Trattato - 25/03/1957 - n. 3 art. 288(ex articolo 249 del TCE) Per esercitare le competenze dell'Unione, le istituzioni adottano regolamenti, direttive, decisioni, raccomandazioni e pareri. Il regolamento ha portata generale. Esso è obbligatorio in tutti i suoi elementi e direttamente applicabile in ciascuno degli Stati membri. La direttiva vincola lo Stato membro cui è rivolta per quanto riguarda il risultato da raggiungere, salva restando la competenza degli organi nazionali in merito alla forma e ai mezzi. La decisione è obbligatoria in tutti i suoi elementi. Se designa i destinatari è obbligatoria soltanto nei confronti di questi. Le raccomandazioni e i pareri non sono vincolanti. InquadramentoA partire dalla pronuncia resa in relazione al caso Francovich la Corte di Giustizia europea ha affermato il principio per il quale ove una direttiva non abbia ricevuto attuazione nei termini e ricorrano le seguenti condizioni, i.e.: a) il risultato da essa prescritto implichi l'attribuzione di diritti a favore dei singoli; b) il contenuto di tali diritti possa essere individuato sulla base delle disposizioni della direttiva; c) non sussista un nesso di causalità tra violazione dell'obbligo a carico dello Stato e il pregiudizio subito dai soggetti lesi, lo Stato inadempiente è tenuto a risarcire il danno in conformità alle norme di diritto interno (CGCE, 19 novembre 1991, cause riunite C-6 e C-9/1990, in Giur. it., 1992, I, 1, 1169, con nota di Caranta). In seguito le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con una pronuncia sotto tale profilo criticata dalla dottrina dominante, ha ritenuto che il diritto degli interessati al risarcimento dei danni va ricondotto allo schema della responsabilità per inadempimento dell'obbligazione «ex lege» dello Stato, di natura indennitaria per attività non antigiuridica, dovendosi ritenere che la condotta dello Stato inadempiente sia suscettibile di essere qualificata come antigiuridica nell'ordinamento comunitario ma non anche alla stregua dell'ordinamento interno (Cass. S.U., n. 9147/2009). In ordine alla quantificazione del danno risarcibile, la stessa è rimessa all'apprezzamento del giudice nazionale e, tuttavia, non deve essere inferiore, come chiarito nel caso Brasserie de Pecheur, al c.d. standard comunitario minimo, nel senso che le condizioni dei diritti nazionali in materia di risarcimento non possono essere meno favorevoli di quelle che riguardano reclami analoghi di natura interna e non possono operare in modo tale da rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile ottenere il risarcimento (cfr. Capizzi, 154). Le direttive nel quadro delle fonti del diritto europeo derivatoL'art. 288 del Trattato sul Funzionamento dell'Unione Europea (Tfue), ex art. 249 del Trattato CE, individua gli atti normativi emanati dalle istituzioni europee in conformità alle previsioni del Trattato stesso: si tratta del sistema del c.d. diritto europeo derivato. Tra gli strumenti normativi di carattere generale e vincolante nei confronti degli Stati membri dell'Unione, precipua rilevanza assumono i Regolamenti e le direttive. I Regolamenti, in particolare, oltre a spiegare efficacia generale nel territorio dell'Unione, sono obbligatori in tutti i suoi elementi e direttamente applicabile in ciascuno degli Stati membri, avendo quale obiettivo l'uniformità nella legislazione di una determinata materia, attribuita alle competenze dell'UE, nei diversi Stati facenti parte della stessa. In linea di principio, invece, poiché tendenti al meno ambizioso (o intermedio) obiettivo di un'armonizzazione normativa, le direttive vincolano lo Stato membro esclusivamente in ordine al risultato da raggiungere, mediante l'emanazione di una disciplina legislativa interna di dettaglio che, fermo il raggiungimento del risultato, può assumere contorni diversi nei singoli Stati dell'UE. Peraltro, la direttiva è vincolante, alla medesima stregua dei Regolamenti, nei confronti degli Stati membri, sicché l'obbligo a carico degli stessi deve ritenersi violato se la normativa interna di attuazione non è emanata nel rispetto del termine indicato dalla direttiva stessa (cfr. già Commissione c. Italia, 79/72, 21 giugno 1973, in Racc., 1973, 667, § 7). Rilevanza dell'inadempimento dello Stato agli obblighi comunitari nei confronti degli individuiIl mancato recepimento di una direttiva comunitaria da parte dello Stato entro il termine previsto dalla stessa ha sempre comportato la possibilità per la Commissione europea di accertare, nell'ambito della procedura di infrazione, l'avvenuta violazione del diritto dell'UE da parte dello Stato. In tale contesto, occorre collocare la risalente giurisprudenza della Corte di Cassazione per la quale le direttive impartite dagli organi della comunità europea, in quanto prive di diretta efficacia negli ordinamenti degli stati membri, possono spiegare solo valore ausiliario e concorrente per l'interpretazione delle norme che il legislatore nazionale ha emanato in loro attuazione, e non anche, pertanto, imporre un'interpretazione diversa da quella desumibile dalla lettera e dalla ratio di tali norme, la cui eventuale divergenza con le direttive medesime rileva esclusivamente in sede di responsabilità internazionale dello stato (Cass. I, n. 5266/1981). Tuttavia è in seguito sorto l'interrogativo se, almeno in alcune ipotesi, una volta scaduto il termine per il recepimento della direttiva, gli individui che ne avrebbero tratto benefici, potessero ottenere una qualche forma di tutela. Il leading case in materia è costituito dalla pronuncia resa dalla Corte di Giustizia in relazione al caso Francovich (CGCE, 19 novembre 1991, cause riunite C-6 e C-9/1990, in Giur. it., 1992, I, 1, 1169, con nota di Caranta, in Giur. Cost., 1992, 488, con nota di Cartabia, in Foro it., 1992, IV, 145, con nota di Barone, Pardolesi e Ponzan). In tale pronuncia, interrogata con quesiti pregiudiziali da parte di alcune Preture italiane, la Corte di Giustizia ha confermato, in primo luogo, che una direttiva rimasta inattuata non consente agli interessati di far valere i diritti che sarebbero ad essi derivati dalla medesima direttamente di fronte ai giudici nazionali. Sotto altro profilo, tuttavia, e di qui la portata rivoluzionaria di tale nota decisione, la Corte europea ha sancito che ove una direttiva non abbia ricevuto attuazione nei termini e ricorrano le seguenti condizoioni, i.e.: a) il risultato da essa prescritto implichi l'attribuzione di diritti a favore dei singoli; b) il contenuto di tali diritti possa essere individuato sulla base delle disposizioni della direttiva; c) non sussista un nesso di causalità tra violazione dell'obbligo a carico dello Stato e il pregiudizio subito dai soggetti lesi, lo Stato inadempiente è tenuto a risarcire il danno in conformità alle norme di diritto interno. La sentenza Francovich ha quindi indicato le condizioni in presenza delle quali può essere riconosciuto il diritto dei singoli al risarcimento dei danni nei confronti dello Stato per l'omesso recepimento, nonostante la scadenza del termine a tal fine previsto, di una direttiva comunitaria (rectius, attualmente dell'Unione europea). In primo luogo, la norma non oggetto