Legge - 13/04/1988 - n. 117 art. 6 - Intervento del magistrato nel giudizio.

Paola D'Ovidio

Intervento del magistrato nel giudizio.

1. Il magistrato il cui comportamento, atto o provvedimento rileva in giudizio non può essere chiamato in causa ma può intervenire in ogni fase e grado del procedimento, ai sensi di quanto disposto dal secondo comma dell'articolo 105 del codice di procedura civile. Al fine di consentire l'eventuale intervento del magistrato, il presidente del tribunale deve dargli comunicazione del procedimento almeno quindici giorni prima della data fissata per la prima udienza.

2. La decisione pronunciata nel giudizio promosso contro lo Stato non fa stato nel giudizio di rivalsa se il magistrato non è intervenuto volontariamente in giudizio. Non fa stato nel procedimento disciplinare.

3. Il magistrato cui viene addebitato il provvedimento non può essere assunto come teste né nel giudizio di ammissibilità, né nel giudizio contro lo Stato.

Inquadramento

La legge Vassalli è modellata sul principio della responsabilità indiretta del magistrato-persona fisica, in virtù del quale l'azione risarcitoria può essere proposta in via diretta dal danneggiato nei soli confronti dello Stato (artt. 2, comma 1 e 4, l. n.117/1988).

Pur non essendo contemplata dalla legge la citazione diretta in giudizio anche del magistrato asseritamente autore del danno, e quindi neppure la sua chiamata in causa, l'art. 6 abilita tuttavia quest'ultimo ad intervenire nel giudizio contro lo Stato-Presidenza del Consiglio, in ogni fase e grado del procedimento. A tal fine il Presidente del Tribunale deve dargli comunicazione del procedimento almeno quindici giorni prima della data fissata per la prima udienza.

Dunque, ai sensi del citato art. 6, il magistrato è legittimato unicamente a svolgere intervento adesivo dipendente a norma dell'art. 105, comma 2, c.p.c. e, ove ritenga di non esercitare tale facoltà, la pronuncia di condanna emessa nei confronti dello Stato non farà stato nel giudizio di rivalsa contro di lui; tale pronuncia, comunque, in nessun caso può condizionare il procedimento disciplinare.

Viceversa, l'eventuale intervento volontario del magistrato nel giudizio intentato contro lo Stato renderebbe a lui opponibile l'accertamento dei fatti compiuto nel detto giudizio.

Peraltro, in sede di rivalsa (ora obbligatoria, ma solo in relazione a specifiche fattispecie ed a certe condizioni), tale accertamento non sarà comunque sufficiente a fondare l'esito positivo dell'azione di recupero da parte dello Stato, in quanto tale esito sarà condizionato all'ulteriore accertamento sulla sussistenza del «dolo» o della «negligenza inescusabile», quantomeno per quanto riguarda le fattispecie della manifesta violazione della legge e del diritto dell'Unione Europea, nonché quella del travisamento del fatto e delle prove (art. 7).

A seguito dell'intervento, si configura un litisconsorzio necessario processuale tra le parti originarie ed il magistrato intervenuto, ma quest'ultimo acquista poteri limitati, in quanto subordinati all'attività svolta dalla parte adiuvata (i.e. lo Stato), non potendo neppure proporre alcuna autonoma impugnazione.

In ogni caso, il magistrato cui sia riferibile il comportamento, l'atto o il provvedimento posti a fondamento dell'azione di responsabilità nei confronti dello Stato, anche nell'ipotesi che non intenda intervenite in quel giudizio, potrà sempre fornire al Ministero tutti gli elementi a sua disposizione per consentire all'Avvocatura dello Stato una difesa adeguata dello Stato stesso.

La struttura del giudizio di responsabilità civile per illeciti giudiziari (diretta nei confronti dello Stato ed indiretta nei confronti del magistrato) è rilevante anche per i riflessi sulla configurabilità delle ipotesi di astensione obbligatoria e ricusabilità del giudice.

Se il magistrato decide di non intervenire nel giudizio, certamente non sarà tecnicamente prospettabile una ipotesi di pendenza di un processo tra il magistrato stesso e la parte ai sensi dell'art. 51, comma 1, n. 3 c.p.c.

Con riferimento, invece, al caso in cui il magistrato opti per l'intervento adesivo, si è posta qualche incertezza interpretativa che, tuttavia, la giurisprudenza di legittimità ha risolto nel senso di escludere che ricorra una ipotesi di ricusazione o astensione obbligatoria.

Il secondo comma dell'art. 6, stabilendo che la decisione pronunciata contro lo Stato non fa stato nel procedimento disciplinare, è espressione del principio generale in tema di autonomia dell'azione disciplinare da quella civile di danno, nonché della esplicita limitazione ai soli casi della sentenza penale, di condanna o di assoluzione, della possibilità che una decisione giudiziale assuma autorità di giudicato nel giudizio disciplinare (art. 20 d.lgs. n. 109/2006).

