistrato in sede di rivalsa, dove sarà necessario anche valutare la sussistenza dell'elemento soggettivo del dolo o della negligenza inescusabile, il quale resta estraneo, invece, al giudizio tra danneggiato e Stato.

Meno agevole sarebbe, invece, superare i dubbi di costituzionalità con riferimento ai principi di ragionevolezza della scelta abrogatrice, di buon andamento della giurisdizione e di ragionevole durata del processo, atteso che, a seguito dell'abolizione del giudizio preventivo di ammissibilità, il processo di responsabilità civile dello Stato durerà più a lungo (se non altro per il rispetto dei termini che le regole ordinarie impongono), sarà più incerta l'immediatezza della «scrematura» tra le cause ammissibili e quelle che tali non sono (in quanto siffatta valutazione non sarà più prontamente e certamente sottoposta al collegio, ma sarà rimessa al sapiente uso dell'art. 187 c.p.c. da parte del giudice istruttore) e, nel contempo, sarà quantitativamente più elevato il nuovo contenzioso, per la duplice ragione che, da un lato, sono state ampliate le ipotesi di responsabilità e, dall'altro, è stato elevato di un anno il termine decadenziale.

Il conseguente rischio di un eccesso di contenzioso e di ripercussioni negative sulla funzionalità degli uffici giudiziari appare molto concreto, oltre che in evidente controtendenza rispetto alla proliferazione di strumenti deflattivi che vanno arricchendo l'ordinamento processuale, e ciò senza risolvere alcun problema (D'Ovidio, 127 ss.).

In senso opposto si è orientata invece una parte della dottrina, la quale ha ritenuto corretta l'abolizione del filtro, osservando che tale strumento poteva costituire, e ha costituito, solo un moltiplicatore di procedimenti relativi ai medesimi fatti storici.

Secondo tale opinione, infatti, pur dovendosi concordare, da una parte, sul rilievo che l'eliminazione del filtro non sia in grado di mutare in un senso o nell'altro il contenzioso in questione, da altra parte, però, tale eliminazione è coerente con un principio di uguaglianza e, quindi con gli artt. 3 e 24 Cost., essendo il diritto di azione costituzionalmente garantito in modo uguale avverso tutti: nel nostro ordinamento, oltre all'ipotesi a suo tempo introdotta con l'art. 5 della legge Vassalli, l'unico altro caso in cui l'azione, per poter essere esperita, doveva prima essere dichiarata ammissibile era quello dell'azione per la dichiarazione giudiziale di paternità, sottoposta all'ammissibilità di cui all'art. 274 c.c., ammissibilità dichiarata infatti incostituzionale per violazione degli artt. 3 e 24 Cost. dalla Consulta con sentenza n. 50/2006 (Scarselli, 329-330).

Regime intertemporale

La legge di riforma della disciplina della responsabilità civile dello Stato e dei magistrati per i danni cagionati nell'esercizio delle funzioni giudiziarie non contiene alcuna norma transitoria.

Ciò ha inizialmente determinato alcune incertezze interpretative in ordine alla immediata applicabilità o meno della norma abrogativa del c.d. filtro di ammissibilità ai giudizi già pendenti alla data del 19 marzo 2015, ossia al momento dell'entrata in vigore della l. n. 18/2015.

Le prime sentenze di merito si sono, infatti, espresse prospettando tre differenti soluzioni.

Secondo un primo orientamento, in applicazione del principio tempus regit actum, tutte le nuove disposizioni di carattere processuale, ed in particolare quella relativa all'abrogazione del c.d. filtro, sarebbero immediatamente applicabili ai processi pendenti (Trib. Trento I, ord. 9 maggio 2015).

Un altro Tribunale si è invece pronunciato in senso opposto, ritenendo l'inapplicabilità immediata della nuova disciplina processuale alle situazioni pendenti, assumendone la natura (anche) sostanziale, in quanto inserita in un corpus di norme preordinato, nel suo insieme, a formare un sistema di guarentigie che connotavano il particolare status riservato ai magistrati con riguardo, non già alla loro persona, bensì alla funzione dagli stessi esercitata (Trib. Genova, ord. 30 giugno 2015).

Alle stesse conclusioni, ma con diverse argomentazioni, è pervenuta altra giurisprudenza, la quale ha ritenuto che il filtro abbia, sì, natura processuale, ma che la sua abrogazione operi solo per il futuro (ossia per i ricorsi depositati dopo il 19 marzo 2015), e ciò alla luce del principio di irretroattività della legge e della specialità del rito, nonché in considerazione di quella regola di etica processuale, posta in rilievo dalla più attenta dottrina, secondo la quale non si cambiano le regole del processo quando esso è in corso (Trib. Roma, decreto 5 maggio 2015).

Quest'ultimo orientamento si poneva in linea con principi già espressi dalla Corte di cassazione, la quale in una precedente occasione, aveva avuto modo di affermare che, in assenza di norme che diversamente dispongano, il processo civile è regolato nella sua interezza dal rito vigente al momento della proposizione della domanda, non potendo il principio del tempus regit actum, in forza del quale lo ius superveniens trova applicazione immediata in materia processuale, che riferirsi ai singoli atti da compiere, isolatamente considerati, e non già all'intero nuovo rito. Infatti, posto che il «rito» è da intendersi come l'«insieme» delle regole sistematicamente organizzate in vista della statuizione giudiziale, l'applicazione di un nuovo rito ad un processo già iniziato, in assenza di norme transitorie che ciò autorizzino, si tradurrebbe in una non consentita applicazione retroattiva di quell'«insieme», invece vietata dal principio di irretroattività della legge contenuto nell'art. 11 delle disposizioni sulla legge in generale, di cui lo stesso art. 5 c.p.c. è applicazione (Cass. n. 20811/2010).