di attuazione deve attribuire diritti ai singoli (che non indicati come diritti soggettivi sembrano idonei a ricomprendere anche altre situazioni giuridiche soggettive: Capilli, 154). Deve sussistere, in secondo luogo, una violazione sufficientemente caratterizzata, nel senso che lo Stato abbia violato i limiti posti al proprio potere discrezionale nell'adempimento degli obblighi comunitari in modo manifesto e grave. Infine, deve sussistere un nesso di causalità tra la violazione dell'obbligo posto a carico dello Stato ed il danno fatto valere. Quanto agli ulteriori presupposti per ottenere il risarcimento del danno conseguente la pronuncia Francovich si rimette alle categorie proprie del diritto nazionale di ciascuno Stato membro. Ulteriori indicazioni sono pervenute dalla successiva pronuncia Brasserie du Pecheur c. Repubblica Federale di Germania (CGUE, 5 marzo 1996, n. 46, in Foro Amm., 1997, 2, con nota di Caranta ed in Resp. civ. e prev., 1996, 1105, con nota di Tassone) la quale ha precisato che il risarcimento, a carico degli Stati membri, dei danni da essi causati ai singoli in conseguenza delle violazioni del diritto comunitario deve essere adeguato al danno subito. In mancanza di disposizioni comunitarie in materia, spetta all'ordinamento giuridico interno di ciascuno Stato membro stabilire i criteri che consentono di determinare l'entità del risarcimento, fermo restando che essi non possono essere meno favorevoli di quelli che riguardano reclami o azioni analoghi fondati sul diritto interno né possono in alcun caso essere tali da rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile il risarcimento, sicché non è conforme al diritto comunitario una disciplina nazionale che, in via generale, limiti il danno risarcibile ai soli danni arrecati a determinati beni dei singoli specialmente tutelati, escludendo il lucro cessante subito dai singoli. Nella medesima decisione la Corte ha precisato, risolvendo una problematica interpretativa che era sorta dopo la decisione resa nel caso Francovich, che anche nell'ipotesi di lesione di un diritto direttamente conferito da una norma comunitaria (ad esempio, un regolamento) i singoli possono invocare il risarcimento dinanzi ai giudici nazionali in quanto il diritto al risarcimento costituisce il corollario necessario dell'effetto diretto riconosciuto alle norme comunitarie la cui violazione ha dato luogo al danno subito. L'importanza della pronuncia Brasserie de Pecheur si correla, inoltre, alla statuizione per la quale lo Stato, ai fini dell'affermazione della responsabilità per violazione del diritto europeo, va considerato nella sua unità, senza che rilevi che la violazione da cui abbia avuto origine il danno sia imputabile al potere legislativo, giudiziario o esecutivo, in quanto tutti gli organi di esso sono tenuti all'osservanza delle prescrizioni dettate dal diritto comunitario. Pertanto, lo Stato è l'unico soggetto al quale è imputabile la responsabilità dei danni causati, a prescindere dall'organo nazionale che abbia commesso materialmente la violazione (Cgue, sentenze Brasserie du Pêcheur e Factortame, cit., § 32, e 4 luglio 2000, C-424/97, Haim, § 27), con conseguente irrilevanza del riparto di attribuzioni e competenze interne, nonché dell'organo individuato dalla normativa nazionale come obbligato al pagamento del danno (cfr., nel senso che lo Stato è chiamato a rispondere anche dei danni cagionati dai suoi organi giurisdizionali di ultima istanza, CGUE, sentenze 30 settembre 2003, C-224/01, Köbler; 13 giugno 2006, C-173/03, Traghetti del Mediterraneo; 24 novembre 2011, C-379/10, Commissione c. Italia). Pertanto, è stata risolta la questione estendendo il rimedio risarcitorio anche alla violazione delle disposizioni normative comunitarie direttamente applicabili, ossia azionabili di fronte ai giudici nazionali (cfr. Roppo, 103). Nella successiva pronuncia resa nel caso Dillenkofer c. Repubblica Federale di Germania, la Corte di Giustizia ha affermato che la mancanza di qualsiasi provvedimento d'attuazione di una direttiva per raggiungere il risultato prescritto da quest'ultima entro il termine a tal fine stabilito costituisce di per sé una violazione grave e manifesta del diritto comunitario e pertanto fa sorgere un diritto a risarcimento a favore dei singoli lesi qualora, da un lato, il risultato prescritto da una direttiva implichi l'attribuzione, a favore dei singoli, di diritti il cui contenuto possa essere individuato e, dall'altro, esista un nesso di causalità tra la violazione dell'obbligo a carico dello Stato e il danno subito (CGUE, 8 ottobre 1996, cause riunite C-178/1994, C-188/1994, C-189/1884 e C-190/1994, in Giur. it., 1998, 210, con nota di Regaldo). Tale decisione ha precisato che deve ritenersi senz'altro manifesta e grave la violazione che perdura nonostante una sentenza della Corte di Giustizia che abbia già accertato l'inadempimento contestato, o in presenza di una sentenza pregiudiziale, o duna giurisprudenza consolidata della stessa Corte, dalle quali risulti l'illegittimità del comportamento in questione. Resta fermo che se il preventivo accertamento dell'inadempimento costituisce elemento decisivo per verificare la sussistenza di una violazione grave e manifesta, ciò non è indispensabile (CGUE sentenza 24 marzo 2009, C-445/06, Danske Slagterier, § 37), anche perché in materia di procedura di infrazione sussiste un potere discrezionale assoluto della Commissione che finirebbe per condizionare in modo ingiustificato le istanze risarcitorie dei privati (CGUE, sentenze 14 febbraio1989, C-247/87, Star Fruit, § 11, e 22 febbraio 2005, C-141/02 P, Commissione c. T-Mobile Austria GmbH, §§ 69-72). Il fondamento della responsabilità risarcitoria degli Stati per violazione del diritto dell'UEIl principio della responsabilità risarcitoria degli Stati per violazione del diritto dell'Unione europea costituisce un corollario fondante di ulteriori principi costitutivi, quali il principio del primato del diritto comunitario, il principio dell'effettività delle sue norme, della loro tutela, della loro uniforme applicazione, il principio della leale collaborazione tra istituzioni dell'Unione e Stati membri. Secondo la concezione cd. «monista» dei rapporti tra il diritto comunitario ed il diritto interno degli Stati, adottata da subito dalla Corte di Giustizia, il Trattato istitutivo della Comunità europea costituisce il fondamento di un ordinamento giuridico proprio, integrato con quelli nazionali, con la conseguenza che gli Stati membri, avendo rinunciato ai loro poteri sovrani, seppure in settore limitati, non possono più opporre leggi interne contrastanti per il rischio di far venir meno l'uniformità e l'efficacia del diritto comunitario. La specificità del sistema comunitario rispetto agli assetti del diritto internazionale classico, con particolare riguardo alla diretta incidenza delle norme comunitarie sulle posizioni giuridiche soggettive dei singoli, ha ben presto determinato, almeno in alcuni ordinamenti europei, significativi problemi in tema di rapporti tra fonti comunitarie e fonti interne (v., tra i molti, Mengoni, 523 ss.). Ciò è avvenuto, innanzitutto, in Italia ed in Germania, ovvero