Legge - 24/03/2001 - n. 89 art. 1 bis - (Rimedi all'irragionevole durata del processo) 1

Rosaria Giordano

(Rimedi all'irragionevole durata del processo) 1

1. La parte di un processo ha diritto a esperire rimedi preventivi alla violazione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali, ratificata ai sensi della legge 4 agosto 1955, n. 848 , sotto il profilo del mancato rispetto del termine ragionevole di cui all'articolo 6, paragrafo 1, della Convenzione stessa.

2. Chi, pur avendo esperito i rimedi preventivi di cui all'articolo 1-ter, ha subito un danno patrimoniale o non patrimoniale a causa dell'irragionevole durata del processo ha diritto ad una equa riparazione.

Inquadramento

La legge n. 89 del 2001, c.d. Pinto, ha la propria «ragion pratica» nelle numerose condanne pronunciate dalla Corte europea dei diritti dell'uomo nei confronti dello Stato italiano per violazione dell'art. 6 CEDU, per la durata irragionevole dei processi.

È stato quindi sancito il diritto di ciascuna parte di un giudizio irragionevolmente lungo – secondo gli stessi parametri indicati dalla giurisprudenza europea – di attivare un rimedio interno, di fronte alla Corte d'appello, per ottenere un'equa riparazione. Soltanto se il rimedio nazionale non soddisfa completamente la parte, la stessa potrà adire nuovamente la Corte di Strasburgo per ottenere congrua tutela.

La legge n. 208 del 2015 ha introdotto con la norma in esame la condizione di ammissibilità alla proposizione del ricorso per equa riparazione costituita dall'attivazione di rimedi preventivi interni.

Le garanzie dell'equo processo

L'art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, rubricato «diritto ad un processo equo», prevede, con particolare riguardo al processo civile, che ogni persona ha diritto ad un'equa e pubblica udienza entro un termine ragionevole, davanti ad un Tribunale indipendente ed imparziale costituito per legge, al fine di determinare i suoi diritti ed obblighi di carattere civile, nonché che la sentenza deve essere resa pubblicamente (cfr. già Andrioli 1443 ss.).

Tale disposizione costituisce l'archetipo delle norme che enucleano le garanzie dell'equo processo, anticipando di molti anni i principi successivamente sanciti anche nell'ambito del sistema comunitario con la Carta di Nizza ed in alcuni ordinamenti interni degli Stati contraenti, atteso l'evidente nesso genetico, anche sotto il profilo letterale, dell'art. 111 Cost., come novellato dalla legge cost. n. 2/1999, con l'art. 6 CEDU quanto al novero delle garanzie contemplate (v., tra gli altri, Tarzia 2001, 1 ss.; Monteleone 2001, 523; Bove 2002, 482; Caianiello 2001, 42 ss.).

L'importanza della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo sull'art. 6 CEDU è pertanto ritenuta fondamentale, poiché la stessa costituisce il modello per l'interpretazione delle più recenti norme dedicate al giusto processo (Tarzia, 6).

La Corte europea, invero, sin dalla nota pronuncia Irlanda c. Regno Unito, ha affermato il principio per il quale le proprie decisioni hanno un duplice effetto, poiché le stesse, da una parte, sono volte a risolvere la controversia concreta e, da un'altra, sono più in generale finalizzate a chiarire, salvaguardare e sviluppare le disposizioni della CEDU (Corte europea dir. uomo 10 gennaio 1978, Irlanda c. Regno Unito, la quale è disponibile nel testo ufficiale, come le altre pronunce della Corte, in lingua francese o inglese, all'indirizzo www.echr.coe.int).

La Corte ha di qui sancito la teoria della c.d. autorité de la chose interpretée, ancorandola, dal punto di vista positivo, all'art. 32 Convenzione, norma che estende la competenza ratione materiae della Corte a tutte le controversie relative all'interpretazione della Convenzione medesima. Ne deriva che ogni previsione della Convenzione europea non deve essere intesa esclusivamente secondo il significato letterale della stessa, bensì alla luce della relativa giurisprudenza, che assume valenza vincolante per l'interpretazione della disposizione scritta. Tale circostanza ha sollevato in dottrina l'interrogativo se possa predicarsi, di qui, anche un'efficacia erga omnes delle pronunce della Corte di Strasburgo, i.e. ritenere ogni Stato contraente obbligato a modificare una propria legislazione o prassi interna anche qualora la Corte abbia condannato per il medesimo motivo un diverso Stato contraente (Lambert 1999, 1 ss.).

Le garanzie dell'equo processo trovano applicazione, secondo quanto previsto dall'art. 6, § 1. CEDU, esclusivamente nelle controversie vertenti su diritti e doveri di carattere civile o sulla fondatezza di ogni accusa penale formulata nei confronti del ricorrente.

Limitando in questa sede l'indagine al processo civile, occorre innanzitutto premettere che la Corte di Strasburgo ha scelto di interpretare l'espressione «controversie su diritti ed obblighi in materia civile» in via autonoma rispetto alle categorie invalse all'interno dei sistemi giuridici degli Stati contraenti (Corte europea dir. uomo 5 ottobre 2000, Mennitto c. Italia; Corte europea dir. uomo 24 settembre 2002, Posti e Rahko c. Finlandia), chiarendo che, ai fini dell'operatività delle garanzie dell'equo processo, deve essere in corso tra le parti una controversia reale e seria avente ad oggetto un diritto riconosciuto come tale nell'ordinamento nazionale ovvero le modalità di esercizio dello stesso (Corte europea dir. uomo, 21 febbraio 1986, James e altri c. Regno Unito).

La Corte europea ha inoltre ritenuto, almeno a partire dalla pronuncia König, che rientrano nella materia civile tutte le controversie aventi ad oggetto diritti di carattere privato, i.e. fondate sull'assunta violazione di un diritto di natura patrimoniale (oltre a Corte europea dir. uomo, 28 giugno 1978, König c. Repubblica Federale tedesca, v., in senso conforme, nella successiva giurisprudenza della Corte 23 giugno 1981, Le Compte, Van Leuven e De Megere c. Belgio; 28 settembre 1995, Procola c. Lussemburgo).

L'adozione di tale criterio, rispetto a quello precedente secondo cui controversie in materia civile erano considerate meramente quelle di natura privata in senso sia soggettivo che oggettivo, ha consentito di estendere l'ambito di applicazione dell'art. 6 Cedu anche a settori che in precedenza si ritenevano afferenti in via esclusiva al diritto pubblico (Sudre 2003, 302 ss.) quali il contenzioso disciplinare dei professionisti (cfr. Corte europea dir. uomo 20 maggio 1998, Gautrin c. Francia, spec. par. 33; Corte europea dir. uomo 30 novembre 1987, H. c. Belgio, sul contenzioso disciplinare degli avvocati) le cause previdenziali (v., tra le altre, Corte europea dir. uomo 26 febbraio 1993, Salesi c. Italia,; Feldbrugge c. Paesi Bassi, 29 maggio 1986) e di lavoro, anche se concernenti il pubblico impiego, salve le controversie che riguardano i pubblici impiegati i quali partecipino, anche indirettamente, all'esercizio di pubbliche funzioni ed, inoltre, volte a tutelare interessi generali dello Stato o di altri enti pubblici (sicché non è sufficiente il mero svolgimento di pubbliche funzioni per precludere l'accesso al giudice del ricorrente: Corte europea dir. uomo, Gr. Ch., 8 dicembre 1999, Pellegrini c. Francia,; conf., nella successiva giurisprudenza della Corte 30 marzo 2000, Procaccini c. Italia; 27 giugno 2000, Frydlender c. Francia; 19 aprile 2007, Vilbo Eskelinen c. Finlandia; 25 ottobre 2007, Efendiyeva c. Azerbaijan).

Nel considerare l'ambito di operatività dell'art. 6 Cedu appare poi particolarmente significativa la pronuncia Ruiz-Mateos (Corte europea dir. uomo 23 giugno 1993, Ruiz-Mateos c. Spagna: nella specie, il ricorrente aveva lamentato l'irragionevole durata del giudizio instaurato direttamente dinanzi alla Corte Costituzionale spagnola mediante un recurso de amparo: cfr. Corte europea dir. uomo 23 ottobre 1984, Sramek c. Germania, par. 35; 6 maggio 1981, Buchloz c. Germania, par. 48) nella quale la Corte di Strasburgo ha affermato che le garanzie dell'equo processo sancite dall'art. 6 Cedu si applicano anche nei giudizi dinanzi alla Corte costituzionale, sia nelle ipotesi di ricorso costituzionale diretto (Corte europea dir. uomo, 26 settembre 2002, Becker c. Germania; 25 novembre 2003, Soto Sanchez c. Spagna) che indiretto, nonché, laddove previsto dal diritto nazionale, qualora il ricorso venga proposto direttamente contro una legge (Corte europea dir. uomo 8 gennaio 2004, Voggenreiter c. Germania) restando quindi escluse soltanto le controversie vertenti esclusivamente tra pubblici poteri.

Alcune controversie non possono tuttavia essere in alcun modo ricondotte alla materia civile, poiché, secondo la Corte di Strasburgo, un'interpretazione anche estensiva dell'art. 6 Cedu non può giungere al punto di non tener in alcun conto la formulazione letterale della norma nella parte in cui fa riferimento alle controversie in tema di diritti ed obblighi di carattere civile (Corte europea dir. uomo 12 luglio 2001, Ferrazzini c. Italia, par. 30). Nella delineata prospettiva, quindi, la Corte europea ha chiarito che non possono ricondursi alla materia civile le controversie aventi ad oggetto diritti politici e quelle tributarie, le quali ultime attengono al nocciolo duro delle prerogative dello Stato, nel quale la natura pubblica della relazione tra il contribuente e lo Stato resta predominante (Corte europea dir. uomo 12 luglio 2001, Ferrazzini c. Italia, par. 29).