Infine, la questione ha trovato una risposta chiarificatrice da parte della Corte di cassazione, la quale, da un lato ha riconosciuto la natura esclusivamente processuale della norma relativa al giudizio preventivo di ammissibilità e, dall'altro, ha affermato il principio di diritto secondo il quale la sopravvenuta abrogazione della disposizione di cui all'art. 5 l. n. 117/1988, per effetto dell'art. 3, comma 2, della l. n. 18/2015, non esplica efficacia retroattiva, onde l'ammissibilità della domanda di risarcimento dei danni cagionati nell'esercizio delle funzioni giudiziarie deve essere delibata alla stregua delle disposizioni processuali vigenti al momento della sua proposizione.

Il giudizio di ammissibilità previsto dall'art. 5 cit. pertanto prosegue secondo le norme poste da questa disposizione qualora la domanda sia stata avanzata con ricorso depositato prima del 19 marzo 2015, data di entrata in vigore della legge n. 18 del 2015.

A tale conclusione la citata sentenza è pervenuta applicando il noto il principio del tempus regit actum, come focalizzato dalla dottrina tradizionale e recepito dalla giurisprudenza (Cass. n. 6099/2000), dal quale, ha osservato, derivano due conseguenze in caso di successione di norme processuali nel tempo: a) applicazione immediata della nuova regola ai processi pendenti con riguardo a tutti gli atti ancora da compiere; b) conservazione della validità e dell'efficacia degli atti compiuti nel vigore della regola abrogata (c.d. facta praeterita).

Alla prima conseguenza fa riferimento la dottrina pressoché unanime allorché, con espressione ormai tralatizia, usa ripetere che lo jus superveniens in materia processuale è per sua natura di immediata applicazione.

Alla seconda conseguenza fa riferimento la giurisprudenza allorché puntualizza che il principio dell'immediata applicazione della legge processuale sopravvenuta... ha riguardo soltanto agli atti processuali successivi all'entrata in vigore della legge stessa, alla quale non è dato incidere, pertanto, sugli atti anteriormente compiuti, i cui effetti restano regolati, secondo il fondamentale principio del tempus regit actum, dalla norma sotto il cui imperio siano stati posti in essere (Cass. n. 6099/2000, cit.).

Con il corollario che quando il giudice procede ad un esame retrospettivo delle attività svolte, ne stabilisce la validità applicando la legge che vigeva al tempo in cui l'atto è stato compiuto, essendo la retroattività della legge processuale un effetto che può essere previsto dal legislatore con norme transitorie, ma che non può essere liberamente ritenuto dall'interprete (Cass. n. 20414/2006).

Prendendo le mosse da tali principi, la Corte di cassazione (Cass. n. 25216/2015) ha quindi evidenziato che l'art. 5 della legge n. 117/1988 disciplina la domanda introduttiva della lite, disponendone l'assoggettamento ad un giudizio (o meglio ad un sub-procedimento o c.d. procedimento filtro) di ammissibilità, e che la norma dell'art. 3, comma secondo, della legge n. 18 del 2015 ha abrogato proprio siffatto procedimento avente ad oggetto la domanda introduttiva: ne deriva che, conclude la medesima sentenza, se la norma sopravvenuta si applicasse immediatamente si avrebbe che la domanda presentata nel vigore della disciplina preesistente, verrebbe ammessa secondo la disciplina sopravvenuta, riconoscendo a quest'ultima effetti retroattivi, e ciò in palese violazione proprio del principio del tempus regit actum, in quanto si avrebbe che un atto (di parte) del processo, quale è la domanda introduttiva della lite, pur essendo stato compiuto nel vigore di un'apposita norma, non sarebbe da questa disciplinato, nel senso che gli effetti di esso verrebbero regolati secondo la legge sopravvenuta (Cass. n. 25216/2016; conf. Cass. n. 932/2017).

In materia di responsabilità civile dei magistrati, nel procedimento camerale di cui all'art. 5 della l. n. 117 del 1988, ratione temporis applicabile, il giudice istruttore, nel rimettere al Collegio la decisione sull'ammissibilità della domanda di cui all'art. 2 della citata legge, in sede di prima udienza di trattazione deve rilevare, a norma dell'art. 38 c.p.c., la questione di competenza in ordine alla quale l'organo collegiale, cui è riservata la decisione in parola, può sollevare il regolamento d'ufficio a norma dell'art. 45 c.p.c. In mancanza del suddetto tempestivo rilievo, il regolamento stesso dev'essere dichiarato inammissibile perché tardivo (Cass. n. 26072/2019).

Inoltre, il principio di pubblicità dell'udienza, per quanto risulti consacrato nell'art. 6 della CEDU ed abbia valore costituzionale, non è assoluto, essendo suscettibile di deroga, tra l'altro, quando il giudice possa adeguatamente risolvere le questioni di fatto o di diritto sottoposte al suo esame in base agli atti del fascicolo ed alle osservazioni delle parti (Cass. n. 1067/2019, principio affermato con riferimento al procedimento per la verifica dell'ammissibilità di una domanda di risarcimento dei danni in una fattispecie di responsabilità civile dei magistrati, di cui all'art. 5 della l. n. 117 del 1988, ratione temporis vigente).[

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