negli Stati membri nei quali non è stata mai riconosciuta, in omaggio ai principi della teoria c.d. dualista in tema di rapporti tra sistema comunitario e sistema nazionale, una supremazia delle disposizioni comunitarie per forza propria ma la stessa è stata giustificata, piuttosto, sulla base di previsioni costituzionali interne, con il risultato di riproporre il problema in termini di rapporti di forza tra norme aventi parimenti rango costituzionale. In dottrina è stato a riguardo sottolineato che ricostruire i rapporti tra ordinamenti nazionali e sistema comunitario in termini di dualismo coordinato per mezzo di una previsione costituzionale, comporta che il trasferimento di sovranità autorizzato dalla Costituzione a favore della Comunità Europea non possa compromettere i principi ispiratori della stessa Costituzione ed, in particolare, i diritti fondamentali (De Witte, 451). In linea di principio, infatti, la concezione dualista per la quale l'ordinamento comunitario e quello interno restano autonomi e distinti, implica che il Trattato istitutivo CE sia considerato alla stessa stregua degli altri Trattati internazionali che, recepiti mediante ordine di esecuzione, finiscono con l'avere, nella gerarchia delle fonti del diritto, il medesimo rango della legge ordinaria, con la conseguenza che, nell'ipotesi di contrasto tra norma comunitaria e norma interna, i giudici nazionali dovrebbero dare applicazione a quella emanata successivamente, ferma l'eventuale responsabilità internazionale dello Stato nel caso di prevalenza della disposizione interna, stante, sempre in omaggio al diritto internazionale classico, l'emanazione della stessa nonostante l'antinomico impegno assunto sul piano internazionale (cfr. Carreau, 383 ss.). La costruzione del sistema comunitario sarebbe in radice compromessa, peraltro, dall'operare delle regole canoniche in tema di rapporti tra norme antinomiche di pari rango, poiché in omaggio alle stesse si potrebbe attribuire prevalenza, stante il criterio cronologico, alla norma interna incompatibile, ove emanata posteriormente a quella comunitaria, così vanificando la portata di quest'ultima. In applicazione del criterio cronologico, per vero, l'antinomia normativa va risolta in base al brocardo lex posterior derogat priori, principio che, alla stregua di quanto autorevolmente evidenziato in dottrina, si fonda sul postulato di teoria generale per il quale ciascuna norma è posta sotto la condizione implicita della sua temporalità, del suo cessare di valere per il futuro all'atto della posizione di una nuova norma con essa incompatibile (Modugno, 88 ss.). Proprio al fine di scongiurare tale effetto, una risalente giurisprudenza della Corte di Giustizia ha elaborato, nel silenzio del Trattato istitutivo CE sul punto, il principio del primato del diritto comunitario sul diritto interno (cfr. Carreau, 391 ss.). A propria volta tale principio ha il proprio presupposto in quello, ancor più generale, dell'effetto diretto delle norme comunitarie nei confronti dei singoli che è stato sancito dalla medesima Corte di Giustizia (CGCE, 5 febbraio 1963, Van Gend en Loos), come implicitamente desumibile dall'art. 189 (quindi art. 249 del Trattato istitutivo della CE ed attualmente art. 288 del Trattato sul funzionamento dell'Unione Europea), nella parte in cui stabilisce che i regolamenti comunitari sono direttamente applicabili in tutti gli Stati membri. In accordo con il diritto internazionale classico, invero, le norme internazionali creano direttamente obblighi di carattere reciproco esclusivamente tra gli Stati non attribuendo, per converso, in via immediata posizioni soggettive agli individui (cfr., tra i molti, Pescatore, 296 ss.). Ne deriva che la diretta applicabilità delle norme comunitarie cui fa riferimento per i regolamenti comunitari l'art. 249 del Trattato CE (ora art. 288 Tfue) è intesa dalla Corte di Giustizia nell'accezione di idoneità delle stesse ad attribuire in via immediata posizioni giuridiche soggettive ai singoli che potranno invero far valere le stesse dinanzi ai giudici nazionali, mentre nel diritto internazionale classico l'espressione vuol dire piuttosto recezione autonomatica del diritto internazionale senza necessità di una previa « trasformazione » in disposizione di diritto interno (cfr. De Witte, 439). Sin dalla pronuncia Van Gend en Loos, la Corte di Giustizia ha peraltro condizionato la diretta applicabilità delle norme comunitarie nell'ordinamento interno degli Stati membri alla circostanza che gli obblighi derivanti dalle stesse siano chiari ed incondizionati rispetto all'emanazione di un atto interno di recezione, nonché idonee per propria natura a determinare effetti diretti nelle relazioni tra gli Stati membri ed i cittadini degli stessi. Sulla base di tale assunto, si è in particolare sottolineato che, in presenza delle richiamate caratteristiche, tutte le norme comunitarie sono suscettibili di produrre effetti diretti, ovvero non soltanto i regolamenti per i quali la diretta applicabilità è espressamente prevista dall'odierno art. 249 del Trattato istitutivo CE, ma anche le direttive, nella misura in cui impongano obblighi chiari e definiti agli Stati membri (Waelbroeck, 170 ss). Inoltre compete ai giudici nazionali dare immediata applicazione alle norme comunitarie aventi effetto diretto, fermo restando che gli stessi giudici interni non hanno anche il potere di qualificare, secondo i principi del proprio ordinamento, se una norma comunitaria ha natura di disposizione direttamente applicabile o meno, sussistendo infatti, in tutte le ipotesi di dubbio, una questione di interpretazione del diritto comunitario che spetta alla Corte di Giustizia risolvere ai sensi dell'art. 234 del Trattato CE (cfr. Bebr, 9). Il principio del primato del diritto europeo su quello interno incompatibile degli Stati membri è stato sancito soprattutto nell'ambito dalla lunga dialettica che ha interessato la Corte costituzionale italiana e la Corte di Giustizia comunitaria. Il primo caso che viene in rilievo è quello deciso in termini opposti dalle due Corti con le pronunce Costa c. Enel (in arg. Virole, 369 ss.). La vicenda concreta traeva origine dalla legge 6 dicembre 1962 n. 1643, con la quale l'Italia, istituendo l'E.N.E.L., aveva nazionalizzato l'industria italiana dell'energia elettrica. Successivamente il signor Costa, ricevuta la prima bolletta per il consumo di energia elettrica da parte del nuovo ente di diritto pubblico, aveva impugnato la stessa dinanzi al giudice conciliatore, deducendo la contrarietà della citata legge n. 1643/62, rispetto ad alcune previsioni del Trattato istitutivo CE. Il giudice conciliatore decideva di sollevare, alla luce dei motivi di impugnazione, con ordinanza del 16 gennaio 1964, questione di legittimità costituzionale della legge di nazionalizzazione dell'industria dell'energia elettrica per violazione dell'art. 11 Cost., cioè della norma che consente nel nostro ordinamento limitazioni della sovranità nazionale che siano dirette ad assicurare una collaborazione internazionale finalizzata alla convivenza pacifica tra i popoli. La Corte costituzionale, pur riconoscendo che alcuni spazi di sovranità nazionale