Il diritto alla ragionevole durata del processo nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo

La Corte europea dei diritti umani ha più volte ribadito che il rispetto della durata ragionevole del processo, rientrante tra le garanzie del processo equo ai sensi dell'art. 6 Cedu, è uno strumento per garantire l'efficienza e la credibilità della giustizia (Corte europea dir. uomo, 24 ottobre 1989, H c. Francia).

Allo scopo di verificare la sussistenza di una violazione dell'art. 6 Cedu in ragione dell'eccessiva durata di una procedura giudiziaria occorre innanzitutto individuare l'ambito temporale di riferimento, ossia il momento iniziale e quello conclusivo della procedura (Corte europea dir. uomo, 14 novembre 2000, Piron c. Francia).

In materia civile, occorre a tal fine aver riguardo, quale dies a quo, al momento nel quale è adita l'autorità giudiziaria mediante il deposito del ricorso (Corte europea dir. uomo 6 maggio 1981, Buccholz c. Germania). Nelle ipotesi di giurisdizione c.d. condizionata, i.e. quando è possibile adire l'autorità giudiziaria soltanto dopo aver svolto una determinata attività quali, ad esempio, la proposizione del tentativo obbligatorio di conciliazione ovvero di un ricorso amministrativo (Corte europea dir. uomo 29 luglio 2003, Santoni c. Francia; 26 aprile 1994, Vallée c. Francia; 31 marzo 1992, X c. Francia), è necessario considerare nella durata complessiva del procedimento anche il tempo necessario allo svolgimento di siffatte attività preliminari (Edel 2007, 20 ss.) Analogamente, nell'ipotesi di pronuncia di incompetenza o dichiarativa del difetto relativo di giurisdizione dell'autorità giudiziaria adita, dovrà essere presa in considerazione anche la durata del procedimento dinanzi al giudice che ha emanato la decisione di rito (Corte europea dir. uomo 9 giugno 1998, Roche c. Francia).

Momento conclusivo del processo rispetto al quale apprezzare la durata complessiva dello stesso è, secondo la Corte europea, quello in cui la pronuncia è diventata definitiva: peraltro, tutte le volte che, ai fini della concreta soddisfazione dei diritti della parte vittoriosa, è necessaria l'esecuzione della sentenza, almeno secondo la Corte europea dei diritti dell'uomo, il processo potrà considerarsi concluso soltanto qualora la decisione abbia avuto compiuta esecuzione (Corte europea dir. uomo 19 marzo 1997, Hornsby c. Grecia; 26 settembre 1996, Di Pede e Zappia c. Italia).

A partire dalla fondamentale pronuncia König (Corte europea dir. uomo, König c. Repubblica Federale Tedesca, cit.), la Corte di Strasburgo ha individuato i parametri con riferimento ai quali deve essere valutata, in concreto, la ragionevolezza della durata della procedura, ossia la complessità della controversia, il comportamento del ricorrente e quello delle autorità nazionali. La valutazione avente ad oggetto la durata ragionevole o meno di un processo non si traduce invero in un apprezzamento astratto, fatta salva l'ipotesi-limite in cui lo Stato convenuto sia stato già condannato per una prassi incompatibile con la Convenzione, ma costituisce un apprezzamento concreto che deve tenere conto delle richiamate circostanze.

Criterio fondamentale rispetto al quale deve essere valutata la durata del giudizio è quello della complessità della causa, da considerare sia in relazione ai fatti oggetto della stessa sia alle questioni giuridiche sollevate. I fatti oggetto della controversia possono essere ritenuti complessi e giustificare una maggiore durata della procedura, ad esempio, quando è necessario espletare una consulenza tecnica (Corte europea dir. uomo 4 ottobre 2001, Ilowiecki c. Polonia, par. 87; 23 febbraio 1993, Billi c. Italia, par. 19) o dividere un unico bene tra più eredi (Corte europea dir. uomo 27 febbraio 1992, Vorrasi c. Italia, par. 102).

Quanto alla complessità delle questioni giuridiche, la Corte ha fatto riferimento, tra le altre, alla novità della legge da interpretare (Corte europea dir. uomo 8 dicembre 1983, Pretto c. Italia), alla proposizione di una questione di legittimità costituzionale (Corte europea dir. uomo 26 novembre 1992, Giancarlo Lombardo c. Italia, par. 2; Ruiz-Mateos c. Spagna, cit., par. 41), all'esigenza di interpretare ed applicare una legge straniera o un Trattato internazionale (Corte europea dir. uomo 24 gennaio 1994, Beaumartin c. Francia, par. 33).

Non si può trascurare, inoltre, che la giurisprudenza europea ha ritenuto che la causa può considerarsi complessa anche quando ciò dipenda da ragioni strettamente processuali, quali, ad esempio, la pluralità di parti in causa, le numerose istanze proposte nel corso del giudizio, l'esigenza di ottenere l'esecuzione di rogatorie all'estero (v., anche per i riferimenti, Edel 41 ss.).

In secondo luogo la durata del processo deve essere considerata alla luce del comportamento delle parti in causa, poiché esclusivamente i ritardi imputabili allo Stato convenuto possono comportare una condanna da parte della Corte europea per violazione della ragionevole durata della procedura (in tal senso, tra le molte, Corte europea dir. uomo 4 dicembre 1995, Ciricosta e Viola c. Italia, par. 28; 18 luglio 1994, Vendittelli c. Italia, par. 25; 21 novembre 1995, Acquaviva c. Francia, par. 61). I comportamenti delle parti suscettibili di incidere negativamente sulla durata della stessa possono concretarsi, tra l'altro, nell'aver inizialmente adito un giudice incompetente (Corte europea dir. uomo 10 febbraio 1995, Allenet de Ribemont c. Francia, par. 53), nell'allegazione di fatti nuovi successivamente rivelatisi inesatti (Corte europea dir. uomo, Buccholz c. Germania, cit., par. 56 ss.), nei ritardi nello svolgimento di attività di impulso processuale quali la riassunzione della causa a seguito dell'interruzione della stessa (Corte europea dir. uomo 27 febbraio 1992, Cardarelli c. Italia, par. 17; Capuano c. Italia, cit., par. 28) o della riassunzione in sede di rinvio dopo la pronuncia di annullamento della Corte di Cassazione (Corte europea dir. uomo, 27 febbraio 1992, Ruotolo c. Italia, par. 17), nella notifica della sentenza alla parte soccombente (Corte europea dir. uomo, 26 febbraio 1992, Borgese c. Italia, par. 18).

Terzo criterio per valutare la ragionevolezza della durata della procedura è il comportamento delle autorità nazionali, ed in particolare quello dell'autorità giudiziaria. La Corte ha a riguardo evidenziato che, in generale, gli Stati contraenti sono tenuti ad organizzare il proprio sistema giudiziario in modo da rispettare le garanzie dell'art. 6, par. 1, Cedu e, tra esse, il principio di ragionevole durata del processo. L'eccessivo carico di ruolo degli uffici giudiziari non esime, in sé e per sé, dal rispetto di tale principio: tuttavia, lo Stato convenuto può evitare la condanna da parte della Corte di Strasburgo se rimedia rapidamente, mediante opportune riforme legislative, alla situazione che impedisce strutturalmente di assicurare giustizia ai cittadini in tempi adeguati (Corte europea dir. uomo, Buccholz c. Germania, cit.).

Non spetta peraltro alla Corte europea dei diritti dell'uomo indicare le misure normative che in concreto devono essere adottate dagli Stati contraenti per rimediare alla strutturale inadeguatezza del proprio sistema ad assicurare giustizia in tempi ragionevoli ma soltanto valutare ex post l'efficacia dei rimedi adottati rispetto all'obiettivo perseguito (Corte europea dir. uomo 13 luglio 1983, Zimmermann e Steiner c. Svizzera, par. 29 ss.; 25 giugno 1987, Milasi c. Italia, par. 22 ss; 7 luglio 1989, Union Alimentaria Sanders c. Spagna, par. 37-42).

Considerazione peculiare deve essere riservata, infine, a quello che riteniamo sia il più importante criterio alla luce del quale va valutata la durata del processo, ovvero la posta in gioco dello stesso per le parti in causa, il c.d. enjeu (Corte europea dir. uomo, Vallée c. Francia, cit., par. 49; 26 agosto 1994, Karakaya c. Francia, par. 45). È intuitivo, difatti, che molto diverse sono le sofferenze ipoteticamente riconducibili all'eccessiva durata della procedura a seconda dell'oggetto della stessa. Atteso ciò, la Corte ha distinto tra le ipotesi in cui l'autorità giudiziaria deve, in relazione alla posta in gioco per la parte, definire celermente i relativi procedimenti con una diligenza particolare rispetto agli altri, dai giudizi nei quali è persino necessaria, a tal fine, una diligenza eccezionale. Nella prima categoria rientrano, con riguardo alla materia civile, le controversie in tema di stato e capacità delle persone, specie qualora la decisione possa incidere sul godimento di un diritto ovvero sul dispetto della vita familiare (Corte europea dir. uomo 29 giugno 2004, Voleskỳ c. Repubblica Ceca, e 18 febbraio 1999, Laino c. Italia, entrambe in tema di esercizio del diritto di visita sul figlio minore da parte del genitore non affidatario), nonché le cause relative alla vita professionale del ricorrente (Corte europea dir. uomo 23 aprile 1998, Doustaly c. Francia,in Jcp, 1999, I, 105, con osservazione di Sudre; 26 settembre 2000, Garcia c. Francia).

