Condotta omissiva e nesso di causalità: la regola del "più probabile che non" investe anche la causalità giuridica
20 Novembre 2017
Massima
In tema di responsabilità per colpa professionale consistita nell'omesso svolgimento di un'attività da cui sarebbe potuto derivare un vantaggio personale patrimoniale per il cliente, la regola della preponderanza dell'evidenza, o "del più probabile che non", si applica non solo all'accertamento del nesso di causalità fra l'omissione e l'evento di danno, ma anche all'accertamento del nesso tra quest'ultimo, quale elemento costitutivo della fattispecie, e le conseguenze dannose risarcibili, posto che, trattandosi di evento non verificatosi proprio a causa dell'omissione, lo stesso può essere indagato solo mediante un giudizio prognostico sull'esito che avrebbe potuto avere l'attività professionale omessa". Il caso
Un lavoratore ingiustamente licenziato cita in giudizio i propri difensori per non aver tempestivamente riassunto il giudizio di rinvio a seguito della cassazione di un ricorso per licenziamento illegittimo, con la conseguente prescrizione del proprio diritto. Il Giudice di prime cure, pur riconoscendo la responsabilità dei convenuti, rigetta la richiesta di risarcimento danni per mancanza di prova in ordine al pregiudizio subito dall'attore. Avverso tale provvedimento l'attore ricorre alla corte d'Appello, ottenendo la condanna degli avvocati in solido al risarcimento del danno subito. Avverso tale pronuncia, i convenuti ricorrono in Cassazione ed il giudice di legittimità – sullo specifico tema della causalità – rigetta il ricorso chiarendo che in tema di condotta omissiva, l'accertamento del nesso di causalità deve avvenire sulla scorta della regola della preponderanza del “più probabile che non”. La questione
La questione in esame è la seguente: in tema di condotta omissiva con quale regola deva essere accertato il nesso di causalità? Le soluzioni giuridiche
La sentenza in commento affronta il tema della responsabilità civile dell'avvocato a causa del negligente adempimento degli incarichi affidatigli dal proprio cliente. In particolare, ai due legali convenuti in un giudizio civile di responsabilità è rimproverata la mancata diligenza nell'esecuzione della propria prestazione professionale, in violazione dell'art. 1176, comma 2, c.c. e/o di specifiche regole deontologiche, ovvero la colpa che si articola, non difformemente che per gli altri professionisti soggetti ad azioni risarcitorie, in negligenza, imprudenza o imperizia, qui integrata dall'omessa informazione circa la riassunzione del giudizio di licenziamento a seguito della sentenza di annullamento pronunciata dalla Corte di Cassazione. Tuttavia, a differenza delle altre professioni intellettuali, per il cui accertamento di eventuali responsabilità nell'esercizio della prestazione, il Giudice è usualmente assistito dalla valutazione tecnica di un perito che risolve il quesito tecnico circa il rapporto causa-effetto fra errore e danno ed il danno stesso risulta oggettivamente percepibile, in quanto consiste nel peggioramento della salute, morte, sanzioni fiscali, nei giudizi civili di danno contro avvocati il Giudice si ritrova a dover valutare da solo le ragioni del mancato conseguimento da parte del cliente dell'utile sperato allorché ha intentato l'azione che allega perduta a causa dell'errore professionale del suo legale ed il danno è di complesso accertamento. Il Giudice deve così entrare nel merito della prima causa e formulare un giudizio prognostico probabilistico circa il verosimile diverso esito della causa stessa, vagliando le ragioni sostanziali delle parti, le norme e la giurisprudenza vigenti all'epoca della pendenza di quella lite, il contenuto degli atti processuali e le prove raccolte in quel processo, comportandosi, di fatto come un Giudice dell'impugnazione e ciò, indipendentemente dal fatto che l'attore abbia previamente esperito tutti i mezzi di gravame previsti dall'ordinamento in relazione alla causa persa. Ciò posto, è noto che l'obbligazione assunta dall'avvocato tradizionalmente è ricondotta nell'alveo delle obbligazione di mezzi, ovvero in quella categoria pacificamente ritenuta meramente descrittiva e non dogmatica ed indicativa, appunto, di un vincolo obbligatorio non avente ad oggetto il raggiungimento di un risultato pratico, ma lo svolgimento di una prestazione diligente (Cass. civ., n. 11906/2016; Cass. civ., n. 17758/2015). Infatti, il professionista, assumendo l'incarico, si