possono essere limitati a favore di istituzioni internazionali ai sensi dell'art. 11 Cost., sull'assunto dell'equiparabilità del Trattato istitutivo CE, ratificato mediante ordine di esecuzione, ad una legge ordinaria, attribuì prevalenza alla legge italiana sull'energia elettrica perché emanata successivamente all'entrata in vigore del Trattato CE nel nostro ordinamento, sottolineando che l'unica sanzione potrebbe essere, in ipotesi, quella della responsabilità internazionale dello Stato (Corte cost. 7 marzo 1964). Tale posizione è stata presto smentita dalla Corte di Giustizia, contemporaneamente adita dallo stesso giudice conciliatore di Milano con ricorso per rinvio pregiudiziale di interpretazione ai sensi dell'allora art. 177, quindi art. 234 del Trattato CE ed, ora, art. 267 del Trattato sul funzionamento dell'Unione Europea (d'ora innanzi Tfue). La Corte del Lussemburgo colse infatti l'occasione per argomentare per la prima volta in modo dettagliato la tesi della supremazia del diritto comunitario su quello interno, ponendo in rilievo che: — diversamente dagli altri Trattati internazionali, il Trattato CE ha istituito un sistema giuridico autonomo, integrato con quelli degli Stati membri alle cui giurisdizioni si impone direttamente a partire dal momento della propria entrata in vigore; — la Comunità europea ha introdotto un corpo normativo che determina direttamente diritti ed obblighi in capo ai cittadini degli Stati membri e non soltanto a questi ultimi; — gli obblighi imperativi posti dai Trattati istitutivi sarebbero meramente eventuali qualora potessero essere messi in discussione dall'emanazione di leggi posteriori negli ordinamenti nazionali degli Stati membri; — che l'art. 189, quindi art. 249 del Trattato CE ed ora art. 288 Tfue, nella parte in cui sancisce la diretta applicabilità dei regolamenti comunitari, sarebbe privo di qualsivoglia portata normativa ove fosse consentito agli Stati membri di annullare gli effetti degli stessi regolamenti legiferando in senso opposto in un momento successivo all'entrata in vigore dei medesimi (CGCE, 15 luglio 1964, Costa c. Enel, in Racc., 1964, 1143, nonché, tra l'altro, in Giust. civ., 1964, 1893, con nota di Berri, in Foro it., 1964, 152, con nota di Catalano, in Giur. it., 1964, 1073, con nota di Gori, in Njw, 1964, 2331, con nota di Ehle ed in Journ. Dr. Intern., 1964, 697, con nota di Kovar). Negli anni successivi la Corte Costituzionale italiana, nel tentativo di adeguarsi alla posizione della Corte di Giustizia, individuò l'escamotage idoneo a superare il problema in discussione proprio nell'art. 11 Cost. Infatti, sebbene detta disposizione fosse stata emanata avendo riguardo all'Onu, la Consulta non esitò ad evidenziare che la stessa giustificava le limitazioni di sovranità derivanti per il nostro ordinamento dalla partecipazione alla Comunità Europea, fornendo pertanto copertura costituzionale alle norme comunitarie e facendo così operare il criterio gerarchico in luogo di quello cronologico ai fini della risoluzione della antinome, nel senso che le leggi interne di rango ordinario, emanate posteriormente a norme comunitarie direttamente applicabili nel nostro sistema giuridico, sarebbero incostituzionali per violazione dell'art. 11 Cost. (cfr. Darmon, 223). Per la prima volta, inoltre, la Corte Costituzionale italiana riconobbe la specificità dell'ordinamento giuridico comunitario evidenziando che in base all'art. 249 (allora 189) del Trattato CE, ossia all'attuale art. 288 Tfue, doveva ascriversi portata immediatamente obbligatoria, indipendentemente da qualsivoglia misura interna di recepimento, ai regolamenti comunitari (Corte cost. 27 dicembre 1973 n. 183, tra l'altro in Foro it., 1974, I, 314, con nota di Monaco, in Riv. trim. dir. eu., 1974, 154, con nota di Neri, in Journ. Trib., 1974, 409, con nota di Louis, L'ordre juridique communautaire et la Cour constitutionelle italienne ed in Cde, 1975, 114, con nota di De Caterini). La pronuncia Frontini e Pozzani aveva però lasciato aperta la questione della sorte riservata alla legge nazionale posteriore rispetto ad una norma comunitaria incompatibile, risolta in una decisione successiva, alla luce della natura accentrata nel sistema italiana del sindacato di legittimità costituzionale delle leggi, nel senso che i giudici nazionali i quali ritenessero incompatibili le disposizioni interne successive con quelle comunitarie erano tenuti, sospendendo il giudizio in corso, a sollevare questione di legittimità costituzionale della legge nazionale successiva in virtù dell'ipotizzato contrasto tra la stessa e l'art. 11 Cost. (Corte cost. 22 ottobre 1975 n. 232, in Giust. civ. 1976, 3, con note di Berri e di Catalano). Talché la risoluzione dell'antinomia normativa con eventuale annullamento della legge interna posteriore confliggente con la norma comunitaria veniva demandata in via esclusiva alla Corte costituzionale, escludendo la possibilità per i singoli giudici nazionali di effettuare sul punto un sindacato di carattere diffuso cui sarebbe potuta conseguire, verificato il contrasto, un'autonoma disapplicazione della disposizione interna. La dottrina non esitò, già in sede di primo commento alla decisione richiamata, ad evidenziare le pericolose implicazioni della stessa per il sistema comunitario, stante il condizionamento dell'immediata ed unitaria applicazione negli ordinamenti giuridici dei singoli Stati membri delle norme comunitarie direttamente applicabili allo conclusione del giudizio incidentale di legittimità costituzionale della legge interna, emanata successivamente ad una norma comunitaria incompatibile rispetto alla stessa (Olmi, 253; Plouvier, 293). Peraltro, per alcuni l'orientamento assunto dalla Corte Costituzionale italiana non poteva essere assolutamente condiviso perché in virtù dello stesso il giudice costituzionale italiano potrebbe esercitare un controllo permanente sul diritto comunitario in occasione di qualsivoglia controversia giudiziaria relativa all'applicazione dello stesso, così compromettendo senza limiti di tempo il fondamento stesso della partecipazione dell'Italia alla Comunità Europea e la serietà degli impegni assunti con la creazione della medesima (Louis, 2350). Questi rilievi furono, come era prevedibile, presto condivisi dalla Corte di Giustizia la quale sanzionò severamente la posizione affermata dalla Corte costituzionale italiana con la celebre arrêt Simmenthal (CGCE, 9 marzo 1978, Simmenthal c. Amministrazione delle Finanze dello Stato, C-106/77, in Racc., 1978, 629, nonché in Giust. Civ., 1978, 816, con nota di Catalano), ponendo in evidenza che i giudici nazionali sono tenuti a garantire una piena tutela dei diritti derivanti dalle fonti comunitarie anche qualora ciò comporti la disapplicazione di una disposizione contrastante di diritto interno emanata successivamente e senza che sia a tal fine necessario adire la Corte costituzionale. I tempi necessari per la conclusione del giudizio costituzionale potrebbero, infatti, irrimediabilmente compromettere il principio di immediata ed uniforme applicazione delle disposizioni comunitarie in tutti gli Stati membri. Di talché, in armonia con il principio del diritto