Una diligenza eccezionale deve essere osservata dalle autorità giudiziarie nazionali, invece, nella definizione dei giudizi che riguardano soggetti che soffrono di un male incurabile o con una ridotta prospettiva di vita (Corte europea dir. uomo 8 febbraio 1996, A. e altri c. Danimarca, par. 78; 19 marzo 2002, Kritt c. Francia, par. 14) ed, altresì, quelli aventi ad oggetto una restrizione della potestà genitoriale (Corte europea dir. uomo 19 febbraio 1998, Paulsen-Medalen e Svensson c. Svezia, par. 39).

Il c.d. «caso italiano» dinanzi alla Corte di Strasburgo

La strutturale difficoltà del sistema italiano nell'assicurare una tutela in tempi ragionevoli, dovuta anche alla disciplina generale del nostro processo civile, aveva negli anni scorsi comportato la proposizione di numerosissimi ricorsi innanzi alla Corte di Strasburgo per violazione, sotto tale profilo, dell'art. 6, § primo, Cedu. La Corte europea, paradossalmente, rischiava di non riuscire essa stessa più a garantire pronunce in tempi celeri per il notevole sovraffollamento del proprio ruolo a ciò conseguente.

Sono state essenzialmente due le modalità attraverso le quali in sede sovranazionale è stata individuata una soluzione per tale problema.

In un primo momento, con quattro pronunce coeve (ci si riferisce, tra le altre — la motivazione è identica per tutte — alle decisioni rese nei casi Ferrari c. Italie e Bottazzi c. Italie il 28 febbraio 1999), la Corte di Strasburgo aveva affermato che, sulla scorta della sistematica violazione sotto il profilo in esame da parte dello Stato italiano dell'art. 6, comma primo, Cedu doveva riconoscersi la sussistenza all'interno del nostro ordinamento di una «prassi incompatibile» con la Convenzione medesima idonea a far presumere, a fronte di qualsivoglia ricorso teso a far valere l'irragionevole durata dei processi, l'esistenza del vulnus all'equità del processo, salva una prova contraria da parte del Governo resistente basata, in sostanza, sulla condotta colpevolmente dilatoria delle stesse parti nel corso del procedimento.

Successivamente, mediante una pronuncia che non coinvolgeva direttamente l'Italia, la Corte di Strasburgo è andata ben oltre. Invero, nella decisione resa dalla Gran Camera il 26 ottobre 2000 nell'affaire Kudla c. Pologne si è chiarito che, qualora uno Stato contraente della Cedu non abbia introdotto al proprio interno uno specifico rimedio per lamentare l'eccessiva durata dei processi, ciò è in contrasto con l'art. 13 Cedu, a tenore del quale «ogni persona i cui diritti e le cui libertà riconosciuti nella presente Convenzione siano stati violati, ha diritto ad un ricorso effettiva davanti ad un'istanza nazionale». Talché il giudice dei diritti umani, nel suffragare con la richiamata sentenza la più recente concezione di carattere «positivo» del principio di sussidiarietà, ha di fatto «invitato» anche l'Italia a prevedere nell'ambito del proprio sistema giudiziario un mezzo di ricorso per lamentare specificamente la violazione dell'art. 6 Cedu sotto il profilo dell'eccessiva durata dei processi.

L'emanazione della legge Pinto

Mediante la legge 24 marzo 2001 n. 89, c.d. Pinto, significativamente modificata dall'art. 55 legge 7 agosto 2012 n. 134, è stato introdotto all'interno dell'ordinamento italiano uno specifico rimedio affinché gli individui possano ottenere il ristoro del complesso dei danni, patrimoniali e non, derivanti dalla lunghezza irragionevole dei procedimenti giudiziari. Tale mezzo di ricorso ha la propria «ragion pratica» nel sistema di protezione che si fonda sulla Convenzione europea dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (in arg. già Cerino Canova 1977, 193 ss.).

Invero, lo stesso art. 2 della legge n. 89 del 2001 prevede che il diritto all'equa riparazione spetta a «chi ha subito un danno patrimoniale o non patrimoniale per effetto della violazione della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, ratificata ai sensi della l. 4 agosto 1955 n. 848, sotto il profilo del mancato rispetto del termine ragionevole di cui all'art. 6, § 1, della Convenzione». In effetti, prima dell'emanazione di tale legge erano divenuti almeno problematici i rapporti tra lo Stato italiano e la Corte di Strasburgo con riferimento al mancato rispetto del termine di ragionevole durata del processo. Più precisamente, poiché l'art. 6, comma primo, Cedu contempla tra le garanzie dell'equo processo anche la sua ragionevole durata, la Corte europea dei diritti dell'uomo, deputata in via primaria all'interpretazione della Convenzione, aveva, a partire dal celebre affaire Capuano c. Italie, resa il 25 giugno 1987, condannato più volte il nostro Paese a causa degli ingiustificabili ritardi degli uffici giudiziari nella definizione dei processi.

A quanto premesso consegue naturalmente che la legge n. 89 del 2001 deve essere applicata in modo da evitare che i singoli riprendano la strasse per Strasburgo (Consolo 2001, 572), sicché i giudici interni, nel decidere dei ricorsi ad essi presentati, devono utilizzare i medesimi parametri dell'organo sovranazionale di protezione (Giorgetti 74 ss.).

Infatti, in virtù del disposto dell'art. 50 Cedu a tenore del quale «Se la Corte dichiara che vi è stata violazione della Convenzione o dei suoi Protocolli e se il diritto interno dell'Alta Parte Contraente non permette che in modo incompleto di riparare le conseguenze di tale violazione, la Corte accorda quando è il caso, un'equa soddisfazione alla parte lesa» ed in conformità all'interpretazione dello stesso da parte della Corte di Strasburgo, nelle ipotesi in cui un soggetto abbia ottenuto un ristoro meramente parziale, sotto il profilo quantitativo, del danno sofferto esperendo i mezzi di ricorso disciplinati all'interno del proprio sistema giuridico, potrà ricorrere in sede europea ex art. 34 Cedu allo scopo di ottenere una più adeguata riparazione (Giorgetti 74 ss.). Diversamente, infatti, quanti saranno insoddisfatti dall'esito del proprio procedimento svoltosi dinanzi ai giudici nazionali avranno un concreto interesse ex art. 34 Cedu ad adire direttamente la Corte dei diritti dell'uomo, «saltando» il rimedio interno in effettivo.

Tale situazione si è concretamente verificata nella prassi nei primi mesi di vigenza della legge c.d. Pinto, talché, con la decisione sulla ricevibilità resa nel caso Scordino c. Italie il 27 marzo 2003, la Corte europea ha ritenuto ricevibile un ricorso con il quale era stata direttamente adita, quindi senza che il relativo decreto fosse impugnato in Cassazione, per lamentare un'insufficiente liquidazione in sede di appello del danno da irragionevole durata del processo. Ad avviso del giudice di Strasburgo, infatti, la regola dell'art. 35 Cedu nella parte in cui pone la condizione di ricevibilità del previo esaurimento delle vie di ricorso interne non può trovare applicazione nelle ipotesi in cui un rimedio nazionale, pur formalmente esistente, risulti in concreto privo di effettività e quindi inutile per i singoli.

Tale pronuncia si fondava sulla circostanza che la Corte di legittimità tendeva a svilire, nei primi mesi di vigenza della legge n. 89 del 2001, il legame sussistente tra la stessa e la Cedu: in quest'ottica si era affermato che la Convenzione non introduce norme di diritto interno che vincolano i giudici nazionali accordando meramente alla parte lesa, attraverso il proprio organo giurisdizionale, una tutela di tipo suppletivo o sussidiario, invocabile al posto o ad integrazione di quella inadeguatamente offerta dai singoli ordinamenti ed, inoltre, che l'esplicito richiamo alla Cedu da parte dell'art. 2 della legge Pinto per l'individuazione della violazione influente al fine dell'equa riparazione non potrebbe far trascurare la presenza nel medesimo articolo di una propria disciplina relativamente ai parametri cui correlare la ragionevole durata del processo (Cass. n. 5664/2003).

Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con quattro decisioni rese lo stesso giorno (Cass. S.U., n. 1337, 1338, 1339, 1340/2004, in Giust. civ., 2004, 907, con nota di Morozzo Della Rocca) hanno affermato, rispetto all'applicazione della legge n. 89 del 2001, da un lato, che i danni non patrimoniali legati ai ritardi nella definizione dei giudizi in via di principio, ovvero in assenza di particolari circostanze legate all'espèce concreta, non devono essere provati, e che il giudice italiano è in linea di principio tenuto a considerare i criteri ermeneutici elaborati in materia dalla Corte dei diritti umani. Di conseguenza la Corte di legittimità ha in tal modo cercato di scongiurare il rischio dell'ineffettività del rimedio interno introdotto dalla legge Pinto e di nuove condanne in sede sovranazionale.