impegna a prestare la propria opera intellettuale al solo fine di raggiungere il risultato sperato dal cliente, ma non a conseguirlo, con la conseguenza che la diligenza, oltre a costituire la misura per valutare l'esattezza dell'adempimento, rappresenterebbe ed esaurirebbe l'oggetto stesso dell'obbligazione. La categoria dell'obbligazione di mezzi, pertanto, viene utilizzata dalla giurisprudenza dominante per determinare il contenuto della prestazione dovuta dai professionisti intellettuali, ed in particolare dagli avvocati; si sostiene infatti che l'oggetto del contatto d'opera intellettuale non sia il risultato al quale il creditore ambisce in concreto, ma la sola attività del professionista, con la conseguenza che, essendo il cosiddetto rischio del lavoro posto a carico del cliente, il compenso per la prestazione svolta dal professionista sarà dovuto a prescindere dal risultato raggiunto. Secondo l'orientamento consolidato in giurisprudenza, pertanto, l'inadempimento del professionista non può essere desunto dal mancato raggiungimento del risultato utile avuto di mira dal cliente, ma deve essere valutato alla stregua della violazione dei doveri inerenti lo svolgimento dell'attività professionale, e in particolare a quel dovere di diligenza media esigibile ai sensi dell'art 1176, comma 2, c.c., che deve essere commisurato alla natura dell'attività esercitata (Cass. civ., n. 7618/1997); ricorre invece la particolare ipotesi di limitazione di responsabilità ex art. 2236 c.c., solo in caso di prestazione implicante problemi tecnici di particolare difficoltà. Appare, però, necessario precisare che tale classificazione è corretta soltanto per quelle obbligazioni derivanti dal mandato professionale, ovvero dal c.d. il cosiddetto contratto di patrocinio, strumento negoziale attraverso il quale il professionista assume l'incarico di rappresentare il cliente in giudizio. Infatti, nella diversi ipotesi in cui l'avvocato si obblighi soltanto a formulare un parere pro veritate, i doveri di informazione, sollecitazione e dissuasione, gravanti sul professionista, non costituiscono obbligazioni di mezzi (Cass. civ., n. 16023/2002, nella specie, è stata riconosciuta la responsabilità dell'avvocato che non aveva provveduto ad informare il cliente, formulando parere stragiudiziale, della possibilità che venisse eccepita la prescrizione). In tal senso, si è rilevato che un risultato — inteso come momento finale e conclusivo della prestazione — sarebbe dovuto in ogni obbligazione, in quanto implicherebbe il doveroso impiego dei mezzi necessari per il conseguimento dello scopo stesso. In sostanza, il risultato non si identificherebbe necessariamente con l'integrale soddisfazione dell'interesse del cliente, ma nel compimento di tutte quelle scelte di natura discrezionale rese necessarie affinché l'opera possa dirsi compiuta (Cass. civ., n. 1268/1998); ciò, attraverso un confronto tra quanto non si è raggiunto e ciò che, con l'osservanza delle regole tecniche della professione, si sarebbe dovuto e potuto conseguire se si fosse usata la diligenza richiesta. In giurisprudenza, per esempio, si è sostenuto che si sia in presenza di una obbligazione di risultato quando l'avvocato assume obblighi precisi la cui violazione sia fonte di danno, come ad esempio l'espresso compimento di atti processuali o di notifiche in termini utili: in questi casi, infatti, la colpa professionale sarebbe in re ipsa, perché costituita dal solo fatto di aver lasciato decorrere inutilmente i termini. In altri termini, nell'ambito delle varie prestazioni con cui viene attuato il patrocinio legale, sono ravvisabili diversi adempimenti, in parte discrezionali e dipendenti dall'autonomia decisionale del professionista (ad es. la scelta della tattica difensiva, il contenuto delle proprie difese, le modalità di conduzione dell'esame di un teste in dibattimento) che sono espressione di valutazioni discrezionali, in parte, invece, talmente automatici e vincolati da costituire di per sé un'obbligazione di risultato, quali, ad esempio, quello oggetto della presente pronuncia, ovvero la mancata riassunzione del giudizio. Si tratta, cioè, di tutti quegli atti di impulso stragiudiziale o processuale sottoposti a termini di decadenza perentori , superati i quali l'atto diventa inammissibile ovvero inutile. Questi ultimi incombenti ineriscono senz'altro ad obblighi “di risultato” il cui mancato adempimento costituisce di per sé negligenza inescusabile, senza che