In caso di simulazione di atti di tortura si configura il reato di cui all'art. 613 bis c.p.?
31 Ottobre 2017
Se vengono simulati atti di tortura, si consuma o no il delitto qualora ne conseguano i descritti esiti? E se non ne conseguono?
Per rispondere a tale quesito occorre partire dal significato da attribuire al termine simulare, riferito agli atti di tortura. Se tale verbo viene intenso nel senso di porre in essere “fittiziamente” atti di tortura non si realizza il reato di cui all'art. 613-bis c.p., tanto se ne conseguono gli esiti descritti dalla norma, quanto se non ne conseguono, perché la condotta descritta dalla disposizione, ai fini della configurabilità del reato, non è integrata. Diversa è, invece, la soluzione a cui si giunge se il termine simulare è inteso quale espressione riferita al delitto tentato, cioè indicativo della condotta di chi pone in essere atti idonei diretti in modo non equivoco a commettere un delitto. In particolare, è discussa l'ammissibilità del tentativo in materia di reati abituali. Propendono per la soluzione negativa coloro che (FIANDACA-MUSCO; LEONE) puntano sul rilievo che le singole azioni non assumono rilevanza penale autonoma, perfezionandosi il reato solo con la reiterazione delle stesse. Aderendo a questa tesi il tentativo in relazione al reato di tortura non sarebbe ammissibile. Altra parte della dottrina (MANTOVANI; PAGLIARO) e della giurisprudenza, invece, ammette la configurabilità del tentativo, nei casi in cui il soggetto agente ponga in essere atti idonei e diretti in modo non equivoco a commettere, senza riuscirvi, quei fatti che avrebbero integrato la serie minima richiesta per l'esistenza del reato abituale. Aderendo a questa impostazione, invece, evidentemente il tentativo in relazione al reato di tortura sarebbe ammissibile. |