Invero, a seguito dell'intervento delle Sezioni Unite, costituisce ormai jus receptum in giurisprudenza il principio in forza del quale in tema di equa riparazione ai sensi dell'art. 2 l. 24 marzo 2001 n. 89, il danno non patrimoniale è conseguenza normale, ancorché non automatica e necessaria, della violazione del diritto alla ragionevole durata del processo, di cui all'art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, sicché, pur dovendo escludersi la configurabilità di un danno non patrimoniale in re ipsa — ossia di un danno automaticamente e necessariamente insito nell'accertamento della violazione — il giudice, una volta accertata e determinata l'entità della violazione relativa alla durata ragionevole del processo secondo le norme della citata legge n. 89 del 2001, deve ritenere sussistente il danno non patrimoniale ogniqualvolta non ricorrano, nel caso concreto, circostanze particolari le quali facciano positivamente escludere che tale danno sia stato subito dal ricorrente (Cass. n. 24696/2011).

Il nuovo orientamento delle Sezioni Unite ha quindi determinato una vera e propria inversione dell'onere della prova in materia di danni non patrimoniali da ritardata giustizia, in quanto attualmente dovrà essere, operando una presunzione di pregiudizio in capo al ricorrente, semmai l'amministrazione convenuta a far presenti le circostanze eccezionali in virtù delle quali nella fattispecie la durata irragionevole del processo non aveva determinato sofferenze, ansie e patemi in capo alla parte (Morozzo Della Rocca 918).

Legittimazione a proporre la domanda di equa riparazione

La circostanza che la legge 24 marzo 2001, n. 89, c.d. Pinto abbia la propria «ragion pratica» nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo in tema di tutela del diritto ad un processo equo, sotto il profilo della ragionevole durata dello stesso, rende non priva di rilevanza in questa sede una breve premessa in ordine ai principi affermati dalla medesima Corte di Strasburgo sulla nozione di «vittima» di una violazione della Convenzione che consente ai sensi dell'art. 34 Convenzione europea dei diritti dell'uomo (Cedu) di proporre ricorso individuale dinanzi alla stessa.

In particolare, infatti, tale disposizione riconosce attualmente il diritto dei singoli, individuati nelle persone fisiche, nelle associazioni non governative e nei gruppi di privati, di adire la Corte europea deducendo di essere vittime di una violazione della Convenzione o dei suoi Protocolli.

In ordine alla legittimazione attiva a proporre il ricorso individuale, i.e. alla competenza ratione personae, tale disposizione fa riferimento, in primo luogo, alle «persone fisiche» e non ai cittadini di uno Stato contraente, sicché il ricorso potrà essere proposto, ad esempio, anche da uno straniero, da un rifugiato o da un apolide. Tale impostazione estensiva è conforme, peraltro, all'interpretazione già resa sulla questione dalla Commissione la quale, sin dalla decisione relativa al caso Austria contro Italia aveva riconosciuto che il ricorso è proponibile anche da cittadini di uno Stato non firmatario della Convenzione purché vengano allegate violazioni della stessa poste in essere da uno Stato contraente ai danni del ricorrente.

Sotto un distinto profilo, nella giurisprudenza europea si è evidenziato, in una prospettiva di protezione effettiva dei diritti dell'uomo volta ad evitare che proprio le violazioni poste in essere nei confronti dei singoli nell'ordinamento nazionale si riverberino sulla possibilità degli stessi di adire la Corte di Strasburgo, che il ricorso può essere proposto anche: a) dalle persone fisiche private in tutto o in parte della propria capacità d'agire, senza l'assistenza del loro curatore o tutore (per l'affermazione di tale principio con riguardo ai detenuti, a prescindere dal motivo della condanna, Corte europea diritti dell'uomo, 8 marzo 1962, nel caso Ilse Koche c. Repubblica Federale Tedesca); b) per la tutela dei propri diritti nei confronti del figlio minore, dal genitore privato della patria potestà sullo stesso (Corte europea dei diritti dell'uomo, 13 luglio 2000, nel caso Scozzari e Giunta c. Italia, anche in Jcp G, 2001, I, 291, chron. Sudre).

Sempre nell'esperienza applicativa, sia della Commissione che, successivamente, della Corte europea non è stata operata alcuna effettiva distinzione tra le nozioni, cui fa riferimento lo stesso art. 34 Cedu, di «organizzazioni non governative» e di «gruppi di privati». Invero, in una prima fase, la Commissione aveva ritenuto che fossero legittimate a proporre il ricorso esclusivamente le formazioni sociali regolarmente costituite secondo il diritto nazionale (Commissione dec. 1462/62, relativa al caso linguistico belga). In seguito, tuttavia, la giurisprudenza si è evoluta nel senso di interpretare estensivamente le richiamate locuzioni, estendendo, ad esempio, la legittimazione ad agire dinanzi alla Corte: alle società (Corte europea dei diritti dell'uomo, 16 aprile 2002, Stéscolas c. Francia), alle organizzazioni religiose (Corte europea dei diritti dell'uomo, 5 maggio 1979, Chiesa di Scientology c. Svezia); alle associazioni aventi finalità sociale (Corte europea dei diritti dell'uomo, 21 giugno 1988, Plattform «Arzte für das leben» c. Austria), alle persone giuridiche pubbliche autonome dallo Stato e non esercenti alcuna pubblica funzione (Corte europea diritti uomo, 9 dicembre 1994, nel caso Les Saints Monastères c. Grecia).

Per converso, in accordo con l'attuale diritto vivente della Convenzione, soltanto gli enti locali, tra le persone giuridiche intese in senso lato, sono privi della possibilità di adire direttamente la Corte europea, trattandosi di soggetti che svolgono funzioni ufficiali in nome dello Stato e che, di conseguenza, non possono ritenersi organizzazioni governative (v., tra le altre, Corte europea dei diritti dell'uomo, 2 dicembre 1997, Tsomtsos c. Grecia): tale limitazione appare coerente con l'esigenza di rispettare la formulazione letterale dell'art. 34 Cedu nella parte in cui consente la legittimazione a ricorrere espressamente soltanto ad organizzazioni di carattere «non governativo», tra le quali sarebbe difficoltoso, anche mediante un'interpretazione estensiva, annoverare gli enti locali. Peraltro, nella giurisprudenza interna si è affermato, ad esempio, che il procedimento di cui alla l. n. 89 del 2001 non può essere promosso dagli enti, quali le Comunità montane, che, ai sensi dell'art. 34 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, non sono qualificabili come «organizzazioni non governative», trattandosi di soggetti che detengono o esercitano un pubblico potere (Cass. n. 18816/2016).

La proposizione del ricorso individuale — che per questa ragione non può essere equiparato ad un'actio popularis — è consentita, nondimeno, esclusivamente ai singoli i quali alleghino di essere stati vittime da parte dello Stato convenuto di una violazione della Convenzione ovvero dei Protocolli della stessa. La nozione di vittima non può essere equiparata, facendo riferimento agli istituti propri del diritto nazionale, a quella di interesse ad agire di cui all'art. 100 c.p.c., ossia alla possibilità per colui il quale agisce o resistente in giudizio di trarvi una concreta utilità (Sassani 1983, 1 ss.), attesa la necessità, più volte ribadita nella giurisprudenza europea, di un'interpretazione autonoma rispetto alle nozioni proprie dei sistemi giuridici dei singoli Stati contraenti (Corte europea dei diritti dell'uomo, 4 dicembre 1995, Tauira ed altri c. Francia).

In generale, secondo la Corte di Strasburgo, la vittima è quella persona direttamente interessata all'atto ovvero all'omissione contestati allo Stato convenuto e ciò a prescindere dalla dimostrazione dell'esistenza di un pregiudizio effettivo (Corte europea dei diritti dell'uomo, 26 marzo 1982, nel caso Adolf c. Austria, § 34; Corte europea dei diritti dell'uomo, 5 febbraio 1990, nel caso Mendes Godinho c. Portogallo), questione che, invero, anche in conformità al diritto interno, attiene al merito della controversia e non costituisce un presupposto processuale.

In una prospettiva estensiva in ordine al riconoscimento della legittimazione a ricorrere, la Corte europea ha inoltre ammesso a proporre il ricorso individuale anche soggetti vittime soltanto in via indiretta o potenziale di una violazione della Convenzione da parte dello Stato convenuto.

In primo luogo, è stato quindi affermato che può adire la Corte di Strasburgo anche una vittima indiretta, i.e. un soggetto il quale alleghi l'esistenza di un rapporto personale e diretto tra essa ricorrente ed il soggetto direttamente leso dalla violazione della Convenzione. Possono, in sostanza, dedurre la propria qualità di vittima indiretta facendo valere il relativo interesse, il genitore, il coniuge o il figlio della vittima diretta, ossia i prossimi congiunti della stessa (Corte europea dei diritti dell'uomo, 25 agosto 1987, Nolkenbockoff).

Fattispecie tipiche sono quelle in cui il ricorrente sia coniuge o genitore di un soggetto assassinato o scomparso laddove si deduca per tali eventi la responsabilità dello Stato convenuto. Peraltro, non si può trascurare che la distinzione tra vittima diretta e vittima indiretta dell'allegata violazione della Convenzione può essere molto tenue, avendo la Corte in alcune fattispecie ammesso che il genitore di un soggetto sparito potesse assumere direttamente la qualità di vittima (Corte europea dei diritti dell'uomo, 25 maggio 1998, Kurt c. Turchia).

La giurisprudenza europea ha inoltre coniato, come si accennava, la nozione di vittima potenziale o eventuale di una violazione della Convenzione e, quindi, riconosciuto la legittimazione a ricorrere dinanzi alla Corte per la mera esistenza di una legge nazionale astrattamente lesiva per il ricorrente, pur in mancanza, al momento della proposizione del ricorso, di un provvedimento individuale assunto dallo Stato convenuto in danno del ricorrente medesimo (Sudre 2003, 527).