Il comma 3 dell'art. 6, infine, opportunamente esclude che il magistrato cui viene addebitato il provvedimento possa essere assunto come teste nel giudizio contro lo Stato.

Natura ed effetti dell'intervento del magistrato nel giudizio risarcitorio contro lo Stato

La qualificazione dell'intervento ex art. 6 l. n. 117/1998 come intervento adesivo dipendente ex art. 105, secondo comma, c.p.c., in mancanza del quale la pronuncia di condanna non fa stato contro il magistrato nel giudizio di rivalsa, è stata autorevolmente fornita dalla Consulta, la quale ha anche chiarito, in linea con il testo della norma, che l'eventuale intervento non fa in nessun caso stato in sede disciplinare (Corte cost. n. 301/1999).

A sua volta, la giurisprudenza di legittimità, pronunciandosi con riferimento alla applicabilità delle norme del codice di rito in tema di spese processuali, ha espressamente qualificato in termini di intervento adesivo dipendente la posizione del magistrato intervenuto a norma dell'art. 6 della legge n. 117/1988, precisando che il medesimo diventa parte del giudizio e che, in caso di soccombenza, l'attore può essere condannato alle spese a favore del magistrato interveniente (Cass. n. 1105/2006).

La Corte di cassazione ha anche chiarito che il magistrato interveniente ha i poteri limitati propri dell'intervento adesivo dipendente previsto dall'art. 105, secondo comma, c.p.c.: quest'ultimo, infatti, dà luogo ad un giudizio unico con pluralità di parti, nel quale i poteri dell'intervenuto sono limitati all'espletamento di un'attività accessoria e subordinata a quella svolta dalla parte adiuvata, potendo egli sviluppare le proprie deduzioni ed eccezioni unicamente nell'ambito delle domande ed eccezioni proposte da detta parte. Pertanto, in caso di acquiescenza alla sentenza della parte adiuvata, l'interventore non può proporre alcuna autonoma impugnazione, né in via principale né in via incidentale. In applicazione di tale principio la S.C. ha dichiarato inammissibile il ricorso incidentale condizionato proposto da un magistrato nel giudizio tra il cittadino e lo Stato italiano, ove egli aveva spiegato intervento adesivo dipendente, relativamente ad un capo della sentenza di appello non impugnato dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri (Cass. n. 24370/2006).

In linea generale, infatti, è principio consolidato nella giurisprudenza di legittimità quello secondo il quale la parte che svolge intervento adesivo dipendente, ai sensi del secondo comma dell'art. 105 c.p.c. può aderire all'impugnazione proposta dalla parte medesima ma non proporre impugnazione autonoma, la quale deve essere dichiarata inammissibile (Cass. n. 3734/2009; Cass. n. 5744/2011).

In tal senso si sono pronunciate anche le Sezioni Unite, specificando che l'interventore adesivo ha un'autonoma legittimazione ad impugnare solo nel caso in cui l'impugnazione sia limitata alle questioni specificamente attinenti la qualificazione dell'intervento o alla condanna alle spese imposte a suo carico; inoltre, esso non vanta un interesse concreto ed attuale all'impugnazione di affermazioni pregiudizievoli contenute nella sentenza favorevole, qualora svolte in via incidentale e sprovviste della forza vincolante del giudicato (Cass. S.U., n. 5992/2012).

In coerenza con tali principi, è stato altresì affermato che il ricorso per cassazione proposto in via autonoma e principale dall'interveniente adesivo dipendente va esaminato come ricorso incidentale adesivo rispetto a quello della parte adiuvata, da intendersi quale ricorso principale, posto che il predetto interveniente, cui è preclusa l'impugnazione in via autonoma della sentenza sfavorevole alla parte adiuvata, salvo che per la statuizione di condanna alle spese giudiziali pronunziata nei suoi confronti, conserva in tal modo la sua posizione processuale secondaria e subordinata, potendo aderire all'impugnazione della parte adiuvata (Cass. n. 23235/2013; Cass. n. 16930/2013).

Effetti dell'intervento ai fini dell'astensione obbligatoria e della ricusazione del magistrato intervenuto

La Suprema Corte, nel regime precedente l'entrata in vigore della l. n. 18/2015, aveva avuto occasione di chiarire che la «causa pendente» tra ricusato e ricusante, ai sensi e per gli effetti dell'art. 51, comma 1, n. 3, c.p.c., non può essere costituita dal giudizio di responsabilità di cui alla legge 13 aprile 1988, n. 117, che non è un giudizio nei confronti del magistrato, bensì nei confronti dello Stato (Cass. n. 16627/2014).