possa invocarsi nemmeno l'art. 2236 c.c., inapplicabile, ormai per costante giurisprudenza elaborata in campo medico, ma senz'altro valida anche per quello legale, alla colpa per imprudenza o negligenza (Trib. Milano, 24 dicembre 2005; Trib. Bari, 21 novembre 2011, n. 273; Cass. civ., n. 5506/2014; Cass. civ., n. 5846/2007). Si può, pertanto, affermare che l'obbligazione propria del contratto di prestazione d'opera professionale di natura legale abbia carattere “misto”, con conseguente necessità in giudizio di focalizzare la natura dell'errore e di orientare diversamente l'istruttoria, a seconda dei casi, anche in dipendenza del diverso onere della prova: mentre infatti, qualora si lamenti un errore nel merito delle difese, pare potersi affermare che, trattandosi dell'obbligazione di “mezzi” inerente alla prestazione principale complessa relativa alla difesa discrezionale, compete all'attore allegare e provare natura ed effetti dell'errore sulle sorti del processo e l'avvocato si limiterà a dar prova delle condotte difensive seguite, qualora invece si tratti dell'inadempimento ad un'obbligazione di risultato, quale, appunto, un'omissione materiale, con violazione dell'obbligazione (accessoria) di risultato, si applica puramente e semplicemente l'art. 1218 c.c. e dunque competerà all'avvocato inadempiente di dimostrare l'impossibilità della prestazione per fatto a sé non imputabile, eventualmente dipendente anche da fatto del cliente. Ciò detto, relativamente alla natura della obbligazione professionale, questione preliminare ai fini del riconoscimento della responsabilità civile dell'avvocato è l'accertamento del nesso causale tra il compimento dell'atto omesso e il successo nella controversia giudiziaria. Invero, non ogni errore professionale è fonte di un'obbligazione risarcitoria. È necessario in primo luogo che — accertato l'inadempimento — vi sia stato un danno per il cliente e, in secondo luogo, che tale danno possa essere collegato causalmente alla condotta inadempiente del professionista. Inoltre, come già esaminato, si richiede sempre la considerazione e la valutazione dell'esito della causa omessa e mal coltivata (Cass. civ., n. 10698/2016), oscillando, quanto ai criteri utilizzati, tra la ragionevole certezza o la semplice probabilità di successo (Cass. civ., n. 10526/2015). Va osservato che la responsabilità dell'avvocato non può affermarsi per il solo fatto del suo non corretto adempimento dell'attività professionale, occorrendo verificare se l'evento produttivo del pregiudizio lamentato dal cliente sia riconducibile alla condotta del primo, se un danno vi sia stato effettivamente ed, infine, se, ove questi avesse tenuto il comportamento dovuto, il suo assistito, alla stregua di criteri probabilistici, avrebbe conseguito il riconoscimento delle proprie ragioni, difettando, altrimenti, la prova del necessario nesso eziologico tra la condotta del legale, commissiva od omissiva, ed il risultato derivatone (Cass. civ., n. 2638/2013). Ciò significa che la responsabilità dell'avvocato non si fonda tanto sul presupposto della colpa, quanto sulla valutazione positiva che, alla proposizione di una diversa azione o al diligente compimento di determinate attività, sarebbero seguiti effetti vantaggiosi per l'assistito cliente, atteso che l'accertamento di un comportamento negligente in capo al difensore non può, in ogni caso, comportare in via automatica un giudizio di responsabilità dello stesso (Cass. civ., n. 1984/2016; Cass. civ., n. 23209/2015; Cass. civ., n. 11901/2002). Ciò implica una valutazione prognostica positiva circa il sicuro o probabile fondamento dell'azione giudiziale che avrebbe dovuto essere proposta e diligentemente svolta, cosa che si traduce in una verifica a posteriori diretta ad accertare se — ove vi fosse stata una corretta esecuzione del mandato — il cliente avrebbe avuto serie e concrete probabilità di accoglimento della sue domande (Trib. Roma, 1 giugno 2016, n. 11138; Trib. Bari, 27 maggio 2015, n. 2472; Trib. Milano, 25 marzo 1996). In ogni caso, data la particolare difficoltà della prova della ricorrenza del nesso causale — anche considerando le difficoltà di conseguire a priori la certezza del raggiungimento del risultato sperato e voluto dal cliente — la giurisprudenza, in vista di una maggior tutela nei confronti del cliente medesimo — ha spesso utilizzato il criterio della «probabilità degli effetti», ritenendo sufficiente, nella ricerca del nesso causale tra la condotta