Ad esempio, già nel caso Klass c. Repubblica Federale Tedesca, è stata affermata la sussistenza di una violazione dell'articolo 8 della Convenzione, in tema di diritto al rispetto della vita privata e familiare, per l'esistenza di una legge che consentiva ad alcune autorità nazionali, in presenza di determinati presupposti, di ascoltare in segreto le comunicazioni telefoniche e di leggere la corrispondenza dei cittadini, evidenziando che la segretezza delle misure concrete di autorizzazione comportava una diretta idoneità della normativa in questione a violare i diritti di tutti coloro che si avvalevano nello Stato convenuto dei servizi postali e di telecomunicazioni (Corte europea dei diritti dell'uomo, 6 settembre 1978, Klass c. Repubblica Federale Tedesca, spec. §§ 30-38, anche in Jdi, 1980, 464, chronique di Rolland).

La nozione di vittima potenziale di una violazione della Convenzione è stata applicata dalla giurisprudenza europea soprattutto per tutelare il diritto degli stranieri, affermando, ad esempio, che è vittima lo straniero il quale corre il concreto rischio di subire una violazione di uno dei propri diritti se una misura di allontanamento dal territorio dello Stato emessa nei propri confronti viene eseguita (v., tra le altre, Corte europea dei diritti dell'uomo, 7 luglio 1989, Soering; Corte europea dei diritti dell'uomo, 26 marzo 1992, Beldjoudi).

Autorevole dottrina ha evidenziato che, mediante il progressivo ampliamento della nozione di vittima potenziale, è divenuta sempre meno netta la frontiera tra il diritto dei singoli di proporre il ricorso individuale e l'actio popularis (Sudre, 527): a riguardo, è stato ad esempio ricordato il caso nel quale la Corte ha considerato quali vittime di una violazione del diritto di ricevere informazioni sull'aborto, donne non incinte, ma in età fertile (Corte europea dei diritti dell'uomo, 29 ottobre 1992, Open Door et Dublin Well Woman c. Irlanda, § 44, anche in Rtdh, 1993, 345, con nota di Rigaux).

La qualità di vittima, necessaria per proporre il ricorso, deve permanere in capo al ricorrente durante tutto lo svolgimento del procedimento dinanzi alla Corte ed il ricorrente ne sarà privato soltanto qualora lo Stato convenuto abbia riparato integralmente al pregiudizio lamentato: invero, una decisione o misura favorevoli al ricorrente non sono di per sé sufficienti a far venir meno lo status di vittima in capo allo stesso laddove non vi sia stata una riparazione integrale, mediante il riconoscimento, anche implicito della medesima, dell'esistenza della violazione (cfr., tra le tante, Corte europea dei diritti dell'uomo, 13 febbraio 2003, Chevrol c. Francia, § 36; Corte europea dei diritti dell'uomo, 28 settembre 1999, Dalban c. Romania, § 44; Corte europea dei diritti dell'uomo, 29 settembre 1996, Amur c. Francia). Nell'ipotesi di morte del ricorrente durante lo svolgimento del giudizio dinanzi alla Corte europea, gli eredi possono proseguire lo stesso se si tratti di doglianza ai medesimi trasmissibile e se essi vantano un interesse giuridicamente valutabile a far accertare la violazione della Convenzione (Corte europea dei diritti dell'uomo, 31 marzo 2002, X c. Francia).

Su un piano generale, occorre tener conto del principio per il quale, in tema di equa riparazione per la violazione del termine ragionevole del processo, la negazione della legittimazione attiva del ricorrente, di cui il Ministero convenuto escluda l'assunzione della qualità di parte nel giudizio presupposto, non integra un fatto per il quale opera il principio di non contestazione, di cui all'art. 115, primo comma, c.p.c. ma un'eccezione processuale in senso ampio attinente al contraddittorio, la cui fondatezza va valutata anche d'ufficio dal giudice attraverso lo specifico esame degli atti di quel giudizio acquisiti al procedimento camerale (Cass. n. 8969/2015).

Parti costituite

L'art. 2, primo comma, l. 24 marzo 2001, n. 89, c.d. Pinto, attribuisce a chi ha subìto un danno patrimoniale o non patrimoniale per effetto di una violazione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, ratificata ai sensi della legge 4 agosto 1955, n. 848, sotto il profilo del mancato rispetto del termine ragionevole di cui all'articolo 6, paragrafo 1, della Convenzione, il diritto ad una equa riparazione.

Il diritto alla trattazione delle cause entro un termine ragionevole è riconosciuto dall'art. 6, paragrafo 1, Cedu, solo con riferimento alle cause «proprie» e, quindi, esclusivamente in favore delle «parti» della controversia, nel cui ambito si assume avvenuta la violazione.

Almeno ai fini della legittimazione attiva alla proposizione della domanda di equa riparazione, non ha tradizionalmente assunto alcuna rilevanza la circostanza che la parte ricorrente sia rimasta soccombente nel giudizio c.d. presupposto del quale denuncia l'irragionevole durata. È consolidato, invero, nella giurisprudenza di legittimità il principio per il quale, in caso di violazione del termine di durata ragionevole del processo il diritto all'equa riparazione, di cui all'art. 2 l. n. 89 del 2001 spetta a tutte le parti del processo, indipendentemente dal fatto esse siano risultate vittoriose o soccombenti, costituendo l'ansia e la sofferenza per l'eccessiva durata del processo i riflessi psicologici del perdurare della incertezza in ordine alle posizioni in esso coinvolte, fatta eccezione per i casi in cui il soccombente abbia promosso una lite temeraria o abbia artatamente resistito in giudizio al solo fine di perseguire proprio il perfezionamento della fattispecie di cui al ricordato art. 2 e dunque in difetto di una condizione soggettiva di incertezza, nei quali casi l'esistenza di queste situazioni, costituenti abuso del processo, deve essere provata puntualmente dall'amministrazione, non essendo sufficiente a tale fine la deduzione che la domanda della parte sia stata dichiarata manifestamente infondata (Cass. n. 6685/2012).

Peraltro, non può trascurarsi in questa sede che tale tradizionale indirizzo interpretativo si scontrerebbe, almeno secondo un certo orientamento, con il comma terzo dell'art. 2-bis, introdotto nella legge c.d. Pinto dalla legge 7 agosto 2012 n. 134, secondo cui la misura dell'indennizzo, anche in deroga al comma primo, non può in ogni caso essere superiore al valore della causa o, se inferiore, a quello del diritto accertato dal giudice. Invero, sull'assunto per il quale tale norma escluderebbe il diritto ad agire per ottenere l'indennizzo da irragionevole durata del processo della parte soccombente, un giudice di merito ha ritenuto non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 2-bis, c. 3, l. 89/2001 (introdotto dall'art. 55 c. 1 lett. b) d.l. 83/2012, conv. con l. 134/2012), per contrasto con l'art. 117 cost., nella parte in cui limita la misura dell'indennizzo (liquidabile in favore della parte che abbia subito un danno per la durata irragionevole del processo presupposto) al «valore del diritto accertato» senza alcuna ulteriore specificazione o limite, comportando in tal modo l'impossibilità di liquidare in alcuna misura un'equa riparazione in favore della parte che, nel processo presupposto, sia risultata interamente soccombente (App. Reggio Calabria 8 aprile 2013, in Corr. Giur., 2013, n. 11, 422, con nota di ConsoloNegri).

Invero, lo stesso art. 2, comma quinquies, legge c.d. Pinto, introdotto dalla medesima legge 7 agosto 2012, n. 134, esclude, tra l'altro, il diritto all'equa riparazione per la parte che sia stata condannata per responsabilità aggravata da lite temeraria ex art. 96 c.p.c. Considerato che presupposto di tale responsabilità è la soccombenza della parte che agisce o resiste in giudizio con mala fede o colpa grave l'espressa esclusione del diritto all'indennizzo in tale fattispecie sarebbe priva di significato laddove la mera soccombenza precludesse l'azione ai sensi della legge n. 89/2001.

Pertanto, la norma in considerazione, ossia quella che esclude la liquidazione di un indennizzo superiore al quantum del diritto accertato dovrebbe essere propriamente collocata tra le disposizioni rilevanti ai soli fini della determinazione dell'equa riparazione e non già della sussistenza del relativo diritto, in conformità, del resto, alla rubrica della disposizione «Misura dell'indennizzo» (ConsoloNegri, 1431). La prospettiva nella quale va correttamente intesa tale disposizione è infatti quella di evitare che, all'interno di controversie di limitato valore economico, si finisca per liquidare indennizzi «esorbitanti» rispetto a tale valore, in coerenza, peraltro, con il nuovo sistema di accesso al giudizio della Corte europea dei diritti dell'uomo dopo l'entrata in vigore del Protocollo n. 14 alla Cedu che esclude, invero, tale accesso in mancanza di un danno rilevante.

Sotto altro profilo, è pacifico che il diritto all'equa riparazione dei danni derivanti dall'irragionevole durata del processo spetta alle parti in causa, e non anche di soggetti che siano ad essa rimasti estranei, essendo irrilevante, ai fini della legittimazione, che questi ultimi possano aver patito indirettamente dei danni dal protrarsi del processo.