comunitario su quello interno, si è affermata l'incompatibilità con il diritto comunitario di qualsivoglia previsione o prassi nazionale che potrebbe minare l'effettività del diritto comunitario non attribuendo al giudice competente per applicare un tale diritto il potere di fare tutto quanto necessario per disapplicare le previsioni interne eventualmente di ostacolo alla piena efficacia delle norme comunitarie. Sempre nella pronuncia Simmenthal si è inoltre precisato, in una ricostruzione in chiave gerarchica del rapporto tra norme comunitarie e norme interne coerente con la dottrina monista, che la supremazia del diritto comunitario direttamente applicabile impedisce la stessa valida formazione di nuovi atti normativi nazionali incompatibili con le norme comunitarie (Carreau, 403 ss.). Si è osservato che la Corte di Giustizia ha operato una distinzione in punto di regime delle leggi interne incompatibili con quelle comunitarie, a seconda che le prime siano state emanate antecedentemente o successivamente alle altre. Infatti, nel primo caso, la norma interna anteriore con quella comunitaria e confliggente con la stessa non potrà dirsi viziata ma soltanto inapplicabile a seguito dell'entrata in vigore della normativa comunitaria (altrimenti detto, si tratta di un effetto abrogativo implicito riconducibile all'emanazione della norma comunitaria). Diversa è la situazione per una legge interna emanata successivamente alla vigenza di una disposizione comunitaria con essa incompatibile, legge che a causa dell'incompetenza assoluta dell'organo che l'ha emanata dovrà considerarsi viziata sin dall'origine (Barav, 324 ss.). Gli espliciti chiarimenti operati dalla Corte di Giustizia in ordine ai rapporti tra norme comunitarie e norme interne successive ed incompatibili non erano stati però stati sufficienti per alcuni giudici italiani, i quali avevano continuato a sollevare, rilevati ipotetici contrasti tra norme comunitarie e norme interne posteriori, questioni di legittimità costituzionale aventi ad oggetto queste ultime ai sensi dell'art. 11 Cost. dinanzi alla Corte costituzionale (v., tra le altre, Cass. n. 6705/1981; Trib. Venezia 8 ottobre 1982, in Giust. civ., 1983, I, 621; Trib. Venezia 16 settembre 1982, in Giur. Cost., 1983, II, 580). A fronte di tale assetto del «diritto vivente» la Corte Costituzionale, a seguito di una rimessione effettuata dal Tribunale di Genova, ha rimodulato la propria posizione in maniera, almeno nei risultati pratici, coerente con quella condivisa dai giudici comunitari. Più precisamente, con la pronuncia resa nel caso Granital (Corte Cost. 8 giugno 1984 n. 170, tra l'altro in Giust. civ. 1984, I, 2353, con nota di Sotgiu), si è la stessa onde dare piena ed immediata attuazione alla normativa comunitaria, senza dover, a tal fine, sollevare questioni incidentali di legittimità costituzionale ai sensi dell'art. 11 Cost. Tale risultato è stato raggiunto sull'assunto per il quale lo Stato, mediante l'istituzione della Comunità Europea, avrebbe auto-limitato la propria sovranità ai sensi dell'art. 11 Cost. negli ambiti occupati dal diritto comunitario, con la conseguenza che, nell'ipotesi in cui debba operare per la risoluzione di una controversia concreta una norma comunitaria direttamente applicabile, la legge italiana diventerà «invisibile, prima ancora che inapplicabile, agli occhi del giudice interno, il quale dovrà comunque applicare la regola comunitaria che rileva per la soluzione del caso di specie. L'adesione della Corte Costituzionale alla dottrina dualista quanto ai rapporti tra ordinamento comunitario ed ordinamento interno impediva di risolvere secondo il criterio gerarchico le antinomie normative tra le disposizioni comunitarie e quelle nazionali, con la conseguenza che queste ultime, lungi dall'essere viziate, restano efficaci nel proprio sistema giuridico che, peraltro, in determinate materie, non si oppone all'applicazione delle norme comunitarie anche se confliggenti. Ne deriva che laddove una legge interna debba trovare applicazione nella stessa materia regolata da una norma comunitaria, il giudice non dovrà validarne la conformità rispetto alla stessa onde dichiarare invalida la prima, dovendosi limitare a verificare l'applicabilità della disposizione comunitaria, disapplicando per l'effetto la disposizione interna incompatibile. Ciò viene a determinare una situazione per certi versi paradossale, anche rispetto al distinto regime enucleato dalla Corte di Giustizia nel caso Simmenthal rispettivamente per le leggi anteriori o posteriori a quella comunitaria e con la stessa incompatibili. Invero, nell'assetto conseguente alla pronuncia Granital della Corte costituzionale italiana la legge anteriore a quella di origine comunitaria con essa incompatibile viene ad essere affetta da illegittimità costituzionale sopravvenuta per il tramite dell'art. 11 Cost., mentre la norma posteriore è semplicemente inapplicabile, senza essere viziata, in tutte le fattispecie concrete nelle quali venga in rilievo ratione materiae anche una disposizione comunitaria incompatibile e ciò sebbene, soprattutto sul piano politico, proprio quest'ultima situazione sia più grave della prima (cfr. Barav, 332 ss.). È rimasto, infatti, fermo un profilo di contrasto tra la Corte di Giustizia e la Corte Costituzionale italiana quanto agli approcci di fondo sulla problematica in esame. Infatti la prima, sulla base della teoria c.d. monistica (v. già CGCE, 13 febbraio 1969, Walt Wilhelm e altri c. Bundeskartellamt,C-14/68, in Racc., 1969, 1 ss, spec. 15; CGCE, 13 dicembre 1967, Firma Maw Neumann c. Hauptzollamt Hof/Saale,C-17/67, in Racc., 1967, 571 ss, spec. 589) ritiene che il diritto comunitario si integri con quello interno dei singoli Stati membri e ne condizioni le fonti di produzione giuridica e, quindi, risolve il contrasto tra le norme interne successive e quelle comunitarie sulla base del principio gerarchico, affermando, in una prospettiva siffatta, che la disposizione interna debba essere annullata in quanto illegittima. Diversamente, la Corte costituzionale italiana, sull'assunto di una concezione c.d. dualistica dei rapporti tra ordinamento comunitario e nazionale, ritiene che questi ultimi siano sistemi giuridici autonomi e distinti, sebbene collegati alla luce dei Trattati istitutivi della CE, e, pertanto, che le norme interne incompatibili con quelle comunitarie non siano invalide ma debbano essere semplicemente disapplicate, nei singoli casi concreti, per assicurare prevalenza alle disposizioni comunitarie limitatamente alle materie che, tramite l'art. 11 Cost., sono state attribuite alla competenza della Comunità Europea. La Corte Costituzionale preferisce, pertanto, ricostruire il rapporto tra norme comunitarie e norme nazionali in termini di differente competenza legislativa, rifiutando una concezione tesa a riordinare siffatti rapporti nella logica di sovraordinazione propria del principio gerarchico (Tavormina, 1036). Quanto sinora evidenziato implica, in primo luogo, che, nell'ipotesi di abrogazione o annullamento della norma comunitaria incompatibile, si avrà una reviviscenza della disposizione nazionale e, soprattutto, che la Corte italiana si è