Chi esercita la sovranità popolare? Note a margine delle linee guida palermitane sul concordato in appello
21 Novembre 2017
Abstract
Se «la sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione» (art. 1, comma 2, Cost.), il rappresentante del “sovrano”, il Legislatore, ha da tempo iniziato una lenta rinuncia alle proprie prerogative. La l. 103/2017, che ha recepito numerosi soffermi delle Sezioni unite della Corte di cassazione, “convertendoli” in norme di legge, costituisce solo l'ultimo, e forse più cospicuo, esempio della rinuncia. La legge citata, nel codificare il “nuovo” art. 599-bis c.p.p., ha reintrodotto l'istituto del concordato anche con rinuncia ai motivi di appello e ha previsto, al comma 4, che siano i procuratori generali presso le corti d'appello ad indicare i criteri di applicazione dell'istituto. Dopo le linee guida della procura generale di Brescia (v. Concordato in appello. La procura della Corte d'appello di Brescia indica i criteri idonei a orientare la valutazione del P.M. d'udienza), sono state pubblicate quella della procura generale di Palermo. Il concordato in appello
Il Legislatore del 2017, colto da un'improvvisa nostalgia, ha reintrodotto “circondandolo da molte cautele” un istituto già conosciuto nel codice di procedura del 1989: il c.d. patteggiamento sui motivi di appello. Un istituto, invero, che ha vissuto vicende assai travagliate. Originariamente previsto dall'art. 599 c.p.p., era stato dichiarato incostituzionale (Corte cost., 10 ottobre 1990, n. 435) «in quanto eccedente i limiti della delega nella parte in cui consentono la definizione del procedimento nei modi ivi previsti anche al di fuori dei casi elencati dal primo comma dell'art. 599». E ciò nonostante la dottrina più illuminata avesse evidenziato come esso rispondesse a quelle esigenze di semplificazione «elevata dalla direttiva n. 1 della legge delega a canone informatore del nuovo codice di rito»(G. TRANCHINA, Diritto processuale penale, Vol. II, 1995, 494). L'istituto era stato nuovamente introdotto dalla l. 14/1999 con la previsione che l'accordo tra le parti in appello non fosse limitato ai «casi di cui al 1° comma» dell'art. 599. Al giudice di appello era dunque consentito di decidere in camera di consiglio allorché le parti, previa rinuncia nelle forme dell'art. 589 c.p.p., concordavano, in tutto o in parte, sull'accoglimento dei motivi di appello. Ciò comportava, naturalmente, la rinuncia a far valere ogni altra questione di merito ad eccezione di quelle relative all'applicabilità dell'art. 129 c.p.p. (Cass. pen. Sez. III, 3 ottobre 2006, n. 39952). L'accordo non era vincolante per il giudice che poteva ordinare la citazione al dibattimento, dove le parti potevano riproporre l'intesa (comma 5). Com'è immediatamente intuibile, si trattava di un importante istituto con effetti deflattivi del contenzioso e decarcerizzanti (si pensi, ad esempio, al concordato sui motivi relativi al giudizio di prevalenza delle circostanze attenuanti e alla riduzione della pena sotto il limite dei tre anni), al quale era stato attribuito valore di negozio bilaterale, unilateralmente irrevocabile, salva l'ipotesi di illegalità della pena (Cass. pen., Sez. unite, 28 gennaio 2004, n. 5466). Ma con l'usuale e ciclica schizofrenia, il Legislatore, spesso aduso ad utilizzare le regole del processo con un'impropria efficacia deterrente, alla prima ondata di populismo giudiziario, aveva nuovamente abrogato l'istituto in nome delle (solite) esigenze di sicurezza (l. 125/2008 in conversione del