del professionista e l'evento dannoso, la prova che l'opera del legale, se correttamente e prontamente svolta, avrebbe avuto non già la certezza, ma serie ed apprezzabili probabilità di successo (App. Milano, 13 ottobre 2004). Si richiede pertanto la dimostrazione del fatto che la vittoria in giudizio si sarebbe avuta almeno con ragionevole certezza, ossia con quella certezza morale che gli effetti di una diversa attività del professionista sarebbero stati vantaggiosi per il cliente (Cass. civ., n. 9238/2007). In tal modo si è voluto evitare al cliente una prova impossibile consistente nella dimostrazione in concreto e con certezza assoluta che la corretta attività del legale avrebbe comportato l'esito positivo della causa. In tal senso si è osservato che il cliente che chieda al proprio difensore il ristoro dei danni, che a norma dell'art. 1223 c.c. devono essere dimostrati in concreto e consistere in una diminuzione patrimoniale, conseguiti alla mancata comunicazione dell'avvenuto deposito di una pronuncia sfavorevole, con conseguente preclusione della possibilità di proporre impugnazione, deve dimostrare che questa, ove proposta, avrebbe avuto concrete probabilità di essere accolta. Quindi il cliente non può limitarsi a dedurre l'astratta possibilità della riforma in appello di tale pronuncia in senso a lui favorevole, ma deve dimostrare l'erroneità della pronuncia in questione oppure produrre nuovi documenti o altri mezzi di prova idonei a fornire la ragionevole certezza che il gravame, se proposto, sarebbe stato accolto, secondo il criterio del “più probabile che non”, poiché l'accertamento del rapporto di causalità ipotetica derivante dalla condotta omissiva passa attraverso l'enunciato “controfattuale” che pone al posto dell'omissione il comportamento alternativo dovuto, alla luce del quale verificare se la condotta doverosa avrebbe evitato il danno lamentato dal danneggiato (Cass. civ., n. 20828/2009; v., sull'accertamento del nesso di causalità in sede civile, Cass. civ., n. 576/2008). Pertanto, il giudizio civile di responsabilità professionale non può e non deve fermarsi all'accertamento dell'errore dell'avvocato, poiché non sempre tale errore, quand'anche accertato può essere considerato la causa della perdita dell'utilità che il cliente si aspettava dal processo per cui aveva conferito il mandato difensivo a quel legale. Al fine di accogliere la domanda risarcitoria, infatti, il Giudice è chiamato ad effettuare delle ulteriori valutazioni ulteriori di merito, assai più delicate, in quanto non è detto che qualora il legale non avesse commesso l'errore, l'esito della causa dal medesimo patrocinata sarebbe stato diverso e più favorevole all'assistito. La responsabilità professionale dell'avvocato presuppone, infatti, secondo il costante e granitico orientamento della Cassazione, anche la prova del danno e del nesso causale fra condotta del professionista e pregiudizio del cliente e richiede una valutazione prognostica positiva circa la probabilità dell'esito favorevole dell'azione che avrebbe dovuto essere proposta e diligentemente seguita, secondo un criterio probabilistico (Cass. civ., n. 14644/2016; Cass. civ., n. 22606/2016). Quanto al danno, giova precisare che l'autonoma valenza patrimoniale della perdita di chances non può non apparire come un artificio nel momento in cui se ne predica (ai fini della risarcibilità) l'autonomia rispetto alla posta finale sperata (vittoria del processo), ma allo stesso tempo ad essa dovrebbe fare riferimento, in termini percentuali, in sede di quantificazione dell'asserito danno. Il vero nodo è quello della individuazione del danno. In realtà, a ben vedere, non vi è la possibilità di far rientrare la cd. perte d'une chance nell'ambito del danno emergente, perché qualora si accertasse in giudizio che, in mancanza della condotta imprudente o imperita del professionista (in caso di condotte attive) o ponendo come avvenuta l'azione doverosa (in caso di condotte omissive), il risultato utile si sarebbe realizzato per il cliente, allora questi dovrebbe agire in giudizio contro l'avvocato per il risarcimento del danno da perdita della causa. Si tratterebbe di una domanda diversa e più ampia, finalizzata ad una richiesta risarcitoria onnicomprensiva. In conclusione, si ritiene che il danno da perdita di chances, possa essere riconosciuto sotto forma di lucro cessante, liquidato equitativamente ai sensi degli artt. 1226 e 2056, comma 2, c.c., in presenza della prova circa la sua reale esistenza, senza la quale non vi è spazio per alcuna forma di attribuzione patrimoniale (Cass. civ., n. 4042/2009). Osservazioni