riservata il sindacato sulle norme comunitarie che possano porsi in contrasto con i principi supremi dell'ordinamento costituzionale o i diritti inviolabili della persona, i c.d. controlimiti (cfr., nella giurisprudenza successiva, Corte cost. 18 aprile 1991 n. 168, tra l'altro in Foro it., 1992, I, 660, in Riv. it. dir. pubb. comunit., 1089, in Giur. Cost., 1991, 1409, in Giust. Civ., 1991, I, 1648 ed in Riv. not., 1991, 1395). Non si può trascurare, peraltro, che la questione sembra essere stata risolta in una prospettiva monista dall'art 117, primo comma, Cost., così come riformulato dall'art. 3 l. cost. n. 3/2001, per il quale il rispetto delle norme comunitarie deve essere assicurato sia dal legislatore nazionale, sia da quello regionale. Le conseguenze dell'operare del criterio gerarchico sembrano tuttavia divergere, nel caso in esame, da quelle canoniche, in quanto l'esigenza di un'uniforme ed immediata applicazione delle previsioni comunitarie direttamente applicabili in tutti gli Stati membri determina l'attribuzione di un sindacato diffuso, sebbene con effetti incidentali e non erga omnes, ai giudici nazionali circa la compatibilità tra le stesse e le norme interne confliggenti (cfr. Paterniti, 2101 ss.). Responsabilità risarcitoria dello Stato in ipotesi di omessa, tardiva o anomala attuazione di direttive «self-executive»La Corte di Cassazione si è conformata, negli anni successivi, agli arresti della giurisprudenza europea in ordine alla responsabilità dello Stato per omesso o tardivo recepimento di direttive evidenziando che in tema di risarcibilità del danno subito dal singolo in conseguenza della mancata attuazione, nel termine previsto, di una direttiva comunitaria non auto-esecutiva da parte del legislatore italiano, deve riconoscersi il diritto del privato al risarcimento del danno, sia che l'interesse leso giuridicamente rilevante sia qualificabile come interesse legittimo sia come diritto soggettivo, qualora lo Stato — membro non abbia adottato i provvedimenti attuativi nei termini previsti dalla direttiva stessa e allorché si verifichino le seguenti condizioni, conformemente ai principi più volte enunciati dalla Corte di Giustizia: a) che la direttiva preveda l'attribuzione di diritti in capo ai singoli soggetti; b) che tali diritti possano essere individuati in base alle disposizioni della direttiva; c) che sussista il nesso di causalità tra la violazione dell'obbligo a carico dello Stato e il pregiudizio subito dal soggetto leso (Cass. III, n. 7630/2003; in senso conforme, tra le più recenti, Trib. Roma II, 2 marzo 2017, n. 4240; contra, v., tuttavia, Cass. III, n. 4915/2003, per la quale nel dettare le norme fondamentali sull'organizzazione e sul funzionamento dello Stato, la Carta Costituzionale regola la funzione legislativa, ripartendola tra il Governo ed il Parlamento, quale espressione di potere politico, libera cioè nei fini e sottratta pertanto a qualsiasi sindacato giurisdizionale, sicché in relazione all'esercizio di tale potere non sono configurabili situazioni soggettive protette dei singoli, onde deve escludersi che dalle norme dell'ordinamento comunitario possa farsi derivare, nell'ordinamento italiano, il diritto soggettivo del singolo all'esercizio del potere legislativo — che è libero nei fini e sottratto perciò a qualsiasi sindacato giurisdizionale —, e che possa comunque qualificarsi in termini di illecito da imputare allo Stato — persona, ai sensi dell'art. 2043 c.c., una determinata conformazione dello stato – ordinamento). Per vero, prima della scadenza del termine per il recepimento delle direttive comunitarie nell'ordinamento giuridico interno è inconfigurabile qualsiasi efficacia diretta in quest'ultimo e, in particolare, nei c.d. rapporti verticali delle direttive europee (che, quindi, non possono essere qualificate, in tale situazione, come self-executing), per quanto dettagliate e complete, sebbene, come è stato anche di recente evidenziato in giurisprudenza, le stesse conservino un'efficacia giuridica, ancorché limitata, che vincola sia i legislatori sia i giudici nazionali ad assicurare, nell'esercizio delle rispettive funzioni, il conseguimento del risultato voluto dalla direttiva; quanto ai contenuti di tale ridotta efficacia, si è, in particolare, chiarito che, in pendenza del termine per il recepimento, il rispetto del principio di leale collaborazione sancito all'art. 4, par.3, del Trattato UE impedisce, per un verso, al legislatore nazionale l'approvazione di qualsiasi disposizione che ostacoli il raggiungimento dell'obiettivo al quale risulta preordinata la direttiva e impone, per un altro, ai giudici nazionali di preferire l'opzione ermeneutica del diritto interno maggiormente conforme alle norme eurounitarie da recepire, di guisa che non venga pregiudicato il conseguimento del risultato voluto dall'atto normativo europeo (cfr. Cons. Stato, III, n. 5359/2015). È stato presto evidenziato, dalla stessa S.C., che, in tema di risarcibilità del danno subito dal singolo in conseguenza della mancata attuazione di direttiva comunitaria non autoesecutiva da parte del legislatore italiano, deve riconoscersi il diritto del privato al risarcimento del danno, sia che l'interesse leso giuridicamente rilevante sia qualificabile come interesse legittimo sia come diritto soggettivo, qualora lo Stato — membro non abbia adottato i provvedimenti attuativi nei termini previsti dalla direttiva stessa (cfr. Cass. III, n. 7630/2003). Con una recentissima decisione, le Sezioni Unite della Corte di cassazione, risolvendo il contrasto che si era affermato nella propria giurisprudenza, hanno confermato l’orientamento secondo il quale, in caso di azione giudiziale diretta a far valere l’inadempimento dello Stato italiano all’obbligo “ex lege” di trasposizione legislativa, nel termine prescritto, di direttive comunitarie non autoesecutive (nella specie, le Direttive n. 75/362/CEE e n. 82/76/CEE in tema di retribuzione della formazione dei medici specializzandi), la legittimazione passiva spetta esclusivamente alla Stato italiano, e per esso alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, con la precisazione che in, caso di erronea evocazione in giudizio di un diverso organo dell’apparato statale, trova applicazione l’art. 4 della l. n. 260 del 1958, il quale deve essere correttamente interpretato nel senso che, qualora l’Avvocatura dello Stato non sollevi tempestiva eccezione con contestuale indicazione dell’organo legittimato, l'irrituale costituzione del rapporto giuridico processuale non potrà più essere eccepita dalla parte né rilevata d’ufficio dal giudice (Cass. S.U., n. 30649/2018). L'elemento soggettivo e la natura della responsabilità dello Stato Profilo di non trascurabile importanza, sin dalla pronuncia resa nel caso Francovich, è stato quello relativo ai presupposti soggettivi per l'affermazione della responsabilità dello Stato membro ossia se sia necessario a tal fine il dolo o la colpa dello stesso o se, invece, si tratti di una responsabilità che deriva ex se da una violazione grave e manifesta del diritto dell'Unione. Quest'ultima impostazione, come rilevato in dottrina (Fumagalli 264 ss.) avrebbe potuto essere assunta a