d.l. 92/2008), ignorando l'opinione illuminata di quanti ne avevano ribadito l'efficacia deflattiva (tra essi: R. BRICCHETTI E L. PISTORELLI, Giudizio immediato per chi è già in carcere, in Guida dir, 2008, 23, 82). L'istituto torna oggi in vigore “conquistando” un intero articolo del codice di procedura, il 599-bis, rubricato concordato anche con rinuncia ai motivi di appello. Dalla rubrica, si coglie immediatamente la differenza con l'istituto del “patteggiamento”: lì si applica; qui si concorda, si riforma e si condanna (salva la remota ipotesi di concordato in riforma migliorativa e assolutoria). Si noti come dall'applicazione del nuovo istituto sono esclusi i reati del c.d. doppio binario e quelli dell'area sessuale, a ribadire il costante e improprio utilizzo della procedura penale con funzione deterrente. Per il resto l'istituto riproduce, tal quale, quello abrogato in precedenza, salva la novità in linea coi tempi prevista dal comma 4: il procuratore generale (leggasi: ciascun procuratore generale presso ciascuna Corte d'appello) è tenuto ad indicare le linee guida alle quali i sostituti dovranno attenersi nell'applicazione dell'istituto. Un modo – si ritiene improprio – di elevare al rango di legge le linee guida distrettuali, con buona pace dei criteri di uniformità nazionale. Com'è intuibile, il concordato sui motivi di appello imporrà, in ragione dei nuovi requisiti di ammissibilità dell'impugnazione (art. 581 c.p.p.), maggiore specificità dei motivi, anche di quelli subordinati attinenti al trattamento sanzionatorio. Per esperienza del passato è infatti ragionevole supporre che i concordati interverranno pressoché esclusivamente quoad poenam, sebbene la norma preveda la possibilità di concordare su tutti i motivi di appello e dunque, in ipotesi, anche su quelli attinenti la declaratoria di responsabilità. La pena determinata con il concordato non è limitata (fino ad un terzo) come avviene nel diverso istituto dell'applicazione pena, e mancano gli effetti premiali propri di quest'ultimo. Naturalmente, laddove l'accordo deflattivo investa il solo trattamento sanzionatorio, le parti del negozio saranno il procuratore generale e la difesa. Diversamente accadrà laddove l'accordo investa anche le statuizioni civili, dovendosi in questo caso coinvolgere anche la parte civile. Si ritiene invece che il procuratore generale rimanga estraneo al concordato che investa le sole statuizioni civilistiche: saranno le parti interessate (parte civile e imputato) a concordare sui motivi. L'istituito, infatti, non è assimilabile (per effetti, benefici ed altro riconosciuti dall'art. 445 c.p.p.) al “patteggiamento” previsto dall'art. 444 c.p.p., come indica anche il “tipo” di sentenza emessa dal giudice d'appello, che non applica la pena ma pronuncia in riforma della statuizione del grado precedente. Il procedimento è disciplinato dal comma 1-bis dell'art. 602 c.p.p. analogamente a quanto avveniva in passato. L'accesso all'istituto presuppone la rinuncia ai motivi di impugnazione: sarà dunque necessaria la presenza dell'imputato ovvero il rilascio di una procura speciale ad hoc al difensore (Cass. pen., Sez. unite, 25 marzo 2016, n. 12603). Infine, non sembrano sussistere ostacoli all'applicazione dell'istituto nel caso in cui il processo coinvolga più imputati: in tal caso, infatti, sarà sufficiente procedere allo stralcio della posizione del “concordante”. Tuttavia, su quest'ultimo punto, le linee guida palermitane sembrano diversamente orientate. Un “nuovo” principio di legalità?