Nell'indicata prospettiva si è ritenuto che, pertanto, è privo di legittimazione attiva l'amministratore di una società di capitali, in relazione alla dedotta irragionevole durata del procedimento fallimentare aperto nei confronti della società medesima, già da lui amministrata (Cass. n. 15250/2011).

La stessa S.C. ha affermato, inoltre, che non è legittimato a proporre domanda di riparazione per i danni subiti a causa dell'irragionevole durata di un processo l'acquirente di immobile pignorato non può considerarsi, diversamente dal terzo proprietario che ha concesso ipoteca per debito altrui, parte del procedimento esecutivo poiché egli non può intervenire neppure in via adesiva nell'espropriazione forzata, né è legittimato a proporre opposizione agli atti esecutivi, ma soltanto opposizione di terzo ex art. 619 c.p.c., allo scopo di far valere l'eventuale inesistenza o la nullità della trascrizione, per sottrarre il bene all'espropriazione, ed inoltre può partecipare alla distribuzione del prezzo ricavato dalla vendita forzata, eventualmente residuato dopo che siano stati soddisfatti il creditore procedente ed i creditori intervenuti nell'espropriazione (Cass. n. 16440/2006).

È stato ritenuto, sempre a titolo esemplificativo, che in tema di equa riparazione per la violazione del termine di ragionevole durata di un processo di cui sia stato parte un condominio, va esclusa la legittimazione dei singoli condomini ad agire per il risarcimento dei danni, ove gli stessi non abbiano assunto al veste di parti processuali nel giudizio presupposto (Cass. S.U., n. 19663/2014).

Per converso, è stato chiarito che anche l'interdetto per infermità di mente, il quale abbia partecipato al processo rappresentato dal tutore, ha diritto all'equo indennizzo del danno non patrimoniale che, secondo l'id quod plerumque accidit, deve presumersi cagionato dal superamento del termine ragionevole di cui all'art. 2 l. n. 89 del 2001, né la sua infermità è idonea ad escludere la predetta presunzione (Cass. n. 10412/2009). Per converso, non è legittimato a richiedere l'indennizzo il tutore (Cass. n. 24769/2014).

In tema di equa riparazione per irragionevole durata del procedimento di opposizione all'archiviazione, non sussiste la legittimazione ad agire della persona offesa dal reato, la quale non assume in detto giudizio la necessaria veste, ai sensi dell'art. 6 della Convenzione Edu, di parte di una causa civile, né, tantomeno, di destinataria di un'accusa penale (Cass. n. 8291/2016).

Parte contumace

Nel processo civile è contumace la parte la quale, sebbene regolarmente evocata in giudizio, decide volontariamente di non partecipare attivamente allo stesso (Brandi 465 ss.; Ciaccia Cavallari 320 ss.; Costa, 772 ss.; Giannozzi 1 ss.; LO Cigno, 93 ss.).

Nel nostro ordinamento la contumacia è un comportamento «neutro» ai fini dell'accoglimento della domanda dell'altra parte, nel senso che tale condotta non è equiparabile ad una ficta confessio dei fatti allegati dalla controparte che sarà pertanto comunque onerata della relativa dimostrazione in giudizio (v., tra le altre, Cass. n. 14860/2013, secondo cui la disciplina della contumacia ex art. 290 ss. c.p.c. non attribuisce a questo istituto alcun significato sul piano probatorio, salva previsione espressa, con la conseguenza che si deve escludere non solo che essa sollevi la controparte dall'onere della prova, ma anche che rappresenti un comportamento valutabile, ai sensi dell'art. 116, primo comma, c.p.c., per trarne argomenti di prova in danno del contumace).

Tale tradizionale principio, pur non accolto in altri sistemi processuali, è stato confermato di recente sul piano normativo mediante la modifica dell'art. 115 c.p.c. ad opera della l. 18 giugno 2009, n. 69, che, invero, sebbene attualmente ponga a carico della parte un onere di specifica contestazione dei fatti ex adverso allegati onde evitare l'effetto della non contestazione, non trova applicazione che per la parte costituita.

Infatti il legislatore, nel mentre ha generalizzato, inserendolo in una delle disposizioni del primo libro del codice di procedura civile, il principio in base al quale i fatti implicitamente ammessi perché non oggetto di contestazione possono essere ritenuti esistenti (rectius dimostrati) dal giudice ai fini della decisione, non interviene anche sull'istituto della contumacia del convenuto che continuerà ad essere, quindi, un comportamento neutro ai fini dell'accoglimento della domanda. Peraltro, qualsivoglia possibilità di interpretare la regola espressa dall'art. 115 c.p.c. nel senso più ragionevole di ritenere la stessa di generale applicazione anche al convenuto rimasto volontariamente contumace, onde ancorare alla contumacia la non contestazione dei fatti affermati dall'attore, resta invero preclusa dall'approvazione nel corso dell'esame del testo del disegno di legge al Senato dell'emendamento governativo per il quale l'onere di contestare specificamente le deduzioni della controparte viene posto in capo soltanto alla parte costituita.

Ciò conduce ad una situazione per certi versi paradossale in quanto il contumace che neppure si è curato di costituirsi in giudizio finisce con il beneficiare di un trattamento più favorevole della parte che sebbene costituita in giudizio abbia omesso di contestare specificamente una determinata circostanza.

Inoltre, proprio in ragione della generale considerazione nel nostro ordinamento della contumacia alla stregua di un comportamento neutro rispetto alla dimostrazione dei fatti costitutivi dell'avversa pretesa, la Corte costituzionale ha dichiarato costituzionalmente illegittimo, pur sotto il profilo dell'eccesso di delega ex art. 76 Cost., l'art. 13 del d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 5, che, nell'ambito del processo c.d. societario, aveva equiparato la contumacia ad una ficta confessio (cfr. Corte cost. 12 ottobre 2007, n. 340, in Giust. civ., 2007, n. 11, 2354, in Foro it., 2008, n. 3, 721, con note di Briguglio e di Ventura, in Giur. Comm., 2008, n. 3, 596, con osservazione di Righini, in Guida al dir., 2007, n. 43, 24, con nota di Sacchettini, secondo la quale in tema di processo c.d. «societario», è costituzionalmente illegittimo, per eccesso di delega, l'art. 13 comma 2 d.lgs. n. 5 del 2003, nella parte in cui stabilisce che «in questo ultimo caso i fatti affermati dall'attore, anche quando il convenuto abbia tardivamente notificato la comparsa di costituzione, si intendono non contestati e il tribunale decide sulla domanda in base alla concludenza di questa»).

Se, pertanto, il processo nei confronti della parte contumace non comporta in sé e per sé alcun vantaggio per la controparte rispetto alla dimostrazione dei fatti posti a fondamento della propria domanda, l'art. 292 c.p.c., «integrato» da alcune pronunce additive della Corte Costituzionale, prevede, sempre a tutela della parte contumace, che determinati atti processuali, idonei a far sorgere un eventuale interesse della stessa per la partecipazione al giudizio, perché ad esempio contenenti nuove domande ovvero a determinare importanti conseguenze sul piano istruttorio, vengano notificati personalmente a tale parte affinché possa valutare l'opportunità di costituirsi in giudizio a fronte dei medesimi.

Alla luce di quanto premesso, occorre esaminare a questo punto la questione, controversa al punto da determinare un contrasto all'interno della giurisprudenza di legittimità risolto soltanto da una recentissima pronuncia delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, relativa alla sussistenza della legittimazione della parte contumace a proporre domanda di equa riparazione del danno subito per l'irragionevole durata di un processo cui pure non abbia partecipato.

In particolare, in accordo con un primo orientamento che si era affermato nella giurisprudenza della S.C., la domanda di indennizzo per l'eccessiva durata di un giudizio può essere formulata anche dalla parte la quale non si è costituita nello stesso o in relazione al periodo nel quale non si è costituita poiché comunque il contumace è parte del giudizio (Cass. n. 4387/2013; Cass. n. 8130/2010).

In senso diverso si erano tuttavia espresse altre decisioni della medesima Corte di Cassazione osservando che in tema di equa riparazione per irragionevole durata del processo, ha diritto all'indennizzo solo la parte che, avendo attivamente partecipato al processo in quanto costituita, può aver subito quel patema d'animo o quella sofferenza psichica causata dal superamento del limite ragionevole di durata, non anche il contumace, il quale ha consapevolmente scelto di non costituirsi in giudizio e, quindi, sostanzialmente, di disinteressarsi dello stesso, «dimostrandosi, in linea potenziale, incurante degli effetti di una possibile decisione negativa nei suoi confronti (ed insensibile ai tempi di svolgimento del processo, che, peraltro, non di rado, pur rimanendo posizionato solo «alla finestra», auspica che si protraggano oltre quella che dovrebbe essere la loro fisiologica durata)» (Cass. n. 4474/2013).

Le Sezioni Unite sono intervenute risolvendo nel primo senso il contrasto giurisprudenziale che si era formato all'interno delle sezioni semplici mediante dovizia di argomentazioni (Cass. S.U., n. 585/2014).

Più in particolare, le Sezioni Unite hanno a riguardo evidenziato, in primo luogo, che nelle norme, sia di origine internazionale che interna, che disciplinano la materia manca qualsivoglia limitazione del diritto del contumace ad ottenere una conclusione del giudizio in tempi ragionevoli anche se non si è costituito in giudizio, atteso che l'art. 6 Cedu attribuisce il relativo diritto a ogni persona rispetto alla sua causa, mentre la legge c.d. Pinto garantisce l'equa riparazione in favore, indistintamente, di chi ha subito un danno per effetto dell'irragionevole durata del processo.