parametro interpretativo avendo riguardo ai principi sanciti dalla stessa Corte di Giustizia con riferimento alla responsabilità delle istituzioni dell'Unione Europea. Infatti l'art. 288, secondo comma, dello stesso Trattato, in materia di responsabilità extracontrattuale sancisce l'obbligo della Comunità di risarcire, conformemente ai principi generali comuni ai sistemi dei singoli Stati membri, i danni cagionati dalle sue istituzioni o dai suoi agenti nell'esercizio delle loro funzioni (Caranta, 4964). Infatti per ottenere il risarcimento dei danni dovuti a causa della responsabilità extracontrattuale della Comunità, il ricorrente è tenuto a provare l'esistenza di un nesso di causalità immediato, diretto ed esclusivo tra il danno subito e l'atto illegittimo. In tale prospettiva, ad esempio, è stato affermato che la negligenza del ricorrente fa venir meno il nesso di causalità tra l'azione comunitaria ed il danno lamentato (CGCE, 21 maggio 1976, Moquette Frères c. Commissione, C-26/74, in Racc., 1976, 677). In una tale prospettiva si è ritenuto, ad es., che sussista negligenza del ricorrente anche nell'ipotesi in cui quest'ultimo non abbia utilizzato gli strumenti giuridici che gli avrebbero almeno consentito di ridurre l'entità del danno subito (CGCE, 14 maggio 1975, Cnta c. Commissione, C-74/74, in Racc., 1975, 533 ss; Tpi, 15 marzo 1995, Cobrecaf c. Commissione, T-514/93, in Racc., 1995, p.II-621 ss). Inoltre l'accoglimento dell'azione di cui all'art. 288 del Trattato CE non è semplicemente subordinato alla dimostrazione da parte del ricorrente della grave violazione normativa posta in essere dall'atto o dal comportamento delle istituzioni convenute, ma anche a quella della colpa del servizio interessato tale da giustificare l'affermazione della responsabilità della Comunità (cfr. CGCE, 2 giugno 1976, Kampffmeyer c. Consiglio e Commissione, C-56 a 60/74, in Racc., 1976, spec. 339, colpa che dovrà essere grave tutte le volte che l'istituzione goda di una competenza di carattere discrezionale (CGCE, 4 maggio 1978, Bayerische Hnl c. Consiglio e Commissione, C-83 e C-94/76, in Racc., 1978, 1209 ss, § 6). Come rilevato in dottrina, la colpa è al centro del ragionamento del giudice chiamato a decidere in ordine alla sussistenza della responsabilità della Comunità europea (F. Berrod, 737,). Invero, la stessa Corte di Giustizia ha sottolineato che una responsabilità senza colpa può essere riconosciuta esclusivamente nelle fattispecie, di carattere eccezionale, nelle quali l'applicazione dell'atto comunitario abbia comportato rischi anormali per l'individuo (CGCE, 24 giugno 1986, Devellopment SA et Clemessy c. Commissione, C-267/82, in Racc., 1986, 3677, § 33). Pertanto, ove si fosse avallata una siffatta prospettiva ricostruttiva, la responsabilità dello Stato per inadempimento degli obblighi contenuti in direttive sufficientemente precise e dettagliate avrebbe potuto essere affermata solo previa dimostrazione anche dell'elemento soggettivo della colpa, tanto più rilevante in presenza di un'ampia discrezionalità del legislatore interno nel raggiungimento del risultato da raggiungere. Peraltro tenendo conto della non necessità della dimostrazione del dolo e della colpa, secondo le precisazioni rese dalla Corte di Giustizia nel caso Brasserie de Pecheur, la dottrina più autorevole aveva evidenziato che era stata costruita una «fattispecie di responsabilità di derivazione comunitaria tipica alla quale va adeguata la struttura dell'illecito aquiliano del diritto interno» (Alpa, 491), che sarebbe riconducibile, dato l'articolarsi di diversi livelli normativi quanto alle fonti, alla nozione di «illecito interfacciale» (Scoditti, 718 ss.). Invero, la stessa S.C. aveva inizialmente qualificato in termini aquiliani la responsabilità dello Stato per omessa o tardiva trasposizione di direttiva comunitaria, affermando che ciò configura una violazione, da parte dello Stato membro, degli obblighi derivanti dal Trattato e, quindi, una condotta illecita, fonte di obbligazione risarcitoria in presenza delle condizioni indicate dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia (Cass. III, n. 3283/2008). La posizione infine assunta dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione appare invece nettamente più favorevole al ricorrente privato, atteso che le stesse hanno sancito il principio in virtù del quale, nell'ipotesi di omessa o tardiva trasposizione da parte del legislatore italiano nel termine prescritto delle direttive comunitarie sorge, conformemente ai principi più volte affermati dalla Corte di Giustizia, il diritto degli interessati al risarcimento dei danni che va ricondotto — anche a prescindere dall'esistenza di uno specifico intervento legislativo accompagnato da una previsione risarcitoria — allo schema della responsabilità per inadempimento dell'obbligazione «ex lege» dello Stato, di natura indennitaria per attività non antigiuridica, dovendosi ritenere che la condotta dello Stato inadempiente sia suscettibile di essere qualificata come antigiuridica nell'ordinamento comunitario ma non anche alla stregua dell'ordinamento interno. Ne consegue che il relativo risarcimento, avente natura di credito di valore, non è subordinato alla sussistenza del dolo o della colpa e deve essere determinato, con i mezzi offerti dall'ordinamento interno, in modo da assicurare al danneggiato un'idonea compensazione della perdita subita in ragione del ritardo oggettivamente apprezzabile, restando assoggettata la pretesa risarcitoria, in quanto diretta all'adempimento di una obbligazione «ex lege» riconducibile all'area della responsabilità contrattuale, all'ordinario termine decennale di prescrizione (Cass. S.U., n. 9147/2009; conformi, tra le tante, Trib. Lecce II, 1° agosto 2016, n. 3863; App. Campobasso 19 ottobre 2015, n. 229). Una successiva decisione ha chiarito che tale responsabilità — dovendosi considerare il comportamento omissivo dello Stato come antigiuridico anche sul piano dell'ordinamento interno e dovendosi ricondurre ogni obbligazione nell'ambito della ripartizione di cui all'art. 1173 c.c. — va inquadrata nella figura della responsabilità «contrattuale», in quanto nascente non dal fatto illecito di cui all'art. 2043 c.c., bensì dall'inadempimento di un rapporto obbligatorio preesistente, sicché il diritto al risarcimento del relativo danno è soggetto all'ordinario termine decennale di prescrizione (Cass. III, n. 10813/2011, in Rass. avv. St., 2011, n. 4, 155, con nota di Palmira, in Europa e dir. priv., 2012, n. 2, 657, con nota di Guffanti Pesenti). In dottrina questa soluzione è stata criticata soprattutto in quanto contraddice la teoria c.d. monista nell'ambito dei rapporti tra ordinamento europeo e sistemi nazionali, da lungo tempo affermata dalla Corte di Giustizia, fondandosi, per converso, sulla asserita separazione tra ordinamenti che oggi contrasta anche con gli artt. 11 e 117, comma 1, Cost. che sanciscono la necessità che l'ordinamento interno si conformi ai vincoli derivanti dal diritto comunitario, tra i quali deve essere senz'altro annoverato quello di dare attuazione alle direttive (Andronio, 1586 ss.). Termine di prescrizione Come