L'elemento più singolare che connota il nuovo art. 599-bis c.p.p. è rappresentato dal comma 4, una autentica norma in bianco che “trasferisce” (sovranità?) l'applicabilità dell'istituto alle linee guida che saranno adottate in ciascun distretto delle Corte d'appello. A tacere della scelta legislativa di “frazionare” le modalità applicative a livello distrettuale – con intuibili differenze che potranno crearsi in territori limitrofi –, anziché a livello nazionale, affidando il potere “disciplinante” al procuratore generale presso la Corte di cassazione, rileva la “cessione di sovranità” in favore di un potere dello Stato che, in Costituzione e in virtù del compromesso storico, s'è voluto “schermato ed autonomo”. Come ha segnalato sulle pagine de Il Mattino il prof. Giovanni Verde «Non è questo il ruolo che la Costituzione ebbe ad affidare [ai magistrati]. E i giudici non si avvedono del pericolo che corrono, perché adattandosi o addirittura favorendo il nuovo ruolo che il legislatore assegna loro, perdono le caratteristiche in ragione delle quali furono costituiti come un corpo autonomo del tutto impermeabile a influenze o a controlli esterni». Siamo dunque a confrontarci con linee guida unilateralmente e distrettualmente emanate, alle quali sono “affidate” le sorti (in futuro vedremo se “magnifiche e progressive”) della deflazione decarcerizzante alla quale tende il concordato. Le linee guida della procura generale presso la Corte d'appello di Palermo
Le linee guida del distretto palermitano (cfr. allegato) ci ricordano come il Legislatore abbia, da un lato, «inteso contenere l'area di negoziazione» e, dall'altro, attribuito «al procuratore generale un potere/dovere di "orientare" le valutazioni dei sostituti procuratori generali […]». Ovviamente, l'accesso all'istituto è strettamente correlato ai nuovi oneri di motivazione specifica anticipati dalla giurisprudenza (Cass. pen., Sez. unite, n. 8825/2017) e recepiti nel nuovo sistema delle impugnazioni introdotto dalla l. 103/2017 (art. 581 c.p.p.). Appare condivisibile e fonte di efficientamento del sistema processuale la previsione “anticipativa” dell'accordo (15 giorni prima dell'udienza) che è evidentemente ispirata all'esigenza di consentire una ragionevole e preventiva valutazione, così da deflazionare la fase di udienza innanzi alla corte d'appello ed evitare inutili e dispendiose attività preliminari essenzialmente connesse allo studio, da parte del relatore, del fascicolo. Limitazioni sono previste per i reati di “particolare allarme sociale” o relativi alla gravità delle fattispecie e alla “capacità a delinquere” dell'aspirante concordante. Particolare prudenza è richiesta per i reati di competenza del tribunale collegiale e per quelli previsti dall'art. 407. lett. a) nn. 1, 2, 7 e 7-bis c.p.p., tuttavia non esclusi a monte – recte legislativamente – dall'istituto. E ancora, sempre in termini di particolare attenzione si segnalano i casi di diminuzione della pena che potrebbero comportare l'accesso alle misure alternative, qui rilevando che la “sollecitata prudenza” rischia di vanificare la ragion d'essere del concordato: la decarcerizzazione. Le linee guida in commento, poi, richiedono speciale attenzione per l'eventualità che il concordato miri «ad ottenere benefici in ordine alle misure cautelari» tradendo, per questa via, una concezione della cautela penale in chiave anticipativa della sanzione. Secondo le indicazioni della procura generale di Palermo, il concordato «sarà subordinato […] all'integrale risarcimento del danno ovvero al compimento di idonee condotte riparatorie» con riferimento ai reati di danno patrimoniale ovvero al «ripristino dello stato dei luoghi» con riguardo a quelli ambientali. Per i delitti contro la pubblica amministrazione ed i reati finanziari l'indicazione è invece quella di prevedere la restituzione dei beni costituenti il profitto o il prezzo ovvero il tantundem corrispondente. Viene “orientato” il rifiuto al concordato laddove il pubblico ministero abbia, in primo grado, negato il consenso ai riti deflattivi speciali, mentre è “favorito” l'accordo per i reati di prossima prescrizione. Ancora, limitativa appare l'indicazione di tendenzialmente escludere il concordato nei casi di reati con pluralità di imputati. In conclusione
Come si vede, le linee guida evidenziano lo sfavore con il quale le forme negoziali e deflattive del contenzioso sono state storicamente recepite nel nostro paese e dettano criteri di indirizzo ancor più stringenti di quelli positivati dal legislatore. Ne segue che è agevole pronosticare l'ennesimo insuccesso di uno degli istituti dalla storia più travagliati della procedura penale “a tendenza” accusatoria. Guida all'approfondimento
M. ALBERTI, Concordato in appello; G. SPANGHER - A. MARANDOLA, Concordato in appello: basta equivoci. |