Inoltre, osservano le Sezioni Unite, la decisione di quel processo è comunque destinata a produrre effetti nei confronti della parte contumace, la cui condotta processuale, del resto, nel nostro ordinamento giuridico è pienamente legittima e non comporta alcuna conseguenza in sé e per sé ai fini dell'accoglimento dell'avversa domanda (cfr. ConsoloNegri, Ipoteche di costituzionalità sulle ultime modifiche alla legge Pinto: varie aporie dell'indennizzo municipale per durata irragionevole del processo (all'epoca della – supposta- spending review), cit., 1341, nota 5, nel senso che le ipotesi di esclusione dell'indennizzo risultano testualmente limitate all'abuso del processo mentre almeno de jure condito la contumacia è condotta processuale neutra cui non può di per sé attribuirsi una connotazione ostruzionistica o abusiva).

Dissentono altresì, nell'avallare il primo orientamento interpretativo, le Sezioni Unite dalla diffusa concezione secondo cui il contumace è un soggetto che si disinteressa agli esiti del processo che pure lo vede coinvolto in qualità di parte non partecipando attivamente al giudizio, rilevando che la scelta di non costituirsi può dipendere dalle più varie ragioni, come, ad esempio, «la convinzione circa la totale plausibilità o al contrario l'assoluta infondatezza delle ragioni avversarie, che possono far apparire inutile affrontare le spese occorrenti per contrastarle, costituendosi in giudizio».

Infine le Sezioni Unite osservano che non può considerarsi indice normativo dell'insussistenza del diritto del contumace ad agire per ottenere l'equa riparazione dei danni subiti a causa dell'eccessiva durata di un processo la circostanza che tra i parametri che devono essere valutati dal giudice per decidere sull'irragionevolezza della durata del giudizio vi sia il comportamento processuale della parte, poiché la contumacia può senz'altro influire, in senso negativo o positivo, sui tempi di un processo, rendendo necessarie o per converso escludendo determinate attività processuali.

La coerenza del complesso delle argomentazioni utilizzate dalle Sezioni Unite anche rispetto alla nozione di parte in senso formale e, più in generale, alla valenza neutra nel nostro sistema processuale della contumacia ai fini dell'accoglimento dell'avversa pretesa, unitamente alla possibilità di tener conto, comunque, della mancata partecipazione del contumace al giudizio nella determinazione del quantum dell'indennizzo richiesto (ConsoloNegri, 1341, nota 5), non fa tuttavia venir meno le perplessità per gli effetti in concreto paradossali di un orientamento che finisce con l'attribuire uno specifico vantaggio ad un soggetto il quale, a prescindere dalle ragioni concrete per cui ciò è avvenuto, si è disinteressato agli esiti di un processo. In sostanza tale posizione interpretativa finisce con il rendere sempre più evidente la posizione di sostanziale favore attribuita al contumace nel nostro ordinamento, non destinatario peraltro di significative sanzioni processuali, come l'effetto di non contestazione ex art. 115 c.p.c. ovvero la possibilità di emanazione dell'ordinanza di cui all'art. 186-bis c.p.c., per converso comminate alla parte che si sia diligentemente costituita in giudizio.

Sulla problematica è intervenuta da ultimo la legge n. 208 del 2015, c.d. di stabilità per l'anno 2016, la quale ha introdotto tra le fattispecie nelle quali è presunta iuris tantum e, quindi, laddove non intervenga una prova contraria, l'esclusione della parte dal diritto all'indennizzo anche nell'ipotesi di contumacia della parte (v. Comm. art. 2, comma 2-sexies).

Parti intervenute

Nel processo civile può realizzarsi un cumulo soggettivo, ossia la presenza di una pluralità di parti diverse dall'attore e dal convento, anche al di fuori delle ipotesi di litisconsorzio necessario o facoltativo, per effetto dell'intervento volontario in causa di un soggetto terzo.

Sul punto occorre ricordare, su un piano generale, che l'intervento è una domanda di carattere incidentale finalizzata alla partecipazione di un terzo in un processo che già pende tra altri soggetti, partecipazione a seguito della quale il terzo assume per ciò solo la qualità di parte (cfr. Costantino, 1 ss.).

Il terzo può infatti far valere, in primo luogo, nei confronti delle parti in causa un proprio diritto incompatibile e quindi spiegare un'azione di carattere autonomo, la quale è volta ad evitare che, terminato il giudizio, lo stesso possa proporre opposizione di terzo per far valere il pregiudizio subito. Il terzo propone così una propria domanda in contrasto con quella delle parti che sono già in causa. I due esempi paradigmatici di un tale intervento sono costituiti dall'intervento di un terzo che affermi di essere egli stesso proprietario della cosa oggetto di una lite tra pretendenti ovvero di un terzo il quale assuma di essere creditore in un giudizio iniziato da un altro soggetto per far valere come proprio verso il convenuto quello stesso credito (cfr. Liebman 103 ss.).

L'intervento può invece essere definito «adesivo dipendente» qualora il terzo non faccia valere attraverso lo stesso un proprio diritto, ma un semplice interesse, sebbene giuridicamente rilevante, a sostenere le ragioni di una delle parti in causa: in questo caso, l'intervento è funzionale soprattutto ad integrare la difesa della parte adiuvata, onde evitare il pregiudizio che il terzo potrebbe subire dall'emanazione di una decisione contraria alle conclusioni rassegnate dalla stessa.

L'interesse giuridico che sostiene l'intervento adesivo dipendente è quindi il seguente: il terzo sarebbe pregiudicato dalla pronuncia resa tra le parti originarie nell'ipotesi di soccombenza della parte adiuvata, in quanto la sua situazione giuridica dipende sotto il profilo sostanziale da quella della stessa, di talché se cade il diritto della parte in causa, cade anche la posizione giuridica vantata dall'interveniente. Numerosi sono i casi nei quali si ravvisa una tale dipendenza della situazione soggettiva del terzo sotto il profilo sostanziale: pensiamo al sub-conduttore, a colui che acquista un bene sequestrato nei confronti del creditore sequestrante e, più in generale, agli acquisti a titolo derivativo, fattispecie nella quali l'acquisto dell'avente causa dipende dalla validità del titolo in forza del quale ha acquistato il dante causa (Liebmabn 105). Di conseguenza si ritiene, in tale prospettiva, che il terzo non possa domandare la pronuncia di provvedimenti autonomi, i.e. diversi da quelli richiesti dalla parte adiuvata.

Con riferimento alla problematica in esame, la Corte di Cassazione ha chiarito che tra i soggetti legittimati a richiedere l'indennizzo per l'irragionevole durata di un processo rientrano anche gli intervenienti in causa e ciò anche nell'ipotesi di intervento adesivo dipendente. A riguardo, è stato invero evidenziato che nel novero delle parti in causa legittimate a proporre domanda di equa riparazione ai sensi della legge n. 89 del 2001 rientrano anche tutti i soggetti i quali siano stati parti nel giudizio in cui si assume essere avvenuta la violazione e, quindi, anche le parti intervenute, in quanto anche l'interesse giuridico posto alla base dell'intervento, ancorché adesivo e sebbene riflesso, assume spesso sotto vari profili, patrimoniale, personale, una valenza pari o addirittura superiore a quello sotteso alla controversia pendente fra le parti principali del processo presupposto (Cass. n. 23173/2012).

Tale orientamento appare condivisibile poiché l'intervento, anche adesivo dipendente, non è ammesso in virtù di un interesse di mero fatto, quanto giuridicamente rilevante, sicché di regola è proprio l'interveniente adesivo che è destinato a risentire maggiormente degli effetti della decisione giudiziaria come avviene, ad esempio, nella fattispecie paradigmatica del sub-conduttore in quanto ai sensi del terzo comma dell'art. 1595 c.c. «la nullità o la risoluzione del contratto di locazione ha effetto anche nei confronti del sub-conduttore, e la sentenza pronunciata tra locatore e conduttore ha effetto anche contro di lui» (Cass. n. 23302/2007).

Gli eredi della parte del processo presupposto

A seguito dell'emanazione della l. 24 marzo 2001, n. 89, una delle problematiche più spinose esaminate dalla giurisprudenza è stata quella relativa alla sussistenza del diritto degli eredi di un soggetto deceduto di richiedere l'equa riparazione per i danni subiti dal proprio dante causa dall'irragionevole durata di un processo incardinato prima dell'entrata in vigore della predetta legge. In un primo tempo, la S.C. ritenendo che il diritto all'equa riparazione azionabile dinanzi al giudice nazionale trovasse la sua fonte normativa esclusivamente nell'art. 2 legge c.d. Pinto, aveva affermato che lo stesso non poteva radicarsi in capo ad un soggetto deceduto prima dell'entrata in vigore di tale norma, né, di conseguenza, essere acquisito per successione dai suoi eredi (Cass. n. 5264/2003). Si riteneva, invero, che l'art. 2 della l. 24 marzo 2001 n. 89, che prevede il diritto ad un'equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo, contempla, senza limitazioni di sorta, le violazioni dell'art. 6, paragrafo 1, convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali e, quindi, riguarda le inosservanze del canone della ragionevole durata del processo verificatesi dopo la ratifica di detta convenzione da parte dell'Italia (avvenuta con l. 4 agosto 1955 n. 848), anche se prima dell'entrata in vigore della medesima legge n. 89 del 2001 e che tale ambito applicativo non incide, però, sull'efficacia «ex nunc» della disposizione — in quanto costitutiva del diritto a riparazione in dipendenza di quelle circostanze — in assenza di un'espressa previsione di retroattività, con la conseguenza che la morte della vittima di tempi irragionevoli del processo, se intervenuta prima dell'entrata in vigore della legge n. 89 del 2001, osta alla nascita del diritto in questione e, quindi, alla sua trasmissione agli eredi (Cass. n. 17650/2002).