Il giudice, per pronunziarsi circa l'inadempimento del legale patrocinante e l'eventuale conseguente risarcibilità del danno provocato, non può allora semplicemente valutare il mancato raggiungimento del risultato utile avuto di mira dal cliente. Il reale oggetto dell'accertamento giudiziale del nesso eziologico fra l'inadempimento dell'avvocato ed il danno conseguente alla soccombenza si risolve, in definitiva, nell'accertamento del grado di probabilità di successo della vertenza, qualora gestita a regola d'arte. È dunque una questione di “chance”. La decisione è del tutto aleatoria e non facile, anche perché difficilmente supportata dall'istruttoria, che, in genere, riguarda esclusivamente gli aspetti tecnici dell'inadempimento. Il giudice deve, invece, stabilire se gli elementi di fatto e di diritto del procedimento non celebrato, valutati con rigore, avrebbero annullato o ridotto al minimo l'opinabilità dell'esito del procedimento medesimo. È stato correttamente evidenziato in dottrina che gli esiti della valutazione processuale possono essere i seguenti: a) il Giudice ritiene che, anche se l'avvocato non avesse commesso quell'errore, la controversia avrebbe sortito con certezza esito ugualmente negativo in quanto in ogni caso totalmente infondata in fatto o in diritto ovvero l'impugnazione non spiegata non avrebbe comunque modificato la statuizione di grado precedente: in questo caso l'attore perde la causa e dovrebbe essere condannato alle spese; b) il Giudice ritiene che, senza l'errore, il processo sarebbe certamente stato favorevole, cosicché l'errore dell'avvocato costituisce la causa diretta ed immediata dell'esito invece negativo e dunque del danno che verrà liquidato a carico del convenuto per intero, con riferimento, appunto, all'equivalente economico delle utilità che l'attore si aspettava da quel processo più, qualora richiesto, il danno emergente costituito da tutte le spese successive rese necessarie per effetto della soccombenza, a cominciare dalle spese legali rimborsate alla controparte vittoriosa, qualora nella prima sentenza fosse pure stata pronunciata la condanna alle spese; qualora richiesta anche la risoluzione del contratto di assistenza legale e la restituzione del compenso versato, se ne dovrà il rimborso, valutata la gravità dell'inadempimento ex art. 1455 c.c.; c) il giudizio probabilistico controfattuale non perviene ad un risultato tondo, stante la difficoltà delle questioni trattate o lacune probatorie, cosicché il Giudice arriva alla valutazione, qualora l'avvocato non avesse sbagliato, non della certezza della vittoria della lite, ma all'indicazione di una ragionevole elevata probabilità di vittoria, quantificata in percentuale. L'accertamento del nesso causale si risolve dunque nel calcolo matematico di una percentuale statistica di vittoria, applicata poi nella liquidazione del danno. L'affermazione della responsabilità dell'avvocato implica l'indagine − svolta positivamente sulla base degli elementi di prova che il cliente ha l'onere di fornire − circa il fondamento sicuro e chiaro dell'azione che avrebbe dovuto essere proposta e coltivata diligentemente. Tale certezza morale può dirsi raggiunta anche con il criterio della probabilità degli effetti di una diversa e diligente condotta dell'avvocato. Si ritiene, dunque, che non sia necessario che i fatti sui quali la presunzione si fonda siano tali da fare apparire l'esistenza del fatto ignoto come l'unica conseguenza possibile dei fatti accertati in giudizio, secondo un legame di necessarietà assoluta e esclusiva. È, invece, sufficiente che il collegamento avvenga alla stregua di un canone di probabilità, con riferimento a una connessione possibile e verosimile di accadimenti, la cui sequenza e ricorrenza possono verificarsi secondo le regole di esperienza colte dal giudice per giungere al convincimento sulla probabilità di sussistenza e la compatibilità del fatto esposto con quello accertato. Può, dunque, dirsi che la definizione dell'obbligazione gravante in capo all'avvocato come obbligazione di mezzi o di comportamento non preclude in concreto l'esame dell'esito negativo della lite per l'accertamento di un eventuale rapporto causale, esistente fra la mancata attuazione del risultato sperato dal cliente e l'inadempimento o il difettoso adempimento dell'attività professionale. |