evidenziato, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno affermato che la pretesa risarcitoria, in quanto diretta all'adempimento di una obbligazione «ex lege» riconducibile all'area della responsabilità contrattuale, è assoggettata all'ordinario termine decennale di prescrizione (Cass. S.U., n. 9147/2009). Tuttavia, la l. n. 183/2011, c.d. legge di stabilità per l'anno 2012, all'art. 4, comma 43, ha stabilito che la prescrizione del diritto al risarcimento del danno derivante dal mancato recepimento nell'ordinamento interno di direttive o altri provvedimento obbligatori comunitari soggiace in ogni caso alla disciplina di cui all'art. 2947 c.c. e decorre dalla data nel quale il fatto, dal quale sarebbero derivati i diritti se la direttiva fosse stata tempestivamente recepita, si è effettivamente verificato (in arg. Cilento, 1 ss.). Sulla portata di tale novità legislativa la Suprema Corte si è comunque già pronunciata e con orientamento ormai consolidato, ha affermato che secondo il criterio generale fissato dall'art. 12 delle preleggi, la norma può spiegare la sua efficacia solo rispetto ai fatti verificatisi successivamente alla sua entrata in vigore e quindi potrà disciplinare soltanto la prescrizione di diritti risarcitori insorti successivamente, cioè derivanti da fattispecie di mancato recepimento verificatesi dopo di essa e non da fattispecie di mancato recepimento anteriori (v., tra le altre, Cass. lav., n. 1850/2012). Sulla decorrenza del termine di prescrizione nell'azione risarcitoria da inadempimento al diritto europeo vi è stata una significativa evoluzione della giurisprudenza della Corte di Giustizia. In particolare, inizialmente la Corte aveva affermato che il diritto comunitario non consente che le autorità competenti di uno Stato membro invochino le norme procedurali nazionali relative ai termini del ricorso, nell'ambito di un'azione proposta contro di esse da un soggetto privato davanti agli organi giurisdizionali nazionali, onde ottenere la tutela dei diritti direttamente riconosciuti dall'art. 4, n. 1, direttiva 79/7 Cee del consiglio, relativa all'attuazione graduale del principio di uguaglianza di trattamento tra uomo e donna in materia di sicurezza sociale, finché il suddetto Stato non ha trasposto correttamente le disposizioni della direttiva nell'ambito dell'ordinamento giuridico interno (CGUE, 25 luglio 1991, C-208/90, Emmot, anche in Foro it., 1993, IV, 324). In sostanza, il termine di prescrizione poteva iniziare a decorrere solo a seguito del corretto adempimento dello Stato membro all'obbligo di derivazione europea. Successivamente, la medesima Corte di Giustizia ha modificato la propria posizione sancendo che il diritto comunitario non osta a che il termine di prescrizione di un'azione di risarcimento nei confronti dello Stato, basata sulla carente trasposizione di una direttiva, inizi a decorrere dalla data in cui i primi effetti lesivi di detta scorretta trasposizione si siano verificati e ne siano prevedibili altri, anche qualora tale data sia antecedente alla corretta trasposizione della direttiva (CGUE, Grande Sezione, 14 marzo 2009, C-445-06, Danske Slagterier). Liquidazione del danno In ordine alla quantificazione del danno risarcibile, la stessa è rimessa all'apprezzamento del giudice nazionale e, tuttavia, non deve essere inferiore, come chiarito nel caso Brasserie de Pecheur, al c.d. standard comunitario minimo, nel senso che le condizioni dei diritti nazionali in materia di risarcimento non possono essere meno favorevoli di quelle che riguardano reclami analoghi di natura interna e non possono operare in modo tale da rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile ottenere il risarcimento (cfr. Capizzi, 154). Sempre in ordine alla quantificazione del danno, la Corte di Giustizia ha precisato che il rinvio alla disciplina interna degli Stati membri riguarda anche i mezzi di concreta attuazione della tutela risarcitoria, ossia la designazione del soggetto passivo dell'obbligazione di risarcimento e l'indicazione del giudice competente (CGUE, 4 luglio 2000, C-424/97, Haim, in Giur. it., 2001, I, 377). Il principio di effettività è stato più volte richiamato dalla giurisprudenza comunitaria in materia di liquidazione del danno rispetto al quale la Corte di Giustizia si è ricondotta al principio dell'adeguatezza del risarcimento al danno subìto, evidenziando, in detta prospettiva, che il ristoro del pregiudizio deve essere integrale (CGUE, 2 agosto 1993, C-271/91, Marshall II), comprensivo dell'eventuale danno morale (CGUE, 12 marzo 2002, C-168/00, Leitner). Possono inoltre rientrare liquidazione del danno sia le sanzioni eventualmente comminate dai singoli ordinamenti (Cgue, Brasserie, cit., punti 89 e 90), sia gli interessi e la rivalutazione sulle somme dovute (CGUE, 22 aprile 1997, C-66/95, Sutton). Per una recente applicazione dei predetti principi con riferimento li importi da corrispondere ai medici specializzandi italiani che hanno frequentato il corso quadriennale di specializzazione dopo il 31 dicembre 1982, derivanti dal tardivo recepimento delle direttive CEE n. 362 del 1975 e n. 76 del 1982 v. Cass. III, n. 41076/2021. Il danno può essere risarcito anche in forma specifica, ove il legislatore nazionale si adegui con efficacia retroattiva alle disposizioni comunitarie, qualora detta condotta sia sufficiente a rimediare alle conseguenze pregiudizievoli della violazione del diritto europeo, salva la prova di un eventuale maggior danno subito per non aver potuto fruire, a suo tempo, dei vantaggi garantiti dalla norma (CGUE, 10 luglio 1997, C-373/95, Maso e altri, punto 41). La medesima Corte di Giustizia, sempre in ordine alla determinazione del danno risarcibile, ha altresì chiarito che il danneggiato deve dimostrare di avere agito con ragionevole diligenza per evitare il danno e comunque limitarne l'entità (CGUE, 19 maggio 1992, cause riunite C-104/89 e C-37/90, Mulder e a./Consiglio e Commissione, punto 33, e Brasserie du Pêcheur e Factortame, cit., § 85; cfr. peraltro CGUE sentenza 24 marzo 2009, C-445/06, Danske Slagterier, §§ 60-62, per la quale, in applicazione di tale principio, tuttavia, non potrebbe imporsi ai soggetti lesi di esperire sistematicamente tutti i mezzi di tutela giudiziaria a loro disposizione, in quanto ciò sarebbe contrario al principio di effettività, la probabilità che il giudice nazionale effettui un rinvio pregiudiziale o l'esistenza di un ricorso per inadempimento pendente dinanzi alla Corte, non possono costituire, di per sé, un motivo sufficiente per concludere che non sia ragionevole esperire un'azione in giudizio). Casistica Le Sezioni Unite della Corte di cassazione, conformandosi ai principi enunciati dalla Corte di Giustizia dell’Unione europea con la sentenza del 24 gennaio 2018, hanno affermato che il diritto al risarcimento del danno per mancata attuazione della direttiva comunitaria, in caso di corsi di specializzazione iniziati prima del 1° gennaio 1983, compete anche per l'anno accademico 1982-1983, limitatamente alla frazione temporale successiva al 1° gennaio 1983, e fino al termine della formazione (Cass. S.U., n. 19107/2018). 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