In seguito, la necessità di trovare un punto di incontro tra la giurisprudenza della Corte di Strasburgo e quella nazionale deve porsi a fondamento dell'orientamento meno restrittivo affermato dalla Corte in punto di diretta rilevanza dell'art. 6 della Convenzione ai sensi della l. 4 agosto 1955 n. 848, nel senso di ammettere che la successiva l. n. 89, cit., non avrebbe introdotto una nuova fattispecie risarcitoria indennitaria prima inesistente, ma avrebbe innovato solamente nell'offrire un mezzo interno per la tutela del diritto all'equa riparazione delle violazioni del principio di ragionevole durata successive alla citata legge di ratifica ed esecuzione della Convenzione (Cass. n. 15488/2005).

Pertanto, si è poi consolidato il differente orientamento secondo cui sussiste la legittimazione degli eredi alla proposizione della domanda di equo indennizzo per l'eccessiva durata del processo instaurato dal loro dante causa prima dell'entrata in vigore della legge 89/2001, in base alla considerazione che il fatto costitutivo del diritto all'indennizzo attribuito dalla legge nazionale coincide con la violazione dell'art. 6 della convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo, norma di immediata rilevanza nel diritto interno, ratificata e resa esecutiva in Italia con la legge n. 848 del 1955, condizionatamente all'accettazione della clausola opzionale recante il riconoscimento da parte degli Stati contraenti della competenza della Commissione (oggi, della Corte europea dei diritti dell'uomo), avvenuta per l'Italia il 1° agosto 1973, data a partire dalla quale, quindi, deve ritenersi sussistente il diritto alla ragionevole durata del processo (v., ex multis, Cass. n. 16284/2009; Cass. n. 15746/2006 ed, in sede di merito, App. Genova 17 luglio 2002, in Giur. Merito, 2003, 2165, con nota di Longo).

Altra questione è quella afferente la distinzione tra l'azione per l'equa riparazione esercitata dall'erede per i danni subiti in proprio per l'irragionevole durata del processo e quelli iure hereditatis. Sul punto, è stato più volte ribadito in sede d legittimità che qualora la parte costituita sia deceduta anteriormente al decorso del termine di ragionevole durata del processo presupposto, l'erede ha diritto al riconoscimento dell'indennizzo iure proprio dovuto al superamento del predetto termine, soltanto a decorrere dalla sua costituzione in giudizio, di talché qualora l'erede agisca sia iure hereditatis che «iure proprio», non può assumersi come riferimento temporale di determinazione del danno l'intera durata del procedimento, ma è necessario procedere ad una ricostruzione analitica delle diverse frazioni temporali al fine di valutarne separatamente la ragionevole durata, senza, tuttavia, escludere la possibilità di un cumulo tra il danno morale sofferto dal dante causa e quello personalmente patito dagli eredi nel frattempo intervenuti nel processo, non ravvisandosi incompatibilità tra il pregiudizio patito «iure proprio» e quello che lo stesso soggetto può far valere pro quota e iure successionis, ove già entrato a far parte del patrimonio del proprio dante causa (cfr., tra le altre, Cass. n. 24771/2014, in relazione ad una procedura fallimentare; Cass. n. 21646/2011; Cass. n. 23939/2006, in Giust. Civ., 2007, n. 10, 2148, con osservazione di Morozzo Della Rocca ed in Dir. e giust., 2006, n. 46, 12, con nota di Di Marzio).

In altre e più chiare parole, se il diritto all'indennizzo insorge in capo alla parte pur prima della legge nazionale di attuazione, ed è come tale trasmissibile all'erede, è anche vero che l'erede succeduto nel processo ex art. 110 c.p.c., e pertanto subentrato nella condizione processuale del de cuius, può ricevere l'indennizzo afferente al periodo antecedente soltanto se quel diritto sia ratione temporis maturato, non potendo assommare i semiperiodi, di spettanza del de cuius e propri, per raggiungere la soglia del patema connesso alla durata irragionevole (Cass. n. 23055/2006).

Diversamente, nel caso in cui gli eredi agiscano in tale esclusiva qualità e non anche in proprio per ottenere l'equa riparazione del pregiudizio derivante dall'irragionevole durata del giudizio iniziato dal «de cuius», il complessivo indennizzo deve essere liquidato in ragione della quota ereditaria spettante a ciascuno di essi e per il periodo decorrente dalla fine del periodo di durata ragionevole alla data di decesso del de cuius (Cass. n. 20155/2011). In sostanza, in tema di equa riparazione per la violazione del termine di ragionevole durata del processo, la determinazione del danno non patrimoniale in favore degli eredi che non siano stati parti nel processo presupposto o non abbiano potuto esserlo (come nel processo penale nel quale la responsabilità è personale) deve effettuarsi esclusivamente in relazione al patimento subito dal defunto, in relazione al quale gli eredi hanno diritto alla partecipazione pro quota (Cass. n. 1360/2011).

Sotto un distinto profilo, è stato chiarito che in tema di equa riparazione ai sensi della l. 24 marzo 2001 n. 89, l'avvenuta proposizione del ricorso per cassazione da parte di alcuni soltanto dei soggetti che, in qualità di eredi, avevano agito in sede di merito, non comporta la necessità di integrazione del contraddittorio nei confronti degli altri, i quali nel giudizio di impugnazione non assumono la veste di litisconsorti necessari. A riguardo la S.C. ha osservato che, invero, i crediti del de cuius, a differenza dei debiti, non si ripartiscono tra i coeredi in modo automatico in ragione delle rispettive quote, ma entrano a far parte della comunione ereditaria, essendo la regola della ripartizione automatica dell'art. 752 c.c. prevista solo per i debiti, mentre la diversa disciplina per i crediti risulta sia dal precedente art. 727, il quale, stabilendo che le porzioni debbano essere formate comprendendo anche i crediti, presuppone che gli stessi facciano parte della comunione, sia dall'art. 757 c.c., il quale, prevedendo che il coerede succede nel credito al momento dell'apertura della successione, rivela che i crediti ricadono nella comunione, con conseguente applicazione del principio generale, secondo cui ciascun soggetto partecipante alla comunione può esercitare singolarmente le azioni a vantaggio della cosa comune (Cass. n. 995/2012).

Sotto un distinto profilo, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno chiarito che il termine ragionevole di durata del processo penale decorre per gli eredi della persona offesa dal reato deceduta, costituitasi parte civile, da quando gli stessi hanno avuto conoscenza del procedimento, in quanto solo da tale momento insorgono per essi il patema e l'interesse ad una rapida soluzione della controversia, sicché, in mancanza di prova di detta circostanza, il computo ha inizio dalla data del loro intervento in giudizio (Cass. S.U., n. 19977/2014).

La condizione di ammissibilità della domanda introdotta dalla norma in esame

La previsione in commento è stata introdotta dalla legge di stabilità per l'anno 2016 al fine di subordinare il diritto della parte a proporre domanda di equa riparazione all'attivazione da parte della stessa di rimedi di carattere preventivo (quindi indicati specificamente nella disposizione successiva) rispetto al maturare, nell'ambito del processo c.d. presupposto, dell'irragionevole durata.

La norma è coerente con la giurisprudenza, già richiamata, anche della Corte europea dei diritti dell'uomo, per la quale, pure ai fini della liquidazione dell'equo indennizzo occorre tener conto della condotta processuale della parte, e, nello specifico, dell'eventuale assunzione ad opera della stessa di comportamenti di carattere dilatorio che abbiano inciso negativamente sulla durata del processo medesimo.

La disposizione, con la condizione di procedibilità dalla stessa introdotta, trova applicazione soltanto con riguardo ai giudizi presupposti (rispetto ai quali, cioè, si fa valere il diritto all'equa riparazione) iniziati dopo l'entrata in vigore della legge di stabilità per l'anno 2016.

La norma è analoga a quella introdotta già in precedenza con limitato riguardo al deposito dell'istanza di prelievo nel processo amministrativo, rispetto alla quale, tuttavia, la S.C. ha delineato in modo più rigoroso l'ambito di applicazione ratione temporis, precisando che, in tema di equa riparazione per irragionevole durata del processo amministrativo, ai sensi dell'art. 54, comma 2, del d.l. n. 112 del 2008, come modificato dall'art. 3, comma 23, dell'allegato 4 al d.lgs. n. 104 del 2010, nei giudizi pendenti alla data del 16 settembre 2010 la presentazione dell'istanza di prelievo deve precedere l'instaurazione del giudizio di equa riparazione e condiziona la proponibilità della domanda di indennizzo anche per il periodo anteriore al deposito della medesima (Cass. n. 16404/2016).

Peraltro, come osservato da attenta dottrina, quella in esame non è una condizione di proponibilità della domanda giudiziale, assurgendo a condizione di ammissibilità della stessa, sicché, ove la parte non attivi i rimedi preventivi all'interno del processo della cui eccessiva durata si tratta, la domanda di riconoscimento dell'indennizzo formulata dalla stessa sarà rigettata senza che possa essere – anche per l'ormai avvenuta definizione del giudizio presupposto (v. art. 4) – concesso un termine per integrare la condizione stessa (Negri, 9-10).

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