Tale principio è stato successivamente ribadito dalle Sezioni Unite sull'analogo rilievo che il magistrato non assume mai la qualità di debitore di chi abbia proposto la relativa domanda ex lege n. 117/1988, questa potendo essere rivolta, anche dopo la legge 27 febbraio 2015, n. 18, nei soli confronti dello Stato (Cass. S.U., ord. n. 13018/2015).

La pronuncia da ultimo citata, peraltro, ha ripreso e condiviso la motivazione già espressa sulla questione, nel vigore della legge n. 18/2015, dalla Cassazione penale.

Quest'ultima, invero, ha escluso che la proposizione da parte dell'imputato di una azione per il risarcimento dei danni cagionati nell'esercizio delle funzioni giudiziarie costituisca ragione idonea e sufficiente ad imporre la sostituzione del singolo magistrato, anche nel caso in cui il medesimo intervenga nel giudizio, ed ha altresì ritenuto che tale azione, se proposta nei confronti di più magistrati appartenenti allo stesso ufficio, possa costituire «grave situazione locale», esterna alla dialettica processuale, tale da imporre il trasferimento della regiudicanda ex art. 45 c.p.p.

La sentenza della Cassazione penale di cui si discorre, in motivazione, chiarisce che il magistrato la cui condotta professionale sia stata oggetto di una domanda risarcitoria ex l. n. 117/1988, non assume mai la qualità di debitore di chi tale domanda abbia proposto. Ciò per l'assorbente ragione che la domanda (anche dopo la l. n. 18/2015) può essere proposta solo ed esclusivamente nei confronti dello Stato (salvi i casi di condotta penalmente rilevante, art. 13).

Né la eventualità di una successiva rivalsa dello Stato nei confronti del magistrato, nel caso in cui quell'originaria azione si sia conclusa con la condanna dell'Amministrazione, muta la conclusione, perché i presupposti e i contenuti dell'azione di rivalsa sono parzialmente diversi da quelli dell'azione diretta della parte privata nei confronti del solo Stato (art. 7; artt. 2 e 3). Il che, tra l'altro, impone di escludere che, anche nel caso di intervento del magistrato nel processo civile che la parte promuove ex l. n. 117 del 1988 (art. 6), si instauri un rapporto diretto parte/magistrato che possa condurre alla qualificazione del secondo in termini di, anche solo potenziale, debitore della prima (Cass. pen. n. 16924/2015).

In dottrina non sono mancate opinioni contrarie alla soluzione offerta dalla giurisprudenza, fondate sul rilievo che, in realtà, nel momento in cui il giudice spiega intervento (adesivo) in causa ex art. 105, secondo comma, c.p.c., si determina una situazione di «causa pendente» che riguarda il giudice interveniente e la parte attrice, entrambi parti della stessa causa. L'interveniente adesivo diventa parte del giudizio ed anzi a seguito dell'intervento adesivo volontario si configura un litisconsorzio necessario processuale sicché, come si è ritenuto in giurisprudenza (Cass. n. 8350/2007), la causa deve considerarsi inscindibile nei confronti dell'interveniente, con la conseguenza che la controversia civile promossa dal danneggiato che faccia valere nei confronti dello Stato la pretesa risarcitoria per il danno ingiusto asseritamente subito a causa dell'attività del giudice è, sì, res inter alios, ma solo inizialmente se (e fin quando) non c'è l'intervento del giudice (Amoroso, 2015).

In senso adesivo all'interpretazione giurisprudenziale si è invece osservato che, in primo luogo, il problema dell'astensione o ricusazione potrebbe porsi solo nell'ipotesi in cui si verifichi la contemporanea pendenza della causa di responsabilità civile verso lo Stato e di quella in cui il magistrato interessato avrebbe posto in essere l'atto o il fatto «incriminato», situazione che, a ben vedere, dovrebbe verificarsi raramente, in quanto significativamente limitata dalla regola della sussidiarietà dell'azione risarcitoria (art. 4, comma 2 l. n. 117/1988). Quand'anche, però, tale ipotesi si verificasse, neppure sembra che da essa potrebbe derivare una automatica sostituzione del giudice, considerato che la parte attrice nel giudizio di responsabilità promosso nei confronti dello Stato e il magistrato intervenuto in quel giudizio sarebbero, sì, parti dello stesso giudizio, ma solo sul piano processuale e non su quello sostanziale, nel senso che nei confronti del magistrato la parte attrice non potrebbe comunque proporre alcuna domanda ed il Tribunale non potrebbe emettere alcuna pronuncia di condanna.

In altri termini, si avrà una «pendenza del processo», ma non una «pendenza della causa», in quanto l'oggetto sostanziale dell'originaria controversia non potrà essere esteso al magistrato interveniente, il quale non avrà neppure un'autonoma legittimazione all'impugnazione (D'Ovidio, 139).

Bibliografia

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